Legislatura 15º -

 

 

SENATO DELLA REPUBBLICA

      ———– XV LEGISLATURA ———–

    

N. 946
 
 


DISEGNO DI LEGGE

d’iniziativa dei senatori RUSSO SPENA, SALVI, FORMISANO, BENVENUTO, CASSON, SILVESTRI, TIBALDI, CAPRILI, ALBONETTI, ALFONZI, BONADONNA, BRUTTI Paolo, CAPELLI, CONFALONIERI, DI SIENA, FERRANTE, GIANNINI, MALABARBA, MICHELONI, SODANO, TECCE, TURIGLIATTO, VALPIANA, SCALERA, BOCCIA Maria Luisa, EMPRIN GILARDINI, GAGLIARDI, GRASSI, MARTONE, NARDINI e PALERMO

COMUNICATO ALLA PRESIDENZA L’11 SETTEMBRE 2006

———–

Norme per la partecipazione politica ed amministrativa e per il diritto di elettorato senza discriminazioni di cittadinanza e di nazionalità e ratifica ed esecuzione della Convenzione sulla partecipazione degli stranieri alla vita pubblica a livello locale, fatta a Strasburgo il 5 febbraio 1992, limitatamente al Capitolo C


———–

Onorevoli Senatori. – L’immigrazione da altri paesi, in tutta Europa e pertanto anche in Italia, ha assunto un grande rilievo, con i caratteri di un fenomeno non transitorio.

