AS n. 1128 del 27.10.2006 - iniziativa Tibaldi e Altri (Tutela e sicurezza del lavoro)
SENATO DELLA REPUBBLICA
———– XV LEGISLATURA ———–
N. 1128
DISEGNO DI LEGGE COSTITUZIONALE
d’iniziativa dei senatori TIBALDI, PALERMI, RIPAMONTI, MELE, SILVESTRI e COSSUTTA
COMUNICATO ALLA PRESIDENZA IL 27 OTTOBRE 2006
———–
Modifica dell’articolo 117 della Costituzione in tema
di tutela e sicurezza del lavoro
———–
Onorevoli Senatori. – Dopo il recente alto richiamo del Capo dello Stato ad un maggior impegno del Governo e di tutte le forze interessate a far cessare la vergogna dell’incredibile numero degli infortuni sul lavoro, ritorna più che mai d’attualità la necessità di revisione della legge sul federalismo legislativo che ha attribuito, tra le altre, alla competenza concorrente di Stato e regioni la delicatissima materia della «tutela e sicurezza del lavoro».
I gravi rischi insiti nella scelta del Governo di destra emergono con chiarezza solo che si consideri lo sviluppo e la formazione del diritto del lavoro in relazione alle sue «fonti».
Cos’è la tutela del lavoro, quale è la sua origine e come si è formata nel nostro Paese? Il nostro diritto del lavoro non è soltanto il diritto dei rapporti tra due parti, ma si caratterizza come diritto a carattere prettamente pubblicistico, un diritto «di tutela».
Nell’evoluzione storica del diritto del lavoro italiano si possono distinguere, a grandi linee, tre fasi che in larga misura si sono intersecate, sovrapponendosi, nel corso dei medesimi periodi di tempo: così dalla prima fase, quella della «legislazione sociale», in cui le leggi in materia si presentano come norme eccezionali rispetto al sistema del diritto privato, si è passati a quella della loro incorporazione nell’alveo del diritto privato, per giungere infine alla fase della pubblicizzazione e costituzionalizzazione di tale branca che trova nella Carta costituzionale l’affermazione dei propri princìpi fondamentali.
In tale materia i Padri costituenti del ’48, infatti, hanno manifestato una chiara volontà d’intervento nei rapporti tra privati cittadini, che non vengono considerati più soltanto nella loro uguaglianza di fronte alla legge, ma anche in base alla loro differente posizione nella società civile, articolata in classi portatrici di contrastanti interessi, tra le quali la classe lavoratrice viene finalmente individuata quale soggetto contraente più debole.
Il fondamentale principio sancito dall’articolo 3, comma primo, della Costituzione, della dignità sociale del cittadino, rinviene la propria più saliente espressione proprio nel diritto del lavoro: dunque la protezione del lavoratore come singolo appartenente ad una determinata classe sociale diviene primaria istanza di trasformazione della posizione professionale del medesimo nel contesto che lo circonda, a partire dal luogo di lavoro per arrivare sino al sistema economico.
Il diritto al lavoro, quale mezzo necessario per l’affermazione dei diritti della personalità dell’individuo ed al contempo strumento di progresso della società, è primo diritto sociale in quanto fonte di sostentamento dell’individuo, imprescindibile mezzo per la realizzazione della sua autonomia ed indipendenza e pertanto presupposto per l’esercizio di ogni altro diritto costituzionalmente garantito.
È per tale ordine di ragioni che uno dei primari obiettivi dello Stato è quello di indirizzare e coordinare a fini sociali l’attività economica pubblica e privata, nell’intento di tutelare le categorie socialmente più deboli.
