Il testo è stato predisposto per un’audizione presso la Commissione affari istituzionali ed enti locali del Consiglio regionale del Lazio.


La questione che va prima di ogni altra affrontata da parte di chi si interroghi circa le possibili soluzioni attuative del dettato dello statuto della Regione Lazio in merito al CAL riguarda il ruolo che si vuole assegnare all’organo in seno alla trama istituzionale, se quello di “luogo” obbligato di passaggio per ogni decisione qualificante l’indirizzo politico ovvero l’altro di un organo di mera consulenza o anche, più largamente, di un non meglio precisato “raccordo”, solo occasionalmente sentito.
La prima opzione può, di fatto, equivalere ad una sorta di “federalizzazione” del Consiglio regionale, trasformato in un organo sostanzialmente (se non pure formalmente) bicamerale, con una Camera elettiva e rappresentativa della comunità politicamente organizzata ed una seconda Camera che dia fiato alle autonomie territoriali minori: due Camere, allo stesso tempo, distinte e tuttavia legate a doppio filo l’una all’altra, tant’è che la durata della seconda è rapportata a quella della prima (art. 66, VI c., st.). Un indizio, per la verità assai labile e però non insignificante, di un orientamento non di sfavore verso uno scenario siffatto può ora vedersi nella previsione, di cui all’art. 12 di un progetto della Giunta ed all’art. 11 di un progetto a firma dei consiglieri G. Parroncini e C. Lucherini, che prefigura sedute congiunte del CAL e del Consiglio regionale: una sorta, insomma, di embrionale “Consiglio in seduta comune” (similmente, secondo lo statuto della Toscana).
È chiaro, nondimeno, che il patrimonio delle funzioni ed il modo del loro esercizio discendono dalla scelta fatta in partenza, di ordine generale, circa la fisionomia complessiva dell’organo. Una scelta – non è inopportuno precisare – che non è “chiusa” dalla Carta costituzionale, per il fatto che il CAL è definito come organo di “consultazione fra la Regione e gli enti locali”, dal momento che nulla osta a che, per determinazione statutaria ovvero per decisione politica autonomamente adottata dagli organi costituzionali della Regione (e che dia vita ad una convenzione costituzionale, idonea quindi a stabilizzarsi ed a convertirsi in una vera e propria regola consuetudinaria), lo stesso sia – volendo – per sistema “sentito” (e magari ascoltato…), sì da valorizzarne l’apporto complessivo alle dinamiche istituzionali in ambito regionale.
Lo statuto del Lazio esibisce una certa cautela ed anche – a dirla tutta – una non rimossa ambiguità al riguardo e, comunque, un’intrinseca flessibilità di dettato, suscettibile di aprirsi a molteplici sviluppi da parte della disciplina normativa di attuazione, prima, e delle prassi politico-istituzionali, poi. Eppure, volendo, avrebbe potuto dirsi di più (e, forse, meglio). Ad es., quanto all’iniziativa legislativa (art. 37), si intravede, sia pure confusamente, l’esistenza di una “corsia preferenziale” a vantaggio dei progetti elaborati dal CAL (al pari di quelli d’iniziativa popolare, discussi entro sei mesi dalla loro presentazione) ma non si prefigura alcun caso d’iniziativa legislativa riservata allo stesso. Ciò che, invece, avrebbe potuto coraggiosamente stabilirsi con riguardo ad alcuni tipi di progetti di legge, quali quelli relativi alla “devoluzione” delle funzioni ai Comuni ed agli altri enti locali o, in genere, di riparto delle funzioni tra la Regione e gli enti stessi, prendendo corpo in tal modo la partecipazione, la più incisiva possibile, degli stessi destinatari delle funzioni alla formazione delle leggi che le assumano ad oggetto.