    Il principio tradizionale della legislazione italiana, che lega il diritto di elettorato alla cittadinanza, deve essere rivisto in questa luce.
    Il coinvolgimento diretto degli stranieri che vivono e lavorano stabilmente in Italia nella vita politica, anche mediante conferimento dell’elettorato attivo e passivo, è urgente non solo perché si pone nei confronti di queste persone il problema dell’applicazione del principio che dall’origine è alla base della democrazia in Europa, ossia il principio per cui non può negarsi la partecipazione alle decisioni pubbliche di chi continuativamente contribuisce al loro finanziamento mediante il prelievo fiscale, ma anche perché il voto degli immigrati diventa oggi una garanzia di buon governo, anzitutto per le regioni e le amministrazioni locali.
    I governanti delle regioni e delle amministrazioni locali si trovano infatti oggi a dover affrontare problemi peculiari dell’immigrazione, che sono sovente problemi difficili e delicati, sul piano economico, culturale e sociale e della cui soluzione i governanti stessi rispondono politicamente soltanto ai cittadini italiani (o al più europei), senza che minoranze sempre più consistenti di persone straniere ma stabilmente insediate nel nostro paese abbiano modo di far sentire direttamente la propria voce e farsi attivamente interpreti delle proprie esigenze.
    In effetti, la situazione italiana è al riguardo una situazione insoddisfacente, anche al cospetto del panorama europeo.
    In molti paesi europei – come il Belgio, la Danimarca, l’Olanda, la Spagna o la Svezia – l’accesso al diritto di elettorato di chi non sia cittadino è una realtà, a differenza che in Italia.
    Mentre anche in altri paesi soprattutto ex-coloniali, come l’Inghilterra e la Francia, i criteri di acquisto della cittadinanza, a cui è collegato il diritto di elettorato, sono più flessibili di quelli italiani che, essendo stati tradizionalmente improntati ad una pratica rigorosa dello jus sanguinis, rendono più difficoltoso il divenire cittadini per gli immigrati ed i loro familiari.
    Peraltro, la modifica, che taluno ha proposto al Parlamento, dei criteri per l’attribuzione della cittadinanza italiana in funzione del riconoscimento del diritto di elettorato, non è un’operazione semplice, non solo per i riflessi che l’essere cittadino può avere al di là della garanzia della partecipazione politica (si pensi solo, a cose come il divieto di espulsione o come la protezione diplomatica), ma anche perché i criteri stessi di acquisto della cittadinanza non possono essere mai d’improvviso e drasticamente mutati, se non a pena di rimettere in gioco la stessa univoca identità della compagine nazionale.
    Senza pregiudizio per eventuali modifiche o aggiustamenti che potrebbero essere opportunamente ed utilmente apportati ai criteri di acquisto della cittadinanza italiana, il presente progetto di legge si prefigge, perciò, lo scopo di rafforzare la partecipazione politica ed amministrativa di chi non sia cittadino, riallineando in tal senso la posizione dell’Italia a quelle più avanzate in Europa.
    Già oggi, sul piano della legislazione ordinaria vigente, il fondamento del principio dell’estensione della partecipazione e del diritto di elettorato senza discriminazioni di nazionalità e cittadinanza, può essere rintracciato nell’articolo 9, comma 4, lettera d), del decreto legislativo 25 luglio 1998, n.  286, per il quale «lo straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato» può, tra l’altro, «partecipare alla vita pubblica locale, esercitando anche l’elettorato quando previsto dall’ordinamento e in armonia con le previsioni del capitolo C della Convenzione sulla partecipazione degli stranieri alla vita pubblica a livello locale, fatta a Strasburgo il 5 febbraio 1992».
    L’idea di estendere il diritto di elettorato su questa base ha dato luogo a sviluppi normativi, sia a livello degli statuti regionali, sia al livello degli statuti comunali e provinciali.
    Ed in effetti, sul terreno di un’interpretazione letterale, la norma è inequivoca nel configurare il principio della partecipazione alla vita pubblica locale e del diritto di elettorato, anche per chi non sia cittadino italiano, «quando previsto dall’ordinamento», mentre è indubitabile che a svolgere l’«ordinamento» medesimo possa essere lo statuto della regione o anche quello locale, i quali ne fanno parte in quanto manifestazioni di autonomia costituzionalmente garantita.