Alla luce di quanto sin qui illustrato, è agevole comprendere come l’apparato normativo costituzionale a presidio e tutela della materia sia estremamente articolato: dall’articolo 1, che riconosce il diritto al lavoro come diritto di libertà ed al contempo diritto civico del cittadino, all’articolo 3, commi primo e secondo, che garantiscono l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge senza distinzione di condizioni personali e sociali ed impegnano la Repubblica a rimuovere gli ostacoli che si frappongono alla realizzazione dell’enunciata parità ed alla partecipazione dei lavoratori all’organizzazione della società, all’articolo 4, per il quale la Repubblica riconosce il diritto al lavoro dei cittadini e si impegna a promuovere le condizioni di piena occupazione che rendano effettivo tale diritto e sancisce il dovere del lavoro quale attività socialmente utile, per giungere all’articolo 35, per il quale la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni.
Non senza sottacere poi i fondamentali princìpi della retribuzione proporzionata e sufficiente (articolo 36, primo comma), del diritto irrinunciabile del lavoratore al riposo settimanale ed alle ferie, dell’eguaglianza tra lavoratori e lavoratrici (articolo 37, primo comma), del contemperamento con la funzione della maternità, del pari trattamento economico per il lavoro minorile rispetto al lavoro ordinario e della tutela di tale forma di lavoro (articolo 37, terzo comma) ed il diritto al mantenimento ed all’assistenza sociale ed alla previdenza (articolo 38, commi primo e secondo).
Dal breve e sommario excursus delle tutele costituzionali non è difficile dedurre l’entità e la gravità del pericolo insito nel binomio devolution – tutela e sicurezza del lavoro, rischio che si traduce nella sostanziale negazione dei princìpi fondamentali sanciti dalla stessa Carta e dunque in un grave arretramento delle scelte socio-politiche del nostro Paese.
Il legislatore della riforma costituzionale ha attribuito, per quello che in questa sede interessa, alla potestà legislativa concorrente di Stato e regioni la materia della «tutela e sicurezza del lavoro», con il limite del rispetto dei princìpi fondamentali, la cui determinazione è rimessa all’esclusiva competenza dello Stato.
Sia lo Stato che le regioni soggiacciono ai limiti imposti dalla normativa comunitaria e dalla Costituzione.
Una prima censura la si può muovere all’espressione utilizzata dal legislatore della riforma costituzionale, ed invero la dicotomia «tutela e sicurezza del lavoro» è espressione certamente più ampia di quella «salute e sicurezza», inizialmente prospettata, e va ben oltre tale concetto sino a rischiare di comprendere l’intera materia del diritto del lavoro: cos’è infatti la tutela del lavoro se non l’essenza stessa del diritto del lavoro? Che differenza c’è tra la tutela del lavoro e la sicurezza di quest’ultimo?
Mi preme innanzi tutto evidenziare la parziale tautologia dell’espressione, atteso che si tratta certamente di concetti parzialmente sovrapponibili, nel senso che la sicurezza del lavoro, quale modalità, fra le altre, di tutela del medesimo, è concetto certamente incluso nel primo, più esteso.
Occorre inoltre sottolineare come la tutela del posto di lavoro, il diritto al lavoro, la tutela della maternità, i riposi e il complesso di tutte queste materie simili rappresentino la tutela stessa del lavoro: questo è il diritto del lavoro che oggi dovrebbe compiere un passo in avanti enorme, nel senso di comprendere la tutela anche di quei rapporti che ne sono esclusi o la cui tutela giuridica si è trasformata, o non si è ancora affermata; esso dovrebbe tener conto delle novità della nuova economia, della globalizzazione, della precarizzazione e del fenomeno dell’immigrazione, non per frammentare, ma semmai per armonizzare e cercare di affrontare in maniera unitaria le sfide che il sistema economico mondiale ci sta prospettando, così che non potremo eluderle, affidandole a singoli poteri legislativi, come accadrebbe nel caso in cui non intervenisse – anche analiticamente e non solo in forma di princìpi – lo Stato.
Invero tale generica espressione, rischiando di devolvere, per come detto, alle regioni, appunto, l’intera materia, crea un sicuro conflitto con l’articolo 117, secondo comma, che pone la riserva di legge statale in materia di ordinamento civile, riserva di legge statale che discende pure dall’articolo 3, che sancisce la pari dignità sociale dei cittadini ed impegna la Repubblica ad attuare tale parità tramite la rimozione di tutti gli ostacoli che si frappongono alla sua realizzazione.