In disparte il riconoscimento di siffatta specie d’iniziativa, quanto all’approvazione delle leggi di specifico “interesse” per le autonomie locali, la cooperazione da queste apprestata al Consiglio regionale avrebbe potuto essere dallo statuto prevista in forme ancora più intense e feconde, non limitandosi cioè alla mera consulenza prestata dal CAL ma dando a quest’ultimo l’opportunità di concorrere sostanzialmente e fattivamente alla messa a punto finale dei testi di legge attraverso una stabile e continua partecipazione alla loro elaborazione in seno al Consiglio (un cenno in tal senso si rinviene nella proposta della Giunta, già richiamata, dove limitatamente ai progetti di legge d’iniziativa del CAL si prevede che un suo rappresentante prenda parte alle sedute della Commissione consiliare competente per materia: art. 9, II c.). Coi dovuti adattamenti, qualcosa di simile potrebbe stabilirsi anche per ciò che concerne la messa a punto dei regolamenti (e di altri atti ancora) di competenza della Giunta, prefigurandosi una cooperazione ancora più efficace e duratura con quest’ultima (ad es., in forma di navette di un disegno di atto giuntale sul quale il CAL possa ripetutamente pronunziarsi prima del suo varo definitivo).
Ora, è vero che a tutto ciò potrebbe, volendo, porsi rimedio attraverso un’opportuna riscrittura del regolamento interno del Consiglio regionale, nonché a mezzo di altri atti ancora (a partire dalla legge istitutiva del CAL), ma è evidente che ben altra sarebbe stata la garanzia offerta dalla fonte apicale dell’ordinamento regionale, lo statuto.
Fa poi stranamente difetto la previsione della consultazione obbligatoria del CAL con riguardo alla formazione di leggi diverse da quelle espressamente indicate nello statuto ma di sicuro, specifico rilievo per le autonomie (ad es., quelle relative alle modifiche territoriali) o altre leggi ancora di indirizzo politico, quali la legge regionale comunitaria, le leggi che attivano la sussidiarietà “orizzontale” (le cui implicazioni col riparto “verticale” delle funzioni sono di tutta evidenza), le leggi che trasferiscono beni o risorse o personale da un ente all’altro, pur restandone invariate le funzioni, le leggi che danno seguito ad accordi o intese di rilievo internazionale (per non dire, poi, delle intese dalla Regione stipulate con lo Stato ai sensi dell’art. 116, ult. c., alla cui formazione il CAL potrebbe, ancora una volta, dare un rilevante concorso. Ma, sul punto, non m’intrattengo ora oltre, dal momento che il disposto costituzionale appena richiamato è ad oggi rimasto inattuato ed anzi se ne preveda espressamente la rimozione da parte della legge di “riforma della riforma”, sulla quale nondimeno – come si sa – pende un’iniziativa referendaria dall’incerto destino). Quasi superfluo, poi, rilevare l’importanza che il CAL si pronunzi sulle modifiche della legge che… lo riguarda (ovviamente, materialmente impossibile che ciò si abbia su quella che lo istituisce). Stranamente, però, cala al riguardo un inspiegabile silenzio (un opportuno riferimento si ha, invece, nello statuto dell’Emilia-Romagna). E, ancora, sarebbe opportuno estendere la consultazione obbligatoria alla formazione di alcune specie di regolamenti (penso ora specialmente a quelli di delegificazione, agli altri delegati dallo Stato ex art. 117, VI c., ed a quelli di attuazione della normativa comunitaria).
