Sebbene il lavoro sia frutto di una collaborazione tra gli autori, possono attribuirsi a Nicola Viceconte i paragrafi da 1 a 2.8.2.  e il paragrafo 7.1.; ad Alessandro Gentilini gli altri paragrafi.

Sommario:
1. Considerazioni introduttive
2. Profili processuali
2.1. Ricorso ex art. 127 e conflitti intersoggettivi. Atti introduttivi
2.2. Profili soggettivi
2.3. Vizi deducibili, interesse a ricorrere e ius superveniens
2.4. Questioni di legittimità e motivazione
2.5. Parametro
2.6. Oggetto
2.7. Riunione dei giudizi e separazione delle decisioni con riserva di ogni decisione sulle restanti questioni di legittimità costituzionale
2.8. Tipi di sentenze
2.8.1. Giudizio in via principale
2.8.2. Conflitto di attribuzione tra enti
3. L’autonomia statutaria e il “sistema di elezione” regionale
4. Il limite degli obblighi comunitari
5. Riparto delle competenze e sussidiarietà
5.1. La cd. “chiamata in sussidiarietà”
5.2. Leale collaborazione
5.3. Art. 120 Cost. e poteri sostitutivi
6. Le leggi-provvedimento regionali
7. Oggetto e materie
7.1. Le materie e il ricorso in via principale: alcuni dati quantitativi
7.2. Intreccio di più materie e competenze in un unico oggetto
7.2.1. Principi generali
7.2.2. Casi pratici d’intreccio di competenze
8. Potestà esclusiva statale
8.1. Art. 33 Cost.
8.2. Tutela della concorrenza; sistema tributario e contabile dello Stato (lett. e)
8.2.1. Tutela della concorrenza
8.2.2. Sistema tributario e contabile dello Stato
8.3. Ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali (lett. g)
8.4. Ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale (lett. h)
8.5. Giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa (lett. l)
8.5.1. Ordinamento civile e penale
8.6. Determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (lett. m)
8.7. Norme generali sull’istruzione (lett. n)
8.8. Coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale (lett. r)
8.9. Tutela dell’ambiente e dell’ecosistema e dei beni culturali (lett. s)
9. Potestà concorrente
9.1. Istruzione, salva l'autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e formazione professionale
9.2. Professioni
9.3. Tutela della salute (e art. 32, Cost.)
9.4. Protezione civile
9.5. Governo del territorio
9.6. Produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia
9.7. Ordinamento della comunicazione
10. Potestà residuale
10.1. Servizi sociali
10.2. Organizzazione amministrativa delle Regioni e degli enti pubblici regionali e organizzazione degli uffici regionali.
10.3. Commercio
10.4. Caccia
10.5. Servizi pubblici locali
10.6. Istruzione e formazione professionale (pubblica)
11. Potere regolamentare
12. Autonomia finanziaria
12.1. Art. 119 e art. 81 Cost.
12.2 Armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario (art. 117, comma 3)
13. Autonomie speciali
13.1. Statuti speciali e “clausola di maggior favore”
13.2. Trentino-Alto Adige
13.3. Sicilia
13.4. Friuli-Venezia Giulia
13.5. Sardegna
13.6. Valle d’Aosta
14. Art. 136 Cost.

 
1. Considerazioni introduttive[1].
 
I dati quantitativi sulla giurisprudenza costituzionale Stato-Regioni tornano, nel 2012, a mostrarsi assai preoccupanti[2].
Il dato complessivo delle decisioni (316 tra sentenze e ordinanze numerate) è minore rispetto al 2011 e al 2010, confermando una tendenza al calo delle pronunce negli ultimi anni[3].
 

Ciò detto, la situazione è ben diversa se si guarda ai rapporti Stato-Regioni. Nel giudizio in via principale, infatti, il numero delle decisioni tocca la sua cifra massima, ben 150 tra sentenze e ordinanze, 59 in più rispetto al 2011; cifra che supera anche quella del 2010, già piuttosto elevata. Discorso analogo può farsi per i capi di dispositivo, 356, poco meno del doppio del 2011.


Raggiunge così la sua cifra massima dal 1956 anche l’incidenza percentuale delle decisioni rese nel giudizio in via diretta sul totale delle pronunce della Corte, attestandosi al 47,46%, in deciso aumento rispetto al 2011 (quasi il doppio!) e agli anni precedenti.



Non costituisce più una novità, invece, il primato del giudizio in via d’azione rispetto a quello in via incidentale riguardo al numero delle sentenze, 116 contro 56, un rapporto che è superiore a 2 a 1; va segnalato, inoltre, che, come usuale, nel giudizio in via principale la netta maggioranza delle pronunce è costituita da sentenze.
 

 
La grande novità, dunque, è il complessivo sorpasso del giudizio in via principale su quello in via incidentale, sia in cifra assoluta delle pronunce, sia in termini percentuali (figure 5 e 6).




Un dato, quest’ultimo, legato alla crescente conflittualità tra Stato e Regioni, come si dirà in seguito, ma dovuto anche alla parallela riduzione del numero di ordinanze di remissione dei giudici comuni[4].
Del tutto residuale la cifra delle decisioni sui conflitti d’attribuzione tra Stato e Regioni, 6 per altrettanti dispositivi, con una percentuale d’incidenza dell’1,89%. Sia in termini percentuali, sia per cifra assoluta, dunque, il dato scende rispetto al 2011 (figure 7 e 8).
 

 

 
Alla luce di tali dati appare chiaro il livello ormai preoccupante che raggiunge la cifra delle decisioni sui ricorsi in via principale, da anni assestata a un livello piuttosto alto, il quale, nonostante alcuni brevi periodi di flessione, tende a una crescita progressiva. Il che conferma la complessità del sistema autonomistico italiano e la tendenziale difficoltà nel trovare meccanismi di conciliazione preventiva. Considerando anche il dato dei conflitti tra enti, infatti, nel 2012 la metà del lavoro della Corte è stato quello di dirimere le controversie tra Stato e Regioni.


 
La conflittualità tra Stato e Regioni, dunque, ormai è un dato costante del sistema autonomistico italiano e si mostra nuovamente in forte crescita. La crisi economica e il ricorso da parte dello Stato a misure assai incisive sull’autonomia regionale, a fini di contenimento della spesa pubblica e di riorganizzazione istituzionale, costituiscono senz’altro elementi di grande rilievo nel valutare tale crescita (cfr. infra, par. 12.2); l’emergenza, infatti, appare causa di notevole conflitto tra Stato e Regioni. La qual cosa, quindi, non consente di avere positive impressioni sugli sviluppi futuri, dato che le misure emergenziali, a forte incidenza sull’autonomia regionale, costituiscono tuttora una costante.
Il giudizio di costituzionalità, così, resta la sede della composizione dei conflitti tra Stato e Regioni, incidendo notevolmente sul sistema nel suo complesso; l’auspicio, come sottolineato anche dal Presidente della Corte costituzionale nella relazione annuale del 12 aprile 2013[5], è quello di un miglior funzionamento e potenziamento degli strumenti di raccordo tra enti (il cui utilizzo ha talvolta ridotto i ricorsi, come nel 2007), oltre che una loro complessiva riforma.
 
 
2. Profili processuali
 
2.1.Ricorso ex art. 127. Atti introduttivi
 
Come noto, nei giudizi in via principale il thema decidendum è fissato dal ricorso introduttivo, a sua volta conforme alla delibera dell’organo politico [sentt. n. 149, 198], e non può essere esteso ad ulteriori profili indicati nelle memorie presentate in prossimità dell’udienza o prospettati durante la stessa [sentt. n. 74, 108].
La natura politica dell’atto d’impugnazione comporta l’inammissibilità delle questioni nelle quali le censure siano contenute solo nel dispositivo del ricorso e non espressamente indicate nella delibera d’impugnazione[6]; una delibera del Consiglio dei ministri di autorizzazione alla proposizione del ricorso può tuttavia rinviare, ai fini della individuazione delle norme impugnate, anche ad altri atti (nella specie, ad una relazione del Ministro per i rapporti con le Regioni), dal quale dedurre le disposizioni censurate e le relative questioni da decidere [sent. n. 108].
Se, come regola generale, tra le disposizioni impugnate nel ricorso e quelle individuate nella delibera della Giunta o del Consiglio dei ministri deve sussistere corrispondenza,  in quest’ultima, però, l’organo politico promotore ha il solo onere di indicare le norme che intende impugnare, mentre i motivi di censura e i conseguenti parametri costituzionali possono essere rimessi all’autonoma iniziativa della difesa tecnica; solo nel caso di intere leggi dal contenuto non omogeneo è necessaria l’indicazione nella delibera almeno di una sintetica motivazione relativamente agli specifici parametri che si assumono violati, con cui è possibile ricostruire quali specifiche norme il ricorrente abbia inteso effettivamente censurare «tra le molte che compongono, senza omogeneità, l’intero testo normativo oggetto dell’impugnazione»[7] [sent. n. 80].
A volte un parametro costituzionale (inteso come numero dell’articolo e/o del comma) può non essere espressamente citato senza che la circostanza comporti l’inammissibilità della questione, potendo essere sufficiente che la delibera dell’organo politico faccia ad esso «chiaro riferimento» [sent. n. 226].
Con riguardo al termine di 60 giorni per la notificazione del ricorso, qualora cada di sabato è da intendersi prorogato al primo giorno seguente non festivo: questo «principio generale dell’ordinamento processuale», tale in virtù della sua menzione non solo nel recente codice del processo amministrativo, ma già nel codice di procedura civile, deve ritenersi applicabile anche nei giudizi davanti alla Corte, dove a norma dell’art. 22 della legge n. 87 del 1953, si osservano, in quanto applicabili, le norme del regolamento per la procedura innanzi al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale [sent. n. 85].
 
 
2.2. Profili soggettivi
 
Ancora nessuna novità riguardo l’individuazione dei soggetti legittimati a intervenire nel giudizio principale, riservato ai titolari di potestà legislativa[8]. Ai soggetti privi di tale potestà residuano i mezzi di tutela delle rispettive posizioni soggettive di fronte ad altre istanze giurisdizionali, ed eventualmente nel giudizio in via incidentale [sentt. nn. 105, 114, 245].
Può essere qui menzionato il ruolo peculiare, ribadito dalla Corte, che in relazione al processo costituzionale le Regioni possono svolgere nei confronti degli enti locali: ovvero l’essere legittimate a denunciare la legge statale anche per lesione delle loro attribuzioni, indipendentemente dalla prospettazione della violazione della competenza legislativa regionale; ciò in quanto la stretta connessione tra le attribuzioni regionali e quelle delle autonomie locali, in particolare in tema di finanza regionale e locale, comporta che la lesione delle competenze locali possa essere potenzialmente idonea a determinare una lesione delle competenze regionali. Tale motivazione determina l’infondatezza dell’eccezione di ammissibilità di un ricorso per difetto di legittimazione attiva[9] [sent. n. 311].
 
 
2.3. Vizi deducibili, interesse a ricorrere e ius superveniens.
 
Le Regioni, come noto, possono evocare parametri costituzionali diversi da quelli che riguardano il riparto di competenze solo se la lamentata violazione determini una compromissione di quelle loro assegnate dalla Costituzione[10]. Tale compromissione non può essere indicata genericamente, senza una sufficiente ed adeguata motivazione [sentt. nn. 22, 187, 298, 300, 311]: l’onere è quello di indicare la specifica competenza regionale ritenuta lesa e le ragioni di tale lesione, o comunque deve essere possibile rilevarla [sentt. nn. 22, 178][11].
Così, con riguardo all’impugnazione di decreti legislativi, le doglianze regionali necessitano, pena l’inammissibilità, a che la lamentata violazione da parte del Governo dei principi e dei criteri direttivi enunciati dalla legge delega presenti una ridondanza sulle attribuzioni regionali[12]: la Corte ribadisce, in argomento, la «pregiudizialità logico-giuridica» delle censure che chiamano in causa l’art. 76 Cost., in quanto l’esame del corretto esercizio della funzione legislativa comporta, in caso di conferma delle censure ad essa relative, l’elisione delle questioni sul merito delle norme impugnate [sent. n. 80]. Qualora tuttavia emerga che la ricaduta di un decreto legislativo investa una materia di cui all’art. 117, comma 2, ovvero di competenza esclusiva statale, la questione è da ritenersi inammissibile [sent. n. 80].
Ancora, le Regioni possono bensì impugnare un decreto-legge per motivi attinenti alla pretesa violazione dell’art. 77: ma anche in tal caso l’ammissibilità della censura riferita alla violazione di tale parametro dipende dalla lesione, ad opera delle norme impugnate, di competenze costituzionalmente tutelate delle Regioni ricorrenti[13] [sent. n. 22], pena l’inammissibilità della questione [sentt. nn. 151, 173].
Anche l’art. 75, Cost. può essere evocato dalle Regioni, ma alle stesse condizioni di ammissibilità dei casi precedenti, ovvero con argomentazione che spieghi le ricadute sulle competenze costituzionalmente garantite loro [sent. n. 199].
Come visto al par. precedente, l’interesse a ricorrere di una Regione può essere anche quello di denunciare la legge statale per lesione delle attribuzioni degli enti locali ubicati nel proprio territorio, indipendentemente dalla prospettazione della violazione di una competenza legislativa specifica [sent. n. 311].
In relazione allo ius  superveniens, si dichiara generalmente la cessazione della materia del contendere (v. infra, par. 2.8) qualora le norme impugnate siano state oggetto di abrogazione o modifica «in senso satisfattivo della pretesa avanzata con il ricorso» [così nella sent. n. 300][14]; non è però tale una norma successiva che si limiti a sospendere l’efficacia della norma censurata, senza dunque abrogarla [sent. n. 131]. Le norme originarie impugnate, tuttavia, non devono aver avuto attuazione o applicazione medio tempore[15], ipotesi che può essere suffragata dalla parte resistente [sentt. nn. 86, 114, 192, 226, 243, 309], magari a fronte di richiesta in tal senso da parte del giudice (costituzionale) relatore [sent. n. 192] o rafforzata dal breve lasso di tempo trascorso tra la norma impugnata e quella abrogatrice successiva [sent. n. 114], oppure da entrambe le circostanze (dichiarazioni della resistente e breve lasso di tempo trascorso) o ancora dalla necessità, ai fini della loro applicazione, di ulteriori adempimenti evidentemente non ottemperati da parte degli organi regionali [sent. n. 158]; rafforza, invece, la possibilità di dichiarare cessata la materia del contendere il caso di una norma successiva che, come chiaribile ancora dalla parte resistente, fornisca l’interpretazione autentica idonea a far ritenere la non avvenuta applicazione medio tempore in senso illegittimo della norma (precedente) impugnata [sent. n. 74]. Che la norma prima impugnata e poi abrogata nelle more del giudizio non abbia avuto applicazione deve essere insomma provato in giudizio [sent. n. 241]: qualora manchi la certezza che essa non abbia prodotto effetti, la questione di legittimità non può essere risolta dichiarando cessata la materia del contendere [sentt. nn. 52, 215] e, se del caso, può dichiararsi la questione fondata con riferimento al solo periodo di vigenza della norma [sent. n. 217].
Può accadere, inoltre, che in caso di impugnazioni dirette contro numerose disposizioni (nella specie: quelle dell’art. 16, d. l. n. 138 del 2011) e di ius superveniens (nella specie: l’art. 19, d. l. n. 95 del 2012) introduttivo di «notevoli modifiche normative» riguardanti le disposizioni impugnate, renda opportuno rimettere sul ruolo i giudizi di costituzionalità, «allo scopo di consentire ai difensori di dedurre in ordine alle modifiche stesse e all’incidenza che esse possono avere sulle questioni oggetto delle impugnazioni proposte» [ord. n. 227].
L’abrogazione o la modifica delle norme impugnate, ritenuta satisfattiva dalla parte ricorrente, può indurre quest’ultima a rinunciare al ricorso: in tal caso, qualora la parte resistente ometta di accettare la rinuncia, non può determinarsi l’estinzione del processo, sebbene la rinuncia stessa, «unitamente ad altri elementi», possa fondare la dichiarazione di cessazione della materia del contendere per carenza di interesse del ricorrente[16] [sent. n. 90]; la rinuncia al ricorso, invece, determina necessariamente l’estinzione del processo (in assenza di accettazione della rinuncia) quando la parte resistente non si è costituita [ordd. nn. 29, 83, 98, 122, 282, 283, 302; sentt. nn. 32, 122][17].
Se invece, come assai di frequente è accaduto, lo ius superveniens presenta gli stessi vizi censurati con riguardo alle norme originarie, circostanza che può verificarsi nonostante una non marginale modifica delle stesse [sentt. nn. 139, 142], esso deve essere sottoposto a giudizio di legittimità pur non essendo stato «oggetto di ulteriore ricorso» [sent. n. 147], che è invece necessario, affinché la Corte non supplisca impropriamente all’onere di impugnazione, qualora si riscontri la natura sostanziale del mutamento normativo intervenuto (qual è la trasformazione di una originaria tassa di stazionamento in una imposta sul possesso su mezzi di trasporto) [sent. n. 300]. Il trasferimento del giudizio allo ius superveniens avviene in virtù del principio di effettività della tutela costituzionale delle parti nel giudizio in via di azione, a volte esplicitamente citato [sentt. nn. 30, 70, 74, 114, 135, 148, 159, 179, 193, 198, 212, 214], che vale a fortiori qualora lo ius superveniens comprima ancor più le sfere di attribuzione del ricorrente [sent. n. 199]. Caso particolare è invece quello in cui una disposizione impugnata ripristini espressamente un norma che era stata abrogata dal legislatore, ma sulla quale la Corte già si era pronunciata nel senso della non incompatibilità con la Costituzione: in tal caso la questione di legittimità è da ritenersi infondata [sent. n. 187].
Non trova invece applicazione nei giudizi in via d’azione l’inammissibilità per acquiescenza o per il carattere confermativo del provvedimento impugnato[18]: pertanto, l’omessa impugnazione di una disposizione precedente non configura l’inammissibilità di una questione sollevata su una disposizione successiva, di contenuto analogo alla prima non impugnata [sentt. nn. 71, 219].
I profili in punto di ammissibilità, ribadisce la Corte, vanno tenuti distinti dai profili in punto di fondatezza. Se una Regione ritiene di dover essere tenuta all’applicazione di una normativa statale, la difesa erariale non può sostenere l’inammissibilità della questione sulla base del fatto che quella stessa normativa non si applicherebbe alla Regione ricorrente: ciò, in quanto quest’ultima valutazione concerne se mai la fondatezza della questione, e non la sua ammissibilità [sent. n. 64]. E stesso dicasi per un’eccezione di inammissibilità avanzata da una Regione resistente sulla base del fatto che la disposizione contestata dallo Stato è stata adottata in ottemperanza al piano di rientro dal deficit sanitario: anche qui si tratta di un profilo relativo alla fondatezza della questione e non alla sua ammissibilità [sent. n. 292].
Situazione diversa nel giudizio incidentale, dove una norma abrogatrice solitamente non incide sul regime retto transitoriamente dalla norma precedente (censurata): così che essa si applica al giudizio a quo e, pertanto, la Corte entra nel merito della questione che la coinvolge, non restituendo gli atti al giudice rimettente per ius superveniens [sent. n. 140]. Può capitare, altresì, che il giudice a quo non mostri di avere cognizione dell’avvenuta modifica della norma impugnata: in tal caso, la Corte può produrre essa stessa una valutazione dell’avvenuta modifica, finalizzata a verificare l’eventuale inammissibilità della questione in caso di sostanziale alterazione del quadro normativo censurato [sent. n. 141].
 
 
2.4. Questioni di legittimità e motivazione
 
La Corte ribadisce che l'esigenza di un'adeguata motivazione a sostegno dell'impugnativa si pone, nei giudizi in via principale, in termini ancor più pregnanti che in quelli in via incidentale [sent. n. 199][19]. Tuttavia, una questione di legittimità costituzionale in via principale è ammissibile anche senza il previo esperimento del tentativo di giungere ad un’interpretazione alternativa, obbligo invece a carico del giudice a quo nell’impugnativa in via incidentale. Ciò, a causa della «radicale differenza» tra i due modi d’accesso alla Corte: nel giudizio in via principale, infatti, per il ricorrente è possibile (e sufficiente) avanzare una propria interpretazione, astrattamente possibile ed ovviamente non implausibile[20], della disposizione denunciata; nel giudizio incidentale, invece, tale facoltà non è notoriamente concessa al giudice a quo, il quale al contrario può sollevare la questione solo se (ex art. 23, comma 2, legge n. 87 del 1953), il giudizio «non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale» [sentt. nn. 62, 188, 298]; tale circostanza lo obbliga alla ricerca di un’interpretazione diversa, conforme alla Costituzione, pena la manifesta inammissibilità della questione [ordd. nn. 44, 102][21].
Con riferimento al giudizio in via principale, fermo restando che la carenza di motivazione spesso confina con l’assenza di oggetto, sono inammissibili le questioni formulate in modo generico [sentt. n. 64, 99, ord. n. 123, sentt. nn. 184, 200, 246], apodittico [sent. n. 115], assertivo [sent. n. 184], prive di argomentazione [sentt. nn. 184, 200, 212], dal petitum carente [sent. n. 246] o privo di specificità e determinatezza, ovvero tale da non individuare il contenuto dell’intervento richiesto alla Corte [sent. n. 140], senza specificazione della materia [sent. n. 212] o completamente prive della descrizione della causa petendi posta a fondamento dell’impugnazione di un atto amministrativo che ha ingenerato un dubbio di costituzionalità sulla legge che lo autorizza [ord. n. 102], carenti «nella definizione del percorso logico seguito per ricondurre le norme impugnate al parametro costituzionale invocato» [sent. n. 244] e inconferenti [sent. n. 184]. La erroneità della premessa interpretativa del ricorrente circa la ratio e la portata della disposizione sospettata di incostituzionalità può rendere anche non fondata la questione [sent. n. 259].
 È allo stesso modo inammissibile la censura di una norma interpretativa di altra già dichiarata (nella specie: nelle more del giudizio) costituzionalmente illegittima, non potendo (entrambe) esplicare effetti nell’ordinamento [sent. n. 99].
In ogni caso, spetta a chi propone il ricorso «farsi parte diligente nella definizione del petitum», con la relativa produzione degli atti idonei a rendere la questione ammissibile [sent. n. 246]. In generale, infine, anche le eccezioni di inammissibilità devono essere adeguatamente motivate e non risultare generiche [sent. n. 292].
Con profilo che vale in generale nel giudizio incidentale, ivi ovviamente compreso un giudizio vertente su una legge regionale, va ricordato che la riproposizione di una questione di legittimità in relazione alla quale la Corte abbia restituito gli atti al rimettente per ius superveniens introduce «un giudizio di legittimità costituzionale diverso, che non costituisce la prosecuzione del precedente e che esige, pertanto, una nuova ordinanza di rimessione dotata di motivazione autosufficiente in punto di rilevanza e di non manifesta infondatezza»: lo impone il principio di autonomia di ciascun giudizio di costituzionalità in via incidentale, che preclude ad ogni possibilità di integrazione o di rinvio per relationem alla originaria ordinanza di rimessione [ord. n. 156].
 
 
2.5. Parametro
 
Contrariamente alla regola generale, può darsi il caso in cui la non dettagliata indicazione del parametro che si assume violato non comporti l’inammissibilità di una questione di legittimità: stabilire il rinnovo automatico trentennale delle concessioni idriche in una Regione ha una così palese incidenza sulla tutela della concorrenza e un’evidente interferenza con i principi comunitari e statali in materia da rendere «superflua ogni ulteriore specificazione delle singole norme di riferimento», trattandosi peraltro di scelta che «si muove pressoché integralmente nella materia della tutela della concorrenza» [sent. n. 114]. Può essere altresì sufficiente indicare nel ricorso una precedente pronuncia della Corte che, per via del contenuto, risulti idonea a far ritenere evocata una determinata normativa quale parametro interposto nel giudizio in corso [sent. n. 224].
È invece da ritenersi manifestamente inammissibile una questione fondata sull’evocazione di un parametro non pertinente, nella specie perché non suscettibile di produrre gli effetti che dovrebbero far ritenere illegittime le norme impugnate [ord. n. 195].
L’indicazione, quale parametro di legittimità, delle norme di cui al Titolo V della Costituzione in luogo delle disposizioni dello statuto delle Regioni ad autonomia speciale deve essere suffragata da idonea argomentazione, pena l’inammissibilità del ricorso[22]: ciò, per via del rilievo che assume in tali casi il riferimento alle competenze stabilite dagli statuti speciali [sent. n. 18]. Tuttavia, la opponibilità anche alle Regioni a statuto speciale dei vincoli stabiliti dall’art. 117, commi 1 e 2, Cost. può rendere non necessario per lo Stato evocare una censura anche in base alle regole di competenza legislativa dettate dagli statuti di autonomia regionale [sent. n. 16].
Con riguardo allo Statuto del Trentino-Alto Adige, fungono da parametro di costituzionalità anche le norme adottate ai sensi dell’art. 104 (dello Statuto), ovvero adottate con legge statale ordinaria su accordo preventivo tra Governo, Regione e Province autonome: è la stessa norma statutaria, infatti, che abilita disposizioni di legge ordinaria statale a modificare il titolo VI dello Statuto[23]: in virtù di tale meccanismo, la Provincia di Bolzano può stabilire casi di esenzione dell’addizionale regionale IRPEF, a ciò essendo stata abilitata dall’art. 73, comma 1 bis, dello Statuto speciale, aggiunto dalla legge statale n. 191 del 2009 [sent. n. 2].
 
 
2.6. Oggetto
 
Le questioni di costituzionalità non corredate da motivazione adeguata, come accennato sopra, spesso ridondano questioni prive di oggetto [per un esempio, tra i tanti: sent. n. 241]. Ciò posto, residuano margini di valutazione delle questioni inerenti strettamente all’oggetto sul quale le stesse vertono.
Come visto sopra (cfr. par. 2.3), è ormai pacifico che nei giudizi in via diretta le questioni proposte nei confronti dei decreti-legge possano trasferirsi sulla legge di conversione, qualora ovviamente essa non tocchi e risolva i punti d’interesse[24]. E l’impugnazione dei decreti-legge successivamente alla conversione deve ritenersi comunque tempestiva, in quanto la Regione «può riservarsi» anche di impugnare il decreto dopo la legge che ne rende definitivi gli effetti [sentt. nn. 139, 148, 173, 215][25]: in sostanza, la Regione può a sua scelta impugnare tanto il solo decreto-legge «con il rischio, però, che l’iniziativa di investire la Corte resti vanificata dall’eventualità di una mancata conversione» [sentt. nn. 151, 179], quanto la sola legge di conversione, quanto entrambi [sentt. nn. 164, 203], e sono ammissibili ricorsi contestuali (e riuniti in un’unica pronuncia) di Regioni diverse, che hanno impugnato alcune il decreto, altre la legge di conversione [sent. n. 299].
Prive di oggetto, inoltre, e dunque inammissibili, sono le questioni inerenti a norme già dichiarate incostituzionali [sentt. nn. 202, 206, 256, 294][26] o quelle che incorrono in una aberratio ictus, attribuendo degli effetti ad una disposizione anziché, correttamente, ad altra disposizione[27] [sentt. nn. 100, 241].
Nei conflitti d’attribuzione, come noto, deve emergere il “tono costituzionale” del conflitto, ovvero una incisione sotto varie forme di una sfera di competenza costituzionale garantita all’eventuale ricorrente; qualora esso manchi, il conflitto è inammissibile [sent. n. 238].
Un conflitto intersoggettivo può bensì riguardare, a certe condizioni, atti giurisdizionali, ma non può risolversi in un improprio strumento per sindacare il modo d’esercizio della funzione giurisdizionale sottostante[28]: diverrebbe tale se si ritenesse ammissibile la doglianza di una Regione che lamenta l’assenza del contraddittorio nel giudizio di parificazione del proprio rendiconto da parte della Corte dei Conti [sent. n. 72]; o se, in luogo del ricorso in Cassazione per difetto di giurisdizione, venisse chiesto alla Corte di riconoscere la natura di atto politico, dunque non sindacabile in alcuna sede giurisdizionale, del decreto del Presidente della Regione Campania di nomina di un assessore regionale (richiesta anch’essa inammissibile) [sent. n. 81].
Un conflitto di attribuzione che origini da atti meramente consequenziali (confermativi, riproduttivi, esplicativi, esecutivi) rispetto ad atti anteriori non impugnati è inammissibile: ciò, in quanto l’impugnazione dell’atto meramente consequenziale rappresenterebbe un modo surrettizio di contestare un atto per il quale è spirato il termine di impugnazione[29]. Occorre, dunque, verificare se la menomazione delle attribuzioni lamentate dalla parte ricorrente sia autonomamente imputabile all’atto impugnato, e non già a questo quale mero e puntale provvedimento consequenziale di altro atto: in caso si versi nella seconda ipotesi, il conflitto è inammissibile [sent. n. 207][30].
 