    È di conforto a questa lettura, sul piano sistematico, la circostanza che, quanto ulteriormente ai diritti ed alla posizione di chi non sia cittadino italiano, non solo a più riprese gli articoli 34 e seguenti, ma lo stesso articolo 9, comma 4, lettere b) e c), del decreto legislativo n.–286 del 1998 rimandi – anziché alle previsioni dell’ordinamento come accade nella lettera d) per i diritti di partecipazione alla vita pubblica locale e di elettorato – più precisamente alla legge, a quel che è «disposto» o alle «vigenti disposizioni».
    È significativo cioè che proprio per la disciplina della partecipazione e del diritto di elettorato, diversamente da quel che avviene per altri aspetti della condizione dello straniero, si faccia rinvio all’ordinamento, utilizzando una formula ampia e tale da ricomprendere, tra le fonti abilitate, le stesse manifestazioni dell’autonomia come lo statuto locale o della regione.
    Occorre però subito aggiungere come non sia casuale che la stessa disciplina dettata a proposito della partecipazione politica e del voto a livello regionale e locale sia rimasta sin qui, oltre che diseguale, anche episodica ed anzi frammentaria.
    Nella sua attuale formulazione – ed anche in ragione di un difettoso coordinamento tra il suo testo originario e le modificazioni in esso successivamente introdotte dal legislatore – l’articolo 9, comma 4, del decreto legislativo n.  286 del 1998 non solo appare assai sintetico se non lacunoso, per sorreggere una disciplina compiuta ed uniforme del diritto di elettorato di chi non sia cittadino, ma ha di per sé un contenuto non univoco.
    La partecipazione alla vita pubblica ed il diritto di elettorato, per l’articolo 9, comma 4, del decreto legislativo n.  286 del 1998, parrebbero condizionati, per chi non sia cittadino italiano, al requisito del possesso della carta di soggiorno. In merito a questo requisito, però, lo stesso articolo 9 del decreto legislativo n.  286 del 1998 non è chiaro.
    Da un canto, con la rettifica apportata dalla legge 30 luglio 2002, n.  189, al comma 1 dell’articolo 9 del decreto legislativo n.  286 del 1998, il rilascio di carta di soggiorno presuppone che lo straniero extra-comunitario sia regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato da almeno sei anni.
    D’altro canto, a netta e clamorosa smentita che la titolarità della carta di soggiorno, e dunque un soggiorno protratto per sei anni, possano essere reputati indispensabili, ai fini nostri, sta il fatto che lo stesso articolo 9, comma 4, lettera d), prescriva una disciplina della partecipazione alla vita pubblica locale e del diritto di elettorato la quale sia «in armonia con le previsioni del capitolo C della Convenzione sulla partecipazione degli stranieri alla vita pubblica a livello locale, fatta a Strasburgo il 5 febbraio 1992».
    La Convenzione di Strasburgo del 1992 non è stata ratificata dall’Italia nella parte che qui preme e, nondimeno, essendo ex professo richiamata come da osservare nel comma 4, lettera d), del decreto legislativo n.  286 del 1998, deve stimarsi recepita nella legge ordinaria italiana, sia pure attraverso una tecnica di rinvio: non è certamente questa la prima volta che norme internazionali pattizie, pur non ratificate, sono richiamate come da osservare dal legislatore italiano; e, come ha avuto modo di sottolineare la Corte costituzionale per rapporto all’analoga formulazione contenuta nel testo dell’articolo 123 costituzionale, l’espressione «in armonia» sottende un dovere di osservanza (si veda, da ultimo, le sentenze nn.  304 e 306 del 2002).
    Ebbene, la Convenzione di Strasburgo del 1992 prevede che il diritto di elettorato, nelle elezioni locali, debba comunque essere accordato allo straniero regolarmente soggiornante da cinque anni. Con il che è ovviamente contraddittorio il subordinare il diritto di elettorato alla carta di soggiorno, ottenibile, come sembra invece esigere il comma 1 dell’articolo 9 del decreto legislativo n.  286 del 1998, solo dopo sei anni di permanenza.
    Questa patente contraddittorietà della legge italiana non è certo ricomposta neppure attraverso un’interpretazione come quella recentemente fornita dal Consiglio di Stato, Sez. I e II, 6 luglio 2005, n.  11074/04 che, per superarne le antinomie, finisce per sottrarre qualunque sostanza normativa e qualunque effettivo significato al disposto dell’articolo 9, comma 4 del decreto legislativo n.  286 del 1998.
    Ché anzi, e semmai, proprio perché interpreta l’articolo 9, comma 4 del decreto legislativo n.  286 del 1998 diversamente da come lo hanno inteso le amministrazioni locali (e le stesse regioni), il parere n.  11074/04 del Consiglio di Stato rende ancor più indilazionabile, di quanto non lo fosse anteriormente, un intervento legislativo di chiarimento, che restituisca una cornice legislativa certa per le iniziative statutarie ormai intraprese e la loro attuazione.