Riduttiva sembra inoltre essere la previsione che “aggrava” il procedimento legislativo unicamente per le leggi di conferimento delle funzioni agli enti locali o di modifica delle funzioni già conferite, per le quali il parere negativo espresso a maggioranza dei due terzi dei componenti il CAL può essere superato da un voto espresso dalla maggioranza dei membri del Consiglio regionale (art. 67 st.). Ancora meglio, infatti, e congiuntamente a ciò, avrebbe potuto prevedersi l’obbligo della motivazione del deliberato contrario all’indicazione data dal CAL, così come si ha nello statuto della Toscana (che, tuttavia, non prevede un quorum aggravato per l’approvazione di atti dai contenuti contrari a quelli sollecitati dal CAL) e, limitatamente agli atti giuntali, nello statuto dell’Umbria (dove è altresì l’opportuna disposizione che fa gravare altresì sulla Giunta l’obbligo di dare comunicazione al Consiglio del rigetto del parere del CAL). Un obbligo, come si sa, non difficilmente eludibile e che, però, laddove inosservato ovvero inadeguatamente osservato, avrebbe potuto spianare la via ad eventuali iniziative processuali avverso l’atto adottato in disprezzo della volontà del CAL. La motivazione, poi, avrebbe comunque potuto costituire un utile punto di riferimento anche in occasione dell’attività posta in essere dal Comitato di garanzia, qualora chiamato (magari dallo stesso CAL …) a pronunziarsi sul deliberato consiliare (utili indicazioni sul punto sono ora in un’importante ma complessivamente discutibile pronunzia della Corte costituzionale, la n. 12 del 2006). Nuovamente, è poi da aggiungere che l’obbligo in parola, ancorché non statutariamente imposto, potrebbe essere introdotto dal legislatore (ma non ne vedo traccia nei progetti in cantiere).
La più efficace delle garanzie politiche offerte al CAL, in aggiunta ai ricorsi al Comitato di garanzia, avrebbe, nondimeno, potuto essere quella, opportunamente sollecitata da una sensibile dottrina (ma rimasta inascoltata), di dar modo all’organo di avanzare domanda referendaria volta all’abrogazione di leggi o regolamenti adottati in disprezzo dei pareri dallo stesso resi (la questione, nondimeno, può essere, almeno in parte, sdrammatizzata in considerazione del fatto che l’iniziativa referendaria può essere assunta da due consigli provinciali o da dieci consigli comunali, alle condizioni e con le modalità stabilite dall’art. 61 st.).
Merita, inoltre, di essere segnalato un elemento di squilibrio presente nel quadro statutario, che si riflette a cascata anche negli schemi di leggi di attuazione e che è dato dalla mancata corrispondenza tra l’area delle materie su cui può aversi l’iniziativa legislativa del CAL e quella delle materie oggetto di disciplina legislativa in occasione della cui elaborazione il CAL può essere consultato. La seconda è, infatti, più larga della prima (cfr. artt. 37 e 66 st.), senza che se ne capisca invero la ragione. Se, infatti, si ammette che il CAL può dare un utile apporto alla messa a punto di talune leggi, perché mai gli dovrebbe essere precluso di farsene promotore?
È chiaro che la legge finanziaria o il documento di programmazione economico-finanziaria regionale (ed altri strumenti ancora) non possono che essere d’iniziativa giuntale; e, tuttavia, il CAL può essere consultato a largo raggio (“su ogni altra questione ad esso demandata dallo statuto e dalla legge regionale”, dice l’art. 67): anzi, su un catalogo di materie non “chiuso” dallo statuto bensì da quest’ultimo rimesso all’ulteriore specificazione ed integrazione ad opera della legge. E se quest’ultima può dilatare a piacimento (ma pur sempre secondo ragionevolezza…) l’area delle consulenze del CAL, non sarebbe forse stato meglio rendere più flessibile anche la previsione relativa ai casi d’iniziativa legislativa ad opera dello stesso?
Nella proposta a firma del cons. G. Milana figura una svista nel III c. dell’art. 6, dove, a riguardo delle proposte di regolamento formulate dal CAL, si precisa che esse possono avere ad oggetto le stesse materie su cui l’organo dispone del potere d’iniziativa legislativa, tra le quali v’è anche la revisione dello statuto. È evidente, però, che non si dà alcun caso di regolamento di… revisione costituzionale!