 
2.7. Riunione dei giudizi e separazione delle decisioni con riserva di ogni decisione sulle restanti questioni di legittimità costituzionale.
 
Piuttosto numerosi, nell’ambito dei giudizi in via principale, i casi di riunione pura e semplice dei giudizi, motivati dalla connessione oggettiva e/o soggettiva dei ricorsi o dall’identità di censure [sentt. nn. 22, 62, 80, 148, 178, 187, 192, 193, 214, 226; ordd. nn. 41, 227], in maggioranza su ricorsi regionali.
L’assenza di omogeneità delle questioni sollevate da più ricorsi e all’interno di ogni singolo, invece, porta la Corte alla trattazione separata delle questioni prive di collegamento [sentt. nn. 2, 33, 53, 143, 144, 189, 202, 203, 212, 221, 290, 293, 294, 298], soprattutto nel caso d’impugnazioni proposte dallo Stato.
Rilevante è poi il numero di casi in cui la Corte ha deciso con unica pronuncia le questioni omogenee, riservandosi di decidere separatamente sulle altre, secondo i canoni sopra ricordati [sentt. nn. 139, 147, 149, 151, 164, 173, 176, 179, 198, 199, 200, 215, 241, 287, 299, 300, 311; ord. 136], sempre su ricorsi proposti dalle Regioni o Province autonome
Nei conflitti d’attribuzione la riunione si ha in unico caso [ord. n. 42].
 
 
2.8. Tipi di decisioni.
 
2.8.1. Giudizio in via principale.
 
Come ricordato, nel 2012 il numero totale di decisioni rese nel giudizio in via principale, calcolate al netto delle riunioni e separazioni dei giudizi di cui al paragrafo precedente, è di 150 decisioni per 356 dispositivi (di cui 10 d’illegittimità consequenziale e 1 di rinvio). Nella maggioranza dei casi esse risolvono questioni di legittimità proposte dallo Stato (Governo o Commissario dello Stato), 93 pronunce contro le 57 su impulso regionale (o delle Province autonome); se si guarda ai dispositivi, però, il dato è più livellato (181 contro 165) (figura 10), soprattutto se confrontato al 2011, dove i dispositivi su questioni sollevate dallo Stato erano di gran lunga prevalenti.
 

 
Disaggregando il dato per le varie Regioni (e non tenendo conto dei dispositivi d’illegittimità consequenziale) può osservarsi come le impugnative statali abbiano avuto a oggetto le normative di quasi tutte le Regioni e Province autonome (fa eccezione L’Emilia-Romagna). Si evidenzia in particolare il dato dell’Abruzzo e della Sardegna, rispettivamente con 28 e 22 dispositivi aventi a oggetto normative delle stesse. Significativo anche il dato di Marche e Friuli-Venezia Giulia (13) e del Molise (12).
 

 
Per quanto concerne le Regioni in qualità di parte ricorrente, anche in tal caso, quasi tutte le Regioni hanno impugnato, almeno una volta, leggi statali (fa eccezione il Molise). Tra le Regioni più “attive” si segnalano l’Emilia-Romagna e la Liguria (30 i capi di dispositivo su questioni sollevate dalle stesse), il Veneto (28), la Puglia (26) , l’Umbria (25) e la Toscana (22). Va precisato che il numero di capi di dispositivo indicato è necessariamente maggiore al totale dei capi di dispositivo di provenienza regionale, poiché è fenomeno usuale che a un singolo capo di dispositivo corrispondano questioni proposte da più Regioni e riunite dalla Corte.


 
La figura 13 mostra il riparto della tipologia di decisioni per capi di dispositivo.
Circa un terzo delle questioni di legittimità proposte non ha trovato accoglimento nella giurisprudenza del 2012 (118 dispositivi); più o meno sulla stessa linea il numero dei dispositivi d’illegittimità costituzionale, 110, a cui, però, devono aggiungersi dieci dispositivi d’illegittimità consequenziale. Tra le decisioni processuali, si segnalano i 45 dispositivi d’inammissibilità e 4 di manifesta inammissibilità.
La cessazione della materia del contendere, generalmente motivata dall’abrogazione, soppressione o modifica satisfattiva della normativa impugnata, in assenza di concreta attuazione medio tempore della stessa, si è avuta in 29 dispositivi; a questi vanno aggiunti i 10 dispositivi conseguenza alla promulgazione parziale di una legge regionale siciliana, con omissione delle parti impugnate, come da costante giurisprudenza costituzionale.
Il numero minore di dispositivi è quello recante l’estinzione del processo per rinuncia al ricorso, comunque pari a 29; estinzione che quasi sempre è conseguenza dell’abrogazione, sostituzione o modifica del provvedimento impugnato. In 9 casi la rinuncia non ha richiesto l’accettazione della controparte poiché il resistente non si era costituito in giudizio.
Va poi ricordato un dispositivo di rinvio.
 

In termini percentuali, escludendo il dispositivo di rinvio, quindi, più o meno il 33% delle decisioni della Corte si è risolto con dispositivi di accoglimento o di rigetto. In crescita (19,15% in totale), il dato delle estinzioni e delle cessazioni delle materie del contendere, mentre quello delle inammissibilità è più o meno stabile (in leggera crescita rispetto al 2011).
 

Disaggregando il dato tra Stato e Regioni (figura 15), escludendo i dieci dispositivi d’illegittimità consequenziale e quello di rinvio, emerge come la grande maggioranza delle questioni proposte dallo Stato (Presidente del Consiglio dei ministri o Commissario dello Stato) abbia trovato accoglimento (90 accolte, 30 rigettate e 15 dichiarate inammissibili); per le Regioni, invece, gran parte delle decisioni reca dispositivi di non fondatezza (88, contro gli appena 20 di accoglimento e i 34 d’inammissibilità e manifesta inammissibilità).
Appare dunque evidente che le declaratorie d’illegittimità costituzionale siano in grande maggioranza vertenti su leggi regionali; tendenzialmente a vantaggio dello Stato è anche il dato delle estinzioni e delle cessazioni della materia del contendere (46 dispositivi contro 22 su questioni di provenienza regionale), confermandosi come sia soprattutto nel caso d’impugnazione di leggi regionali o della Province autonome che si verifica la “contrattazione” sui provvedimenti impugnati oramai nota.
 

 
Riaggregando i dati possono farsi ulteriori valutazioni. Il “tasso di accoglimento” delle questioni proposte dallo Stato (sempre senza tener conto delle illegittimità consequenziali), infatti, è pari al 49,72%, mentre quello delle Regioni è del 12,12%. Un divario che torna ad aumentare, dunque, se si considera che nel 2011 il dato statale era sostanzialmente identico, mentre quello regionale superava il 20%. Tale forbice si allarga ulteriormente se si sommano anche i casi di estinzione e cessazione della materia del contendere, in cui si presume che le ragioni dell’impugnativa abbiano trovato comunque soddisfazione (75,13% contro 25%).
 

 
Il rigetto delle questioni, invece, si registra nella maggioranza dei dispositivi su questioni di provenienza regionale (88 su 165), per una percentuale del 53,33%; lo Stato, al contrario, vede il rigetto della questione solo per 30 dispositivi su 181, pari al 16,57%. Anche in tal caso, la forbice si allarga rispetto al 2011.
 

 
Sul piano processuale, come ricordato, i dispositivi d’inammissibilità ammontano a 45, a cui si aggiungono 4 dispositivi di manifesta inammissibilità. Tale dato si ripartisce in 15 dispositivi concernenti questioni proposte dallo Stato e 34 questioni di provenienza regionale. In termini percentuali ciò comporta che per lo Stato l’inammissibilità colpisce le censure proposte nell’ 8,28% dei casi, per le Regioni nel 20,60% dei casi. Una distanza che torna leggermente a crescere rispetto al 2011, ma se non altro resta inferiore a quella registratasi nel triennio 2008-2010.
 

 
Da ultimo, anche per il 2012, è possibile fornire quello che si è definito, “tasso di soccombenza”, con cui s’indicano tutti i casi in cui Stato e Regioni non hanno visto soddisfatte le proprie ragioni, o per motivi di merito o per ragioni processuali. Così, i dispositivi che pronunciano il rigetto o l’inammissibilità di questioni proposte dallo Stato sono pari a 45 (30 15); per le Regioni il dato è di 122 (88 34). Rapportando tali cifre al totale dei dispositivi vertenti su questioni statali e regionali si ottiene una percentuale del 24,86% per lo Stato e del 73,93% per le Regioni. La figura 18, pertanto, mostra la netta preponderanza della soccombenza regionale, ben più accentuata rispetto al 2011, quando lo Stato “perdeva” una volta su tre, la Regione due volte su tre.
 

 
2.8.2. Conflitto di attribuzione tra enti.
 
Nei giudizi per conflitto d’attribuzione le decisioni, come ricordato, sono state 6, per altrettanti dispositivi tutte aventi ad oggetto questioni proposte dalle Regioni o Province autonome. Il giudizio in questione, pertanto, appare ormai sempre più residuale e viene attivato prevalentemente dalle Regioni, in via esclusiva nel 2012.
Venendo ai tipi di sentenze, le pronunce d’inammissibilità rappresentano la maggioranza (4), mentre si registra un’unica decisione di merito, recante un dispositivo di non fondatezza. In un altro casi si è avuta  estinzione del processo.
 


Il conflitto tra enti, per il 2012, pertanto, presenta una rilevanza solo per quanto concerne le impugnative di atti statali da parte delle Regioni o Province autonome, facendo rilevare un “tasso di accogliento”  pari a zero. Prevalgono nettamente le pronunce d’inammissibilità, pari a due terzi del totale.
 
 
3. L’autonomia statutaria e il «sistema di elezione» regionale.
 
Il rapporto tra statuto e legge regionale è disegnato dalla Costituzione in termini sia di gerarchia[31], sia di competenza, e l’art. 123 Cost. prevede l’esistenza nell’ordinamento regionale ordinario di vere e proprie riserve normative a favore della fonte statutaria[32]. Tali riserve possono valere anche nei confronti del legislatore statale: lede così l’art. 123 Cost. una norma (statale) che assegni determinate funzioni (nella specie, deliberare aumenti fiscali) ad un organo regionale [sent. n. 22], sebbene tale violazione possa essere ricondotta anche, genericamente, alla organizzazione interna delle Regioni, in virtù della quale saranno queste ultime a selezionare quale debba essere l’organo deputato allo svolgimento di funzioni individuate con legge statale [sent. n. 293].
Una delle più rilevanti questioni decise nel 2012 è probabilmente quella che ha riguardato l’art. 14 del d. l. n. 138 del 2011 (decreto convertito con modificazioni dalla legge n. 148 del 2011), impugnato da ben 14 enti (tra Regioni e Province autonome). La disposizione, rivolta a tutte le Regioni e difesa dall’Avvocatura in quanto espressione di principi nell’ambito della materia concorrente coordinamento della finanza pubblica (v. infra par. 12.2), riguarda il numero dei consiglieri e degli assessori componenti consigli e giunte regionali, l’indennità e il trattamento previdenziale dei consiglieri, nonché l’istituzione di un Collegio di revisori dei conti quale organo di vigilanza sulla regolarità contabile, finanziaria ed economica delle Regioni: tre misure di indubbia rilevanza per l’autonomia delle Regioni italiane. La Corte ha stabilito che: a) la disciplina relativa agli organi delle Regioni a Statuto speciale e ai loro componenti è contenuta nei rispettivi statuti che, in quanto adottati con legge costituzionale, non sopportano limiti e condizioni imposti dalla legge ordinaria; pertanto, per tali Regioni, l’art. 14 cit. va considerato costituzionalmente illegittimo per violazione dell’art. 116, Cost.; b) per le Regioni ordinarie, la disposizione censurata si inserisce nel quadro della finalità generale del contenimento della spesa pubblica, è coerente col principio di eguaglianza che impone criteri di proporzione tra elettori, eletti e nominati e, infine, rappresenta una esplicitazione dell’«armonia con la Costituzione» a carico degli statuti ordinari: per questi motivi le censure in ordine alla sua legittimità sono infondate; c) stesso dicasi circa il termine indicato per l’adeguamento delle Regioni (ordinarie) alla disposizione statale, previsto in 6 mesi, per la riduzione del numero di consiglieri e assessori, che indica non il completamento della procedura di revisione statutaria (con il possibile referendum o l’eventuale questione di legittimità costituzionale) ma solo l’«adozione» della scelta; d) ed è infondata, infine, la censura del Collegio dei revisori dei conti, il quale è finalizzato a consentire, visto il previsto raccordo con le Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti, «il controllo complessivo della finanza pubblica per tutelare l’unità economica della Repubblica (art. 120, Cost.)» [sent. n. 198].
Riguardo alle incompatibilità e ineleggibilità, la Corte aveva già stabilito che il divieto di cumulo tra cariche elettive è diretto a salvaguardare i principi espressi dagli artt. 3, 51 e 97 Cost.[33]. L’affermazione vale anche per le Regioni ad autonomia speciale dove, salvo il ricorrere di peculiari condizioni locali, valgono gli stessi principi costituzionali, così come declinati dalla legislazione statale in materia (legge n. 165 del 2004)[34]. Da ciò deriva il vincolo, nella specie per il legislatore regionale siciliano, a configurare le ineleggibilità sopravvenute come cause di incompatibilità in una sorta di parallelismo tra i due istituti, con riferimento al caso di una pregressa carica regionale e la sopravvenuta carica di sindaco o assessore di un Comune, compreso nel territorio della Regione, con popolazione superiore a ventimila abitanti,[35]. Ma da ciò deriva, «stante l’assoluta identità della ratio» e della «corrispondenza biunivoca delle cause di incompatibilità», anche l’illegittimità costituzionale di leggi regionali che non prevedano l’incompatibilità tra una pregressa carica di sindaco o assessore di Comuni con più di ventimila abitanti e la sopravvenuta carica di consigliere (nella specie, deputato) regionale [sent. n. 67].
Secondo la Corte, rientra nella locuzione «sistema di elezione» (riguardante Presidenti e Consigli regionali), di cui all’art. 122, comma 1, Cost. (sistema disciplinato, ai sensi della stessa disposizione costituzionale, dalla legge statale) la disciplina delle campagne elettorali regionali e delle spese allo scopo sostenute dai movimenti e dai partiti politici: non è pertanto censurabile la normativa statale (primo periodo del comma 5 dell’art. 1, legge n. 157 del 1999, come modificato dall’art. 5, comma 4, d. l. n. 78 del 2010) che riduce del 10% l’entità del fondo, peraltro costituito presso la Camera dei Deputati, in quanto rappresenta un principio fondamentale del «sistema di elezione» dei consiglieri regionali, finalizzato ad assicurare la stessa entità dei rimborsi in tutte le Regioni [sent. n. 151].
Agli statuti (e alle leggi) regionali, infine, non è precluso concorrere a precisare secundum legem alcuni presupposti di applicazione di norme penali (statali). Le Regioni hanno tale facoltà ovviamente nell’ambito delle proprie competenze: così, nella specie, possono identificare ipotesi di segreto d’ufficio inerenti l’attività svolta dall’amministrazione regionale, nonché le correlate ipotesi di esonero dallo stesso, incidendo così sull’applicazione della sanzione penale posta dal legislatore statale all’art. 326 del codice penale [sent. n. 63].
 
 
4. Il limite degli obblighi comunitari
 
Riguardo al limite di cui al primo comma dell’art. 117 Cost., per quanto concerne il conseguente «inserimento» dell’ordinamento italiano in quello comunitario, la Corte ha ribadito nel 2012 come nel caso di leggi (nella specie) regionali, si possano profilare due diversi casi, a seconda che il giudizio si svolga davanti al giudice comune, ovvero alla Corte costituzionale a seguito di ricorso in via principale: nel primo caso, è imposto al giudice di «disapplicare» le norme interne statali; nel secondo, le medesime norme «rendono concretamente operativo il parametro costituito dall’art. 117, primo comma, Cost. […], con conseguente declaratoria d’illegittimità costituzionale delle norme regionali che siano giudicate incompatibili con il diritto comunitario» [sent. n. 86][36].
Torna inoltre a ribadirsi lo schema generale della illegittimità costituzionale per violazione dei vincoli comunitari di norme regionali in contrasto con «la normativa statale e, ancor prima, con la normativa comunitaria cui il legislatore ha dato attuazione», in quanto entrambe, ovvero normativa comunitaria e normativa statale di attuazione, come visto poco fa «rendono concretamente operativo» l’art. 117, primo comma, Cost. [sentt. nn. 85, 86, 217, 291].
Le decisioni dei singoli casi vertenti su leggi regionali diventano traduzione pratica di tale schema. Così, ai sensi dell’art. 34 del TFUE (già art. 28 del TCE), «Sono vietate tra gli Stati membri le restrizioni quantitative all’importazione nonché qualsiasi misura di effetto equivalente»: è pertanto illegittima una legge regionale che preveda l’istituzione di marchi di “origine” o di “qualità”, i quali potrebbero indurre i consumatori ad acquistare i prodotti di quella Regione piuttosto che prodotti simili provenienti da altri territori, così creando ostacolo, in atto o in potenza[37], alla libera circolazione delle merci garantita dalle disposizioni del TFUE [sentt. nn. 86, 191].
Il diritto comunitario (Direttiva 2006/123/CE), in un’ottica di massima liberalizzazione delle attività economiche, consente, tuttavia, di mantenere regimi autorizzatori per «motivi imperativi di interesse generale», recepiti nell’ordinamento italiano (d. lgs. n. 59 del 2010, art. 14) con il mantenimento di procedure di selezione degli operatori laddove il numero delle autorizzazioni concedibili sia limitato dalla scarsità delle risorse naturali o dalle capacità tecniche disponibili. A tale impostazione non possono derogare le Regioni: è dunque illegittima una legge regionale che, in virtù di un generico richiamo a propri «motivi imperativi di interesse generale», escluda le procedure selettive, non introducendo una procedura concorsuale alternativa, perché così operando essa, di nuovo, «contrasta con la normativa statale e, ancor prima con quella comunitaria cui il legislatore nazionale ha dato attuazione» [sent. n. 291].  
Conformemente a quanto già acquisito nella giurisprudenza, infine, i finanziamenti pubblici concessi alle imprese, gestiti solitamente da Regioni ed enti locali, o sono di entità al di sotto del de minimis oppure sono soggetti all’obbligo di notifica preventiva alla Commissione europea. Una legge regionale che disponga diversamente da tali due regole (nella specie, la seconda) è incostituzionale per violazione dell’art. 117, comma 1, Cost. [sent. n. 217].
 
 
5. Riparto delle competenze, sussidiarietà, leale collaborazione
 
5.1. La cd. “chiamata in sussidiarietà”
 
L’attrazione o chiamata in sussidiarietà rappresenta il noto strumento ermeneutico che flessibilizza, rispetto al dettato costituzionale, la distribuzione delle funzioni amministrative e legislative, e che è stato introdotto dalla Corte costituzionale a partire dalla sentenza n. 303 del 2003. Nel 2012 si riscontra un ricorso nettamente limitato a tale peculiare strumento.
Affinché la Regione possa venire privata della capacità di svolgere autonomamente la funzione amministrativa e legislativa in una materia, ovviamente non già di competenza esclusiva statale, è necessaria la previsione di procedure che ne assicurino la partecipazione, attraverso strumenti di leale collaborazione e adeguati meccanismi di cooperazione,all’esercizio concreto delle funzioni amministrative attratte a livello centrale[38]; tali strumenti, che conducono a un intesa o, ma solo dopo reiterate trattative volte a superare le divergenze, una decisione unilaterale del Governo[39], possono riguardare o il sistema regionale nel suo complesso, e in tal caso il soggetto d’interlocuzione sarà la Conferenza unificata Stato-Regioni, o la singola Regione interessata a specifici e concreti interventi nel proprio territorio. Ciò posto, la necessità di adozione di un progetto strategico di individuazione sull’intero territorio nazionale di interventi finalizzati a realizzare infrastrutture di telecomunicazione a banda larga e ultralarga determina l’esigenza di un esercizio unitario della funzione amministrativa, dunque legislativa, che pur manifestandosi in disposizioni statali dettagliate e «addirittura autoapplicative», non lede la competenza regionale in materia di ordinamento delle comunicazioni: ferma restando l’illegittimità costituzionale della legislazione statale nella parte in cui non prevede le procedure di leale collaborazione [sent. n. 163].
Per il perfezionamento tramite decreto legislativo del percorso che realizza (e legittima) la chiamata in sussidiarietà, occorre «una precisa manifestazione di volontà legislativa» da parte del Parlamento (id est: nella legge-delega), con la relativa indicazione di adeguate forme collaborative con le Regioni: ciò, specie laddove, in nome di esigenze di semplificazione, il Governo viene delegato ad emanare decreti finalizzati a creare un sistema normativo coerente, che non può essere occasione di rivisitazione dei rapporti Stato-Regioni in un intero settore [sent. n. 80].
 
 
5.2. Leale collaborazione
 
La Corte ribadisce in argomento l’orientamento secondo il quale l’esercizio della funzione legislativa sfugge alle procedure di leale collaborazione [sentt. nn. 33, 164, 203, 311][40].
Stesso dicasi per la funzione amministrativa, nel caso in cui lo Stato eserciti competenze rimesse alla sua potestà legislativa esclusiva [sent. n. 234]. Qui, ad esempio, l’adozione di un regolamento ministeriale senza l’instaurazione di procedure di leale collaborazione è immune da censure di incostituzionalità, in quanto nelle materie di cui all’art. 117, comma 2, Cost., la potestà regolamentare è dello Stato e non sono, in genere, dovute «procedure di raccordo» con il sistema regionale [sent. n. 293].
Tale regola, tuttavia, può subire l’eccezione delle materie trasversali: è il caso di quella di cui all’art. 117, comma 2, lett. m, Cost., circa la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di diritti civili e sociali, laddove la forte incidenza di tale competenza statale su quelle regionali torna ad imporre la leale collaborazione [sent. n. 297]; ma non è il caso, invece, dell’art. 117, comma 2, lett. e, circa la tutela della concorrenza, laddove viene meno l’obbligo di istituire meccanismi concertativi tra Stato e Regioni [sent. n. 299].
Gli strumenti di leale collaborazione tornano ad imporsi, invece, nel caso d’intreccio di competenze tra Stato e Regioni (sui quali si rimanda infra, par. 7.2.2).
In materia di Conferenza di servizi va ribadita la necessità, in caso di partecipazione di organi facenti capo allo Stato e alle Regioni, delle reiterate trattative[41] prima di una decisione unilaterale del Governo in luogo dell’intesa; quest’ultima, imposta dal principio di leale collaborazione, rende infatti illegittima una “drastica previsione” di decisività della volontà di una sola parte. Pur rappresentando, la Conferenza di servizi, uno strumento orientato alla realizzazione del principio del buon andamento dell’amministrazione, di cui all’art. 97 Cost.[42], non possono essere oltremodo sacrificate ad essa le competenze delle Regioni che dissentono rispetto alle decisioni in discussione: è pertanto illegittimo l’art. 49, comma 3, lettera b, d.l. n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010, nella parte in cui prevede che, in caso di dissenso espresso in sede di conferenza di servizi da una Regione o da una Provincia autonoma in una delle materie di propria competenza, ove non sia stata raggiunta entro il termine di trenta giorni l’intesa, «il Consiglio dei ministri delibera in esercizio del proprio potere sostitutivo con la partecipazione dei Presidenti delle Regioni o delle Province autonome interessate», senza che siano previste reiterate trattative volte a superare le divergenze [sent. n. 179].
Infine, la mera partecipazione alle sedi concertative (ad es., la Conferenza unificata) preparatorie di un atto specifico non priva la parte del potere di impugnarlo in sede di conflitto di attribuzioni: ciò, nel caso in cui la parte abbia manifestato, in tali sedi, il proprio dissenso all’approvazione dello stesso [sent. n. 207].
 
 
5.3  Art. 120 Cost. e poteri sostitutivi  
 
Il potere sostitutivo nei confronti delle Regioni e degli enti locali spetta al Governo nei casi previsti dall’art. 120, comma 2, Cost, e per il suo esercizio deve essere garantito il rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione, nonché la procedura di cui all’art. 8 della legge n. 131 del 2003, che prevede l’interlocuzione con l’ente interessato prima di provvedere alla sostituzione. Quello in questione, tuttavia, è un potere sostitutivo “straordinario”, e l’art. 120 Cost. lascia impregiudicata l’ammissibilità di altri casi di interventi sostitutivi previsti dalla legislazione di settore, riconoscibili sia allo Stato che alle Regioni[43] [sent. n. 234].
Il recente d. l. n. 98 del 2011, convertito con modificazioni dall’art. 1, comma 1, della legge n. 111 del 2011, prevede all’art. 20, comma 15, che il potere sostitutivo del Governo sia esercitato anche «in caso di mancata o non esatta conformazione alle decisioni» della Corte costituzionale. La disposizione in questione non è costituzionalmente illegittima, con la conseguenza che il Governo può farsi interprete del comportamento delle Regioni davanti alle decisioni della Corte costituzionale, qualificando l’inerzia regionale idonea a ledere l’unità giuridica o economica della Repubblica o, ancor più, i diritti civili o sociali, per i quali l’art. 117, comma 2, lett. m, Cost. prevede una tutela rafforzata.  Resta fermo che, ove la Regione interessata dall’intervento del Governo «ritenesse errata l’interpretazione data da quest’ultimo di una o più decisioni» della Corte, potrebbe comunque promuovere conflitto di attribuzione davanti alla stessa [sent. n. 121].
Infine, l’operato di un commissario ad acta incaricato dell’attuazione del piano di rientro dal disavanzo sanitario non tollera misure regionali che si sovrappongano a quelle di tale organo. Le sue funzioni devono dunque essere svolte al riparo da ogni interferenza degli organi regionali, per evitare di mettere a rischio l’esecuzione del suo mandato commissariale[44]: oltre alla violazione dell’art. 120, comma 2, si produrrebbe la violazione di un principio fondamentale diretto al contenimento della spesa e dunque al coordinamento della finanza pubblica di cui all’art. 117, comma 3, Cost. [sent. n. 131].
 