    Su questo sfondo, il presente progetto di legge si propone di ridisciplinare, in un quadro che si riconduca al fondamentale principio di eguaglianza, la partecipazione politica ed amministrativa nonché il diritto di elettorato attivo e passivo a livello regionale e locale di coloro i quali, pur non essendo cittadini italiani, siano regolarmente soggiornanti e stabilmente inseriti in Italia.
    A testimonianza dell’urgenza di un intervento del Parlamento a questo proposito, va menzionato anche il fatto che l’ancoraggio del diritto di voto o addirittura della partecipazione politica ed amministrativa a livello regionale e locale al requisito della cittadinanza è stato già per diversi profili superato dal legislatore italiano – anche al di là del citato articolo 9 del decreto legislativo n.  286 del 1998 – e si è palesato comunque suscettibile di condurre, alla luce della più recente evoluzione legislativa, ad esiti contraddittori, macroscopicamente irrazionali e poco congruenti rispetto appunto al principio di eguaglianza, come tale posto a fondamento degli stessi istituti della rappresentanza politica.
    Basti ricordare al riguardo che, se la partecipazione politico-amministrativa ed il diritto di elettorato di persone immigrate extracomunitarie che da anni vivano e lavorino continuativamente resta appeso al tenue filo dell’articolo 9 del decreto legislativo n.  286 del 1998, di cui si è detto, l’Italia ha reso possibile il voto all’estero, in qualunque competizione elettorale, di altre persone le quali pur avendo cittadinanza italiana – in virtù della legislazione degli anni ’90, che ha ammesso largamente se non addirittura incentivato ipotesi di doppia cittadinanza – non hanno mai toccato il suolo dell’Italia, né hanno mai avuto occasione di prender parte effettivamente alle vicende politico-sociali nazionali; mentre ancora, e di contro, con il decreto legislativo 12 aprile 1996, n.197, attuativo della direttiva comunitaria 94/80/CEE, si è ammesso, in ottemperanza agli obblighi sopranazionali, il diritto di elettorato dei cittadini di altri Stati membri dell’Unione europea, circoscritto tuttavia all’ambito comunale.
    L’esito di tutto questo sono una serie di manifeste disparità di trattamento e di disuguaglianze, o se si preferisce di incongruenze, nella disciplina della titolarità del diritto di voto, che ben possono essere percepite tenendo presenti, esemplificativamente, le seguenti situazioni: una persona che sia nata e sempre vissuta nel continente americano, ma che sia cittadino italiano in virtù di una doppia cittadinanza grazie ad ascendenze di sangue ormai risalenti di generazIoni può, sempre restando lontano dall’Italia, esprimere il proprio voto ed essere votato, addirittura per il Parlamento italiano; un cittadino dell’Unione europea, che risieda in Italia non importa da quanto e con quale radicamento personale e sociale, ha il diritto di elettorato, ma solo con riferimento ad elezioni comunali; un cittadino extra-comunitario, ad esempio statunitense, che viva in Italia da molti anni, ma che non voglia acquisire cittadinanza italiana, magari solo perché ciò implicherebbe la perdita della cittadinanza del paese di origine, non può esercitare alcun diritto di elettorato e di partecipazione politica nel contesto italiano.
    Che un tale assetto sia privo di qualunque riconoscibile razionalità non richiede neppure ulteriori dimostrazioni.
    L’esigenza di una riforma della disciplina legislativa ordinaria in tema di partecipazione politica ed amministrativa e di diritto di elettorato, attivo e passivo, è quindi conclamata.
    Né una tale riforma incontra impedimenti di natura costituzionale.
    È invero superabile il dubbio, su cui talora si è argomentato, che gli articoli 48 e 51 della Costituzione nel garantire ai cittadini il diritto di voto e l’accesso agli uffici pubblici, lo vietino per gli stranieri.
    In primo luogo, e già sul terreno dei criteri usuali dell’interpretazione letterale a contrario, è risaputo che non è dato desumere da una norma la quale conferisce a taluni un determinato diritto, che quel diritto non possa sussistere anche per altri; poiché la norma giuridica va interpretata per quello che dice (ubi lex voluit dixit...), e là dove tace non può prescrivere alcunché (così va inteso il seguito del latinetto: ... ubi noluit tacuit).
    Gli articoli 48 e 51 della Costituzione, rispettivamente, dispongono che «sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età» e che «tutti i cittadini ... possono accedere agli uffici pubblici»; né l’una né l’altra norma dà alcun sentore, almeno nel suo tenore letterale, di voler in sé esaurire la disciplina del diritto di voto o dell’accesso ai pubblici uffici, né di voler regolare al riguardo la posizione di chi non sia cittadino.