Forse, troppo elevata la maggioranza dei due terzi richiesta da questo progetto per l’approvazione delle proposte del CAL al Presidente della Regione e volte alla presentazione di ricorsi alla Corte costituzionale o alla Corte di Giustizia, laddove per i ricorsi al Comitato di garanzia è sufficiente la maggioranza assoluta (art. 6).
Nell’art. ora richiamato è l’unico riferimento all’Unione europea, per quanto appunto concerne il piano delle garanzie, laddove molto di più potrebbe dirsi in merito al ruolo che il CAL è idoneo a giocare tanto sul versante ascendente quanto su quello discendente dei rapporti della Regione con l’Unione (lo stesso può valere in merito ai rapporti di diritto internazionale, dove pure si riscontrano vistose carenze di dettato).
Quanto, poi, alla previsione, di cui all’art. 11 prog. ult. cit., che vuole soppresso l’art. 20, l. n. 14 del 1999, relativo alla Conferenza permanente Regione-autonomie locali, il giudizio che se ne può dare richiede il previo scioglimento di un nodo politico-istituzionale di fondo, che riporta alla questione di ordine generale inizialmente posta, in merito alla complessiva connotazione del CAL.
Per l’ipotesi ricostruttiva, dietro ragionata, che vede nel CAL una sorta di seconda Camera, da affiancare all’assemblea rappresentativa della comunità regionale, si potrebbe considerare preferibile la soluzione favorevole alla sua composizione secondo il modello Bundesrat tedesco, puntandosi cioè su una struttura imperniata sugli esecutivi. In questo scenario, verrebbe per la gran parte (e, forse, per intero…) meno la ragione di mantenere in vita la Conferenza suddetta che, a questo punto, si porrebbe quale una sorta di inutile doppione del CAL. È vero che la Conferenza è strutturalmente incardinata presso la Presidenza della Giunta, a differenza del CAL che ha sede presso il Consiglio; e, tuttavia, non è chi non veda come due organi composti, in buona sostanza, dagli stessi soggetti comportino il rischio di far solo confusione o di dar vita a sovrapposizioni ed interferenze continue di competenze.
Di contro, se per la composizione del CAL si dovesse privilegiare il versante degli organi legislativi, potrebbero proficuamente mantenersi entrambe le sedi istituzionali, come d’altronde si ha ad altri livelli di esperienza. Anche per quello statale, d’altronde, la legge di riforma del titolo V prefigura (o, forse, dovremmo ormai dire: prefigurava?) l’“integrazione” della Commissione parlamentare per le questioni regionali, senza per ciò mettere necessariamente da canto la Conferenza Stato-Regioni o la Conferenza Stato-città. Ed anche la già richiamata “riforma della riforma” prefigura una ristrutturazione della seconda Camera (che, ad opinione mia e di molti altri, tuttavia non realizza per nulla quella “federalizzazione” del Senato che a parole si dice di voler fare), con la quale non fa affatto a pugni il mantenimento della Conferenza Stato-Regioni.
Ora, per ciò che concerne la composizione del CAL, lo statuto non ha inteso fare una scelta sicura ed esclusiva, nell’uno ovvero nell’altro senso; e male, a mia opinione, ha fatto a non assumersi la responsabilità della scelta stessa, devolvendola per intero alla legge (una disciplina, questa, che – come si vede – può avere non secondari riflessi sulle dinamiche della forma di governo).
Indicazioni, invero, possono aversi a favore dell’una ovvero dell’altra soluzione. Così, il riferimento ai “criteri di pluralismo politico e di rappresentanza territoriale” (formula, peraltro, ricorrente anche in altri statuti e, segnatamente, in quello della Calabria) può far pensare ad un’elezione fatta dalle (ed in seno alle) assemblee elettive (Consigli comunali e provinciali) e sensibile ai diritti delle minoranze. Dal lato opposto, il fatto che i membri di diritto (il Sindaco di Roma, i Sindaci dei Comuni capoluogo ed i Presidenti delle Province) siano estratti dagli esecutivi può costituire un indizio – se così vuol dirsi –, se non pure una prova certa, a favore dell’opzione per una rappresentanza tutta quanta “a livello esecutivo”. Un’opzione, quest’ultima, che potrebbe peraltro farsi preferire, dandosi forse in tal modo all’organo una maggiore autorevolezza. Ed allora, come si diceva, potrebbe tornare opportuno, per quanto non statutariamente imposto, semplificare la trama istituzionale, sopprimendo la Conferenza cui si riferisce la legge del ’99, sopra cit.