 
6. Le leggi-provvedimento regionali.
 
Anche con riguardo alle Regioni, nessuna disposizione costituzionale comporta una riserva agli organi amministrativi o esecutivi degli atti a contenuto particolare e concreto[45]: fermo restando il soggiacere di tutte le leggi-provvedimento, statali o regionali, ad un rigoroso scrutinio di legittimità costituzionale teso ad evitare il pericolo di «disparità di trattamento insito in previsioni di tipo particolare o derogatorio»[46].
Ciò posto, nelle materie di cui all’art. 117, comma 2, al legislatore statale può però essere ragionevolmente attribuita la volontà di vietare che la funzione amministrativa regionale venga esercitata in via legislativa[47]. È il caso, ad esempio, della legge n. 157 del 1992 sulla protezione della fauna omeoterma e il prelievo venatorio, che la Corte ritiene oggetti della materia tutela dell’ambiente e dell’ecosistema (di cui all’art. 117, comma 2, lett. s): il divieto di approvare il calendario venatorio attraverso legge regionale è ragionevole in quanto si può supporre che, nella specie, l’attività amministrativa non si esaurisca in un unico atto, ma potrebbe richiedere più atti e la necessaria celerità per adottarli, in caso di esigenze sopravvenute; in tal modo, le forme e i tempi del procedimento legislativo potrebbero costituire un aggravio, in grado di vanificare eventuali obiettivi di pronta regolazione dei casi di urgenza [sent. n. 20, 105, 116][48]. Tale censura di incostituzionalità può anche determinare l’assorbimento di quella formulata contemporaneamente sulla violazione dell’art. 117, comma 2, lett. s, in materia di tutela dell’ambiente [sent. n. 310].
 
 
7. Oggetto e materie
 
Sono note le regole generali per la individuazione della “materia” effettivamente al centro di una questione di legittimità, utile, tale individuazione, agli effetti della ripartizione delle competenze legislative tra Stato e Regioni. Tra queste, la Corte riprende quella che suggerisce di far riferimento «al nucleo centrale della disciplina normativa» in contestazione, in modo da individuare la «concreta ratio» e trascurare «tutti i profili secondari e di dettaglio» della controversia [sent. n. 284][49].
 
 
7.1. Le materie e il ricorso in via principale: alcuni dati quantitativi.
 
Analizzando i dati del giudizio in via principale 2012, considerata la scarsissima incidenza del conflitto tra enti, possono fornirsi taluni dati significativi relativamente ai parametri invocati dallo Stato e dalle Regioni a sostegno dei ricorsi. Deve precisarsi che, sebbene il dato sia rapportato sul totale dei dispositivi resi dalla Corte in tali giudizi, frequente è la presenza di diversi parametri per ciascuna questione risolta con ogni singolo dispositivo, per cui il dato è numericamente ben più alto.
Partendo dall’analisi dai parametri invocati dallo Stato, guardando alla lamentata lesione del riparto di competenze di cui al Titolo V, parte II, Cost., che costituisce il gruppo maggiore di censure, è possibile sottolineare come nella gran parte dei casi il parametro sia dato dall’art. 117, comma 2, Cost.
 

In dettaglio, nelle vicende in cui lo Stato ha lamentato la lesione di una sua potestà esclusiva, la grande maggioranza delle questioni ha avuto a oggetto, come per il 2011, solo tre delle lettere dell’art. 117, comma 2, Cost. e in particolare: la lett. e) (37 casi, concernenti principalmente la tutela della concorrenza), la lett. l) (33 casi, quasi sempre in materia di ordinamento civile) e la lett. s) (45 casi). Tutte, a ben vedere, potestà statali a carattere “trasversale” o comunque in grado d’incidere su diverse competenze regionali.
 

Più vasto del solito il gruppo di materie di competenza concorrente per cui lo Stato ha lamentato la lesione dei principi fondamentali della materia. Tuttavia, come è facile osservare, il coordinamento della finanza pubblica, costituisce di gran lunga la materia più invocata; anche questa una potestà, come si vedrà, a eminente carattere finalistico e, lo si è accennato, le cui finalità sono alla base dei numerosi provvedimenti dettati dalla crisi economica.
 

Da ultimo, riguardo alle altre norme del Titolo V, Parte II, Cost., nonché agli Statuti speciali e relative norme di attuazione, il parametro di gran lunga più invocato è l’art. 117, comma 1, Cost. Non indifferente il dato in cui a parametro del giudizio si siano poste le norme sulle competenze delle autonomie speciali. Appena 3, invece, i casi in cui lo Stato ha fatto valere il mancato rispetto del principio di leale collaborazione.
 

Riguardo alle Regioni, nella maggioranza dei casi i parametri del giudizio invocati non hanno riguardato i commi 2, 3 e 4 dell’art. 117 Cost.
 

L’art. 117, comma 2, Cost, è stato invocato solo in nove occasioni, con riferimento alla lett. g) (3 volte), alla tutela della concorrenza (2 volte) e una volta rispettivamente alla lett. m), alla lett. n) e alla lett. p) (più un caso di generico riferimento all’art. 117, comma 2, Cost.)
Più frequente, come ovvio, che le Regioni lamentino l’invasione da parte dello Stato del proprio spazio di competenza nelle materie di cui all’art. 117, comma 3, Cost. Tra queste, nondimeno, preponderante è l’invocazione del coordinamento della finanza pubblica (64 volte), lamentando le Regioni l’eccessivo dettaglio delle disposizioni di legge statale.
 

Più ampia del solito la rosa delle materie di potestà residuale invocate dalle Regioni, 61, tenendo conto anche di sette volte in cui si è indicato genericamente il parametro dell’art. 117, comma 4, Cost. Spicca in particolare la materia dell’organizzazione regionale o degli uffici regionali (25).
 
 
Il gruppo più consistente, come accennato, è dato dalle vicende in cui la Regione ha invocato la lesione di altre disposizioni del Titolo V o di norme contenute negli statuti speciali e nelle relative disposizioni di attuazione (331). Il dato maggiore riguarda l’art. 119 Cost. (71 casi), l’art.118 Cost. (53 casi) e il principio di leale collaborazione (51). Da segnalare le 14 volte in cui le Regioni hanno lamentato solo una generica violazione dell’art. 117 Cost. Piuttosto ampia anche l’invocazione delle norme di cui agli statuti speciali e alle norme di attuazione.
 
 
A differenza del 2011, l’invocazione di parametri non attinenti al riparto di competenze tra Stato e Regioni assume un rilievo significativo in entrambi i gruppi di parametri. Va rilevato, che sia nel caso di ricorsi statali, sia di ricorsi delle Regioni, prevalgono decisamente le censure alla cui base sono posti gli artt. 3 e 97 della Costituzione. In crescita e assai rilevante, nondimeno, l’invocazione da parte dello Stato dell’art. 81 Cost., spesso posto alla base delle decisioni di illegittimità costituzionale di normative regionali; il che mostra la maggiore incisività del vincolo di copertura di spesa, interpretato in senso rigoroso dalla Corte costituzionale, in conformità a quell’impostazione che ha portato alla novella costituzionale dello stesso art. 81 Cost.[50].
 

 
7.2. Intreccio di più materie e competenze in un unico oggetto

7.2.1. Principi generali
 
Tra i principi utilizzabili in caso di intreccio di più materie e competenze in un unico oggetto, la Corte (come accennato retro, par. 7) riprende quella che suggerisce di far riferimento «al nucleo centrale della disciplina normativa» in contestazione, in modo da individuare la «concreta ratio» e trascurare «tutti i profili secondari e di dettaglio» della controversia [sent. n. 284][51].
Con riguardo specifico all’intreccio di competenze costituzionalmente assegnate a Stato e Regioni, esso può essere sciolto mediante l’applicazione di due criteri alternativi: la prevalenza, quando un complesso normativo prevale rispetto ad altri; o la leale collaborazione, che richiede il coinvolgimento delle Regioni a salvaguardia delle loro competenze[52].
 
 
7.2.2. Casi pratici d’intreccio di competenze e materie
 
La fase di gestione dei materiali e dei rifiuti radioattivi va ascritta alla competenza esclusiva statale in materia di tutela dell’ambiente. Ciò perché da un lato, a fronte di determinazioni di portata ultraregionale, nessuna Regione può sottrarsi in modo unilaterale ai conseguenti inderogabili oneri nazionali di solidarietà economica e sociale; dall’altro, perché per la gestione dei rifiuti occorre tener conto della necessità di individuare siti particolarmente idonei per conformazione del terreno e possibilità di collocamento in sicurezza. Tuttavia, va rilevato come la gestione dei rifiuti radioattivi coinvolga anche attività riconducibili alla materia concorrente governo del territorio: sicché si rende costituzionalmente necessario un coinvolgimento, attraverso opportune forme di collaborazione, della Regione eventualmente interessata alla installazione di depositi nel suo territorio[53] [sent. n. 54].
Il d. lgs. n. 79 del 2011, noto come Codice del turismo, incide in misura prevalente sugli ambiti materiali di competenza «esclusiva» (sic) regionale in tema di turismo e di commercio, ma interferisce pure con ambiti rimessi alla competenza esclusiva dello Stato, tra cui quello riconducibile alla materia ordinamento civile[54]: tale ultima circostanza, tuttavia, data la prevalenza delle competenze regionali, impone al Parlamento di delegare il Governo ad esercitare la funzione legislativa circoscrivendo con precisione gli ambiti di intervento nel settore [sent. n. 80].
La disposizione statale (art. 19, comma 5, d. l. n. 98 del 2011, come modificato dall’art. 4, comma 69, legge n. 183 del 2011) che prevede la reggenza dei dirigenti scolastici di altri istituti nelle istituzioni scolastiche aventi un numero di alunni inferiore a 600 (o 400 per le istituzioni site nelle piccole isole, nei comuni montani e nelle aree geografiche caratterizzate da specificità linguistiche), non è censurabile di incostituzionalità in quanto, pur incidendo «in modo significativo sulla rete scolastica», oggetto della materia concorrente istruzione, rientra nella materia ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali, di cui all’art. 117, comma 2, lett. g [sent. n. 147].
L’attività agrituristica, pur riconducibile in via immediata alle materie agricoltura e turismo (di competenza regionale residuale), interferisce con altre materie di competenza statale, sia esclusiva sia concorrente[55]. Nella specie, al governo del territorio (di competenza concorrente), di cui costituisce principio fondamentale, va ricondotto l’obbligo di utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse normalmente impiegate nell’attività agricola in luogo di nuovi fabbricati: la ratio di tale principio, al cui rispetto sono obbligate le Regioni, è quella di non consentire edificazioni nuove, e prevenire cosi il sorgere di attività puramente turistiche che snaturerebbero i territori agricoli e usufruirebbero di agevolazioni fiscali previste solo per le autentiche attività ricettive impiantate su attività prevalentemente agricole [sent. n. 96].
La SCIA – Segnalazione Certificata di Inizio Attività, anche quando ha ad oggetto procedimenti in materia di edilizia, è istituto riconducibile alla tutela dei livelli essenziali delle prestazioni, di cui all’art. 117, comma 2, lett. m (v. infra, par. 8.9), ma interseca anche altre materie, tra le quali il governo del territorio, in un concorso di competenze che vede tuttavia prevalere la competenza esclusiva dello Stato [sentt. nn. 164, 203].
La disciplina delle attività delle onoranze funebri svolte in piccoli Comuni montani può ricondursi alla competenza regionale in materia di tutela della salute e servizi pubblici locali ma intreccia anche la tutela della concorrenza, di competenza statale. Tuttavia, una deroga al regime di incompatibilità della gestione del servizio cimiteriale e obitoriale con lo svolgimento dell’attività funebre, non esistendo un mercato tale da consentire una reale competizione di più operatori commerciali, rende recessiva la seconda a vantaggio delle prime, e dunque della competenza regionale [sent. n. 274].
Un intervento teso all’ammodernamento e alla razionalizzazione della rete dei distributori di carburante sul territorio nazionale, che comporta la necessità di chiusura degli impianti incompatibili con gli obiettivi di efficienza della distribuzione in linea con l’«erogato medio europeo», pur avendo attinenza alla materia commercio di competenza regionale residuale, intreccia la distribuzione dell’energia, di competenza concorrente[56]; sono inoltre coinvolti «altri interessi» attinenti al governo del territorio, alla tutela dell’ambiente, alla circolazione e sicurezza stradale e alla tutela dei beni di interesse storico e architettonico, ovvero a competenze sia concorrenti sia esclusive statali. In tale «contesto normativo», nel quale si collocano i provvedimenti statali volti alla chiusura degli impianti, la materia commercio deve considerarsi recessiva, e la censura di incostituzionalità sugli interventi statali non fondata [sent. n. 183].
Le misure di compartecipazione ai costi dell’assistenza farmaceutica attengono tanto ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali quanto al coordinamento della finanza pubblica e alla tutela della salute, oggetto della potestà legislativa concorrente. Nella disciplina del ticket, l’«intreccio» e la «sovrapposizione di materie» non rendono tuttavia possibile «individuarne una prevalente»[57], né tracciare una «precisa linea di demarcazione» tra le competenze[58] [sent. n. 187]. E, sebbene non esplicitato dalla Corte, rappresenta un caso di intreccio di competenze anche il «fenomeno» della assegnazione delle farmacie: è qui preponderante la materia tutela della salute, in quanto il fine è quello di assicurare e controllare l’accesso dei cittadini ai medicinali[59]; tuttavia, pur in forma marginale, insistono in argomento la materia delle professioni e del commercio e, ancor più, il principio del concorso pubblico di cui all’art. 97 Cost., cui le Regioni, e qui è il punto, possono derogare in caso di evidente esistenza nel proprio territorio di esigenze di regolarizzazione e/o stabilizzazione di gestioni precarie di sedi farmaceutiche, protrattesi nel tempo [sent. n. 231].
Nella disciplina del condono edilizio convergono la competenza esclusiva statale in materia di sanzioni penali e la competenza concorrente nella materia governo del territorio[60](v. infra, par. 9.5). Sono così di competenza regionale le decisioni in ordine alla determinazione di volumi inferiori sottoponibili a sanatoria, nonché la specificazione delle disposizioni dettate dal legislatore statale sul versante amministrativo [sent. n. 225].
In linea generale, le materie “trasversali” intrecciano per loro stessa natura altre competenze. La materia tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, ad esempio, inerisce ad un interesse pubblico di valore costituzionale primario ed assoluto[61], in grado di limitare la discrezionalità legislativa che tutte le Regioni e le Province autonome esercitano nelle materie di loro competenza[62] (v. infra, par. 8.9); stesso dicasi per la tutela della concorrenza (v. infra, par. 8.2.1) e per la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale  (v. infra, par. 8.6).


8. Potestà esclusiva statale  

8.1. Art. 33 Cost.

Insieme ad altri parametri, l’art. 33, comma 6, Cost. viene a volte chiamato in causa dalla giurisprudenza costituzionale. È il caso del coordinamento della finanza pubblica e della tutela della salute, declinata quest’ultima come organizzazione sanitaria: quando la disciplina dell’organizzazione del Servizio sanitario regionale investe anche le aziende ospedaliero-universitarie, le Regioni non possono agire unilateralmente senza il coinvolgimento delle università afferenti (cfr. infra, parr. 9.4 e 12.2).
 
 
8.2. Tutela della concorrenza; sistema tributario e contabile dello Stato (lett. e)
 
8.2.1. Tutela della concorrenza
 
Non poche, e non poco importanti, le pronunce del 2012 in materia di tutela della concorrenza.
Il concetto di cui all’art. 117, comma 2, lett. e, Cost., non può che riflettere la nozione operante in ambito comunitario e presenta un contenuto complesso, ricomprendendo non solo le misure antitrust ma anche le azioni di liberalizzazione finalizzate ad incidere sulla concorrenza “nel mercato” e “per il mercato”, in coerenza con gli sviluppi ormai consolidati nell’ordinamento internazionale ed europeo [sentt. nn. 200, 291][63]. Dato, inoltre, l’ormai noto carattere finalistico, ha una portata «più generale e trasversale», non preventivamente delimitabile, da valutare in concreto quando sia lo Stato sia le Regioni esercitano la rispettiva potestà legislativa[64] [sentt. n. 291, 299]. In particolare, la valutazione dell’eventuale invasione delle competenze regionali da parte dello Stato, che potrebbe conseguire anche da una dilatazione oltre misura del concetto di trasversalità, non va tuttavia valutata alla luce della distinzione tra norme di principio e norme di dettaglio, ma solo con la rigorosa verifica della effettiva funzionalità delle norme statali rispetto alla tutela della concorrenza: la quale, per sua natura, pur potendo consentire limitate misure di livello regionale[65], non può generalmente tollerare differenziazioni territoriali [sent. n. 299].
Da tali presupposti, già in passato più o meno acquisiti alla sua giurisprudenza, la Corte muove per entrare nello specifico dei singoli casi.
Così, il principio teorico posto alla base della liberalizzazione delle attività economiche, secondo il quale nell’ambito di tali attività «è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge», oggi codificato nell’ordinamento italiano con l’art. 3, comma 1, d. l. n. 138 del 2011 (convertito con modificazioni dalla legge n. 148 del 2011) è un principio pienamente riconducibile alla materia de qua. In quanto di portata generale, è inevitabile che esso investa numerose materie di competenza regionale, nell’ambito delle quali quelle attività economiche possono sorgere e svilupparsi (si pensi al commercio, alle attività produttive, alla tutela della salute, al governo del territorio), circostanza che potrebbe fondare varie eccezioni di incostituzionalità. Tuttavia, essendo il principio stesso accompagnato dalla possibilità di subire limitazioni e restrizioni in nome di interessi di rango costituzionale, oltre che di ulteriori interessi elencati dallo stesso art. 3, comma 1, non mostra elementi di incoerenza con il quadro costituzionale [sent. n. 200]. La liberalizzazione ad esso sottesa va interpretata infatti come una «razionalizzazione della regolazione»: Stato e Regioni dovranno adoperarsi affinché si elimini una regolazione del mercato ingiustificatamente intrusiva, non necessaria alla tutela di beni costituzionalmente protetti, la quale genera «inutili ostacoli alle dinamiche economiche» [sentt. nn. 200, 299]. Tale ultima operazione, però, non può essere effettuata con un’unica disposizione statale, nella specie l’art. 3, comma 3, dello stesso d. l. n. 138 del 2011, che preveda l’automatica «soppressione» di tutte le norme statali incompatibili col principio citato: lo vieta la portata incerta ed indefinibile di una disposizione siffatta, anche per quanto concerne le ricadute sulla legislazione regionale e il sistema da essa creato nelle varie materie in unione con la legislazione statale; essa è da giudicare pertanto illegittima, in quanto viziata sotto il profilo della ragionevolezza [sent. n. 200].
In attuazione dei tale principio di liberalizzazione, l’esito dell’approvazione dell’art. 31 del d. l. n. 201 del 2011, che determina una quadro normativo ai sensi del quale le attività commerciali non possono più incontrare limiti o prescrizioni relative a orari e giornate di apertura (rimessi al libero apprezzamento dell’esercente), rappresenta una misura pro-concorrenziale, in quanto tale non censurabile di incostituzionalità: favorisce infatti, a beneficio dei consumatori, la creazione di un mercato più dinamico e più aperto all’ingresso di nuovi operatori. Tale disposizione vale sia nei confronti delle Regioni ordinarie che speciali, laddove la competenza primaria in materia di commercio è recessiva davanti alla natura trasversale della competenza statale sulla tutela della concorrenza [sent. n. 299].
Pur in un’ottica di massima liberalizzazione delle attività economiche, l’ordinameno comunitario e nazionale consentono tuttavia di mantenere regimi autorizzatori per «motivi imperativi di interesse generale», recepiti ad esempio nell’ordinamento italiano (d. lgs. n. 59 del 2010, art. 14) con il mantenimento di procedure di selezione per l’accesso al mercato, in quei settori dove il numero delle autorizzazioni concedibili sia limitato dalla scarsità delle risorse naturali o dalle capacità tecniche disponibili. Come accennato (v. retro, par. 7.2.2), a tali procedure non possono derogare le Regioni: è dunque illegittima una legge regionale che, in virtù di un generico richiamo a propri «motivi imperativi di interesse generale», escluda le procedure selettive di accesso al mercato non introducendo una procedura concorsuale alternativa, perché così stabilendo essa opera in termini anticoncorrenziali ponendosi, non consentendo la selezione degli operatori commerciali più qualificati, in contrasto con la normativa statale e, ancor prima, con quella comunitaria cui il legislatore nazionale ha dato attuazione [sent. n. 291].  Peraltro, in tema di qualificazione e selezione dei concorrenti ad una procedura (nella specie, ad una gara d’appalto), le Regioni non possono prevedere una disciplina diversa da quella statale. Tale, e dunque illegittima, è una previsione di legge regionale che ritenga criterio di ammissibilità delle offerte, e non criterio di valutazione delle stesse (come invece da normativa statale), il rispetto di criteri connessi con la tutela della salute e della sicurezza nei cantieri [sent. n. 52].
Si riconferma la natura di servizio di rilevanza economica del servizio idrico integrato, con la conseguente illegittimità di norme regionali che prevedano l’affidamento delle concessioni per l’uso di acque pubbliche al di fuori delle procedure di gara a evidenza pubblica, prevista dalla normativa statale[66]. Ulteriore conseguenza è che anche la disciplina delle Autorità d’ambito territoriale ottimale attiene alla tutela della concorrenza[67], sebbene coinvolta risulti anche l’ulteriore potestà statale sulla tutela dell’ambiente: lo Stato, pertanto, ha avuto piena facoltà di disporre la soppressione delle Autorità d’ambito, ancorché ciò non significhi che alle Regioni sia vietato qualsiasi intervento al riguardo, ivi compresa la discrezionalità nello scegliere i moduli organizzativi più adeguati a garantire l’efficienza del servizio, nonché le forme di cooperazione fra i diversi enti territoriali interessati[68]. La soppressione delle AATO, tuttavia, non comporta la soppressione della funzione di deliberare le forme di gestione del servizio idrico integrato, assegnandola però nel rispetto dei principi vigenti nel diritto dell’Unione europea: così, alla legge regionale spetta soltanto di disporre l’attribuzione delle funzioni delle soppresse Autorità in applicazione dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, e non anche il provvedere direttamente all’esercizio di tali funzioni, affidandone la gestione a un soggetto determinato [sent. n. 62].
Ed è illegittima anche una norma regionale che preveda il rinnovo automatico trentennale delle concessioni di derivazioni di acqua, in quanto violano il principio di temporaneità e di concorrenza, impedendo l’accesso di altri potenziali operatori al mercato [sent. n. 114][69].
In generale, una legge di una Regione non può imporre tariffe minime ad alcuni professionisti (nel caso di specie: maestri di sci) che, provenienti da altra Regione, svolgono la propria attività nel suo territorio: ciò perché la misura riduce la scelta tra le tariffe esistenti sul mercato, ostacolando la libera esplicazione dell’attività professionale ed incidendo, così, sulla tutela della concorrenza [sent. n. 219].
È illegittima anche una disciplina regionale (anche di Regione ad autonomia speciale) che, seppur riconducibile alla materia commercio (di competenza residuale), produca ostacoli alla libera concorrenza e alla esplicazione della capacità imprenditoriale. Tale è una norma regionale (nella specie, della Sardegna) che subordini la cessione di attività commerciali su aree pubbliche al decorso di un triennio dalla data del rilascio dell’apposito titolo abilitativo, sebbene essa possa ridurre la spinta all’acquisizione di tali titoli e all’avvio di attività commerciali al solo fine di ricavarne, immediatamente, un profitto attraverso l’alienazione: l’obiettivo non rientra tra le ragioni di pubblico interesse che, ai sensi della normativa comunitaria (art. 16, direttiva 2006/123/CE), possono giustificare l’imposizione di quella che pertanto ridonda in una restrizione al principio della libera circolazione dei servizi [sent. n. 18].
Non è invece riconducibile alla tutela della concorrenza, nonostante l’autoqualificazione in tal senso contenuta nel d. l. n. 78 del 2010 (art. 49, comma 4-ter), la normativa sulla SCIA - Segnalazione Certificata di Inizio Attività [sent. n. 164]; la sua attinenza alla materia qui in esame va se mai verificata in concreto di volta in volta: ciò, in quanto presenta un ambito applicativo diretto alla generalità dei cittadini e che va oltre la materia della concorrenza, anche se è ben possibile che vi siano casi nei quali quella materia venga in rilievo [sent. n. 203].
Infine, può accadere che una disciplina regionale interferisca solo in via marginale ed indiretta sulla tutela della concorrenza, in quanto in alcuni particolari tipi di servizi e luoghi nei quali essi siano svolti può non esistere un mercato tale da consentire una reale competizione di più operatori commerciali: è il caso delle attività delle onoranze funebri svolte in piccoli Comuni montani, laddove una deroga disposta con legge regionale al regime di incompatibilità della gestione del servizio cimiteriale e obitoriale con lo svolgimento dell’attività funebre non è censurabile di incostituzionalità per violazione della competenza statale esclusiva in esame, circostanza che determina la piena espansione della competenza regionale in materia di tutela della salute e di servizi pubblici locali [sent. n. 274].
 
 
8.2.2.   Sistema tributario e contabile dello Stato
 
Una delle distinzioni fondamentali da tener presente in argomento è quella tra i tributi propri delle Regioni, che esse istituiscono con proprie leggi in relazione a presupposti non assoggettati già ad imposizione erariale (cfr. art. 7, comma 1, legge n. 42 del 2009), e i tributi propri derivati, istituiti invece con leggi statali, il cui gettito è attribuito alle Regioni; in tale secondo caso, solitamente, queste ultime dispongono di un margine più o meno ampio di intervento quanto alle aliquote, alle esenzioni o alle detrazioni secondo, tuttavia, criteri fissati dalla legislazione statale.
In argomento, l’art. 8 del d. lgs. n. 68 del 2011 ha provveduto alla trasformazione di un’ampia serie di tributi statali in tributi propri regionali, ancorché accompagnandola da non poche deroghe che, di fatto, in molti casi non escludono del tutto l’intervento statale. Alla luce di tale distinzione e di tali deroghe, la tassa automobilistica regionale non ha acquisito la natura di tributo regionale proprio: è pertanto illegittima una legge regionale che ne escluda la sospensione del pagamento in caso di fermo amministrativo o giudiziario del veicolo o dell’autoscafo, in quanto tale esclusione non è prevista dalla normativa statale [sent. n. 288]. E, in argomento, l’addizionale erariale prevista sulle tasse automobilistiche introdotta nel 2011, pur innestandosi su un «tributo proprio della Provincia» di Trento, resta un prelievo erariale, disposto dallo Stato nell’esercizio della sua potestà legislativa esclusiva in materia di sistema tributario dello Stato (v. anche infra, par. 13.2) [sent. n. 142].
La Corte ribadisce che la legge regionale non può prevedere agevolazioni tributarie nella forma del credito di imposta, se non ne limita esplicitamente l’applicabilità ai soli tributi regionali propri (cioè, come visto poco fa, istituiti e disciplinati dalla Regione): la residua, possibile applicabilità delle agevolazioni ai tributi erariali rende illegittima la legislazione regionale, con affermazione che vale anche per le autonomie speciali, qualora le norme dei rispettivi Statuti non consentano interpretazioni diverse [sent. n. 30]. Per le Regioni ordinarie vale l’assunto generale già ricordato, secondo il quale quando un tributo è “derivato” non esiste alcuno spazio legislativo appannaggio delle Regioni al di fuori di quello previsto (nella specie, in tema di determinazione delle aliquote) dalla stessa legislazione statale[70] [sent. n. 32].
Come già precisato dalla Corte, l’IRAP - Imposta Regionale sulle Attività Produttive - anche dopo la sua regionalizzazione, non è un “tributo proprio” delle Regioni: resta, al contrario, un tributo che lo Stato può regolare compiutamente, circoscrivendo con precisione gli ambiti di intervento del legislatore regionale[71]. Così, proprio in virtù della natura statale dell’IRAP, le Regioni non possono imporre alle ONLUS - Organizzazioni Non Lucrative di Utilità Sociale - , al fine di beneficiare dell’esenzione dall’imposta, l’obbligo di comunicazione attestante il loro diritto all’esenzione stessa, pena la perdita del beneficio [sent. n. 99]. Allo stesso modo, disponendo la legislazione nazionale che fino al 2013 le Regioni non possono modificare le basi imponibili finalizzate a calcolare l’entità dell’imposta in questione, è illegittima una legge regionale che introduca ipotesi di deduzione (per contrasto con l’art. 117, comma 2, lett. e, Cost.) [sent. n. 50].
Le Province autonome di Trento e Bolzano, invece, nelle ipotesi in cui il gettito di un tributo erariale sia interamente loro devoluto, e qualora la legge statale consenta margini di manovra, possono, ai sensi dell’art. 73, comma 1-bis dello Statuto del Trentino - Alto Adige, introdurre esenzioni all’addizionale regionale dell’IRPEF, purché essa non superi il limite delle «aliquote superiori» fissate dalla legge statale [sent. n. 2].
Quando infine una norma statale consente alle Regioni di istituire una tassa di concessione per un oggetto di competenza regionale, le stesse non possono aggiungere, nell’ambito della procedura concessoria, altre forme di imposizione senza violare l’art. 117, comma 2, lett. e, Cost.: e la situazione di illegittimità non è sanata nemmeno qualora fosse prevista l’esecuzione di altre prestazioni, in alternativa all’imposizione aggiunta [sent. n. 33].
 