La norma non pone problematiche di minor rilievo in relazione alla specifica questione della sicurezza, ed infatti quest’ultima, quale espressione di diritti fondamentali della persona, meno che mai si presta ad una regolamentazione differenziata su base regionale, richiedendo, al contrario, un’uniforme applicazione su tutto il territorio nazionale.
Una prima ed insuperabile problematica si pone in relazione alle numerose fattispecie di reato previste dalla disciplina in materia di salute e sicurezza del lavoro (si pensi ai fondamentali decreti del Presidente della Repubblica 27 aprile 1955, n. 547, e 19 marzo 1956, n. 303), creando un ulteriore e grave strappo al sistema costituzionale nella specie della violazione del principio della riserva di legge penale sancito dall’articolo 25, secondo comma, e non solo: la difforme regolamentazione della materia crea una grave discrasia anche in relazione ad altre norme e segnatamente all’articolo 5 della Costituzione, che sancisce il principio dell’unità politica dello Stato, all’articolo 120 della Costituzione, che vieta alle regioni di adottare provvedimenti che possano ostacolare il libero esercizio dei diritti fondamentali dei cittadini ed all’articolo 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, che attribuisce la materia dell’ordinamento penale alla competenza esclusiva dello Stato.
A tutte le critiche sin qui mosse, si potrebbe obiettare che comunque lo stesso articolo in commento, al primo comma, prevede come limite invalicabile alla potestà normativa concorrente delle regioni, quello contenuto nello stesso articolo 117, secondo comma, lettera m), che attribuisce alla competenza esclusiva dello Stato la determinazione dei «livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale», nonché il necessario rispetto dei princìpi fondamentali rimessi all’esclusiva competenza statale; per quello che mi concerne e quindi per la classe sociale che io rappresento, tali limitazioni non mi paiono costituire adeguata garanzia a fronte del cosiddetto rischio di «balcanizzazione» del sistema e perciò sono una inidonea tutela della classe dei lavoratori.
Ed infatti, la fissazione da parte dello Stato dei predetti livelli minimi essenziali non è in grado di per sé di offrire piena garanzia di una equilibrata produzione normativa a livello locale: del resto, come conferma già l’ondivago e diversificato andamento verificato nei processi di decentramento amministrativo delle funzioni gestionali del mercato del lavoro a seguito della legge 15 marzo 1997, n. 59, cosiddetta «legge Bassanini», ritengo che le eterogenee esperienze culturali e di tradizione, unitamente al variegato sostrato economico e sociale delle diverse regioni, incidono profondamente e negativamente per i lavoratori sui diversi sviluppi delle legislazioni regionali in materia.
Non è infondato, soprattutto con riferimento alla problematica sicurezza, il rischio di una regionalizzazione della disciplina e dunque di una marginalizzazione, o addirittura discriminazione, dei lavoratori delle aree tradizionalmente più disagiate, determinante, fra l’altro, contraddittorietà anche con la tendenziale universalità dei diritti civili e sociali fondamentali, sanciti a livello europeo nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, sottoscritta a Nizza il 7 dicembre 2000, in quanto diritti delle personae prima che diritti dell’appartenente a determinate comunità locali: ed invero non occorre una grande lungimiranza per comprendere come un imprenditore che intenda aprire una succursale della propria azienda non avrà che da procurarsi il dato relativo alle regioni ove tale attività gli risulterà meno dispendiosa in relazione all’ombra pesante che i costi per la sicurezza rappresentano per l’impresa.
Neppure il richiamo ai princìpi fondamentali è una disposizione di adeguata tutela, atteso che questi, proprio perché princìpi, non possono che essere generali indicazioni di indirizzo, in altre parole sono quelli che la Corte costituzionale, con la storica sentenza n. 6 del 1956, ha indicato come «quegli orientamenti e direttive di carattere generale e fondamentale che si possono desumere dalla connessione sistematica, dal coordinamento e dalla intima razionalità delle norme che concorrono a formare, in un dato momento storico, il tessuto dell’ordinamento giuridico vigente».