    In altre parole, gli articoli 48 e 51 della Costituzione rispettivamente ricollegando l’elettorato e l’accesso ai pubblici uffici alla cittadinanza, proibiscono (anche) al legislatore ordinario di sottrarre tali diritti a chi sia cittadino; ma per chi cittadino non è, gli articoli 48 e 51 della Costituzione non dicono nulla e, dunque, neanche proibiscono una estensione dei diritti di elettorato e di accesso agli uffici pubblici allo straniero.
    La posizione dello straniero è differenziata solo nel senso che il legislatore ordinario resta libero, entro confini della «ragionevolezza», di attribuirgli o non attribuirgli il diritto di elettorato e di accesso ai pubblici uffici, ovvero ed eventualmente di attribuirgli tali diritti a condizioni particolari, che siano diverse da quelle stabilite per il cittadino.
    Non contraddice questo esito interpretativo neppure la previsione dell’articolo 51, comma 2, della Costituzione, là ove consente di parificare ai cittadini gli italiani non appartenenti alla Repubblica; giacché, la parificazione, sancita per gli italiani non appartenenti alla Repubblica, li mette in una condizione diversa da quella degli stranieri i quali, e giova ribadirlo, possono ricevere dal legislatore ordinario un trattamento differenziato, a paragone di quello dei cittadini, anche nell’ammissione agli uffici pubblici ed alle cariche elettive.
    In secondo luogo, sul piano dell’interpretazione sistematica della Costituzione, ogni norma costituzionale che garantisca un determinato diritto al cittadino è sempre stata interpretata come una norma che, vietando di spogliare di garanzia chi sia in possesso della cittadinanza, comunque non impedisce di estendere per legge ordinaria un trattamento anche analogo allo straniero: per esemplificare, a nessuno è venuto mai in mente, perché ciò oltre ad offendere il diritto offenderebbe il comune buon senso, che l’articolo 16 della Costituzione, nell’imputare al cittadino il diritto di libera circolazione, vieti di lasciar circolare gli stranieri; o che gli articoli 17 e 18 della Costituzione, nell’imputare parimenti al cittadino la libertà di riunirsi e di associarsi, impongano un divieto di associazione e di riunione per gli stranieri; si è sempre ritenuto, più semplicemente, che il non essere titolari di un diritto costituzionalmente garantito potesse comportare, per gli stranieri, un trattamento diverso, che può anche essere più restrittivo ma non deve esserlo necessariamente, quanto al circolare, al riunirsi o all’associarsi.
    Del resto, in un contesto di cui fa parte la garanzia di taluni fondamentali diritti di libertà senza discriminazioni di cittadinanza (le quali, in forza dell’articolo 2 della Costituzione, possono darsi solo ove autorizzate dalla Costituzione stessa), il postulare l’impossibilità di estendere agli stranieri, sia pure con le cautele stabilite dal legislatore ordinario, anche solo talune delle libertà assicurate costituzionalmente al cittadino come tale equivarebbe appunto ad introdurre, in confronto ad una qualunque prospettiva di inserimento nella società italiana, manifeste incongruenze se non proprio spinte contraddittorie: ci si potrebbe chiedere, solo come esempio, che significato potrebbe avere la piena garanzia della libertà di manifestazione del pensiero (che per l’articolo 21 della Costituzione è di tutti) per chi non è cittadino, quando non lo si ammettesse, in certa misura, alla libertà di circolare, di riunirsi e di associarsi con altri.
    In campo politico ed in passato, ci fu per la verità chi, quando un partito italiano scelse come proprio segretario uno straniero (si trattava del Partito Radicale) sollevò il problema della riferibilità della libertà associativa e partitica, ex articoli 18 e 49 della Costituzione, ai soli cittadini. Ma va anche rammentato che ogni dibattito in proposito fu reputato ed è da reputare superato definitivamente con la sentenza 3 luglio 1985, n.  193 della Corte costituzionale, in cui si è sancita l’estensione del diritto di associarsi anche per le associazioni autoqualificantesi come internazionali; e merita di essere messo in luce che, nel pronunciarsi su questo tema, la Corte ha mostrato consapevolezza dei risvolti politici dell’associazionismo internazionale.
    In realtà, non pare dunque che si possa, per mettere gli articoli 48 e 51 della Costituzione in disparte rispetto ad altre norme costituzionali sulle libertà, trarre soverchi argomenti nemmeno dalla natura politica del diritto di voto e dell’ammissione ai pubblici uffici; poiché, se è vero che la natura politica di tali libertà comporta un intreccio inevitabile del diritto di voto e di ammissione agli uffici pubblici con doveri ed obblighi verso lo Stato ed i suoi cittadini, è altrettanto vero che ciò non costituisce ostacolo insormontabile.