 
8.3.Ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali (lett. g)
 
I dirigenti scolastici sono dipendenti pubblici statali e non regionali. La circostanza comporta che la disposizione statale (art. 19, comma 5, d. l. n. 98 del 2011, come modificato dall’art. 4, comma 69, legge n. 183 del 2011) che prevede la reggenza dei dirigenti scolastici di altri istituti nelle istituzioni scolastiche aventi un numero di alunni inferiore a 600 (o 400 per le istituzioni site nelle piccole isole, nei comuni montani e nelle aree geografiche caratterizzate da specificità linguistiche), dove pertanto non possono essere assegnati nuovi dirigenti a tempo indeterminato, non sia censurabile di incostituzionalità pur incidendo «in modo significativo sulla rete scolastica», oggetto della materia concorrente istruzione: ciò in quanto, a sostegno di tale interpretazione, la norma sospettata di incostituzionalità in realtà non sopprime i posti di dirigente, ma si limita a stabilirne un diverso modo di copertura [sent. n. 147].
Stesso dicasi per il personale ATA della scuola, dalla Corte già ritenuto personale alle dipendenze dello Stato[72]: non invade nessuna competenza regionale, pertanto, la normativa statale finalizzata a revisionarne le dotazioni organiche [sent. n. 279].
Le Regioni, infine, non possono prevedere forme di coordinamento della propria attività, o di quella di agenzie da esse stesse istituite, che coinvolgono attribuzioni dello Stato [sent. n. 34], né incidere nella disciplina della dotazione finanziaria di un organo della sua amministrazione, qual è il Commissario delegato per la ricostruzione successiva al terremoto in Abruzzo [sent. n. 32] o individuare nuovi compiti (nella specie, per una Autorità marittima) da svolgere a cura di soggetti appartenenti all’organizzazione statale e non regionale [sent. n. 159].
 
 
8.4. Ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale (lett. h)
 
Secondo la giurisprudenza della Corte, la materia della sicurezza riguarda gli interventi finalizzati alla prevenzione dei reati, e al mantenimento dell’ordine pubblico inteso come il complesso dei beni giuridici fondamentali e degli interessi pubblici primari sui quali si fonda l'ordinata e civile convivenza nella comunità nazionale[73].
È illegittima, dunque, la costituzione a livello regionale di una Agenzia per i beni confiscati alle organizzazioni criminali, in quanto viene violato l’ambito di competenza esclusiva statale nella materia in esame, in tal caso rilevando anche l’opportunità a che la gestione dei beni confiscati e riassegnati avvenga in maniera unitaria sul territorio nazionale [sent. n. 34] e si vigili sulla corretta utilizzazione di essi da parte degli assegnatari [sent. n. 234]. Lo Stato, nella gestione del procedimento di assegnazione dei beni oggetto di confisca definitiva di prevenzione, esercitando la propria competenza esclusiva in materia di «ordine pubblico», non è sottoposto all’obbligo di attivare meccanismi concertativi con le Regioni [sent. n. 234].
E illegittima è anche una legge regionale che detti disposizioni sul conto corrente dedicato, ovvero una misura per la gestione trasparente dei finanziamenti pubblici da parte dei soggetti privati che beneficiano degli stessi: seppure la promozione della legalità, in quanto tesa alla diffusione dei valori di civiltà e pacifica convivenza su cui regge la Repubblica, non sia attribuzione monopolistica, le Regioni non possono implementare strumenti di politica criminale in uno spazio già occupato da strumenti dettati dalla legislazione statale [sent. n. 35].

 
8.5. Giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa (lett. l)
 
8.5.1. Ordinamento civile e penale
 
Canone ermeneutico generale richiamato di nuovo dalla Corte, «l’ordinamento del diritto privato si pone quale limite alla legislazione regionale in quanto fondato sull’esigenza, sottesa al principio costituzionale di eguaglianza, di garantire nel territorio nazionale l’uniformità della disciplina dettata per i rapporti tra privati. Il limite dell’ordinamento privato, quindi, identifica un’area riservata alla competenza esclusiva della legislazione statale e comprende i rapporti tradizionalmente oggetto di codificazione»[74] [sent. n. 273]. Sul principio così ribadito sono state impostate le numerose decisioni adottate sulla base dell’art. 117, comma 2, lett. l, Cost.
È stata pertanto dichiarata l’illegittimità di leggi regionali che prevedano l’impignorabilità di beni presenti e futuri ulteriori rispetto a quelli indicati dalla legislazione statale in relazione a particolari debitori, nella specie consorzi di bonifica: ciò rappresenta infatti una limitazione (che colpisce i creditori soltanto di tali soggetti) al soddisfacimento patrimoniale delle (proprie) ragioni patrimoniali, incompatibile col principio declinato dalla Corte nel modo di cui all’inizio del presente paragrafo [sent. n. 273].
Con riguardo alla materia degli appalti, se la fase della procedura ad evidenza pubblica rientra nell’ambito della tutela della concorrenza (v. retro, par. 8.2.1) e se l’attività successiva a carattere esecutivo può ancora consentire all’amministrazione l’esercizio di poteri pubblici[75], quella negoziale, invece, va ascritta all’ordinamento civile: essa, infatti, si sostanzia nella stipulazione del contratto d’appalto, laddove l’amministrazione agisce non nell’esercizio di poteri amministrativi, bensì della propria autonomia negoziale[76] [sent. n. 74].
Come ormai noto, nella materia ordinamento civile rientrano gran parte delle disposizioni concernenti il rapporto di lavoro subordinato presso le pubbliche amministrazioni (con il relativo rinvio alla contrattazione collettiva), oggetto di riserva a favore dello Stato[77]. La disciplina della fase costitutiva del contratto di lavoro, così come quella del rapporto che sorge per effetto della conclusione dello stesso, infatti, si realizzano mediante la stipula di un contratto di diritto privato e, pertanto, appartengono alla materia in esame[78]. E di solito, in materia di lavoro presso le pubbliche amministrazioni, tale parametro costituzionale prevale nettamente nelle decisioni su tutti quelli invocati dalle ricorrenti, comportando l’assorbimento delle questione ad essi connesse [sent. n. 290]. Va tuttavia tenuta presente la seguente puntualizzazione: se l’impiego pubblico regionale deve ricondursi, per i profili organizzativi del rapporto, come ad esempio l’orario di lavoro e le turnazioni del personale [sent. n. 256], o il riconoscimento di indennità aggiuntive per il personale regionale degli enti locali [sent. n. 290][79], alla competenza esclusiva statale nella materia de qua, possono darsi profili «pubblicistico-organizzativi» che sono invece riconducibili all’ordinamento e all’organizzazione amministrativa regionale, oggetto di competenza residuale e dunque disciplinabili oltre che dalle leggi anche dagli statuti ordinari [sentt. nn. 63 e 149].
Rientra ancora nel primo caso (disciplina del personale riconducibile all’ordinamento civile) l’imposizione dettata dallo Stato (con l’art. 9, comma 29, d. l. n. 78 del 2010) riguardo le società partecipate dalle pubbliche amministrazioni, che sono soggetti di diritto privato, di ridurre a partire dal 2011 del 50% (rispetto all’anno 2009) il ricorso alle assunzioni a tempo determinato, ai contratti di collaborazione coordinata e continuativa e ai contratti di formazione-lavoro: disposizione non censurabile, in quanto la disciplina di tali società (enti di diritto privato) è riconducibile alla materia ordinamento civile [sentt. nn. 173, 212]; sul punto, le Regioni nemmeno possono intervenire prorogando i contratti in essere, senza limiti temporali certi per la revisione della pianta organica e l’indizione delle procedure ad evidenza pubblica necessarie a coprire i posti resisi vacanti [sent. n. 289].
Allo stesso modo, stabilire l’obbligatoria conversione dei contratti a tempo parziale in contratti a tempo pieno, alternando dunque il contenuto di contratti già in essere, viola l’art. 117, comma 2, lett. l, Cost. [sent. n. 141].
Non è censurabile la norma statale (art. 9, comma 3, d. l. n. 78 del 2010) che riguarda il trattamento economico dei dirigenti impiegati nelle amministrazioni pubbliche, e che impone in ogni caso (ovvero, anche in quello dei dirigenti regionali) che il loro trattamento economico remuneri tutta l’attività svolta, ivi compresa quella connessa allo svolgimento di incarichi aggiuntivi [sent. n. 173], nonché la successiva norma (art. 9, comma 4), che impone un limite massimo agli aumenti retributivi fissabili in sede di contrattazione collettiva per il biennio 2008-2009: entrambe rientrano nella competenza statale esclusiva de qua, e non sono pertanto censurabili dalle Regioni, nemmeno speciali [sent. n. 215]. Peraltro, tali norme resistono anche ad un raffronto con l’art. 39, Cost., in quanto la contrattazione collettiva, cui le determinazioni del trattamento economico sono rimesse, si svolge sempre entro i limiti generali di compatibilità con le finanze pubbliche se, come sempre avviene, è la legge a fissare ogni volta le risorse destinate a finanziare i rinnovi contrattuali nel pubblico impiego [sent. n. 215].
Non è censurabile di incostituzionalità l’importante norma statale (art. 8, commi 1, 2 e 2-bis, d. l. n. 138 del 2011) che introduce la possibilità di specifiche intese a livello aziendale e/o territoriale in grado di derogare, per alcuni aspetti specifici dell’organizzazione del lavoro e della produzione, a leggi statali o regionali e ai contratti collettivi nazionali: ciò, in quanto anche questa «contrattazione collettiva di prossimità» è destinata ad agire su aspetti che appartengono alla competenza esclusiva statale de qua [sent. n. 221].
Eccede invece la propria competenza, e i principi in materia di pubblico concorso (v. infra, par. 10.2), una legge regionale che stabilizzi gli LSU - Lavoratori Socialmente Utili, in quanto la trasformazione del contratto di lavoro, che ad oggi è un contratto di diritto privato, è attività che incide sulla materia ordinamento civile [sent. n. 51][80], ancorché a volte in argomento possa prevalere il limite rappresentato dai principi di coordinamento della finanza pubblica [sent. n. 211]. In ogni caso, le Regioni non possono predisporre un progetto di inserimento occupazionale che preveda di inquadrare stabilmente gli LSU all’interno delle proprie strutture o di quelle degli enti locali, senza indicare la quota massima di posti a loro destinati, pari al massimo al 30% dei posti previsti, secondo quanto indicato dalla normativa statale (art. 12, comma 4, d. lgs. n. 468 del 1997) [sent. n. 99].
La competenza statale de qua è lesa anche nel caso degli inquadramenti del personale, riservata anch’essa alla contrattazione collettiva: è illegittima pertanto una norma di legge regionale che istituisca una corrispondenza (con equivalenza di trattamento giuridico, economico e indennitario) della posizione di responsabile di segreteria particolare con la categoria D3, mutuata dal contratto collettivo del comparto delle Regioni e Autonomie locali [sent. n. 213].
Anche il regime della proprietà pubblica è aspetto rientrante nell’ambito dell’ordinamento civile. Per tale motivo, Regioni e Province autonome non possono prevedere la cessione a un soggetto privato di beni demaniali: è il caso del regime proprietario delle infrastrutture idriche (impianti, reti e altre dotazioni destinate all’esercizio dei servizi di acquedotto, fognature e depurazione), inalienabili se non nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge statale [sent. n. 114][81].
Rientra ancora nella materia ordinamento civile, con relativa impossibilità di censura da parte delle Regioni, quella permanente modifica al diritto societario (d. l. n. 78 del 2010, art. 14, comma 32, s.m.i.) in base alla quale nessun ente territoriale (a prescindere cioè dal grado di “virtuosità” dal punto di vista finanziario) con popolazione fino a 30.000 abitanti può più costituire nuove società di diritto privato [sent. n. 148].
Anche le norme in materia di distanze tra gli edifici rientrano nella materia ordinamento civile, ma possono coinvolgere competenze in materia di governo del territorio: affinché si versi in tale seconda ipotesi, tuttavia, le Regioni o le Province autonome che introducano deroghe alle distanze stabilite dalla normativa statale devono farlo nell’ambito di un riassetto complessivo ed unitario di determinate zone del proprio territorio, e non relativamente ad edifici confinanti, isolatamente considerati [sent. n. 114].
La Corte, infine, ribadisce l’afferenza a tale materia della formazione “continua” (o “interna”, nella terminologia della Corte), vale a dire quella che i datori di lavoro offrono in ambito aziendale ai propri dipendenti, in quanto, data la sua intima connessione con il sinallagma contrattuale (espresso nel rapporto di lavoro), attiene per l’appunto all’ordinamento civile ed è perciò di competenza esclusiva statale [sent. n. 287].
Con riguardo all’ordinamento penale, la Corte ribadisce che le Regioni non dispongono di alcun titolo ad introdurre, rimuovere o variare con proprie leggi le pene previste dalle leggi dello Stato[82]. Alle leggi (o agli statuti: v. retro, par. 3) regionali, tuttavia, non è precluso concorrere a precisare secundum legem alcuni presupposti d’applicazione di norme penali (statali), attività possibile ovviamente nell’ambito delle proprie competenze: possono perciò identificare ipotesi di segreto d’ufficio inerenti l’attività svolta dall’amministrazione regionale e le correlate ipotesi di esonero dallo stesso, incidendo sull’applicazione della sanzione penale posta dal legislatore statale all’art. 326, cod. penale [sent. n. 63].
 
 
8.6. Determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (lett. m) 
 
La competenza di cui alla lett. m, come noto ormai da oltre un decennio, attribuisce al legislatore statale lo strumento per garantire il mantenimento di una adeguata uniformità di trattamento sul piano dei diritti di tutti i soggetti, pur in un ordinamento caratterizzato da autonomia regionale e locale. Tale finalità è perseguibile se la disposizione la si interpreti non come riferibile ad una materia in senso stretto quanto, piuttosto, ad una competenza trasversale idonea ad investire tutte le materie, laddove si presenti in concreto l’esigenza di prestazioni pubbliche garanti di quella uniformità[83].
La Corte ha ribadito nel 2012 come anche l’attività amministrativa possa assurgere alla qualifica di “prestazione” della quale lo Stato è competente a fissare un livello essenziale, uniforme su tutto il territorio nazionale. Tutti i destinatari delle leggi della Repubblica, cioè, hanno il diritto di fruire, in condizioni di parità in tutto il territorio, quindi in tutte le Regioni, ivi comprese quelle ad autonomia speciale, di una procedura uniforme nell’esame delle proprie istanze [sent. n. 207].
Rientra così nella disposizione costituzionale de qua la SCIA – Segnalazione Certificata di Inizio Attività, in linea con l’autoqualificazione, peraltro priva di efficacia vincolante come tutte le autoqualificazioni [sentt. nn. 179, 200, 207, 287][84], espressa all’art. 49, comma 4-ter, d. l. n. 78 del 2010: ciò, in quanto l’istituto è finalizzato all’esigenza di semplificazione dell’azione amministrativa che, ormai da tempo radicata nell’ordinamento italiano, è altresì di diretta derivazione comunitaria (Direttiva 2006/123/CE) e va catalogata tra i principi fondamentali dell’azione amministrativa[85]. Si tratta, in particolare nel caso della SCIA, di una «prestazione specifica», caratteristica imprescindibile per l’invocazione del parametro costituzionale in esame [sent. n. 296][86], finalizzata a tutelare il diritto degli interessati ad un sollecito esame da parte di un’Amministrazione dei presupposti che autorizzano le loro iniziative. Non rileva dunque il fatto che essa, sostituendo la DIA – Dichiarazione d’Inizio Attività, di fatto interviene in una molteplicità di intrecci normativi composti da legislazione pregressa sia statale sia regionale (legislazione coinvolgente materie quali la tutela della salute, l’ordinamento degli uffici regionali, l’artigianato o il commercio) [sentt. nn. 164, 203][87].
Stesso dicasi per la SCIA in materia edilizia, dove interseca la materia governo del territorio, di competenza concorrente: ma, in virtù della natura dell’istituto e del criterio della prevalenza, deve comunque privilegiarsi la sua riconduzione all’art. 117, comma 2, lett. m, pur ribadendo che la Segnalazione non si sostituisce al permesso di costruire, i cui ambiti applicativi restano quelli indicati al D.P.R. n. 380 del 2011 [sentt. nn. 164, 203]. La riconduzione della SCIA al parametro costituzionale de qua e la necessità di una disciplina uniforme su tutto il territorio nazionale impongono la sua applicazione anche agli enti ad autonomia speciale [sent. n. 203].
Per quanto concerne i livelli essenziali delle prestazioni in materia di servizi sociali (LIVEAS o LEPS), si rinvia al paragrafo dedicato a questi ultimi (par. 10.1).
Da ricordare (cfr. anche retro, par. 7.2.2) che le misure di compartecipazione ai costi dell’assistenza farmaceutica attengono sia ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che al coordinamento della finanza pubblica e alla tutela della salute, oggetto della potestà legislativa concorrente. Nella disciplina del ticket, l’«intreccio» e la «sovrapposizione di materie» non rendono possibile «individuarne una prevalente»[88], né tracciare una «precisa linea di demarcazione» tra le competenze[89]: ciò comporta l’illegittimità della disposizione statale (art. 17, comma 1, d. l. n. 98 del 2011) nella parte in cui prevede che le misure di compartecipazione siano introdotte con regolamento governativo, in quanto la potestà regolamentare compete allo Stato nelle sole materia di sua competenza legislativa esclusiva (v. infra, par. 11) [sent. n. 187].
 
 
8.7. Norme generali sull’istruzione (lett. n)
 
Le norme generali in materia di istruzione definiscono la struttura portante del sistema scolastico. Richiedono, pertanto, di essere applicate in modo necessariamente unitario e uniforme su tutto il territorio nazionale, e non richiedono, come accade nel caso della competenza concorrente sull’istruzione, l’intervento del legislatore regionale[90].
Rientra in tale categoria la parte centrale della riforma adottata dal legislatore statale nel 2008 (art. 64, comma 4, d. l. n. 112 del 2008): e rientrano dunque nella competenza esclusiva statale oggetti quali la razionalizzazione e l’accorpamento delle classi di concorso, finalizzati a garantire una maggiore flessibilità nell’impiego di docenti; la ridefinizione dei curricoli vigenti nei diversi ordini di scuola; la revisione dei criteri di formazione delle classi; la rimodulazione dell’organizzazione didattica delle scuole primarie; la revisione di criteri e parametri per la determinazione complessiva degli organici (anche alla luce della loro afferenza alla organizzazione amministrativa dello Stato. V. retro, par. 8.3); nonché la ridefinizione dell’assetto organizzativo-didattico dei centri di formazione per gli adulti[91] [sent. n. 279].
 
 
8.8. Coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale (lett. r)
 
La disposizione statale che istituisce un elenco-anagrafe presso il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, articolato a livello regionale e contenente l’inventario delle opere pubbliche incompiute, anche regionali, successivamente da ordinare in una graduatoria stilata secondo criteri dettati con regolamento ministeriale «tenendo conto dello stato di avanzamento dei lavori ed evidenziando le opere prossime al completamento», non è censurabile di incostituzionalità. Ciò, in quanto l’elenco ha mere finalità di coordinamento dei dati sulle opere pubbliche e, soprattutto, l’inclusione di un’opera pubblica regionale nell’elenco non comporta che la competenza a decidere sulle sorti dell’opera sia stata sottratta alla Regione e acquisita dallo Stato. La previsione del regolamento ministeriale, adottato senza l’instaurazione di procedure di leale collaborazione, è anch’essa immune da censure: ciò, in quanto nelle materie di competenza esclusiva statale la potestà regolamentare è dello Stato, e non sono in genere dovuti elementi di raccordo con il sistema regionale (v. anche parr. 5.2 e 11) [sent. n. 293].
 
 
8.9. Tutela dell’ambiente e dell’ecosistema e dei beni culturali (lett. s)
 
Abbastanza rilevante dal punto di vista quantitativo, secondo quanto visto sopra (cfr. par. 7.1) l’utilizzo del parametro di cui all’art. 117, comma 2, lett. s.
Non si tratta di una materia in senso stretto, in quanto la tutela ambientale si riferisce all’ambiente in termini generali ed omnicomprensivi[92] e rappresenta un valore costituzionalmente protetto che delinea, come ormai noto, una competenza trasversale. In quanto tale, comporta che spettino allo Stato le determinazioni che, anche investendo materie diverse, rispondano ad esigenze di tutela meritevoli di disciplina uniforme [sent. n. 171][93]; la materia, in parole ancor più esplicite, inerisce ad un interesse pubblico di valore costituzionale primario ed assoluto[94], in grado di limitare la discrezionalità legislativa che tutte le Regioni e le Province autonome esercitano nelle materie di propria competenza[95] [sent. n. 278].
L’esclusività della competenza statale assume forme tuttavia non assolute: allo Stato, infatti, è demandata la fissazione di standard di tutela validi su tutto il territorio nazionale, standard che indicano livelli minimi, bensì derogabili dalle Regioni ma solo aumentando il grado di tutela prevista, e non diminuendolo[96]; tale principio rappresenta uno strumento interpretativo di disposizioni statali che lasciassero adito a dubbi [sent. n. 244] e vale anche per le autonomie speciali[97] [sent. n. 278].
È così per la disciplina statale in materia di beni culturali (d. lgs. n. 42 del 2004, Codice dei beni culturali e del paesaggio), alla quale soltanto compete il regime delle deroghe alle misure di protezione previste, tanto che le Regioni non possono prevederne casi ulteriori [sentt. nn. 66, 133, 171][98].
È così anche per la disciplina dei rifiuti che, come più volte sottolineato dalla Corte[99], rientra nella tutela ambientale. Anche qui vale l’inderogabilità in peius dei livelli di tutela fissati dalla legislazione statale, come nel caso del trattamento delle «acque superficiali» [sent. n. 159]. In generale, ogni provvedimento autorizzatorio in tema di smaltimento di rifiuti (nella specie, gli scarichi idrici) deve essere concesso solo previa verifica dei requisiti necessari al rilascio: pertanto, sono illegittime norme regionali che prevedano forme di prorogatio o di tacito rinnovo delle autorizzazioni in forma automatica, surrogando i controlli necessari [sent. n. 133][100]. Le Regioni possono però legittimamente equiparare, ai fini della disciplina degli scarichi, le acque utilizzate per scopi geotermici che non siano state utilizzate nell’ambito dei cicli produttivi e che non abbiano subito trattamenti chimici alle acque reflue domestiche [sent. n. 100].
Sempre in tema di rifiuti, le Regioni non possono autorizzare deroghe per singoli Comuni rispetto alle percentuali di raccolta differenziata da raggiungere: ciò, nemmeno in virtù di compensazioni tra diversi Comuni nell’ambito di un ATO, in quanto tale deroga in compensazione, ai sensi della normativa statale (d. lgs. n. 152 del 2006), va concordata nell’accordo di programma siglato tra Ministero dell’ambiente, Regione ed enti locali interessati e, se del caso, concessa dal Ministro [sent. n. 158].
Nella gestione dei rifiuti radioattivi, invece, essendo coinvolte oltre alla materia de qua anche attività riconducibili alla materia concorrente governo del territorio, si rende costituzionalmente necessario un coinvolgimento, attraverso opportune forme di collaborazione, della Regione eventualmente interessata alla installazione di depositi nel suo territorio[101] [sent. n. 54].
Anche nell’ambito della tutela dell’ecosistema e delle risorse ambientali-faunistiche vale lo schema per cui lo Stato detta i livelli minimi inderogabili di tutela che le Regioni possono soltanto innalzare. Non sono infatti censurabili leggi regionali relative all’ampliamento della superficie delle aree protette [sent. n. 171] (la cui disciplina rientra nella tutela dell’ambiente[102]), destinate a riserve naturali: a condizione, però, che nella specie venga garantita la partecipazione degli enti locali interessati al procedimento di istituzione o ampliamento dell’area protetta [sent. n. 14].
È invece ad esse vietato disciplinare (e consentire) il ripopolamento dei corsi d’acqua, nel caso specifico con specie animali non autoctone, in quanto scelta che, per la delicatezza degli equilibri complessivi di alcuni ecosistemi, rientra nella competenza esclusiva statale de qua [sent. n. 288].
Numerosi i casi di intreccio di tale materia con quella residuale della caccia (sulla quale v. anche infra, par. 10.4). Ed anche qui vale il principio della tutela minima statale, alla quale le Regioni possono derogare soltanto aumentandone il livello [sent. n. 160].
Così, non è possibile, nemmeno per le autonomie speciali, classificare come esclusa dalla nozione di fauna selvatica (da proteggere) una specie animale non esclusa da tale nozione dalla legislazione statale; oppure consentire un esercizio cumulativo di due forme di caccia previsto alternativamente dalla normativa statale. E, per un caso assai chiaro della distribuzione delle competenze secondo il principio della tutela minima statale, se è illegittima una legge regionale che estenda il periodo di caccia al merlo e alla lepre comune al 10 gennaio, in quanto la legge statale (n. 157 del 1992, art. 18) la consente fino al 31 dicembre, non è invece incostituzionale una disposizione di legge regionale che consenta la caccia alla cesena e al tordo bottaccio fino al 10 gennaio, in quanto la legge statale in tal caso fissa il termine al 31 gennaio [sent. n. 278].
La predisposizione del calendario venatorio, apparentemente riconducibile alla competenza regionale residuale in materia di caccia, rappresenta invece una misura indispensabile per assicurare la sopravvivenza e la riproduzione delle specie cacciabili, rientrando dunque nella materia della tutela dell’ambiente[103]. In quanto oggetto di una materia di competenza esclusiva dello Stato, è rimessa a quest’ultimo, secondo la Corte, la decisione circa l’ammissibilità della sua approvazione tramite leggi-provvedimento regionali (v. retro, par. 6): ai sensi della disciplina rinvenibile nella legge n. 157 del 1992, tale possibilità deve intendersi ragionevolmente preclusa alle Regioni [sentt. n. 20, 105, 310]; e qualora una legge regionale lasci dubbi sulla natura dell’atto di adozione del calendario venatorio (specie se demandato al Consiglio regionale), essa deve essere interpretata nel senso che l’approvazione abbia luogo nell’esercizio della potestà regolamentare [sent. n. 116]. In ogni caso, come previsto dalla normativa statale, il calendario venatorio adottato dalle Regioni deve avere durata annuale (e non superiore), in modo da garantirne il costante adeguamento alle situazioni ambientali locali [sent. n. 116].
Ai sensi della normativa statale, utilizzata ancora quale fonte interposta, non può considerarsi rientrante nell’attività di edilizia libera l’installazione di manufatti prefabbricati, roulotte, camper, case mobili et similia utilizzati con finalità abitative: è pertanto illegittima una legge regionale che, orientata in senso contrario, non preveda per le stesse il rilascio del titolo abitativo, in quanto anche le «strutture mobili» determinano, a meno che non siano dirette a soddisfare «esigenze meramente temporanee», una trasformazione del territorio su cui insistono; e sono parimenti illegittime disposizioni regionali che escludano il parere degli enti gestori delle aree protette quando in tali territori vengano installate, rimosse o spostate tali strutture [sent. n. 171].
 