La questione, correttamente prospettata dalla dottrina sul punto, è quella relativa alla possibilità per lo Stato di dettare norme realmente precettive e dettagliate così superando il mero potere d’indirizzo.
E qui il nodo gordiano: se si consente tale superamento si assiste ad una vanificazione, di fatto, della potestà legislativa locale concorrente, posto che le regioni non potrebbero dettare norme cogenti in materia; in caso contrario, e quindi rimanendo nell’ambito della necessaria ed ontologica genericità delle norme di principio, non si potrebbe escludere la possibilità che le regioni varino ognuna proprie differenti leggi, disciplinando la materia in maniera difforme.
Un ultimo cenno merita infine l’impossibilità, conseguente alla persistenza nell’ordinamento di tale norma, di addivenire al tanto ipotizzato testo unico in materia di salute e sicurezza del lavoro, che elimirebbe l’intricata giungla di provvedimenti che presidiano la materia.
Il nostro sistema prevenzionistico, come è noto, si è sviluppato in modo «alluvionale», attraverso la stratificazione e la sovrapposizione, nel corso degli anni, degli interventi legislativi. Al generale obbligo di sicurezza sancito dall’articolo 2087 del codice civile si sono aggiunti, nel corso degli anni ’50, numerosi decreti prevenzionistici, che hanno definito i doveri generali dei datori di lavoro, dei dirigenti, dei preposti e dei lavoratori e hanno dettato numerose regole e disposizioni di carattere tecnico da seguire nello svolgimento dell’attività lavorativa.
In seguito, con la riforma sanitaria attuata con legge 23 dicembre 1978, n. 833, ulteriori disposizioni sono state emanate al fine di migliorare i livelli di sicurezza e di creare un nuovo metodo di intervento basato sull’integrazione della tutela della salute dei cittadini negli ambienti di vita e di lavoro.
La legge di riforma sanitaria, inoltre, conteneva una delega al Governo per l’emanazione di un testo unico delle norme di tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, volto a riordinare il già complesso quadro normativo. La delega, tuttavia, non è stata esercitata in tempo utile, nonostante le proroghe concesse, e, negli anni successivi, ulteriori disposizioni, emanate soprattutto in attuazione delle numerose direttive comunitarie in materia di tutela della salute e della sicurezza del lavoro, si sono sovrapposte alle precedenti. Basti ricordare, a titolo esemplificativo, i più recenti decreti legislativi 15 agosto 1991, n. 277, e 25 gennaio 1992, n. 77, che hanno attuato le direttive in materia di esposizione al rumore e ad agenti e sostanze nocivi per la salute.
Con il decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, successivamente modificato con decreto legislativo 19 marzo 1996, n. 242, l’Italia ha dato attuazione a altre otto direttive comunitarie in materia di salute e sicurezza sul lavoro; tra le quali rileva principalmente la direttiva 89/391/CEE del Consiglio, del 12 giugno 1989, cosiddetta «Direttiva quadro», che detta i princìpi e le regole generali della normativa prevenzionistica.
Le nuove regole della sicurezza sul lavoro, tuttavia, si sono sovrapposte – senza coordinamento – alla disciplina precedente; di conseguenza, si è creato un quadro normativo complesso, che impone una sollecita opera di coordinamento e di integrazione tra le diverse disposizioni, in modo da rendere più agevole, per i destinatari degli obblighi prevenzionistici, l’individuazione delle misure da attuare. L’attuazione delle direttive comunitarie, tra l’altro, è avvenuta sempre in ritardo e con qualche contraddittorietà, tanto da comportare, in alcuni casi, un abbassamento dei livelli di protezione già assicurati dalla nostra legislazione, come è avvenuto, per alcuni versi, con l’attuazione delle direttive in materia di protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti dall’esposizione a rumore e ad agenti chimici, fisici e biologici. Anche il decreto legislativo n. 626 del 1994, come modificato dal decreto legislativo n. 242 del 1996, pone alcune questioni, soprattutto perché si sovrappone, con nuove disposizioni, alla legislazione prevenzionistica precedente, senza che risulti ben chiaro quale parte di essa sia da ritenere tuttora in vigore.