    Da un lato, almeno per il diritto di voto, va notato che il suo carattere di dovere civico, proclamato dall’articolo 48 della Costituzione, è inteso ora in modo diverso che in precedenza: la legislazione elettorale italiana ha eliminato le sanzioni, per lo più simboliche, per chi si astiene dal votare, ed ha riconvertito il dovere del voto in un’azione pubblica volta a promuovere la partecipazione politica.
    D’altro lato, e più ampiamente, non si vede il perché gli obblighi ed i doveri, anche di fedeltà ai propri compiti, corrispondenti all’assunzione di cariche elettive e di uffici pubblici non potrebbero essere assicurati nei confronti degli stranieri dal legislatore ordinario, il quale, come si è visto, può ben stabilire al riguardo una disciplina differenziata da quella inerente ai cittadini.
    Anche da un punto di vista più vasto e comprensivo, del resto, il ritenere precluso automaticamente allo straniero l’esercizio regolato per legge ordinaria di quei diritti di libertà che la Costituzione specificamente assicura al cittadino sarebbe assurdo, in un ordinamento quale quello italiano che respinge visioni etnico-territoriali (o razziali) della cittadinanza, per concepirla piuttosto alla stregua dell’effettivo inserimento economico, sociale, politico e culturale.
    La cittadinanza, come tale e quanto ai criteri per il suo riconoscimento, è oggi disciplinata, in Costituzione, solo dall’articolo 22, il quale si limita a vietare di toglierla per motivi politici.
    Che i Costituenti abbiano lasciato per tanta parte al legislatore ordinario la disciplina della cittadinanza è già significativo di un orientamento della Costituzione italiana assai poco incline a concezioni della cittadinanza di stampo etnico-territoriale (il cosiddetto «impasto di terra e sangue»), che pure hanno avuto, e forse hanno ancora, un qualche spazio nella tradizione europea. È persino intuitivo, infatti, che una concezione etnico-territoriale (o addirittura razziale) della cittadinanza, comportando una rigida ed irrimediabile esclusione dei non appartenenti all’etnos (o alla «stirpe»), avrebbe suggerito una determinazione dei criteri di identificazione dei cittadini posti direttamente a livello costituzionale.
    La Costituzione ha pertanto, già in partenza, una propensione verso la cittadinanza dischiusa a chi provenga da fuori, com’è consono ad un’idea della cittadinanza medesima di stampo socio-culturale, per cui cittadini si è, o si diventa, inserendosi in una determinata società e condividendone la cultura.
    Una simile concezione socio-culturale della cittadinanza traspare inoltre con sufficiente chiarezza da una più larga lettura della Costituzione in chiave sistematica, a cominciare dalla circostanza, a cui si è accennato, che – come ha chiarito una oramai annosa giurisprudenza costituzionale – fondamentali diritti civili e sociali debbono essere garantiti a tutti, senza che si possano fare distinzioni tra cittadini e non cittadini (articolo 2 della Costituzione); questa garanzia dell’uomo in quanto tale, a prescindere dalla cittadinanza, denota univocamente una società permeabile all’esterno e predisposta ad accogliere presso di sé chi proviene per origini da altri luoghi, come non potrebbe essere, invece, la società unita da fattori etnici o persino genetico-razziali di appartenenza.
    Come è significativo, a proposito della maniera di percepire la cittadinanza alla stregua di nesso unificante la società, lo stesso linguaggio più ampiamente utilizzato nella Costituzione italiana, in cui al termine «popolo» o «nazione» – il quale compare nell’articolo 98, comma 1 in un’accezione sicuramente diversa da quella etnico-territoriale – si preferisce sovente il termine «repubblica», il quale è indicativo, secondo anche autorevole dottrina (Benvenuti, Berti), non di un’appartenenza bensì di una compartecipazione all’attuazione costituzionale.
    Infine, non va dimenticato che a favore di un’idea della cittadinanza come aggregazione ad una società e ad una cultura, la quale lascia impregiudicati elementi etnici ed anche di tradizione storica, vanno le sporadiche prese di posizione della Corte Costituzionale in questa materia. Si ponga mente, ad esempio, alla sentenza della Corte Costituzionale 25 maggio 1987, n.  189, in cui la Corte ha dichiarato che la libertà di espressione della propria identità dei cittadini appartenenti a minoranze alloglotte o allogene può essere spinta sino alla pubblica esposizione di simboli o bandiere non corrispondenti all’ideologia comunemente accettata in Italia; o, su altro versante e più di recente, basti por mente alla sentenza 18 maggio 1999, n.  172, in cui la Corte ha ritenuto non illegittimo l’estendere l’obbligo del servizio militare, normalmente imposto ai cittadini, anche agli apolidi, sulla premessa delle chances di inserimento nella società italiana loro accordate.