 
9. Potestà concorrente 
 
9.1. Istruzione, salva l'autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e formazione professionale
 
Con due pronunce abbastanza recenti riguardanti la materia istruzione, la Corte ha posto una non facile linea di confine tra i titoli di competenza esclusiva e concorrente che, come noto, sono entrambi presenti nell’art. 117, Cost.[104] Essenzialmente, l’ambito della legislazione regionale in materia comprende la programmazione e l’articolazione delle rete scolastica, sulla base di valutazioni coinvolgenti le specifiche realtà territoriali delle Regioni, anche sotto il profilo socio-economico.
Da tale impostazione era già derivata l’illegittimità di interventi statali incidenti sulla chiusura o l'accorpamento degli istituti scolastici nei piccoli Comuni, spettando alle Regioni la valutazione di tali situazioni, compreso l’intreccio della materia con quella dei servizi sociali[105]. Ne deriva adesso l’illegittimità della norma statale che aveva previsto l’accorpamento obbligatorio delle scuole dell’infanzia, primaria e secondaria di primo grado in istituti comprensivi e la contestuale soppressone delle scuole costituite separatamente, con il limite minimo dei 1.000 alunni per poter acquisire l’autonomia (ridotto a 500 per le istituzioni site nelle piccole isole, nei comuni montani e nelle aree geografiche caratterizzate da specificità linguistiche): ciò perché la norma incide direttamente sulla rete scolastica e sul dimensionamento degli istituti, e in quanto tale non è né riconducibile alle norme generali sull’istruzione di competenza esclusiva statale, né ai principi della materia concorrente istruzione [sent. n. 147].
Pur incidendo invece «in modo significativo sulla rete scolastica», non è illegittima la norma statale che prevede la reggenza dei dirigenti scolastici di altri istituti nelle istituzioni scolastiche aventi un numero di alunni inferiore a 600, alle quali pertanto non possono essere assegnati dirigenti a tempo indeterminato (v. anche par. 8.3): in tal caso la materia coinvolta è l’organizzazione amministrativa dello Stato (art. 117, comma 2, lett. g), in quanto i dirigenti scolastici sono dipendenti pubblici statali e non regionali [sent. n. 147].
 
 
9.2. Professioni 
 
L'individuazione delle figure professionali, con i relativi profili e titoli abilitanti, resta riservata, per il suo carattere necessariamente unitario, allo Stato [sentt. nn. 33, 108][106], specie se in osservanza di prescrizioni di rango comunitario [sent. n. 275]. La legge regionale non può dunque creare nuove professioni, e la potestà legislativa regionale, specie quella strettamente connessa della formazione professionale, si esercita se mai sulle professioni già individuate e definite dalla normativa statale di principio, secondo un limite di ordine generale invalicabile dalla legge regionale[107] [sent. n. 108].
 
 
9.3.   Tutela della salute (e art. 32, Cost.)
 
Nella materia tutela della salute, le pronunce del 2012 hanno più che altro riguardato tematiche connesse dell’organizzazione sanitaria, se si eccettua un solo caso diverso.
Esso riguarda il ticket da 10 euro, per le prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale e il ticket da 25 euro, per le prestazioni erogate in regime di pronto soccorso ospedaliero non seguite da ricovero. Introdotti dall’art. 1, comma 796, lett. p, legge n. 296 del 2006, poi «aboliti» dall’art. 61, comma 19, d. l. n. 112 del 2008 con facoltà per le Regioni di continuare ad applicarli in misura integrale o ridotta, quindi nuovamente ripristinati dall’art. 17, comma 6, d. l. n. 98 del 2011, rincorrono sia l’esigenza di adottare misure efficaci di contenimento della spesa sanitaria, rientrando dunque nel coordinamento della finanza pubblica, sia, nondimeno, la necessità di garantire a tutti i cittadini, a parità di condizioni, il diritto alla salute, secondo quanto la Corte aveva già avuto modo di stabilire[108]. Per questi stessi motivi, il loro ripristino non è oggi censurabile di incostituzionalità, nonostante l’avviso diverso delle Regioni, con affermazione che vale anche nei confronti delle autonomie speciali [sent. n. 187].
All’organizzazione sanitaria, invece, e dunque alla tutela della salute di cui all’art. 117, comma 3, Cost., va ricondotta la necessità per cui in nessun caso i debiti delle disciolte USL possano gravare sulle ASL che delle prime hanno preso il posto: deve essere, al contrario, garantita l’impermeabilità fra patrimonio di una ASL e situazione debitoria della USL dismessa, senza che la prima debba farsi carico di responsabilità in ordine ai debiti eventualmente contratti dalla seconda [sent. n. 79].
Come si vedrà meglio (v. infra, par. 12.2), il rispetto dei principi di coordinamento della finanza pubblica si traduce nella doverosa osservanza dei piani di rientro dal deficit sanitario; e qualora siano in essi coinvolte le aziende ospedaliero-universitarie, non possono realizzarsi senza protocolli d’intesa tra le Regioni e le università, pena la violazione dell’autonomia riconosciuta alle seconde ex art. 33, Cost.[109] [sent. n. 91]. Allo stesso modo, il d. lgs. n. 517 del 1999, regolativo dei rapporti tra Servizio sanitario nazionale e Università, esprime principi fondamentali in materia di tutela della salute. Ai sensi di tale decreto, le modalità di nomina e di verifica dell’operato dei direttori generali delle aziende ospedaliero-universitarie impongono alle Regioni il coinvolgimento delle università cui le stesse aziende afferiscono, idoneo a garantire l’autonomia della ricerca di cui all’art. 33, Cost.: è pertanto illegittima una legge regionale che, dettando una disciplina generale sulla nomina dei direttori generali e sulla verifica della loro attività, non consideri la specificità del caso delle aziende ospedaliere universitarie [sent. n. 129].
Ancora in relazione alle Regioni sottoposte al piano di rientro, la Corte ha stabilito che può non essere inibito loro intervenire con legge nell’ambito di “Progetti obiettivo”, ovvero specifiche attività finanziate con appositi fondi dello Stato (previa valutazione di priorità in sede di Conferenza Stato-Regioni), prorogando, nella specie, la scadenza dell’accreditamento provvisorio già concesso alle strutture che svolgono attività inerenti a tali progetti (e che forniscano servizi non ospedalieri e non ambulatoriali). Ciò perché, da un lato le Regioni detengono la potestà concorrente in materia di tutela della salute; e perché, dall’altro, tali progetti seguono un percorso autonomo di finanziamento e possono essere non inclusi dei piani di rientro dal disavanzo [sent. n. 260].
Le disposizioni statali in materia di procedure di autorizzazione e accreditamento delle strutture sanitarie, comunque, al di fuori di questo e altri pochi casi eccezionali disciplinati comunque dalla legge statale, rappresentano principi che le Regioni devono osservare, ivi compresi i termini per la loro conclusione nonché, in generale, il fatto che le Regioni non possono accreditare strutture che non abbiano l’autorizzazione  o riconoscere un accreditamento più ampio (idoneo cioè a svolgere un numero maggiore di attività) di quanto previsto dalla autorizzazione [sent. n. 292].
Alla competenza regionale in materia di tutela della salute (e dei servizi pubblici locali) è da ricondurre la disciplina delle attività delle onoranze funebri svolte in piccoli Comuni montani, laddove una deroga al regime di incompatibilità della gestione del servizio cimiteriale e obitoriale con lo svolgimento dell’attività funebre non è censurabile di incostituzionalità per violazione della competenza statale esclusiva in materia di tutela della concorrenza (v. retro, par. 8.2.1) ma mira ad evitare il pericolo di compromissione del diritto alla salute (e di un servizio locale indefettibile) [sent. n. 274].
Da menzionare anche la ricostruzione della Corte in base alla quale l’art. 32 Cost. implica il diritto di ciascun paziente alla libera scelta della struttura sanitaria ove curarsi. Si tratta di un diritto che, tuttavia, non ha carattere assoluto, dovendo contemperarsi con altri interessi costituzionalmente protetti, nonché con i limiti delle risorse finanziarie disponibili[110]. Così, una Regione non può imporre alle ASL di delimitare la scelta dei soggetti erogatori di prestazioni sanitarie tra coloro che le svolgono nel suo territorio, escludendo quindi i soggetti che le svolgono in altre Regioni, in quanto la circostanza non incide positivamente sul contenimento della spesa sanitaria ma, in tutta probabilità, ne determina l’aumento [sent. n. 236].
Nell’ordinamento comunitario, infine, e di riflesso nell’ordinamento nazionale, è ritenuta prevalente la finalità di assicurare la tutela della salute dei consumatori, nella specie di acque minerali, rispetto a quella della semplificazione amministrativa dei procedimenti: pertanto, non è incostituzionale la normativa nazionale (artt. 6 e 7, comma 1, e artt. 22 e 23, comma 1, d. lgs. n. 176 del 2011) che prevede un’autorizzazione preventiva per l’utilizzazione e messa in commercio delle acque minerali naturali [sent. n. 244].
 
 
9.4. Protezione civile
 
Principio fondamentale della materia concorrente protezione civile è quello espresso dall’art. 5, comma 2, della l. n. 225 del 1992, alla stregua del quale per l’attuazione degli interventi in situazioni di emergenza si provvede con le ordinanze di protezione civile, che regolano temporaneamente, per tutta la durata dello stato di emergenza, lo «straordinario assetto di poteri» che da esso deriva. Pertanto, fintanto che perduri la situazione di emergenza, una Regione non può incidere sugli effetti prodotti da tali ordinanze, regolando un oggetto già da queste disciplinato[111] [sent. n. 32].
Secondo la Corte, i compiti assegnati al prefetto dalla legge statale (n. 225 del 1992, art. 14) in caso di evento calamitoso rientrano tra i principi fondamentali della materia protezione civile: la circostanza rende illegittima una legge regionale che assegni al presidente della Provincia «in termini ampi e generali» il ruolo di responsabile dell’organizzazione generale dei soccorsi a livello provinciale [sent. n. 85].
Alla materia in esame vanno ricondotte anche le norme che si occupano di interventi edilizi in zone sismiche. Va qui considerato principio fondamentale quello espresso dalla legislazione statale (art. 88, D.P.R. n. 380 del 2001) in base al quale compete soltanto al Ministro per le infrastrutture, dunque non ad organi regionali, la possibilità di concedere deroghe all’osservanza delle norme tecniche di costruzione in zona sismica, in quanto espressione di una disciplina unitaria a tutela dell’incolumità pubblica, da ritenersi obbligatoria in tutto il territorio nazionale[112] [sent. n. 201].
 
 
9.5. Governo del territorio 
 
Nella disciplina del condono edilizio convergono la competenza esclusiva statale in materia penale e la competenza concorrente nella materia governo del territorio[113]. Posti alcuni oggetti come di sicura competenza statale, l’impostazione generale è anche qui (come in materia di tutela dell’ambiente, sulla quale v. retro, par. 8.9) quella per cui sia dello Stato il potere di stilare l’elenco tassativo delle tipologie di opere insuscettibili di sanatoria, la quale determina i limiti del condono: è illegittima, pertanto, una norma regionale che trasferisca una fattispecie «dall’area delle opere “comunque” insanabili a quella del condono» [sent. n. 225].
La già menzionata disciplina della SCIA – Segnalazione Certificata di Inizio Attività, introdotta in sostituzione della DIA – Dichiarazione di Inizio Attività dall’art. 49, comma 4-bis, d. l .n. 78 del 2010 ed estesa in materia edilizia dall’art. 5, comma 1, lett. b, d. l. n. 70 del 2011, convertito con modificazioni dall’art. 1, comma 1, legge n. 106 del 2011, non depotenzia i poteri di controllo e autotutela dell’amministrazione davanti ad iniziative edilizie dei privati: infatti, il «rilevante interesse costituzionale», trasversale a Stato, Regioni ed enti locali, al controllo pubblico a garanzia di un «armonico sviluppo del territorio che ne preservi l’integrità» non può essere posposto «alle pur rilevanti finalità di semplificazione e accelerazione valorizzate mediante la SCIA [sent. n. 188].
Come visto sopra (v. par. 8.5.1.), anche le norme concernenti le distanze tra gli edifici rappresentano un «principio inderogabile che integra la disciplina privatistica delle distanze», di cui al codice civile e alla «Legge urbanistica» (n. 1150 del 1942). Si tratta di oggetto rientrante dunque nella materia ordinamento civile (competenza esclusiva statale), pur potendo coinvolgere competenze in materia di governo del territorio (di competenza residuale): per rilevare tale seconda ipotesi, tuttavia, le Regioni o le Province autonome che introducano deroghe alle distanze devono e possono farlo solo se funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio, in tal caso rientrando nella gestione degli strumenti urbanistici (che è di loro competenza), e non se riferite ad edifici confinanti, isolatamente considerati [sent. n. 114].
Alla materia in esame possono essere ricondotte, infine, attraverso l’applicazione del criterio della prevalenza (cfr. retro, par. 7.2.1), anche alcune attività connesse all’agriturismo: è il caso dell’obbligo della «utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata» (art. 2135, cod. civ.), che le Regioni possono modulare, rendendolo più stringente e rigoroso, ma non contraddire, in quanto trattasi anche di un principio generale del governo del territorio [sent. n. 96].
 
 
9.6. Produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia
 
La giurisprudenza costituzionale in tale materia ha riguardato pressoché esclusivamente la disciplina dell’insediamento degli impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili. Tale disciplina, in verità, rientra nella potestà legislativa concorrente in esame [sentt. nn. 99, 224, 275], ma coinvolge anche la competenza esclusiva statale in materia di tutela dell’ambiente e del paesaggio, con conseguente vincolo per le Regioni al rispetto di un maggior numero di indicazioni presenti nella legislazione statale[114] [sent. n. 224].
Nel settore delle energie rinnovabili, sia la normativa internazionale (il riferimento è al Protocollo di Kyoto della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici) che la normativa comunitaria manifestano un favor per la massima diffusione delle stesse[115]. Tale favor è stato tradotto dal legislatore nazionale col d. lgs. n. 28 del 2011: in tale fonte, la complessità (intesa come minuziosità) delle procedure autorizzatorie, finalizzate alla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili, costituisce un dato solo formale delle norme in esso contenute, non decisivo ai fini della loro qualificazione (insistendo su una materia concorrente, esse dovrebbero avere infatti carattere di principi); l’esigenza di unitarietà e non frazionabilità (che ridondano in maggiore certezza) della funzione regolatoria è infatti correlata al fine di favorire la diffusione delle fonti energetiche in questione. Peraltro, l’ulteriore specificazione della normativa statale è avvenuta con la stesura delle linee guida per lo svolgimento del procedimento autorizzatorio, approvate in Conferenza unificata, e dunque con il coinvolgimento delle autonomie [sent. n. 275].
Alla luce di tale impostazione, emerge una necessaria preferenza per procedure semplificate e accelerate in materia di autorizzazioni di impianti per la produzione di energie rinnovabili, per le quali le Regioni non possono dettare una disciplina che ne riduca la portata [sent. n. 275], impedendo che tale disciplina si rivolga alla generalità dei soggetti abilitati a ricorrervi [sent. n. 99].
Sono da ritenersi altresì illegittime norme di legge regionale che, in contrasto col favor sopra menzionato, limitino la potenza degli impianti per la produzione di energia dalle fonti rinnovabili[116] [sent. n. 85]. E illegittime, in virtù dello stesso favor, nella specie già recepito dal d. lgs. n. 387 del 2003 (art. 12, comma 10), sono norme regionali, emanate anche dalle autonomie speciali, che in nome della tutela del paesaggio anziché individuare nel proprio territorio le aree e i siti non idonei all’installazione di impianti eolici, come prescritto dalla normativa statale, individuano esattamente il contrario, ovvero le aree e i siti idonei: il principio della massima diffusione delle energie rinnovabili, secondo la Corte, implica una generale utilizzabilità di tutti i terreni, con le eccezioni stabilite dalle Regioni, e non il contrario [sent. n. 224]; in tal modo, ovvero individuando i siti non idonei e non quelli idonei, l’esercizio della competenza in materia di tutela del paesaggio, che per le autonomie speciali è di rango primario, non viene «messa in discussione in alcun modo» [sent. n. 275].
 
 
9.7. Ordinamento della comunicazione.
 
La necessità di adozione di un progetto strategico di individuazione sull’intero territorio nazionale di interventi finalizzati a realizzare infrastrutture di telecomunicazione a banda larga e ultra larga è prevista dal d. l. n. 98 del 2011 (convertito con modificazioni dalla legge n. 111 del 2011). Il progetto è collegato al raggiungimento degli obiettivi dell’«Agenda digitale europea», una delle 7 iniziative “faro” della Strategia Europa-2020. La realizzazione del progetto, pur interessando una materia di competenza concorrente, può determinare l’esigenza di un esercizio unitario della funzione amministrativa, di conseguenza legislativa, correlate (cfr. par. 5.1 sulla chiamata in sussidiarietà): così, disposizioni statali dettagliate e «addirittura autoapplicative», non ledono la competenza regionale in materia di ordinamento delle comunicazioni: ferma restando l’illegittimità costituzionale ravvisabile nella legislazione statale, laddove non prevede le procedure di leale collaborazione [sent. n. 163].
 
 
10. Potestà residuale
 
10.1. Servizi sociali
 
Tutte le attività che concernono la predisposizione e l’erogazione di servizi, gratuiti e a pagamento, o di prestazioni economiche destinate a rimuovere e superare le situazioni di bisogno e di difficoltà che la persona incontra nel corso della sua vita, escluse soltanto quelle già previste dal sistema previdenziale e da quello sanitario, rientrano nel più generale ambito dei servizi sociali[117] [sent. n. 296].
Dopo la riforma costituzionale del 2001, la materia è diventata oggetto di competenza residuale delle Regioni, mentre prima della riforma, sotto la dicitura beneficienza pubblica (mantenuta fino alla ridefinizione operata dall’art. 128, d. lgs. n. 112 del 1998), era oggetto di competenza concorrente. La circostanza ha di fatto complicato la fissazione da parte dello Stato dei principi fondamentali della materia, indicando gli obiettivi della programmazione così come richiesto ad esempio dalla legge-quadro n. 328 del 2000, adottata prima della riforma in virtù della competenza concorrente di cui la materia era oggetto. E, tra le inadempienze occorse, la normativa ad oggi vigente denota come lo Stato non abbia mai concretamente esercitato la competenza di cui pur dispone per fissare, nella materia de qua, i livelli essenziali delle prestazioni ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. m (cosiddetti LIVEAS o LEPS); si è limitato, infatti, soltanto ad indicare un metodo di calcolo del reddito, basato sull’ISEE – Indicatore della Situazione Economica Equivalente, da prendere in considerazione da parte degli enti erogatori per l’accesso ai servizi sociali, lasciando tuttavia liberi tali enti di individuare criteri reddituali ulteriori (ai sensi dell’art. 1, commi 2 e 3, d. lgs. n. 109 del 1998) [sentt. nn. 296 e 297]. Prove indirette, secondo la Corte, di tale inerzia perdurante sono le progressive riduzioni degli stanziamenti statali relativi al Fondo per le non autosufficienze, istituito dalla legge n. 296 del 2006 [sent. n. 296].
Per questi motivi, non sono illegittime le disposizioni di quelle Regioni che, dovendo concretamente svolgere le proprie funzioni in materia di servizi sociali, intervengano a disciplinare le modalità di erogazione di prestazioni relative ai livelli essenziali delle prestazioni in materia, in particolare disponendo che la quota di compartecipazione dovuta dalla persona assistita ultrasessantacinquenne sia calcolata tenendo conto della situazione reddituale e patrimoniale anche del coniuge e dei parenti in linea retta entro il primo grado: non osta a disposizioni siffatte l’esistenza nella normativa statale (art. 3, comma 2-ter, d. lgs. n. 109 del 1998) della dovere di evidenziare la situazione economica del solo assistito, trattandosi di normativa, come visto, mai concretamente attuata e che si è limitata ad indicare un metodo di calcolo del reddito, peraltro lasciando liberi gli enti erogatori di far ricorso a «criteri ulteriori» [sent. n. 296].
Da ricordare che, dopo la riforma costituzionale del 2001, lo Stato ha introdotto una nuova e specifica procedura per la determinazione dei LIVEAS (art. 46, comma 3, legge n. 289 del 2002), che prevedeva la loro determinazione tramite D.P.C.M. d’intesa, fra gli altri, con la Conferenza unificata. Nelle prolungate more d’inattuazione di tale procedura, il recente art. 5 del d. l. n. 201 del 2011 ha ritoccato la disposizione disponendo, tra l’altro, l’eliminazione del passaggio in Conferenza per l’intesa. Tale scelta statale è da ritenersi costituzionalmente illegittima: seppur adottata in una materia di sua competenza esclusiva, trattandosi di materia trasversale che comporta una forte incidenza sulle competenze regionali, devono essere previsti moduli di leale collaborazione [sent. n. 297], ferma restando la peculiarità di alcuni casi eccezionali già individuati dalla Corte[118].
 
 
10.2. Organizzazione amministrativa delle Regioni e degli enti pubblici regionali e organizzazione degli uffici regionali
 
Cospicua, ma non particolarmente innovativa, la giurisprudenza costituzionale in tale materia.
In essa, come noto, rientra in parte la disciplina del personale alle dipendenze delle Regioni e degli enti locali. Ma proprio la giurisprudenza del 2012 dimostra ancor più come sia fortemente limitata per le Regioni la possibilità di legiferare nell’ambito delle questioni relative al proprio personale, possibilità astretta fra tre possibili cause di illegittimità: ovvero, la violazione del principio del concorso pubblico (sulla quale, v. subito infra), la violazione della competenza statale in materia di ordinamento civile (sulla quale, v. retro, par. 8.5.1), e la violazione dei principi fondamentali, di competenza statale, della materia concorrente coordinamento della finanza pubblica (v. infra, par. 12.2).
Il principio del pubblico concorso (artt. 51 e 97 Cost.) è ormai di consolidata applicazione alle amministrazioni regionali, secondo tuttavia le regole specificate dalla normativa statale, in particolare del d.lgs. n. 165 del 2001. Le deroghe sono ammissibili, ma da limitare in modo rigoroso e, posto che non si può ritenere sussistente un’attribuzione costituzionale allo Stato nella specificazione preventiva di tutte le deroghe ammissibili, residua per le Regioni la possibilità di dettare dei propri, autonomi criteri selettivi[119].
In linea generale, le deroghe devono essere finalizzate a valorizzare le esperienze professionali già maturate e, seppure previste espressamente dallo stesso art. 97, comma 3, Cost., devono essere giustificate da peculiari e comunque straordinarie esigenze di interesse pubblico, strettamente funzionali al buon andamento dell’amministrazione[120]; a tal fine, non può ritenersi sufficiente ad evitare il concorso l’aver prestato attività a tempo determinato presso l’amministrazione[121], né la personale aspettativa degli aspiranti a una misura di stabilizzazione[122] [sent. n. 51], né una procedura della quale non è prevista la pubblicità [sent. n. 212].
Va ribadito che l’impiego pubblico regionale deve ricondursi, per i profili organizzativi del rapporto, all’ordinamento civile (di competenza esclusiva statale) e per i profili «pubblicistico-organizzativi» all’ordinamento e all’organizzazione amministrativa regionale (di competenza residuale) [sent. n. 63]. Riguarda proprio questi ultimi la regolamentazione delle modalità di accesso al lavoro pubblico regionale: così, il divieto di contratto di lavoro a tempo parziale per il personale della polizia locale stabilito in una legge regionale non è censurabile di incostituzionalità, in quanto non interviene sulla disciplina del contratto di lavoro ma ne regola l’applicabilità (nella specie, vietando che l’Amministrazione vi faccia ricorso); al contrario, stabilire l’obbligatoria conversione dei contratti a tempo parziale in contratti a tempo pieno, alternando il contenuto di contratti già in essere, viola l’art. 117, comma 2, lett. l, Cost. [sent. n. 141].
Come tendenza generale[123], la partecipazione al concorso pubblico non è suscettibile di arbitrarie restrizioni quanto piuttosto di massima estensione, investendo anche i casi di nuovo inquadramento (progressione) di dipendenti, anche dirigenti, già in servizio, nonché i casi di trasformazione di rapporti non di ruolo e non instaurati inizialmente mediante concorso, in rapporti di ruolo [sentt. nn. 30, 90, 177, 212, 217]. È tuttavia legittima per le Regioni la temporanea assegnazione a mansioni superiori, nella specie dirigenziali, per i dipendenti che abbiano i requisiti necessari, in attesa dell’espletamento del concorso pubblico per il reclutamento del personale idoneo a ricoprirle, in quanto non introduce una soluzione che prescinde dal concorso, violando l’art. 97, Cost., ma che al contrario è conforme al canone del buon andamento [sent. n. 212]. Al di là del caso particolare, tuttavia, dove è la temporaneità a salvare dalle censure di incostituzionalità, per la progressione nei pubblici uffici la regola del concorso permane, anche se si è stati in precedenza assunti tramite concorso, bandito evidentemente per una qualifica diversa e inferiore [sent. n. 30].
È invece illegittima l’assegnazione temporanea a mansioni superiori in virtù di leggi regionali già dichiarate incostituzionali: ciò, per l’ovvia considerazione della violazione del giudicato costituzionale (art. 136, Cost.: v. anche par. 14), accompagnata nella specie dall’assenza di un termine per lo svolgimento dei concorsi, circostanza che assegna carattere provvisorio alla legge soltanto nominalmente [sent. n. 245].
Il previo superamento di una generica “selezione pubblica” è un requisito troppo sommario per autorizzare una successiva stabilizzazione senza concorso, non garantendo che tale previa selezione abbia natura concorsuale e sia riferita alla tipologia e al livello delle funzioni che il personale successivamente stabilizzato è chiamato a svolgere[124] [sent. n. 30]. Resta comunque ferma l’illegittimità di norme regionali che prevedano la stabilizzazione di soggetti titolari di meri rapporti precari, dunque una forma di «assunzione riservata» senza predeterminazione di criteri selettivi di tipo concorsuale [sent. n. 51]. Nelle procedure finalizzate alla stabilizzazione del personale precario della pubblica amministrazione devono essere infatti attentamente valutate, al fine di verificare l’effettiva tutela della par condicio fra i tutti i concorrenti anche esterni, la percentuale dei posti riservati, la valorizzazione in sede concorsuale dei titoli di servizio (di cui si gioveranno solo coloro che hanno già avuto rapporti di lavoro con l’amministrazione), nonché la limitazione ai soli “titoli e colloquio” delle prove concorsuali: tutti elementi che possono convincere sulla non idoneità delle norme regionali ad assicurare la trasparenza e l’efficienza dell’operato della pubblica amministrazione, di cui all’art. 97 Cost. [sent. n. 30]
Ancora in relazione al personale già dipendente, la regola del tetto massimo del 50% dei posti messi a concorso riservata al personale interno vale per ogni singola procedura selettiva, non potendo considerarsi ai fini del suo calcolo concorsi già svolti in un determinato lasso di tempo né, a fortiori, un criterio di calcolo dei posti riservati al personale interno basato su una compensazione globale e indifferenziata tra tutto il personale di una Amministrazione [sent. n. 90]. E non sono comunque ammesse riserve integrali di posti a favore del personale già assunto con incarico a tempo determinato[125] [sent. n. 30]. È invece possibile trasferire il personale di un’AATO soppressa ad altra autorità pubblica, poiché un ATO è un ente locale e, in quanto tale, «rientra indubbiamente tra le “pubbliche amministrazioni”» (ciò, sempreché il passaggio non comporti mutamenti di inquadramento del personale stesso) [sent. n. 226]. Ma non è legittima una normativa regionale che disponga un generale ed automatico transito del personale di una persona giuridica di diritto privato nell’organico di un subentrante soggetto pubblico regionale, senza il previo espletamento di alcuna procedura selettiva [sent. n. 62].
A proposito delle assunzioni a tempo determinato, è inderogabile da parte delle Regioni, anche speciali, l’art. 36. d. lgs. n. 165 del 2001, il quale prevede che le assunzioni a termine sono possibili solo in presenza ed in risposta «ad esigenze temporanee ed eccezionali», e non per rispondere a vere carenze di organico, rendendo il contratto a termine un modulo ordinario di assunzione del personale nella pubblica amministrazione [sent. n. 217]. E va ribadito che il principio del concorso pubblico, previa rideterminazione della dotazione organica complessiva[126], si applica anche alla progressione nei pubblici uffici (ivi compresa quella per l’approdo alla qualifica dirigenziale) [sent. n. 212]: all’uopo, non può ritenersi sufficiente l’indizione di un corso-concorso, ovvero un percorso di formazione al termine del quale solo il superamento di una prova d’esame comporta l’acquisizione della qualifica superiore, se la prova di selezione iniziale non è pubblica e l’esame finale non decisivo ai fini dell’attribuzione della qualifica stessa [sent. n. 30].
Riguardo le professionalità esterne, le Regioni non possono avvalersene in carenza di presupposti oggettivi da ritenersi indefettibili, quali l’accertata impossibilità di utilizzare le risorse umane disponibili all’interno dell’amministrazione e il carattere temporaneo ed altamente qualificato della prestazione. Con riguardo agli organi a carattere politico, può ritenersi ammissibile la necessità di un rapporto fiduciario intercorrente tra la persona esterna da incaricare e l’organo che procede all’individuazione: in tal caso, tuttavia, per scongiurare il pericolo di un uso strumentale e clientelare delle esternalizzazioni, è da escludere che la selezione di tale personale esterno di diretta collaborazione possa avvenire soltanto in base al rapporto fiduciario e, quindi, in totale assenza di criteri di valutazione della professionalità e della competenza [sent. n. 53].
Infine, due pronunce in limine alla materia de qua. Con riguardo alla assegnazione delle farmacie, il principio del concorso pubblico «appare quantomeno eccentrico», in quanto non conduce ad un impiego nella pubblica amministrazione, e le farmacie, nonostante la disciplina pubblicistica, restano imprese private. Per via di tale assunto e del fatto che l’assegnazione coinvolge la materia tutela della salute, le Regioni possono derogare al principio del concorso, sempreché esistano nel proprio territorio di esigenze di regolarizzazione e/o stabilizzazione di gestioni precarie di sedi farmaceutiche, protrattesi nel tempo [sent. n. 231].
Come già ricordato (v. retro, par. 3), una norma statale non può provvedere ad indicare specificamente l’organo regionale da ritenersi titolare di una funzione amministrativa dalla stessa fonte statale individuata: trattandosi di una normativa di dettaglio in materia di organizzazione interna delle Regioni, saranno queste ultime a selezionare quale debba essere l’organo deputato al loro svolgimento [sent. n. 293].
 