Analoghe questioni si pongono per altre e importanti direttive comunitarie che hanno trovato attuazione in questo periodo, relativamente a settori di grande delicatezza, quali la sicurezza nei cantieri, la segnaletica di sicurezza, la tutela delle lavoratrici madri e la sicurezza nelle industrie estrattive, recepite dal nostro ordinamento rispettivamente con decreto legislativo 14 agosto 1996, n. 494, decreto legislativo 14 agosto 1996, n. 493, decreto legislativo 25 novembre 1996, n. 645, e decreto legislativo 25 novembre 1996, n. 624. Inoltre, altre direttive in materia di sicurezza e igiene del lavoro sono in attesa di attuazione. Ci commuoviamo ogni giorno per l’incredibile numero di infortuni, per il fatto che vi sono quattro morti al giorno sul lavoro. Tre successive relazioni, a pochi anni di distanza l’una dall’altra, nel 1997, nel 2000 e nel 2006 (la prima delle Commissioni lavoro congiunte di Camera e Senato [doc. XVII, 4 della XIII legislatura], la seconda della Commissione lavoro del Senato [doc. XVII, 13 della XIII legislatura] e la terza della Commissione parlamentare d’inchiesta sugli infortuni sul lavoro [doc. XXII-bis, n. 5 della XIV legislatura]) hanno messo il dito sulla piaga rilevando che l’unico modo per uscire da questa tragica catena di infortuni è quello di puntare su una strategia comune e centrale, tale da unificare tutti gli sforzi, perché altrimenti affievolendosi sempre più la consapevolezza, i controlli e la disponibilità di risorse, come in effetti sta accadendo, si peggiora il quadro complessivo e le tragedie assumono contorni sempre più inaccettabili in una moderna e avanzata democrazia.
Aver previsto dunque, al contrario di tutto quello che lo stesso Parlamento ha detto, la devoluzione della potestà legislativa ad organismi autonomi frammentando una materia che andava unificata ed alla quale volevamo attribuire una strategia, appare una inaccettabile incongruenza che deve essere immediatamente sanata.
Al riguardo, e come monito per l’attuale Governo, è sufficiente che io rammenti a titolo meramente esemplificativo la vicenda del corposo schema di decreto legislativo approvato il 18 novembre 2004 dal Consiglio dei ministri del Governo Berlusconi, in attuazione della delega contenuta nella legge 29 luglio 2003, n. 229, volto a riordinare, coordinare e armonizzare appunto in un unico testo le disposizioni di legge in materia di salute e sicurezza sul lavoro, che è Stato ritirato dalla espressione del parere in Parlamento perché, al di là della indubbia complessità tecnica della materia, il Governo si è imbattuto nell’ineludibile vincolo, da sé stesso imposto, della ripartizione di competenze normative tra Stato e regioni.
Per tutte queste ragioni il progetto di riforma costituzionale che sottopongo alla vostra attenzione e che v’invito caldamente ad approvare ritengo che poggi su di una convinzione profonda, vale a dire quella di riparare, in questo modo, ad un grave errore a danno soprattutto dei lavoratori del nostro Paese.
DISEGNO DI LEGGE COSTITUZIONALE
Art. 1.
1. All’articolo 117 della Costituzione sono apportate le seguenti modificazioni:
a) al secondo comma, dopo la lettera n), è inserita la seguente:
«n-bis) tutela e sicurezza del lavoro»;
b) al terzo comma, le parole: «tutela e sicurezza del lavoro;» sono soppresse.