Anche però per il caso che dovesse preferirsi la soluzione volta al mantenimento della Conferenza, ugualmente se ne dovrebbero ridefinire le competenze al fine di evitare quelle sovrapposizioni col CAL, di cui si diceva, specie per ciò che concerne la consulenza prestata sulle stesse proposte di legge su cui quest’ultimo è ora chiamato a pronunziarsi.
I dubbi sollevati dal dettato statutario in merito alla composizione del CAL non sono, purtroppo (ed inspiegabilmente), interamente sciolti neppure dalle leggi di attuazione, per come elaborate (quanto meno, non lo sono nelle versioni di cui io dispongo).
Così, l’art. 2 del progetto Milana, mentre individua i rappresentanti (in numero di dieci) delle Province, quali esponenti dei rispettivi Consigli, opportunamente specificando che essi debbano in numero pari appartenere alla maggioranza ed alle opposizioni di ciascun Consiglio, nulla stranamente dice a riguardo dei (quindici) rappresentanti dei Comuni, limitandosi appunto a far riferimento agli enti e non pure all’organo da cui essi sono estratti (invece, quanto ai due rappresentanti delle Comunità montane si dice espressamente che essi sono eletti tra i loro Presidenti). Sarebbe, nondimeno, preferibile che la composizione degli enti in parola fosse, per quanto possibile, omogenea, dando pertanto della formula sopra riportata un’interpretazione “correttiva” o “adeguatrice”, nel senso appunto di far capo ai Consigli anche per la rappresentanza comunale.
Secondo la proposta della Giunta, invece, i rappresentanti dei Comuni (in numero di dodici) sono scelti tra i Sindaci, con un complicato meccanismo descritto nell’art. 3, a differenza di quelli delle Province (cinque), scelti dai Consigli (art. 4). L’ambiguità originariamente esibita dall’art. 2 in merito alla rappresentanza delle Comunità montane è poi rimossa dall’art. 5, col riferimento in esso fatto ai Presidenti delle Comunità medesime. Omogenea, invece, la composizione in base al progetto Parroncini-Lucherini, a favore della partecipazione dei Sindaci e dei Presidenti provinciali (art. 2).
Sul punto dell’omogeneità dell’organo conviene fermare, sia pure solo per un momento, l’attenzione. Da nessuna parte sta scritto che essa debba di necessità aversi. Anzi, lo stesso dettato statutario, nel prevedere che ai lavori del CAL possano partecipare (ma senza diritto di voto), ove così voglia la legge istitutiva, anche esponenti delle autonomie funzionali, mostra di non guardare con sfavore ad una composizione internamente varia. Altro è però un intervento, sia pure in forma “dimessa”, di soggetti non di estrazione politica ed altro ancora che esso si abbia, in forme appunto eterogenee, da parte di esponenti politici, con riflessi peraltro d’immediata evidenza per ciò che concerne gli equilibri istituzionali interni agli enti territoriali minori.