 
10.3. Commercio.
 
Non è frequente il richiamo in termini univoci a tale materia, in quanto la stessa si presenta pressoché sempre connessa ad altre materie.
Così, è illegittima una disciplina regionale che, seppur riconducibile alla materia de qua (di competenza residuale), produca ostacoli alla libera concorrenza e alla esplicazione della capacità imprenditoriale: tale è una norma regionale che subordini la cessione di attività commerciali su aree pubbliche al decorso di un triennio dalla data del rilascio dell’apposito titolo abilitativo (v. retro, par. 8.2.1) [sent. n. 18].
Come visto sopra (cfr. par. 7.2.2), un intervento teso all’ammodernamento e alla razionalizzazione della rete dei distributori di carburante sul territorio nazionale, pur avendo attinenza alla materia commercio, intreccia altre competenze, quali quella in materia di distribuzione dell’energia, di competenza concorrente[127], nonché altri interessi attinenti al governo del territorio, alla tutela dell’ambiente, alla circolazione e sicurezza stradale e alla tutela dei beni di interesse storico e architettonico: i provvedimenti statali volti alla chiusura degli impianti per la razionalizzazione della rete distributiva si collocano dunque in un «contesto normativo» dove la materia commercio deve considerarsi recessiva, circostanza che comporta la non fondatezza della censura di incostituzionalità relativa agli interventi statali [sent. n. 183].
 
 
10.4. Caccia
 
Tra le materie oggetto di potestà residuale va ancora annoverata la disciplina della caccia, benché lo Stato disponga di notevoli spazi d’intervento per tutti quegli aspetti riconducibili anche alla tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, all’analisi della quale deve necessariamente rinviarsi (v. retro, par. 8.9).
In particolare, compito dello Stato è dettare soglie minime uniformi di protezione dell’ecosistema, valide su tutto il territorio nazionale: alle Regioni, invece, residua la competenza sugli aspetti strettamente attinenti all’attività venatoria[128] e, in generale, la possibilità di interventi legislativi in direzione dell’innalzamento del livello di tutela, ma non del suo abbassamento [sentt. nn. 106, 116, 160, 278] nemmeno surrettizio, attraverso l’adozione con legge di atti provvedimentali come i calendari venatori o i piani di cattura [sentt. nn. 20, 160], rendendone più difficile l’eventuale impugnazione (v. anche parr. 8.9 e 11).
 
 
10.5. Servizi pubblici locali.
 
Dopo il referendum del 12 e 13 giugno 2011, e l’esito favorevole all’abrogazione della normativa statale in materia di affidamento dei servizi pubblici locali, il Governo in un «brevissimo lasso di tempo» dall’esito della consultazione referendaria ha approvato una normativa (d. l. n. 138 del 2011, art. 4, più volte modificato) «contraddistinta dalla medesima ratio di quella abrogata», per via della «drastica riduzione delle ipotesi di affidamenti in house, al di là di quanto prescritto dalla normativa comunitaria» che ha determinato. La disposizione, impugnata da 6 Regioni in quanto incidente sulla materia qui esaminata (di competenza residuale), pur riducendo le ipotesi di affidamenti diretti dei servizi pubblici locali, affidamenti caratterizzati dal fatto di essere devoluti a società a totale partecipazione pubblica e dal cosiddetto “controllo analogo” (in base al quale il controllo esercitato dall’ente pubblico sull’affidatario deve essere, per l’appunto, analogo a quello dell’ente pubblico sui propri uffici), escludeva dagli stessi il servizio idrico integrato: tuttavia, dato che il referendum riguardava tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica, non può ritenersi che tale esclusione privi la disposizione censurata della caratteristica di riprodurre la norma abrogata dal referendum. Per questi motivi, e per l’esigenza a che l’esito della consultazione popolare non «venga posto nel nulla e […] ne venga vanificato l’effetto utile», essa va dichiarata costituzionalmente illegittima [sent. n. 199].
Come visto sopra (cfr. parr. 8.2.1 e 9.3), alla competenza regionale in materia di servizi pubblici locali (e tutela della salute) può ricondursi la disciplina delle attività delle onoranze funebri svolte in piccoli Comuni montani, laddove una deroga al regime di incompatibilità della gestione del servizio cimiteriale e obitoriale con lo svolgimento dell’attività funebre non è censurabile di incostituzionalità per violazione della competenza statale esclusiva in materia di tutela della concorrenza, ma è finalizzata ad evitare il pericolo di compromissione di un servizio indefettibile (e del diritto alla salute) [sent. n. 274].
 
 
10.6. Istruzione e formazione professionale (pubblica).
 
Dopo la riforma costituzionale del 2001, la Corte ha in sostanza stabilito una doppia, diversa competenza in materia di formazione professionale. La formazione “continua” (nella terminologia comunitaria) o “interna” (nella terminologia della Corte), vale a dire quella che i datori di lavoro offrono in ambito aziendale ai propri dipendenti, data la sua intima connessione con il sinallagma contrattuale (espresso nel rapporto di lavoro), attiene all’ordinamento civile ed è dunque di competenza esclusiva statale[129]; la formazione “superiore” (nella terminologia comunitaria) o “pubblica” (nella terminologia della Corte), vale a dire quella rivolta sostanzialmente ad inoccupati e disoccupati, è invece oggetto di competenza residuale delle Regioni[130]. Sebbene i due titoli di competenza non sempre appaiono allo stato puro, come nel caso dell’apprendistato[131], è illegittima una disposizione statale (art. 11, d. l. n. 138 del 2011) che stabilisca i requisiti dei soggetti che promuovono e gestiscono tirocini formativi e di orientamento, nonché la loro durata e i requisiti dei beneficiari di tali interventi, in quanto viola l’art. 117, comma 4, Cost. [sent. n. 287].
Resta fermo che (come visto retro, al par. 9.2) l'individuazione delle figure professionali, con i relativi profili e titoli abilitanti, resta riservata, per il suo carattere necessariamente unitario, allo Stato [sent. n. 33, 108][132], specie se in osservanza di prescrizioni di rango comunitario [sent. n. 275].
Se è vero che la legge regionale non può creare nuove professioni, ciò non comporta che le Regioni non possano regolare corsi di formazione relativi alle professioni già istituite dallo Stato[133], e non possano altresì imporre percorsi professionali a chi svolge determinate attività: così disponendo, infatti, la legge regionale persegue lo scopo di favorire una formazione costante del lavoratore, nonché di garantire la tutela di interessi che si possono intrecciare con altre finalità (e dunque competenze), come l’osservanza di norme igienico sanitarie e di sicurezza sui luoghi di lavoro. Ciò, fermo restando che la sanzione in caso di inosservanza di tali obblighi formativi rispetto alle professioni (di individuazione statale) non può essere l’impossibilità a proseguirle, ma soltanto una sanzione di tipo amministrativo [sent. n. 108].
 
 
11. Potere regolamentare
 
Lo Stato, come già noto, può esercitare la potestà regolamentare solo nelle materie nelle quali abbia competenza esclusiva [sent. n. 187], con affermazione che vale per tutti i tipi di regolamenti, ivi compresi quelli di delegificazione [sent. n. 149], dai quali comunque non possono trarsi principi vincolanti per le Regioni [sent. n. 207].
Nel caso di materia rientrante nella competenza esclusiva statale, la forza precettiva dei regolamenti può esplicarsi anche nei confronti delle autonomie territoriali [sent. n. 144], ma non al loro livello normativo primario[134]; una disposizione primaria statale che lasci dubbi in ordine al recepimento di tale principio non è tuttavia censurabile di incostituzionalità: saranno se mai illegittimi i regolamenti che, adottati in forza di tale disposizione, dovessero risultare invasivi delle sfere di competenza legislativa regionale [sent. n. 179].
La regola della potestà regolamentare statale riconoscibile in caso di competenza statale esclusiva non vale nei casi caratterizzati da una «concorrenza di competenze», vale a dire laddove l’attribuzione di potestà legislativa statale non sia assoluta[135]: è pertanto incostituzionale una norma (nella specie, l’art. 17, comma 1, lettera d, d. l. n. 98 del 2011) che preveda che le misure di compartecipazione ai costi dell’assistenza farmaceutica, oggetto coinvolgente le materie livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, coordinamento della finanza pubblica e tutela della salute, siano introdotte «con regolamento da emanare ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400» [sent. n. 187].
Infine, anche la previsione di un regolamento ministeriale adottato senza l’instaurazione di procedure di leale collaborazione è immune da censure di costituzionalità, qualora riguardi materia di competenza esclusiva statale : ciò, in quanto in tali materie la potestà regolamentare è dello Stato, e non sono, in genere, dovute procedure di raccordo con il sistema regionale [sent. n. 293], ancorché tale regola possa subire l’eccezione delle materie trasversali (come quella di cui all’art. 117, comma 2, lett. m, Cost.), laddove la forte incidenza di tale competenza statale su quelle regionali impone, in alcuni casi, la leale collaborazione (v. retro, par. 5.2) [sent. n. 297].
 
 
12. Autonomia finanziaria.
 
12.1. Art. 119 e art. 81 Cost.
 
Affinché l’art. 119 Cost. possa essere invocato dalle Regioni a sostegno di una censura di legittimità costituzionale senza un collegamento con l’art. 117, quindi senza un’esplicitazione delle competenze che si ritengano invase da parte dello Stato, non basta un’«astratta idoneità» della disciplina censurata ad influire sull’autonomia finanziaria regionale[136] ma deve registrarsi un «concreto pregiudizio» derivante dall’esistenza di risorse già individuate, o chiaramente individuabili e, in forza della norma contestata, ad esse non trasferite [sent. n. 176].
Se, come si vedrà al par. successivo, il concorso agli obiettivi di finanza pubblica è obbligo pervasivo ed indefettibile cui tutti gli enti del settore pubblico devono concorrere, la perequazione degli squilibri tra Regioni, al contrario, deve allinearsi strettamente alle modalità previste dalla Costituzione, all’art. 119, commi 1 e 3: gli oneri finanziari per tali interventi, dunque, devono essere individuati tra le risorse statali e non devono comportare maggiori oneri per le Regioni non beneficiarie degli stessi, in una sorta di «chiamata in solidarietà» che non trova fondamento né all’art. 119 Cost. né nella legge n. 42 del 2009 e i relativi decreti attuativi [sent. n. 176].
Altra implicazione riconducibile all’autonomia finanziaria di spesa di cui all’art. 119, comma 1, è quella per cui il soggetto che provvede alla irrogazione delle sanzioni nell’ambito delle proprie competenze ha diritto a che i relativi proventi afferiscano anche al proprio bilancio. È il caso delle sanzioni previste in ipotesi di violazione delle norme inerenti alla classificazione, l’etichettatura e l’imballaggio di sostanze chimiche e miscele pericolose, riconducibili anche (oltre che alla tutela dell’ambiente e alla tutela della concorrenza) alla materia concorrente tutela della salute e alla correlata potestà sanzionatoria amministrativa, i cui proventi pertanto non possono afferire completamente all’erario [sent. n. 271].
Ai sensi dell’art. 81, comma 4, Cost., tutte le leggi recanti nuove spese devono recare l’apposita indicazione dei relativi mezzi di copertura. Si tratta di un obbligo costituzionale al quale il legislatore, anche regionale, non può sottrarsi, «ogni qual volta esso preveda attività che non possono realizzarsi se non per mezzo di una spesa» [sent. n. 214][137]; la copertura necessaria richiesta deve essere ispirata da prudenza, affidabilità, credibilità ed appropriatezza [sentt. nn. 115, 192][138]: e non individuare le risorse, o addirittura nemmeno quantificare la spesa sottostante ad una nuova disciplina normativa, comporta l’inevitabile illegittimità costituzionale della stessa [sent. n. 212].
Esiste un legame necessario tra le entrate delle Regioni e le loro funzioni: perciò, lo Stato non può obbligarle ad elevare l’imposizione fiscale al fine di finanziare organismi o attività (come il Servizio nazionale di protezione civile) la cui organizzazione sia di sua competenza, trattenendo, di fatto, per sé le funzioni e accollandone i costi anche alle Regioni [sent. n. 22].
Non è conforme all’art. 81, comma 4, ritenere un bilancio preventivo in pareggio contabilizzando un avanzo di amministrazione non verificato attraverso l’approvazione del bilancio consuntivo dell’esercizio precedente, non risultando sufficienti né la serie storica dei risultati di amministrazione né il fatto che nel progetto di bilancio consuntivo si profila l’esistenza di una rilevante massa di residui attivi: si tratta, infatti, di elementi di un risultato presunto, frutto di una stima provvisoria, priva di valore giuridico [sentt. nn. 70, 192]. La stima e la copertura preventiva effettuate in modo credibile salvaguardano invece la gestione finanziaria da possibili sopravvenienze passive [sent. n. 115], secondo un’esigenza che vale anche in caso di previsioni di spesa pluriennali [sent. n. 131]. Unica eccezione a tale principio riguarda l’utilizzo di fondi vincolati non ancora utilizzati, sempreché venga prevista l’utilizzazione  per le stesse finalità perseguite attraverso il loro «originario stanziamento» [sent. n. 192]. Insomma, la regola della previa approvazione del bilancio consuntivo per destinare risorse provenienti da esercizi pregressi a nuove e aggiuntive destinazioni, tale per cui «nessuna risorsa può essere “estratta” da esercizi precedenti senza la previa verifica della disponibilità giuridica e contabile in sede di approvazione del bilancio consuntivo» rappresenta una puntuale esplicazione dell’art. 81, comma 4, Cost. [sent. n. 192].
L’indicazione della copertura è richiesta anche quando alle nuove o maggiori spese possa farsi fronte con somme già iscritte nel bilancio, perché possano essere fronteggiate con lo storno di fondi risultanti dalle eccedenze degli stanziamenti previsti per altri capitoli[139]: in tali casi però, una spesa sostenibile senza ricorrere ad ulteriori risorse deve essere corredata comunque da adeguata dimostrazione economica e contabile, e non essere sostenuta apoditticamente [sent. n. 115].
Sulla base dell’art. 10, comma 2, legge n. 281 del 1970, modificato dal ultimo dall’art. 8, comma 2, legge n. 183 del 2011, che costituisce norma interposta che specifica i principi espressi dall’art. 81, comma 4 e dall’art. 117, comma 2, lett. e, Cost., una legge regionale che autorizzi l’accensione di nuovi prestiti dovrebbe specificare l’incidenza di questi ultimi sui singoli esercizi futuri, i mezzi necessari per la copertura degli oneri, nonché il rispetto del limite percentuale del 20%, con riguardo sia alle rate di ammortamento dei mutui pregressi che di quelli programmati per l’esercizio in corso: la mancata dimostrazione del rispetto del tetto di indebitamento comporta infatti la sua illegittimità costituzionale per violazione indiretta dei parametri costituzionali richiamati; per di più, un calcolo standardizzato della percentuale di indebitamento «è fondamentale per consolidare, sotto il profilo contabile, le risultanze di tutti i conti regionali in modo uniforme e trasparente così da assicurare non solo dati finanziari complessivi e comparativi attendibili, bensì anche strumenti conoscitivi per un efficace coordinamento della finanza pubblica, materia concorrente ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost.» [sent. n. 309].
In definitiva, nell’ordinamento finanziario delle amministrazioni pubbliche i principi del pareggio e dell’equilibrio tendenziale fissati nell’art. 81, comma 4, Cost. «si realizzano attraverso due regole, una statica e l’altra dinamica: la prima consiste nella parificazione delle previsioni di entrata e spesa; la seconda, fondata sul carattere autorizzatorio del bilancio preventivo, non consente di superare in corso di esercizio gli stanziamenti dallo stesso consentiti. La loro combinazione protegge l’equilibrio tendenziale in corso di esercizio a condizione che le pertinenti risorse correlate siano effettive e congruenti» [sentt. nn. 70, 192]. Tutto ciò dev’essere deciso con legge, nessuna verifica ex post di una copertura di bilancio potendo essere demandata alla Giunta regionale, ampliando in modo illegittimo le prerogative degli organi cui compete la sola gestione ed esecuzione del bilancio e non la sua approvazione [sentt. nn. 192, 214].
Sul sistema di tesoreria unica, reintrodotto nell’ordinamento con l’art. 35, comma 8, d. l. n. 1 del 2012, v. infra, par. successivo.
 