    Del resto, lo stesso Consiglio di Stato, nel menzionato parere del 6 luglio 2005 n.  11074/04, ha confermato che gli articoli 48 e 51 della Costituzione non sono ostacolo insormontabile al conferimento del diritto di elettorato attivo e passivo a chi non abbia cittadinanza italiana, limitandosi ad affermare che i medesimi articoli solo concorrerebbero a rendere necessaria, per l’estensione agli stranieri del diritto di votare ed essere eletti, una espressa presa di posizione del legislatore statale, solo incompiutamente rinvenibile nell’articolo 9, comma 4, del decreto legislativo n.  286 del 1998.
    È sulla premessa che non sia preclusa un’interpretazione aperta degli articoli 48 e 51 della Costituzione, dunque, che il presente progetto di legge intende riordinare, dettando principi fondamentali e generali uniformi per tutto l’ordinamento della Repubblica, la materia della partecipazione politica ed amministrativa e del diritto di elettorato a livello regionale e locale.
    Con il che, beninteso, non si elidono, bensì si confermano ed anzi si irrobustiscono, per il fatto stesso di immetterli in una trama coordinata e unitaria, i poteri riconosciuti alle Regioni ed alle amministrazioni locali.
    Su questo versante, è da ricordare invero come le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano abbiano poteri legislativi in materia elettorale. Dopo le recenti riforme, l’articolo 122 costituzionale vincola le Regioni ordinarie ai soli principi fondamentali della legge dello Stato, mentre gli Statuti speciali vincolano il legislatore regionale e provinciale, invece, ai principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica.
    Ma anche comuni, province e città Metropolitane, tramite i loro Statuti e regolamenti, hanno la possibilità di attivarsi.
    È direttamente della Corte costituzionale l’indicazione circa l’appartenenza della disciplina elettorale alla materia dell’ordinamento locale, ascrivibile, in quanto tale, alla competenza statutaria ed anche regolamentare locale.
    Per la Corte: «non può accogliersi (...) una prospettazione secondo cui la legislazione elettorale sarebbe di per sé estranea alla materia dell’ordinamento degli enti locali. La configurazione degli organi di governo degli enti locali, i rapporti fra gli stessi, le modalità di formazione degli organi, e quindi anche le modalità di elezione degli organi rappresentativi, la loro durata in carica, i casi di scioglimento anticipato, sono aspetti di questa materia» (così la sentenza 10-13 febbraio 2003, n.  48).
    E, d’altronde, la disciplina della partecipazione popolare, per l’articolo 6 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n.  267, fa addirittura parte del contenuto minimo ed essenziale dello statuto comunale; mentre, per l’articolo 8, comma 5, dello stesso decreto legislativo n.  267 del 2000, lo statuto, ispirandosi ai principi di cui alla legge 8 marzo 1994, n.  203 e al decreto legislativo 25 luglio 1998, n.  286, promuove forme di partecipazione alla vita pubblica locale dei cittadini dell’Unione europea e degli stranieri regolarmente soggiornanti.
    Il presente progetto di legge non va pertanto letto in opposizione o a smentita, bensì a conforto e sostegno, delle esperienze avviate in sede statutaria regionale e locale per la partecipazione politico-amministrativa ed il diritto di elettorato di chi non sia cittadino italiano. Ciò a cui si mira è semmai, e solo, una maggiore chiarezza, con la rimozione di ogni residuo intralcio alle esperienze regionali e locali sul diritto di elettorato dei non cittadini italiani.
    Scendendo poi all’illustrazione degli specifici contenuti del progetto di legge, merita di essere sottolineato che l’articolo 1 è volto preliminarmente a stabilire un divieto di discriminazione per motivi di nazionalità e di cittadinanza per la partecipazione alla vita politica ed amministrativa.
    Si tratta di un principio generalissimo, e tuttavia di immediata applicazione, destinato a valere non solo per le amministrazioni statali e locali bensì anche per le regioni, ordinarie e speciali, e per le province autonome; affinché non sorgano dubbi circa la inderogabilità del principio anche per legislazione regionale e provinciale di carattere concorrente o esclusivo, lo si è espressamente qualificato come principio fondamentale e principio dell’ordinamento giuridico della Repubblica.