A me pare, insomma, che la soluzione più lineare, ancorché – a dire il vero – non l’unica statutariamente imposta, sia quella che passa attraverso una scelta di campo, nell’uno o nell’altro senso, quindi uniformemente e coerentemente seguita fino alle sue ultime, conseguenti applicazioni. Ecco perché mi lascia francamente perplesso una soluzione che veda i Comuni dotati di una rappresentanza di un certo tipo e le Province di una di un altro tipo o, ancora, una soluzione per la quale agli uomini delle autonomie territoriali si affianchino uomini di “designazione” corporativa (dell’UPI o dell’ANCI Lazio, et similia), peraltro sprovvisti della legittimazione politica che possono invece vantare esponenti dei Consigli provinciali e comunali. Né vedo la ragione per cui ai lavori del CAL debbano partecipare (non si sa bene, peraltro, in che forma) rappresentanti di ordini professionali o di organizzazioni sindacali, come per il progetto Parroncini-Lucherini, cui possono dar voce altre sedi istituzionali (e, fra queste, specificamente il CREL), o, ancora, rappresentanti di altri organi della stessa Regione.
Discorso diverso è che occasionalmente (ed a discrezione del Presidente) soggetti “esterni” (e che tali comunque devono restare) siano invitati ai lavori del CAL, per l’apporto che possano darvi in ragione delle loro specifiche competenze ed ai fini di un effettivo, adeguato raccordo con le altre istituzioni della Regione (bene, dunque, all’ingresso di assessori e Presidenti di commissioni consiliari, ecc.). E discorso parimenti diverso, che riguarda il piano delle funzioni e non pure quello della composizione, è che si faccia luogo – come, a mia opinione, necessario – alla tessitura di una fitta trama di collegamenti tra il CAL e Commissioni consiliari, la Presidenza della Regione, ecc.
La questione relativa alla composizione dell’organo è, poi, rilevante per ciò che concerne le modalità con le quali lo stesso adotta le proprie deliberazioni. Per il caso che la sua struttura dovesse risultare disomogenea, potrebbe prendersi astrattamente in considerazione l’ipotesi che l’organo si divida al proprio interno al momento della espressione del voto ovverosia che essa si abbia per categorie di enti rappresentati (la stessa questione è, come si sa, discussa anche con riguardo alla Commissione per le questioni regionali, “integrata” ai sensi dell’art. 11 della legge cost. n. 3 del 2001; e pure qui si fa preferire l’opinione avversa alla messa da canto del modulo collegiale di deliberazione. Nondimeno, l’accostamento tra i due organismi può essere spinto solo fino ad un certo punto, altro essendo la riunione in seno ad uno stesso collegio dei rappresentanti eletti a suffragio universale e diretto, rappresentanti politici in senso stretto, e dei rappresentanti degli enti ed altro ancora un collegio fatto unicamente da questi ultimi ovvero da questi con esponenti di associazioni private).
Sconsiglierei, ad ogni buon conto, di adottare il farraginoso ingranaggio dei voti “separati”, che rischierebbe di innalzare il tasso di competizione (o, diciamo pure, di conflittualità) in seno al CAL, laddove il senso complessivo della sua istituzione è che esso esprima una sola voce in rappresentanza delle autonomie (con modulo collegiale, dunque). La questione non è, ad ogni modo, da sottovalutare; e, forse, si farebbe bene a chiarirla già nella legge istitutiva, al fine di evitare che lo stesso CAL, nel regolamento che si darà per la disciplina dei propri lavori, possa far luogo ad una scelta sì gravida di implicazioni e di effetti.
Anche dalla prospettiva ora adottata, come si vede, si dispone di buoni argomenti in senso avverso alla presenza nel CAL di esponenti delle associazioni degli enti locali, che potrebbero col loro voto (se non pure mettere in minoranza coloro che rappresentano la comunità stanziata sul territorio) comunque sostanzialmente incidere sulla formazione della volontà dell’organo.
Insomma (e per concludere), il CAL deve, a mia opinione, restare quello che dice il suo nome: un “Consiglio delle autonomie locali”, che non veda dunque smarrita la propria identità a causa dell’inserimento nel suo seno di soggetti che con le autonomie stesse nulla hanno a che fare e che possono, nondimeno, rinvenire altrove lo spazio per la loro affermazione e tutela, a mezzo di sedi istituzionali e procedimenti comunque diversi e ad essi specificamente congeniali.

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