 
12.2. Armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario (art. 117, comma 3, Cost.)[140]. 
 
Davvero rilevante, sia per importanza che per quantità, la giurisprudenza costituzionale su tali materie, in particolare sul coordinamento della finanza pubblica. E non poteva essere altrimenti, alla luce della copiosa legislazione statale intervenuta ad affrontare la perdurante crisi economica ed il rispetto di quanto concordato in sede europea dall’Italia per la corretta tenuta dei conti pubblici: legislazione che, com’era facile prevedere, ha ripetutamente innescato la reazione delle Regioni, davanti ad una volontà ritenuta troppo accentratrice dello Stato.
In alcuni importanti giudizi di costituzionalità del 2012, l’Avvocatura ha provato a sorreggere l’ossatura delle varie manovre, ad esempio del d. l. n. 78 del 2010, contenente Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica, convertito dalla legge n. 122 del 2010, adducendo le difficoltà economiche del nostro Paese, così gravi da mettere a repentaglio la stessa salus rei publicae e da imporre, pertanto, una deroga temporanea alle regole costituzionali di distribuzione delle competenze tra Stato e Regioni. Ma la Corte è stata netta nel rifiuto di tale prospettazione, stabilendo che la Costituzione esclude che una situazione di necessità possa legittimare lo Stato ad esercitare funzioni legislative sospendendo le garanzie costituzionali di autonomia degli enti territoriali; ed ha ribadito l’inderogabilità dell’ordine costituzionale delle competenze legislative, anche nel caso in cui ricorrano situazioni eccezionali, nel fronteggiare le quali lo Stato è comunque tenuto a rispettare quel riparto, trovando se mai rimedi consentiti dall’ordinamento costituzionale [sent. n. 151], come ad esempio l’attrazione in sussidiarietà [sent. n. 148].
La Corte ha affermato altresì che gli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede europea non possono essere genericamente tradotti ed evocati dalla difesa erariale come finalizzati al pareggio di bilancio: ciò, perché «il raggiungimento del pareggio di bilancio è alla base di qualsiasi misura finanziaria adottata dallo Stato e perché, comunque, nella visione unitaria del bilancio statale, tutto concorre al pareggio, e ciò a maggior ragione dopo la revisione dell’art. 81 Cost. che, con effetto dal 2014, ha elevato a dignità costituzionale la regola dell’equilibrio fra le entrate e le spese del bilancio statale. Va inoltre considerato che, come questa Corte ha già osservato, il suddetto impegno di ridurre il pareggio di bilancio «ha natura meramente politica e non si è tradotto in norme giuridiche vincolanti»[141] [sentt. nn. 142 e 241].
Ciò posto, la Corte ribadisce la natura di principi fondamentali della materia concorrente coordinamento della finanza pubblica alle norme statali che si limitino a porre obiettivi di riequilibrio dei conti, da intendersi, tuttavia, «nel senso di un transitorio contenimento complessivo, anche se non generale, della spesa corrente» e purché «non prevedano in modo esaustivo strumenti o modalità per il perseguimento dei suddetti obiettivi» [sent. n. 148].
La «grave crisi economico-finanziaria che l’Italia sta attraversando» di cui poco sopra, tuttavia, non è constatazione rimasta estranea alla giurisprudenza costituzionale del 2012: la disposizione statale (art. 5, comma 1, d. l. n. 78 del 2010) che prevede che la destinazione del risparmio derivante da eventuali tagli delle Regioni alle spese degli organi di cui all’art. 121, Cost. finisca nel fondo, statale, per l’ammortamento dei titoli di Stato non è censurabile di incostituzionalità, sia perché limitata nel tempo (riferendosi al triennio 2011-2013), sia perché, per l’appunto, rispondente alle «eccezionali e contingenti esigenze di solidarietà politica, economica e sociale» dovute alla crisi, che richiedono di essere fronteggiate con «il concorso finanziario di tutte le articolazioni istituzionali e territoriali della Repubblica» [sentt. nn. 151, 311].
Ancora per il carattere necessariamente transitorio che la Corte continua ad assegnare [sent. n. 148] alle misure tese a fronteggiare la straordinarietà della crisi economica e finanziaria riconducibili ai principi della materia coordinamento della finanza pubblica, le disposizioni statali che quantificano in cifre i contributi (ad es., previsti all’art. 14, comma 1, d. l. n. 78 del 2010) dovuti dagli enti territoriali per la realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica, estesi tutti praticamente sine die dall’art. 20, comma 4, d. l. n. 98 del 2011, sono invece da ritenersi illegittime se prive dell’indicazione del termine ad quem: termine che la Corte, pur premettendo di non potersi sostituire al legislatore nello stabilire l’arco temporale di durata di tali misure, deduce tuttavia «dalla trama normativa censurata» e stabilisce nell’anno 2014 [sent. n. 193].
Il carattere “finalistico” dei principi di coordinamento finanziario consente da un lato, di collocare a livello centrale i poteri necessari affinché la finalità rincorsa (di solito, il contenimento della spesa o il riequilibrio dei conti pubblici) trovi realizzazione concreta[142]; dall’altro, di ritenere che l’interferenza di tali principi con l’autonomia organizzativa delle Regioni o con altre competenze loro assegnate in via esclusiva o concorrente non sia censurabile [sent. n. 139]. Tale regola, in realtà, non è esente da alcune eccezioni: così, la norma statale che aveva previsto l’accorpamento obbligatorio delle scuole dell’infanzia, primaria e secondaria di primo grado in istituti comprensivi e la contestuale soppressione delle scuole costituite separatamente, con il limite minimo dei 1.000 alunni per poter acquisire l’autonomia (500 alunni in alcuni casi), pur perseguendo evidenti finalità di contenimento della spesa pubblica, secondo la Corte non rappresenta un principio fondamentale in materia di coordinamento finanziario ma una norma di dettaglio, ed è pertanto, unitamente ad altri motivi (v. retro, par. 9.1) incostituzionale [sent. n. 147].
Ma forse la più grossa questione decisa nel 2012 in tema di incidenza della materia de qua  sull’autonomia regionale ha riguardato l’art. 14 del d. l. n. 138 del 2011 (decreto convertito con modificazioni dalla legge n. 148 del 2011), impugnato non a caso da ben 14 enti, tra Regioni e Province autonome (v. anche retro, par. 3). L’articolo, rivolto a tutte le Regioni e difeso dall’Avvocatura in quanto espressione di principi di coordinamento della finanza pubblica, riguarda il numero dei consiglieri e degli assessori regionali, l’indennità e il trattamento previdenziale dei consiglieri, nonché l’istituzione di un Collegio di revisori dei conti quale organo di vigilanza sulla regolarità contabile, finanziaria ed economica delle Regioni. La Corte ha dichiarato l’incostituzionalità di tale disposizione in riferimento soltanto alle Regioni a statuto speciale, in quanto per le Regioni ordinarie la disposizione censurata si inserisce nel quadro della finalità generale del contenimento della spesa pubblica, è coerente col principio di eguaglianza che impone criteri di proporzione tra elettori, eletti e nominati e rappresenta una esplicitazione dell’«armonia con la Costituzione» a carico degli statuti ordinari. Stesso dicasi circa il termine indicato per l’adeguamento delle Regioni (ordinarie) alla disposizione statale, previsto in 6 mesi, per la riduzione del numero di consiglieri e assessori, che indica non il completamento della procedura di revisione statutaria (con il possibile referendum o l’eventuale questione di legittimità costituzionale) ma solo l’«adozione» della scelta. Ed è stata dichiarata parimenti infondata la censura relativa al Collegio dei revisori dei conti, finalizzato a consentire, alla luce del previsto raccordo con le Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti, «il controllo complessivo della finanza pubblica per tutelare l’unità economica della Repubblica (art. 120, Cost.)» [sent. n. 198].
Non irrilevanti (come nel caso appena visto) le eccezioni alla applicabilità della legislazione statale, sottolineate nelle materie in esame dalla Corte, in riferimento alle Regioni e Province ad autonomia speciale. Se le Regioni e gli enti locali sono chiamati a concorrere al raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica, va però sottolineato che la legge-delega n. 42 del 2009 pone una generale clausola di salvaguardia per le autonomie speciali all’art. 27, stabilendo che il loro concorso al conseguimento degli obiettivi di perequazione (nonché, in generale, al mantenimento del patto di stabilità interno e alla necessità di assolvere gli obblighi comunitari) deve avvenire nel rispetto degli statuti speciali e secondo criteri e modalità stabiliti dalle norme di loro attuazione [sentt. nn. 64, 71, 178, 241][143]: in tal senso, l’art. 27 cit. «pone una vera e propria riserva di competenza alle norme di attuazione degli statuti speciali per la modifica della disciplina finanziaria degli ad autonomia differenziata» [sentt. nn. 71, 241].
Da tale ultimo motivo sono derivate una serie di eccezioni che hanno di fatto attenuato, nei confronti di tali enti, gli effetti della legislazione statale, tendenti ad accentrare pressoché tutte le “maggiori entrate” derivanti dalle manovre finanziarie succedutesi negli anni 2010-2011.
Così, il d. lgs. n. 88 del 2011, emanato in attuazione della delega contenuta all’art. 16 della l. n. 42 del 2009 e finalizzato all’attuazione dell’art. 119, comma 5, Cost. (che contempla interventi di perequazione) è da ritenersi applicabile alle sole Regioni ordinarie [sent. n. 71].
Stesso dicasi per molte norme del d. l. n. 138 del 2011, contenente all’art. 19-bis (introdotto in fase di conversione del decreto) una clausola di salvaguardia la quale, rinviando al cit. art. 27 della legge n. 42 del 2009, comporta che le varie disposizioni statali implicanti maggiori entrate (che lo Stato pretenderebbe interamente per sé per cinque anni e tramite separata contabilizzazione) siano interpretate alla luce degli statuti speciali e le relative norme di attuazione. La situazione che ne deriva è la seguente: se le disposizioni statali che determinano maggiori entrate non soddisfano i requisiti necessari ai fini della loro intera devoluzione all’erario (e stabiliti, in forme e quote leggermente diverse per le varie Regioni speciali, negli statuti e nelle norme di attuazione), quelle entrate non possono avere tale destinazione ma dovranno essere suddivise (tra Stato e autonomie speciali) proprio secondo le modalità e le quote previste negli statuti speciali e le rispettive norme attuative [sent. n. 241]. Le questioni sollevate dalle Regioni speciali sulle norme del cit. d. l. n. 138 che comunque produrranno maggiori entrate (attraverso strumenti come la maggiorazione dei tributi, la diminuzione di agevolazioni o la lotta all’evasione fiscale), pertanto, sono comunque infondate: o perché conformi ad uno statuto speciale, e in tal caso si applicano anche alla Regione interessata (con la conseguenza che il maggiore gettito andrà all’erario); o perché non conformi ad esso, ed in tal caso non si applicano alla Regione interessata (con la conseguenza che il maggiore gettito andrà anche alla Regione, nelle misure previste dallo statuto speciale). Solo quando le norme del d. l. n. 138 dichiarino espressamente, tentando di superare la clausola di salvaguardia espressa all’art. 19-bis, la propria diretta ed immediata applicabilità agli enti ad autonomia speciale, allora possono diventare incostituzionali se contrastanti con gli statuti speciali: ciò, semplicemente, in quanto norme ordinarie in contrasto diretto (senza possibilità di applicazione della clausola di salvaguardia) con norme di rango costituzionale [sent. n. 241]. Su tali questioni si rinvia ai paragrafi dedicati alle singole Regioni speciali.
In ogni caso, per le autonomie speciali, ferma restando la regola generale per cui i principi di coordinamento finanziario dettati a livello centrale sono in grado di investirne la normazione [sentt. nn. 30, 139][144], prevale frequentemente una generale preferenza per procedure concordate, idonee a stabilire l’entità del loro concorso alla stabilizzazione finanziaria. È l’«accordo» a rappresentare lo strumento per conciliare e regolare in modo negoziato il loro contributo alla crisi, tutelando un’autonomia finanziaria nel caso di tali Regioni costituzionalmente rafforzata [sent. n. 118]: ciò in virtù del cit. principio per cui tutte le disposizioni attuative della legge-delega n. 42 del 2009, ai sensi del suo art. 27, si applicano agli enti ad autonomia differenziata non in via diretta «ma solo se recepite tramite le speciali procedure previste per le norme di attuazione statutaria». Tali «particolari procedure “pattizie”» devono dunque ritenersi tendenzialmente inderogabili, a meno che una disposizione di legge statale successiva non disponga in senso contrario e si mantenga però, nel farlo, esente da vizi di legittimità costituzionale: in caso di silenzio, resta valido il principio generale di cui al cit. art. 27 [sent. n. 193].
È, così, illegittima la norma statale (art. 37, comma 1, d. lgs. n. 118 del 2011) che prevede la diretta applicazione anche alle autonomie speciali di decreti legislativi (approvati all’esito di una sperimentazione del nuovo assetto contabile negli esercizi finanziari 2012 e 2013, e richiamati all’art. 36, comma 5, dello stesso decreto n. 118) nel caso in cui le speciali procedure non siano state espletate entro 6 mesi dalla loro approvazione; nonché la norma (art. 29, alinea e lett. k, d. lgs. n. 118 del 2011) per cui le regole contabili in essa dettate si applicano, nel settore sanitario, direttamente alle autonomie speciali [sent. n. 178]. È da ritenersi invece superato (con relativa cessazione della materia del contendere), sempre per le sole Regioni speciali, l’art. 9, comma 2-bis, d. l. n. 78 del 2010, che per il triennio 2011-2013 blocca l’ammontare delle risorse stanziabili per il trattamento accessorio del personale al livello del 2010: ciò però, se entra in vigore la legge statale che recepisca gli accordi tra lo Stato e ogni autonomia speciale, necessari a quantificare il loro concorso agli obiettivi di finanza pubblica. La stessa norma, invece, non è censurabile di incostituzionalità se riferita alle Regioni ordinarie [sent. n. 215].
Per il resto, valgono le acquisizioni già fatte proprie dalla giurisprudenza costituzionale.
Anche quando i singoli precetti statali indicanti altrettanti tagli puntuali a precisi capitoli di spesa non sembrano compatibili con la natura di principio fondamentale (della materia concorrente coordinamento della finanza pubblica) richiesta dalla Corte, in realtà da essi le Regioni possono calcolare l’ammontare complessivo dei risparmi da conseguire, e modulare in modo discrezionale, graduato e differenziato, tenendo fermo quel vincolo, le percentuali di riduzione delle singole voci di spesa relativamente ai diversi comparti[145] [sentt. nn. 139, 211, 262]. Da disposizioni statali siffatte, dunque, occorre verificare se si possano effettivamente desumere «principi rispettosi di uno spazio aperto all’esercizio dell’autonomia regionale»[146]: così, se alcuni divieti imposti dalla norma statale (come quello relativo al rimborso chilometrico per le missioni del personale effettuate con mezzo proprio) producessero nelle Regioni effetti contrari al principio del buon andamento, le stesse sarebbero libere di rimodulare discrezionalmente tali divieti, sempre nel rispetto del limite complessivo di contenimento della spesa [sent. n. 139]. Certo è invece che se la rivisitazione delle spese da parte delle Regioni ne determini un aumento complessivo, le disposizioni che operano in tal senso diventano costituzionalmente illegittime [sent. n. 211]: a loro dunque il compito di individuare altre riduzioni, compensative delle riduzioni specifiche non effettuate nei termini che lo Stato aveva tentato di imporre [sent. n. 262].
Spesso, può ricavarsi un principio anche da un’unica e semplice indicazione numerica. È il caso dell’art. 5, comma 5, d. l. n. 78, e del tetto dei 30 euro a seduta per la partecipazione dei detentori di cariche elettive ad organi collegiali (di qualsiasi tipo): si tratta, secondo la Corte, della esplicitazione di un principio di gratuità di tutti gli incarichi conferiti agli eletti presso i propri organi da parte delle pubbliche amministrazioni (inserite nel conto economico consolidato), espressione di una scelta di fondo cui l’esiguità della cifra contestata depone, rappresentandone una eccezione «non rilevante». E risponde alle stesse finalità il principio espresso all’ultimo periodo del comma 7 dello stesso art. 5, ai sensi del quale agli amministratori di comunità montane, unioni di comuni ed altre forme associative di enti locali non possono attribuirsi retribuzioni, gettoni, emolumenti o indennità in qualsiasi forma percepiti [sent. n. 151].
Anche riguardo la spesa per il personale delle Regioni, molte disposizioni statali relative al suo contenimento rappresentano principi riconducibili alla materia coordinamento della finanza pubblica[147], in quanto tali non censurabili di incostituzionalità [sentt. nn. 139, 148, 173, 212, 217], e che presentano una notevole forza di penetrazione anche negli ordinamenti delle autonomie speciali [sentt. nn. 30, 217].
È il caso dell’art. 14, comma 7, del cit. d. l. n. 78 del 2010, che fa scattare il divieto di nuove assunzioni di personale a qualsiasi titolo e con qualsiasi tipologia contrattuale per gli enti sottoposti al patto di stabilità, in caso di suo mancato rispetto nell’esercizio precedente [sent. n. 148].
È il caso dell’art. 14, comma 9, in base al quale si determina la situazione per cui sono vietate nuove assunzioni agli enti nei quali l’incidenza delle spese per il personale è pari o superiore al 50% delle spese correnti [sent. n. 148].
È il caso altresì dell’art. 9, comma 28 (e la relativa modifica introdotta, oltre che con legge di conversione, anche con l’art. 4, comma 102, legge n. 183 del 2011), che ha imposto a partire dal 2011 a Regioni, Province autonome e agli enti del Servizio sanitario nazionale di ridurre del 50% (rispetto all’anno 2009) il ricorso alle assunzioni a tempo determinato, ai contratti di collaborazione coordinata e continuativa e ai contratti di formazione-lavoro [sentt. nn. 173 e 262]; o quello dell’art. 9, comma 36, che impone assunzioni nel limite del 50% delle entrate correnti ordinarie certe e continuative e comunque nel limite complessivo del 60% della dotazione organica agli enti pubblici di nuova istituzione: norma, quest’ultima, finalizzata ad evitare che le limitazioni alle assunzioni per le amministrazioni già esistenti possano essere eluse con il ricorso alla istituzione di nuovi enti [sent. n. 173]. In tal senso, le leggi Regionali che omettano la menzione di tale limite, e che dunque potrebbero comportare assunzioni in numero superiore rispetto alle indicazioni statali, sono illegittime [sent. n. 212]. Per le autonomie speciali, tuttavia, è possibile addivenire ad accordi con lo Stato, che determinano il venir meno  delle questioni di costituzionalità [ord. n. 267].
L’estensione dei limiti di cui al cit. art. 9, comma 28 alle società partecipate dalle pubbliche amministrazioni (art. 9, comma 29), che sono soggetti di diritto privato, si salva invece dalle censure d’incostituzionalità per altra via: ovvero, in quanto riconducibile alla materia ordinamento civile (v. retro, par. 8.5.1), di competenza esclusiva statale [sent. n. 173].
È infine il caso dell’esonero dal servizio, con la relativa sospensione dell’obbligazione lavorativa, che nell’ultimo periodo di servizio i dipendenti possono chiedere all’amministrazione di appartenenza. In argomento, l’art. 72, commi da 1 a 6, d. l. n. 112 del 2008 (ora abrogato dall’art. 24, comma 14, lett. e, d. l. n. 201 del 2011), stabilendo che a chi ottiene l’esonero spetti esclusivamente il 50% del trattamento economico che avrebbe percepito permanendo in servizio, fissa un principio di coordinamento della finanza pubblica: le Regioni, perciò, non possono prevedere per tali dipendenti ulteriori incentivi economici [sent. n. 212].
Ancora, questione relativa al coordinamento della finanza pubblica, e quindi non censurabile di incostituzionalità, è quella inerente alla norma statale (art. 9, comma 31, ancora del d. l. n. 78 del 2010) che, ai fini del computo del personale in servizio, e quindi del calcolo dei limiti alle assunzioni, equipara i trattenimenti in servizio del personale (per un biennio oltre l’età pensionabile) alle assunzioni di personale nuovo [sent. n. 173]; e ai fini del riscontro tra personale impiegato e limiti al regime delle assunzioni non possono essere esclusi, da parte delle Regioni anche speciali, i dipendenti collocati in aspettativa retribuita [sent. n. 217].
In generale, a mo’ di norma di chiusura, anche l’art. 1, comma 557, legge n. 296 del 2006, che obbliga le Regioni alla riduzione delle spese per il personale e al contenimento della dinamica retributiva, costituisce un principio della materia coordinamento della finanza pubblica: il quale vieta ampliamenti di pianta organica delle strutture amministrative regionali al di fuori delle ipotesi per le quali la stessa legislazione statale preveda eccezioni [sent. n. 212].
Riconducibile ai principi de qua è anche il regime delle sanzioni previsto dal d. l. n. 78 del 2010 per gli enti che non rispettino il patto di stabilità interno, quali il rilevante obbligo di annullare «senza indugio» da parte di Consigli e Giunte regionali gli atti adottati nei 10 mesi antecedenti le elezioni regionali, con i quali è stata assunta la decisione di violare il patto di stabilità (art. 14, comma 20), o la revoca di diritto dei conferimenti di incarichi dirigenziali a personale esterno decisi nelle stesse condizioni (art. 14, comma 21), o l’obbligo, in specifiche ipotesi, di non costituire nuove società e l’obbligo di mettere in liquidazione le già esistenti società partecipate dai comuni fino a 30.000 abitanti “non virtuosi” (art. 14, comma 32, nel testo attualmente vigente dopo numerose modifiche intervenute)[148] [sent. n. 148]; per gli enti “virtuosi”, invece, quella permanente modifica al diritto societario, in base alla quale anch’essi non possono più costituire nuove società, è una regola statale non censurabile in quanto ricadente nella materia ordinamento civile (v. retro, par. 8.5.1).
Il coordinamento finanziario richiede anche l’esercizio di poteri di ordine amministrativo, di regolazione tecnica, di rilevazione di dati e di controllo. È pertanto di competenza statale a imporre alle Regioni la trasmissione di dati attinenti alla verifica del mantenimento dei saldi di finanza pubblica[149], nonché i dati relativi alle attività intraprese ed agli atti giuridici posti in essere per l’esecuzione delle sentenze della Corte costituzionale [sent. n. 121].
Caso di applicazione non poco frequente dei principi di coordinamento della finanza pubblica è anche quello dato nell’ambito della spesa sanitaria. Qui, l’autonomia legislativa concorrente delle Regioni in materia di tutela della salute può incontrare limiti alla luce degli obiettivi della finanza pubblica e del contenimento della spesa, specie se in un quadro di esplicita condivisione degli oneri per il rientro dal deficit sanitario da parte delle Regioni [150]. Il principio è espresso all’art. 1, comma 796, lett. b, legge n. 296 del 2006, ai sensi del quale l’Accordo e il Piano di rientro concordati con lo Stato «sono vincolanti per la Regione, che è obbligata a rimuovere i provvedimenti, anche legislativi, e a non adottarne di nuovi che siano di ostacolo alla piena attuazione del piano di rientro»: tale norma, per l’appunto, «può essere qualificata come espressione di un principio fondamentale diretto al contenimento della spesa pubblica sanitaria»[151] [sentt. nn. 91 e 260].
Il rispetto da parte delle Regioni dei principi di coordinamento della finanza pubblica, che si traduce nella doverosa osservanza dei piani di rientro dal deficit sanitario, qualora tuttavia coinvolga le aziende ospedaliero-universitarie non può realizzarsi senza protocolli d’intesa tra le Regioni e le università, pena la violazione dell’autonomia riconosciuta alle seconde ex art. 33, Cost.[152] [sent. n. 91]. Come già visto sopra, però, alle Regioni sottoposte al piano di rientro può non essere inibito intervenire con legge nell’ambito di “Progetti obiettivo”, ovvero attività finanziate con appositi fondi dello Stato (previa valutazione di priorità in sede di Conferenza Stato-Regioni), in quanto (secondo quanto già visto retro, al par. 9.3) tali progetti seguono un percorso autonomo di finanziamento e possono essere non inclusi nei piani di rientro dal disavanzo [sent. n. 260].
Come visto sopra (cfr. par. 9.3), il ticket da 10 euro per le prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale e il ticket da 25 euro per le prestazioni erogate in regime di pronto soccorso ospedaliero non seguite da ricovero, introdotti dall’art. 1, comma 796, lett. p, legge n. 296 del 2006, poi «aboliti» dall’art. 61, comma 19, d. l. n. 112 del 2008 con facoltà per le Regioni di continuare ad applicarlo «in misura integrale o ridotta», quindi attualmente ripristinati dall’art. 17, comma 6, d. l. n. 98 del 2011, rincorrono «l’esigenza di adottare misure efficaci di contenimento della spesa sanitaria e la necessità di garantire, al tempo stesso, a tutti i cittadini, a parità di condizioni, una serie di prestazioni che rientrano nei livelli essenziali di assistenza», secondo quanto la Corte aveva già avuto modo di stabilire[153]. Per questi stessi motivi, non sono ancora censurabili di incostituzionalità [sent. n. 187].
Rappresenta un principio di coordinamento della finanza pubblica anche quello espresso dall’art. 9, comma 17, d. l. n. 78 del 2010, ai sensi del quale «senza possibilità di recupero» non si dà luogo alle procedure contrattuali per i dipendenti pubblici nel triennio 2010-2012. L’esclusione del «recupero» ha il fine di evitare che la contrattazione collettiva successiva al 2012 possa riguardare anche gli anni 2010-2012, attribuendo ai dipendenti i benefici economici persi dalla mancata contrattazione in quel triennio; ma essa non comporta che dopo il 2012 la contrattazione non possa riprendere, in quanto ciò comporterebbe l’irragionevole preclusione senza limiti di tempo della pattuizione di qualsiasi incremento di trattamento economico contrattuale [sent. n. 189].
Ancora, rappresentano norme di principio nella materia coordinamento della finanza pubblica quelle che obbligano le Regioni a fornire dettagli sulle tipologie di investimento programmate attraverso il ricorso al mercato finanziario: l’indebitamento, infatti (ai sensi dell’art. 1, commi da 16 a 19, legge n. 350 del 2003, come modificato dall’art. 62, comma 9, del d. l. n. 112 del 2008), è possibile solo per gli investimenti chiaramente individuati dalla disposizione statale, che ha lo scopo di garantire che le modalità di accesso ai contratti derivati da parte delle Regioni e degli enti locali siano assistite da cautele in grado di prevenire l’accollo di oneri impropri, derivanti da strumenti aventi «caratteristiche fortemente aleatorie». Si tratta, parallelamente, di quella «forza espansiva» dell’art. 81, comma 4, Cost. nei riguardi delle fonti di spesa di carattere pluriennale e dalle componenti variabili e complesse, costantemente sottolineata dalla Corte[154] [sent. n. 70].
Anche in tema di tesoreria unica è possibile rintracciare principi della materia coordinamento della finanza pubblica nonché, ancora, l’adesione anche della giurisprudenza costituzionale alla tesi della «grave crisi economico-finanziaria» attraversata dal Paese. L’art. 35, comma 8, d. l. n. 1 del 2012 ha previsto la sospensione fino al 31 dicembre 2014 del regime di tesoreria unica mista (risalente al 1997) ripristinando il precedente regime di tesoreria unica per gli enti e gli organismi del settore pubblico allargato (introdotto nel 1984). Il fine perseguito da tale scelta è garantire la tempestività dei pagamenti da parte delle pubbliche amministrazioni ma, soprattutto, quello di far confluire nelle casse dello Stato ingenti somme di denaro (9 miliardi di euro, secondo quanto emerso dagli atti in giudizio) per gestire meglio la liquidità e ridurre il fabbisogno finanziario: la conseguenza è una minore emissione di titoli di Stato e l’abbattimento del «differenziale – cosiddetto spread – tra il tasso d’interesse dei titoli italiani e quello, più basso, di titoli emessi da altri Paesi (in particolare Germania)». In sostanza, le somme di denaro che Regioni ed enti locali depositavano presso il sistema bancario privato, spesso all’insegna di «rapporti “vischiosi”» (secondo espressione testuale della Corte) tra tali enti pubblici e gli istituti privati, vengono trasferiti alle Tesorerie provinciali, dunque alla Banca d’Italia.
Le censure di incostituzionalità mosse dalle Regioni, anche speciali, a tale disposizione sono state ritenute tutte infondate: con riguardo all’art. 117 Cost., e dunque alla distribuzione delle competenze legislative, in quanto trattasi di scelta, peraltro di durata temporanea, che si colloca nell’ambito dei principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, e il sistema di tesoreria unica altro non è che uno strumento per contenere il fabbisogno finanziario dello «Stato ordinamento»; con riguardo all’art. 119 Cost., in quanto il regime non lede l’autonomia finanziaria di entrata e di spesa degli enti territoriali: non preclude loro, infatti, la facoltà di disporre effettivamente e prontamente delle proprie risorse per le finalità istituzionali; ancora con riguardo all’art. 119 Cost., perché la minore redditività del tasso di interesse degli istituti privati rispetto a quello praticato dalle Tesorerie, imposto con legge, «non incide in maniera costituzionalmente rilevante» sull’autonomia finanziaria di Regioni ed enti locali, sebbene produca minori entrate derivanti dalla non più possibile giacenza (e dunque dalla produttività attraverso gli interessi) delle somme di denaro nelle banche private: la transitorietà della disposizione e la situazione di eccezionale gravità economico-finanziaria sono circostanze che inducono a respingere le censure regionali; e infine, la scelta statale non è censurabile nemmeno con riguardo all’art. 97, in quanto proprio l’obiettivo della tempestività dei pagamenti, sintomo di efficienza e buon andamento della pubblica amministrazione, viene perseguito disincentivando l’accumulo di giacenze di denaro presso gli istituti bancari al fine della maturazione degli interessi [sent. n. 311].
Un ultimo caso di decisione presa alla luce della competenza nella materia de qua riguarda la disciplina della valorizzazione e gestione del patrimonio immobiliare pubblico, alla luce di una tendenza registrabile in una serie di disposizioni contenute in atti legislativi statali dell’ultimo decennio: anche tale gestione, quindi, presenta elementi e vocazioni di carattere univocamente, o prevalentemente, finanziario[155]. In tali disposizioni e scelte statali, il profilo finanziario appare infatti del tutto prevalente rispetto a quello patrimoniale (e dunque ai diritti e alle competenze che gli enti territoriali esercitano sui beni pubblici): la legislazione statale appare orientata ad introdurre discipline del patrimonio pubblico considerato «nel suo complesso», nella prospettiva di tracciarne obiettivi di un governo finanziario unitario, finalizzati, ancora una volta, a fronteggiare l’attuale eccezionale situazione di crisi economica e finanziaria; ciò, anche in considerazione del fatto che la gestione economico-finanziaria degli immobili risulta «una tra le più consistenti risorse pubbliche». Attraverso tale ricostruzione, la disciplina espressa dagli artt. 33 e 33-bis del d. l. n. 201 del 2011 (il secondo introdotto dalla legge di conversione n. 111 del 2011), in virtù della quale è attribuito alla Agenzia del demanio il ruolo della valorizzazione, trasformazione, gestione ed alienazione del patrimonio pubblico anche di proprietà delle Regioni e degli enti territoriali, nonché la disciplina strettamente procedurale espressa all’art. 27 dello stesso decreto, risultano «naturalmente» attribuibili alla materia coordinamento della finanza pubblica di cui rappresentano principi fondamentali, e pertanto non censurabili [sent. n. 284].
 
 
13. Autonomie speciali
 
13.1. Statuti speciali
 
In tale sezione verrà dato conto di alcune decisioni particolari, per via del contenuto, relative specificamente alle autonomie speciali.
L’art. 10 della l. cost. n. 3 del 2001 (c.d. “clausola di maggior favore”) ha la funzione di garantire alle autonomie speciali quegli spazi di maggiore autonomia previsti dalle norme del Titolo V revisionato nel 2001 e non ancora contemplate negli statuti speciali[156]. È il caso della polizia amministrativa locale, oggetto di una competenza residuale delle Regioni ordinarie che, in virtù del cit. art. 10, si estende anche alle Regioni a statuto speciale [sent. n. 141].
Per le materie afferenti alla potestà legislativa primaria delle Regioni speciali (e delle Province autonome), invece, permangono i noti limiti fissati dagli statuti, cioè: l’armonia con la Costituzione, il rispetto dei principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica, degli obblighi internazionali e degli interessi nazionali, nonché delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica[157] [sent. n. 74].
Come emerso sopra (cfr. par. 12.2), tuttavia, gli statuti speciali e le relative norme di attuazione, se congruamente richiamate dalle Regioni ricorrenti, sono state fonti spesso utilizzate dalla Corte in senso favorevole all’autonomia di tali enti, in quella che è stata la difficile operazione di scrutinio della così detta “legislazione della crisi”. Pur trattandosi di disposizioni tendenzialmente simili, presentano delle sfumature diverse, delle quali si darà conto distintamente nei paragrafi successivi (da leggersi, sul tema, in parallelo al par. 12.2).
 
 
13.2. Trentino-Alto Adige
 
La decisione di ricorrere in via d’azione spetta ai Consigli provinciali, ma può essere in via d’urgenza (ex art. 54, comma 7, Statuto TAA) e comunque con ratifica consiliare e suo deposito entro, al più tardi, il termine per la costituzione in giudizio davanti alla Corte costituzionale, adottata dalla Giunta provinciale, con deposito del relativo ricorso (analogamente a quanto stabilito dalla Corte per i ricorsi disposti in via d’urgenza dal solo Presidente del Consiglio dei Ministri, da ratificare dal Consiglio dei Ministri[158]). Spirato il termine per il deposito della ratifica consiliare, il ricorso, basato sulla sola decisione della Giunta, dovrebbe ritenersi inammissibile: tuttavia, una «lunga prassi» della Corte tesa a non rilevare l’inammissibilità dei ricorsi sotto questo profilo[159], avendo determinato «l’obiettiva incertezza interpretativa delle norme processuali in materia», consente di ritenere quello delle due Province autonome come un errore scusabile, generato dall’affidamento circa la non perentorietà del termine di deposito della ratifica dei consigli delle impugnative proposte in via d’urgenza dalle giunte [sentt. nn. 142, 178, 183, 202, 203].
Come già segnalato (v. retro, par. 2.5), per la Regione de qua fungono da parametro di costituzionalità anche le norme adottate ai sensi dell’art. 104 dello Statuto, ovvero adottate con legge statale ordinaria su accordo preventivo tra Governo, Regione e Province autonome: è la stessa norma statutaria, infatti, che abilita disposizioni di legge ordinaria statale a modificare il titolo VI dello Statuto[160]: in virtù di tale meccanismo, la Provincia di Bolzano può stabilire casi di esenzione dell’addizionale regionale IRPEF, a ciò essendo stata abilitata dall’art. 73, comma 1 bis, dello Statuto speciale, aggiunto dalla legge statale n. 191 del 2009 [sent. n. 2].
Con riguardo alla legislazione statale in materia di finanza pubblica, l’addizionale erariale prevista sulle tasse automobilistiche (introdotta dall’art. 23, comma 21, del d. l. n. 98 del 2011 come modificato dall’art. 16, comma 1, d. l. n. 201 del 2011 convertito, quest’ultimo, dalla legge n. 214 del 2011), pur innestandosi su un «tributo proprio della Provincia» di Trento, resta un prelievo erariale, disposto dallo Stato nell’esercizio della sua potestà legislativa esclusiva in materia di sistema tributario dello Stato. Ciò posto, qualora la previsione dell’addizionale da parte dello Stato non soddisfi i requisiti (di cui all’art. 9, d. lgs. n. 268 del 1992) necessari affinché il gettito che produce sia trattenuto interamente dall’erario, lo stesso gettito spetta per i nove decimi alla Provincia autonoma, ai sensi dell’art. 75, comma 1, alinea e lett. g dello Statuto [sent. n. 142].
 
 
13.3. Sicilia
 
Principio da tener presente per tale Regione, esplicitato dalle norme statutarie e di attuazione, è quello per cui la abolizione di tributi erariali il cui gettito era devoluto alla Regione non è vietata costituzionalmente, se non quando ciò renda impossibile lo svolgimento delle sue funzioni[161]: ciò comporta l’infondatezza di ricorsi privi della dimostrazione di tale ultima evenienza [sent. n. 241].
Ciò posto, ed entrando nello specifico, in base al principio stabilito dall’art. 2 del D.P.R. n. 1074 del 1965, spettano alla Regione siciliana tutte le entrate tributarie erariali riscosse nell’ambito del suo territorio, dirette o indirette, comunque denominate [sent. n. 152], eccezion fatta per le nuove entrate che abbiano carattere tributario e il cui gettito sia diretto a soddisfare particolari finalità contingenti o continuative dello Stato, specificate nelle leggi che le istituiscono: l’addizionale sulle tasse automobilistiche prevista dal d. lgs. n. 98 del 2011 (art. 23, comma 21 e art. 40, comma 2, lett. a), da devolvere interamente all’erario, presentando le tre caratteristiche (è tributaria, è nuova ed è diretta a soddisfare specifiche finalità indicate dalla disposizione statale), non può essere censurata per incostituzionalità. Infatti, con riguardo al suo porsi come nuova entrata tributaria, la Corte ha già stabilito come in tali casi rilevi la novità del provento, non la novità del tributo[162]; e con riguardo alla indicazione delle finalità, il decreto censurato dalla Regione Sicilia specifica in maniera soddisfacente quali siano e, con esse, la copertura cui sono destinate: ciò, fermo restando che qualora residui una quota del gettito da essa derivante, la Regione potrà legittimamente rivendicare l’attribuzione di tale residuo, eventualmente sollevando conflitto di attribuzione davanti alla stessa Corte costituzionale [sent. n. 135].
Stesso dicasi per il contributo unificato di iscrizione a ruolo dovuto nei processi tributari e nei processi civili: sulla base del citato assunto per cui nuova entrata tributaria è sia la maggiore entrata derivante da nuovi tributi che dall’aumento delle aliquote di tributi preesistenti, non è censurabile di incostituzionalità la devoluzione all’erario del maggior gettito derivante dalla sostituzione dell’imposta di bollo con i citati contributi unificati, che lo Stato può quantificare senza instaurare i percorsi di collaborazione con la Regione, stante l’«agevole individuazione» dell’ammontare del loro incremento [sentt. nn. 143, 265].
Al contrario, non soddisfano i tre requisiti richiesti dallo statuto siciliano e dalle norme di attuazione, con conseguente impossibilità di devoluzione all’erario del maggior gettito prodotto (v. retro, par. 12.2), alcune previsioni del cit. d. l. n. 138 del 2011, ovvero: la sovrimposta IRPEF prevista all’art. 2, comma 2, d. l. n. 138 del 2011 (così detto “contributo di solidarietà”); l’aumento dell’IVA dal 20 al 21%, prevista all’art. 2, commi 2-bis, 2-ter e 2-quater; e l’imposta di bollo sui trasferimenti di denaro all’estero attraverso gli istituti bancari, le agenzie “money transfer” ed altri agenti in attività finanziaria, prevista all’art. 2, comma 35-octies: tali disposizioni possiedono solo due dei requisiti richiesti, ovvero il carattere tributario e il carattere della novità, ma non quello della specifica destinazione del maggiore gettito che ne deriva, essendo il raggiungimento del pareggio di bilancio motivazione troppo generica e priva di valore cogente (v. retro, par. 12.2) [sent. n. 241].
Anche il recupero dell’evasione fiscale, previsto ancora dal d. l. n. 138 (all’art. 2, comma 36), non avendo palesemente il carattere della novità richiesto dallo statuto siciliano e dalle norme di attuazione, non può essere dovuto all’erario ma deve rimanere nella disponibilità della Regione siciliana [sent. n. 241].
È invece costituzionalmente illegittima la volontà, desumibile dall’art. 2, commi 5-bis e 5-ter del d. l. n. 138, di acquisire al bilancio dello Stato l’intero ammontare sia delle somme dichiarate e non versate dai contribuenti che si sono avvalsi dei condoni e delle sanatorie, sia delle nuove sanzioni previste per il ritardo di tali pagamenti, sia di quanto accertato per effetto dei nuovi controlli e della proroga del termine di accertamento dell’IVA: ciò in quanto violano lo statuto siciliano e le norme di attuazione, in virtù della pretesa di ritenersi direttamente applicabili alla Regione e non, come previsto al cit. art. 19-bis, solo se compatibili con gli statuti delle autonomie speciali [sent. n. 241].
Contrariamente, infine, a quanto si vedrà infra a proposito delle Regioni Friuli Venezia Giulia e Valle d’Aosta, ai sensi dell’art. 36 dello Statuto della Sicilia e dell’art. 2, commi 2 e 3, del cit. D.P.R. n. 1074 di attuazione, il maggiore gettito derivante dall’aumento dell’aliquota di base dell’accisa sui tabacchi lavorati, prevista dall’art. 2, comma 3, del d. l. n. 138 del 2011, deve essere riservata interamente allo Stato [sent. n. 241].
 
 
13.4. Friuli-Venezia Giulia
 
In base al (tendenziale) richiamo agli statuti delle Regioni ad autonomia speciale in tema di autonomia finanziaria, contenuto già all’art. 27 della legge n. 42 del 2009 (cfr. retro, parr. 13.1 e 12.2), la maggiorazione del gettito derivante dalla sovrimposta IRPEF prevista all’art. 2, comma 2, d. l. n. 138 del 2011 (così detto “contributo di solidarietà”), non va devoluta interamente allo Stato (come da questi preteso) ma soltanto per i suoi quattro decimi, come previsto dallo statuto speciale (all’art. 49, comma 1) e dalla normativa di attuazione (art. 4, comma 1, D.P.R. n. 114 del 1965): ciò, in virtù dell’art. 19-bis dello stesso decreto n. 138 che richiede, ai fini della sua applicazione alle autonomie speciali, il già menzionato rispetto dei rispettivi statuti e delle norme attuative (cfr. retro, par. 12.2). La sua devoluzione integrale allo Stato sarebbe stata infatti possibile alle condizioni ivi previste, ovvero la temporaneità del gettito, la contabilizzazione distinta nel bilancio statale (condizioni entrambe presenti nella normativa statale) e la finalità di copertura di nuove specifiche spese di carattere non continuativo: condizione, quest’ultima, non presente nella normativa statale [sent. n. 241].
Il fatto che non ricorrano tutte le condizioni statutarie per l’integrale riserva allo Stato del maggiore gettito riguarda anche altre misure previste dal cit. d. l. n. 138, ovvero: l’aumento dell’IVA dal 20 al 21% (da assegnare quindi per i nove decimi alla Regione); l’aumento dell’accisa sui tabacchi lavorati (da assegnare per i nove decimi alla Regione); gli effetti della fissazione nella misura unica del 20% delle ritenute e delle imposte sostitutive sui redditi di capitale (da assegnare in varia percentuale, a seconda della tipologia delle imposte e delle relative discipline, alla Regione); e l’incremento dell’IRES – Imposta sul Reddito delle Società (da assegnare per i quattro decimi e mezzo alla Regione) [sent. n. 241].
 

13.5. Sardegna
 
Anche in tale Regione, in base al tendenziale richiamo agli statuti delle Regioni ad autonomia speciale in tema di autonomia finanziaria, contenuto già all’art. 27 della legge n. 42 del 2009 (cfr. retro, parr. 13.1 e 12.2), la maggiorazione del gettito derivante dalla sovrimposta IRPEF prevista all’art. 2, comma 2, d. l. n. 138 del 2011 (così detto “contributo di solidarietà”), non va devoluta interamente allo Stato (come da questi preteso) ma soltanto per i suoi sette decimi, ai sensi dell’art. 8, comma 1, lett. a, dello Statuto sardo (sent. n. 241): scatta dunque l’operatività della già sopra menzionata (cfr. par. 12.2) clausola di salvaguardia (prevista all’art. 19-bis dello stesso decreto n. 138) per le autonomie speciali.
Stesso dicasi per l’aumento dell’IVA dal 20 al 21%, da assegnare per i nove decimi alla Regione, ai sensi dell’art. 8, comma 1, lett. f, dello Statuto sardo; per le disposizioni in materia di giochi pubblici, quali l’introduzione di nuovi giochi e nuove lotterie, di nuove modalità di gioco del Lotto e dei giochi numerici a totalizzazione nazionale, la variazione dell’assegnazione della percentuale della posta di gioco a montepremi ovvero a vincite di denaro, della misura del prelievo erariale unico e della percentuale del compenso per le attività di gestione dei punti vendita, il cui maggiore gettito resta per i sette decimi alla Regione ai sensi dell’art. 8, comma 1, lett. m; per l’ammontare sia delle somme dichiarate e non versate dai contribuenti che si sono avvalsi dei condoni e delle sanatorie, sia delle nuove sanzioni previste per il ritardo di tali pagamenti, sia di quanto accertato per effetto dei nuovi controlli e della proroga del termine di accertamento dell’IVA (art. 2, commi 5-bis e 5-ter del d. l. n. 138), il cui maggiore gettito resterà alla Regioni nelle percentuali previste (differentemente, a seconda della tipologia di tributo) all’art. 8 dello Statuto; per gli effetti sul gettito della fissazione nella misura unica del 20% delle ritenute e delle imposte sostitutive sui redditi di capitale, da assegnare per i sette decimi alla Regione ai sensi dell’art. 8, comma 1, lett. m, dello Statuto; ed infine per il recupero dell’evasione fiscale, previsto ancora dal d. l. n. 138 (all’art. 2, comma 36), se trattasi di un gettito riferito ad entrate riscosse o percepite in territorio sardo, che ancora l’art. 8 dello Statuto riserva, in varie percentuali, alla Regione Sardegna [sent. n. 241].
La Regione dispone della competenza legislativa primaria in materia paesistico-ambientale. Tuttavia, ciò non le è sufficiente per poter individuare le aree ed i siti idonei ad ospitare impianti per l’energia rinnovabile (nella specie, eolici), contrariamente a quanto disposto dalla normativa statale che, sulla base del principio della massima diffusione possibile delle energie rinnovabili, consente alle Regioni di individuare le aree e i siti non idonei (cfr. retro, par. 9.8) . Nel primo caso invade un principio della materia concorrente energia; nel secondo invece, oltre ad allinearsi a quanto prescritto nella legislazione statale, si sarebbe mantenuta nell’ambito della propria competenza in materia paesistica [sent. n. 224].
 
 
13.6. Valle d’Aosta
 
In base al tendenziale richiamo agli statuti delle Regioni ad autonomia speciale in tema di autonomia finanziaria, contenuto già all’art. 27 della legge n. 42 del 2009 (cfr. retro, par. 12.2), l’aumento dell’aliquota dell’accisa sui tabacchi disposto dalla legislazione statale (all’art. 3, comma 2, d. l. n. 138 del 2011) comporta un maggiore gettito che deve essere devoluto interamente alla Regione: diversamente sarebbe accaduto in caso di decreto ministeriale adottato d’intesa col Presidente della Giunta regionale, fonte legittimata a stabilire se devolvere, in tutto o in parte, allo Stato il maggiore gettito derivante dall’aumento dell’accisa [sent. n. 241].
 
 
14. Art. 136 Cost.
 
È illegittima una legge che riproduca il contenuto di altra legge già dichiarata incostituzionale: ciò, a causa della violazione del giudicato costituzionale (art. 136, Cost.), che si verifica non solo quando il legislatore emana una norma che costituisce una mera riproduzione di quella già ritenuta lesiva della Costituzione, ma anche laddove la nuova disciplina miri a «perseguire e raggiungere, “anche se indirettamente”, esiti corrispondenti»[163]. Nella specie, è stata censurata l’assegnazione temporanea a mansioni superiori dei dipendenti della Regione Puglia, accompagnata per di più dall’assenza di un termine per lo svolgimento dei concorsi necessari, nelle more dell’espletamento dei quali la disposizione intendeva produrre effetti: circostanza che assegna carattere provvisorio alla legge, eventualmente da considerare da parte della Corte, soltanto nominalmente.
La decisione in argomento si chiude con il seguente, irrituale richiamo: «La Corte rileva con preoccupazione che la Regione Puglia continua ad approvare disposizioni legislative contrastanti con gli artt. 3 e 97 Cost., senza ottemperare a ben due giudicati costituzionali. Come sottolineato da lungo tempo dalla giurisprudenza di questa Corte, sull’art. 136 Cost. “poggia il contenuto pratico di tutto il sistema delle garanzie costituzionali” (sentenza n. 73 del 1963). Questo comporta per il legislatore, statale e regionale, l’obbligo di “accettare la immediata cessazione dell’efficacia giuridica della norma illegittima”, anziché “prolungarne la vita” (sentenza n. 223 del 1983)» [sent. n. 245].
 
 
[1] Per i dati quantitativi l’analisi sarà limitata al giudizio in via principale e, con qualche eccezione, al conflitto tra enti; la parte sostanziale, invece, tiene conto anche delle pronunce rese nel giudizio in via incidentale su profili d’interesse regionale.
[2] Per i dati quantitativi generali sulla giurisprudenza del 2012 si veda la Relazione sulla giurisprudenza costituzionale del 2012, a cura del Servizio Studi della Corte costituzionale, disponibile al sito www.cortecostituzionale.it.
[3] Per un’analisi dei dati del 2011 si rinvia a N. Viceconte, La giurisprudenza costituzionale del 2011, in La giustizia costituzionale e il 'nuovo' regionalismo (a cura di N. Viceconte e P. Colasante), II, Milano, Giuffrè, 2013, p. 263 e ss.
[4] Sul punto v. la Relazione del Presidente Prof. Franco Gallo, in occasione della presentazione della Relazione sulla giurisprudenza costituzionale del 2012, Roma, 12 aprile 2013, disponibile al sito www.cortecostituzionale.it.
[5] Disponibile al sito www.cortecostituzionale.it.
[6] Tra le più recenti, cfr. le sentenze nn. 275, 205 e 7 del 2011.
[7] Sent. n. 98 del 2007.
[8] Così, da ultimo, le sentenze nn. 69 e 33 del 2011; 121, 215 e 278 del 2010.
[9] Sentenze nn. 298 del 2009; 169 e 95 del 2007; 417 del 2005; 196 del 2004.
[10] Da ultimo, sentenze nn. 33, 79 e 128 del 2011; 40, 52 e 156 del 2010.
[11] In tal senso, da ultimo, sentenze nn. 128 e 33 del 2011; 326, 156, 52 e 40 del 2010.
[12] Cfr. le sentenze nn. 250 del 2009; 303 del 2003; 353 del 2001; 503 del 2000.
[13] Sent. n. 6 del 2004.
[14] Nel giudizio in via incidentale, ovviamente, la circostanza determina la restituzione degli atti al giudice rimettente, cui spetta la valutazione circa la perdurante rilevanza e non manifesta infondatezza delle questioni sollevate: cfr. ad es. ordinanze nn. 24 e 59.
[15] Cfr., ex plurimis, l’ord. n. 238 del 2011 e le sentenze nn. 40 del 2011, 40 del 2010 e 98 del 2007.
[16] Ex plurimis, sentenze nn. 320 del 2008; 451 del 2007.
[17] Cfr. anche la sent. n. 217 del 2011 e le ordinanze nn. 199 e 48 del 2009, 313 del 2007, 418 del 2006.
[18] Sentenze nn. 187 e 165 del 2011; 40 del 2010; 98 del 2007; 74 del 2001.
[19] Così, da ultimo, le sentenze nn. 227 e 88 del 2011; 278, 119 e 16 del 2010; nonché sent. n. 450 del 2005.
[20] Ex multis, sentenze nn. 88 del 2007 e 249 del 2005.
[21] Da ultimo, ordinanze nn. 212, 103 e 101 del 2011.
[22] Cfr. da ultimo la sentenza n. 90 del 2011.
[23] Sent. n. 323 del 2011
[24] Sentenze nn. 232 e 153 del 2011; 298 del 2009.
[25] Ma già, da ultimo, sentenze nn. 232, 208, 207 e 205 del 2011.
[26] Da ultimo, sent. n. 36 del 2011.
[27] Sentenze nn. 335 e 248 del 2010; 92 del 2009
[28] Cfr. sentenze nn. 130 del 2009; 195 del 2007; 276 del 2003; 27 del 1999.
[29] Da ultimo, sent. n. 369 del 2010.
[30] Ma già sent. n. 386 del 2005.
[31] Sentenza n. 4 del 2010.
[32] Così le sentenze nn. 188 del 2011; 2 del 2004; 196 del 2003.
[33] Da ultimo, cfr. sententze nn. 310 e 294 del 2011.
[34] Da ultimo, cfr. sentenze nn. 143 e 283 del 2010.
[35] Sent. n. 294 del 2011.
[36] Cfr. sentenze nn. 102 del 2008 e 348 del 2007.
[37] …come da giurisprudenza della Corte di Giustizia: cfr. sent. 6 marzo 2003, in causa C-6/2002, Commissione delle Comunità europee contro Repubblica Francese.
[38] Da ultimo, sentenze nn. 232, 165 e 33 del 2011.
[39] Cfr. sentenze nn. 165 e 33 del 2011; 121 del 2010; 24 del 2007; 383 e 339 del 2005.
[40] Sentenze nn. 371 e 222 del 2008; 401 del 2007.
[41] Sentenze nn. 121 del 2010; 24 del 2007; 339 del 2005.
[42] Da ultimo, sent. n. 313 del 2010.
[43] Sentenze nn. 250 del 2009; 167 del 2005; 236, 69 e 43 del 2004.
[44] Cfr. sentenze nn. 78 del 2011; 2 del 2010.
[45] Sent. n. 143 del 1989.
[46] Sent. n. 202 del 1997.
[47] Sentenze nn. 44 del 2010; 271 e 250 del 2008.
[48] Cfr. anche il richiamo contenuto nella sent. n. 62 del 2012 e, per i precedenti, le sentenze nn. 44 del 2010; 271 e 250 del 2008-
[49] Cfr. sent. n. 168 del 2009.
[50] Sul punto di veda ancora la ricordata relazione del Presidente Gallo.
[51] Cfr. sent. n. 168 del 2009.
[52] Così le sentenze nn. 33 e 330 del 2011; 278 del 2010; 88 del 2009; 219 e 50 del 2005.
[53] Cfr. le sentenze nn. 33 del 2011; 331 e 278 del 2010; 247 del 2006; 62 del 2005.
[54] Sent. n. 369 del 2008.
[55] Sent. n. 339 del 2007.
[56] Sent. n. 172 del 2004.
[57] Sent. n. 330 del 2011.
[58] Sent. n. 200 del 2009.
[59] Sentenze nn. 150 del 2011; 295 del 2009; 430 del 2007; 61 del 1968.
[60] Sentenze nn. 49 del 2006; 70 del 2005.
[61] Sentenze nn. 210 del 1987; 151 del 1986.
[62] Sent. n. 378 del 2007.
[63] Ex multis, sentenze nn. 270 e 45 del 2010; 160 del 2009; 430 e 401 del 2007.
[64] Ex multis, sentenze nn. 150 del 2011; 288 del 2010; 431, 430, 401 e 67 del 2007; 80 del 2006.
[65] Da ultimo, sentenze nn. 339, 150 e 43 del 2011; 45 e 288 del 2010.
[66] Da ultimo, sentenza n. 339 del 2011.
[67] Cfr. sentenze nn. 246 del 2009; 168 del 2008; 144 e 378 del 2007.
[68] Da ultimo, sent. n. 128 del 2011.
[69] Ma già sentenze nn. 340, 233 e 180 del 2010.
[70] Nello stesso senso, cfr. sentenze nn. 60 del 2011 e 123 del 2010.
[71] Sentenze nn. 357 del 2010; 216 del 2009.
[72] Sent. n. 37 del 2005.
[73] Cfr. sentenze nn. 300 e 35 del 2011; 274 e 226 del 2010; 196 e 129 del 2009.
[74] Sent. n. 123 del 2010. Cfr. anche sentenze nn. 295 del 2009; 50 del 2005; 352 del 2001.
[75] Da ultimo, sent. n. 43 del 2011.
[76] Così le sentenze nn. 401 del 2007; 160 del 2009; 53 e 43 del 2001.
[77] Da ultimo, sentenze nn. 7, 68, 69, 108 e 150 del 2011; 332 del 2010.
[78] Cfr. soprattutto le sentenze n. 324 del 2010 e n. 69 del 2001.
[79] Cfr. sentenze nn. 7 del 2011; 332 del 2010.
[80] V. anche sent. n. 68 del 2011 sulla stabilizzazione dei lavoratori in mobilità e, in generale, la sent. 69 del 2011 per la trasformazione in contratti di lavoro a tempo indeterminato di contratti di lavoro flessibile in corso.
[81] Sent. n. 320 del 2011.
[82] Sent. n. 185 del 2004
[83] Così, ex plurimis, sentenze nn. 232 e 9 del 2011; 387 del 2007; 248 e 134 del 2006; 285 e 383 del 2005; 88 del 2003; 282 del 2002.
[84] Cfr. anche sentenze nn. 207 del 2010; 1 del 2008; 430, 169 e 165 del 2007; 29 del 1995.
[85] Sentenze nn. 282 del 2009 e 336 del 2005.
[86] Ex plurimis, sentenze nn. 322 del 2009; 168 e 50 del 2005.
[87] Cfr. anche sentenze nn. 322 del 2009; 399 e 398 del 2006.
[88] Sent. n. 330 del 2011.
[89] Sent. n. 200 del 2009.
[90] Cfr. sentenze nn. 92 del 2011 e, soprattutto, 200 del 2009.
[91] Sent. n. 200 del 2009.
[92] Sent. n. 378 del 2007.
[93] Sentenze nn. 235 del 2011; 225 e 12 del 2009
[94] Sentenze nn. 210 del 1987; 151 del 1986.
[95] Sent. n. 378 del 2007.
[96] Sentenze nn. 30 e 12 del 2009; 104 del 2008.
[97] Sent. n. 378 del 2007.
[98] Da ultimo, cfr. sentenze nn. 187, 151,67 e 33 del 2011.
[99] Si vedano le sentenze nn.187 e 69 del 2011; 373 e 127 del 2010; 314, 61 e 10 del 2009; 62 del 2008.
[100] Cfr. anche sentenze nn. 234 del 2010 e 62 del 2008.
[101] Cfr. le sentenze nn. 33 del 2011; 331 e 278 del 2010; 247 del 2006; 62 del 2005.
[102] Ex multis, sent. n. 44 del 2011.
[103] Tra le ultime, sentenze nn. 191 del 2011; 193 e 233 del 2010.
[104] Sentenze nn. 92 del 2011; 200 del 2009.
[105] Sent. nn. 92 del 2011.
[106] Da ultimo, cfr. le sentenze nn. 230 e 77 del 2011; 131, 132 e 300 del 2010.
[107] Da ultimo, sent. n. 230 del 2011.
[108] Sent. n. 203 del 2008.
[109] Sent. n. 68 del 2011.
[110] Da ultimo, sent. n. 248 del 2011.
[111] Cfr. sentenze nn. 277 del 2008; 284 del 2006.
[112]…che richiama un caso simile trattato nella sent. n. 254 del 2010.
[113] Cfr. sentenze nn. 49 del 2006; 70 del 2005.
[114] Da ultimo, sentenze nn. 308, 275 e 192 del 2011; 166 del 2009.
[115] Cfr., tra le tante, le sentenze n. 192 del 2011 e n. 364 del 2006.
[116]Sent. n. 124 del 2010.
[117] Sentenze nn. 121 del 2010; 124 del 2009; 287 del 2004.
[118] Cfr. sent. n. 10 del 2010.
[119] Cfr. da ultimo le sentenze nn. 156 e 7 del 2011; 34 del 2010; 293 del 2009.
[120] Cfr. le sentt. nn. 42, 52, 67, 68 e 310 del 2011; 100, 150 e 195 del 2010; 215 e 293 del 2009; 191 del 2007; 81 e 363 del 2006; 159 e 190 del 2005; 205 del 2004; 517 del 2002.
[121] Cfr. sent. n. 205 del 2006.
[122] Cfr. sentenze nn. 42 e 52 del 2011; 150 del 2010; 81 del 2006.
[123] Cfr., ex plurimis, sentenze nn. 68 del 2011; 150 del 2010; 293 del 2009; 205 del 2004.
[124] Cfr. le sentenze nn. 127 del 2011; 325 del 2010; 293 del 2009.
[125]…ma già, tra le più recenti, le sentenze nn. 123, 108, 52 e 42 del 2011.
[126] Cfr. sentenze nn. 159 del 2005; 274 del 2003; 218 del 2002; 1 del 1999.
[127] Sent. n. 172 del 2004.
[128] Cfr. sentenze nn. 227 del 2011; 332 del 2006.
[129] Sent. n. 24 del 2007.
[130] Sent. n. 50 del 2005.
[131] Sent. n. 176 del 2010.
[132] Da ultimo, cfr. sentenze nn. 230 e 77 del 2011; 300, 132 e 131 del 2010.
[133] Sent. n. 271 del 2009.
[134] Cfr. già le sentenze nn. 303 e 22 del 2003.
[135] Sent. n. 50 del 2005.
[136] Come in occasione della questione, giudicata inammissibile, trattata nella sent. n. 216 del 2008.
[137] Da ultimo, sentenze nn. 106 e 68 del 2011; 70 del 2010.
[138] Sentenze nn. 272, 106 e 68 del 2011; 141 e 100 del 2010; 386 del 2008; 359 del 2007.
[139] Cfr. la sent. n. 272 del 2011 e la risalente n. 30 del 1959.
[140] Si precisa che in seguito alla legge costituzionale n. 1 del 2012 (recante, tra l’altro, la modifica dell’art. 81 Cost.) la materia armonizzazione dei bilanci pubblici è ora contenuta nella lett. e dell’art. 117, comma 2, Cost., e spetta, pertanto, alla potestà esclusiva statale. Tuttavia, poiché i ricorsi alla base delle pronunce dell’anno di riferimento non recano come parametro il nuovo testo della Costituzione, si è mantenuta l’elencazione antecedente alla novella costituzionale.
[141] Vedi nota precedente.
[142] Da ultimo, sentenze nn. 229 e 122 del 2011. Inoltre, cfr. la sent. n. 376 del 2003.
[143] Cfr. già la sent. n. 201 del 2010.
[144] Così le sentenze nn. 229 del 2011; 40 del 2010; 120 del 2008; 169 del 2007; 36 del 2004.
[145] Da ultimo, sent. n. 182 del 2011.
[146] Sent. n. 182 del 2011.
[147] Da ultimo, sentenze nn. 301, 182, 108 e 69 del 2011.
[148]Cfr. anche la sent. n. 155 del 2011.
[149] Così le sentenze nn. 229 e 112 del 2011; 57 del 2010; 190 e 159 del 2008; 376 del 2003.
[150] Sent. n. 193 del 2007. Cfr. anche, ex plurimis, le sentenze nn. 123 e 77 del 2011; 100 e 40 del 2010; 94 del 2009.
[151] Sentenze nn. 163 e 123 del 2011, 141 e 100 del 2010.
[152] Sent. n. 68 del 2011.
[153] Sent. n. 203 del 2008.
[154] Sentenze nn. 68 del 2011; 141 e 100 del 2010; 213 del 2008; quindi 384 del 1991; 69 del 1989; 17 del 1968; 47 del 1967; 1 del 1966.
[155] Gli atti in questione sono: d. l. n. 351 del 2001 (art. 3, comma 15); d. l. n. 112 del 2008 (art. 58); legge n. 191 del 2009 (art. 1, comma 223); d. l. n. 78 del 2010 (art. 8, comma 2); legge n. 98 del 2011 (art. 33); legge n. 183 del 2011 (art. 8); d. l. n. 201 del 2011 (art. 28).
[156] Cfr., da ultimo, sent. n. 165 del 2011.
[157] Da ultimo, sentenze nn. 328, 184, 114 e 112 del 2011.
[158] Sent. n. 147 del 1972.
[159] Sentenze nn. 104 del 2008; 768 del 1988; 56 del 1964; 57 del 1957.
[160] Sent. n. 323 del 2011
[161] Sent. n. 138 del 1999.
[162] Sentenze nn. 348 del 2000; 49 del 1972; 47 del 1968.
[163] Sentenze nn. 223 del 1983; 88 del 1966; 73 del 1963. 
 





 

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