    Sul che, del resto, non sarebbe lecito nutrire alcuna perplessità: il diritto di partecipazione politica ed amministrativa – la cui intima connessione con il principio democratico (articolo 1 della Costituzione) e con l’imparzialità ed il buon andamento della pubblica amministrazione (articolo 97 della Costituzione) è intuitiva – non può che essere informato, anche secondo la migliore dottrina, ad un criterio obiettivo di parità di trattamento; sicché non può certamente sorprendere, o giungere inatteso, che il legislatore statale espliciti, in chiave di vincolo alle stesse leggi di regioni e province autonome, un principio già per sé desumibile dalla Costituzione repubblicana e comunque con essa pienamente corrente.
    L’articolo 2 stabilisce poi, in modo che sia assunta come regola uniforme dalla generalità delle amministrazioni locali, l’estensione del diritto di elettorato a chi non sia cittadino italiano nelle elezioni concernenti il comune, la provincia e la città metropolitana; sono ovviamente comprese le elezioni degli organismi circoscrizionali (e delle municipalità), la cui disciplina articolata è demandata all’autonomia statutaria e regolamentare locale.
    In proposito, si è tenuta presente l’esigenza che l’esercizio del diritto di elettorato, e quindi l’inserimento nel circuito della decisione democratica, avvenga per persone ormai coinvolte, in modo non effimero o meramente episodico bensì con connotati di continuità e stabilità, nel tessuto sociale.
    A tal fine, si è previsto, per l’ammissione al diritto di elettorato, il requisito di un soggiorno regolare in Italia protratto da almeno cinque anni.
    Un tale criterio temporale è in armonia con il capitolo C della convenzione sulla partecipazione degli stranieri alla vita pubblica a livello sociale, fatta a Strasburgo il 5 febbraio 1992, di cui si è prevista definitivamente l’esecuzione e ratifica, nell’articolo 6 del progetto di legge, in modo da completare il cammino intrapreso con la legge 8 marzo 1994, n.  203.
    Si è invece scartata l’idea di ancorare il diritto di elettorato ad un requisito di radicamento, e dunque di residenza protratta per un tempo più o meno lungo, nello specifico territorio in cui siano destinati ad operare gli eletti. Si è pensato, difatti, che un simile requisito di residenza protratta nel singolo comune, nella singola provincia o città metropolitana, per non avere un significato indebitamente discriminatorio, dovrebbe essere imposto anche ai cittadini italiani ed europei.
    Se si dovesse porre il problema di accertare, in vista dell’esercizio del diritto di elettorato, il radicamento nella specifica comunità locale per cui si vota, il problema non potrebbe, in quanto tale, non porsi per chiunque e non solo per chi sia privo di cittadinanza italiana; anche il cittadino italiano ed europeo potrebbe invero non essere in rapporto con la singola e specifica comunità locale nella quale si voti o si abbia da essere eventualmente eletti.
    Nella tradizione della legislazione elettorale italiana, ad un tale problema non si è mai però voluto conferire un peso risolutivo, per un motivo che pare condivisibile, e cioè per garantire il carattere aperto delle comunità locali ed evitare che ciascuna di esse, sotto il profilo politico, possa tendere a chiudersi in se stessa.
    L’articolo 2, sancendo semplicemente un principio di non discriminazione per cittadinanza e nazionalità, lascia del resto operanti per tutti i requisiti che sono attualmente e potrebbero in futuro essere imposti per l’esercizio del diritto di elettorato indipendentemente da cittadinanza o nazionalità.
    Sempre l’articolo 2 mantiene comunque la possibilità degli statuti locali di tenere in essere, e se del caso di istituire, altre forme di partecipazione politica ed amministrativa degli stranieri; questo anche per consentire – magari con istituti ormai sperimentati quali la consulta o il consigliere aggiunto – l’inserimento nella vita politica ed amministrativa locale degli stranieri extracomunitari i quali non abbiano ancora maturato, in termini di durata del regolare soggiorno, i requisiti per l’accesso al diritto di elettorato.
    Si è evitato viceversa, discostandosi dalla previsione dell’articolo 9 del decreto legislativo n.  286 del 1998, di collegare il diritto di elettorato alla carta di soggiorno, come congegnata dal testo unico sull’immigrazione extracomunitaria.
    E questo per due motivi: da un lato, perché, per come è congegnato dal testo unico sull’immigrazione extra-comunitaria, il rilascio della carta di soggiorno corrisponde ad una situazione prodromica al divenire cittadini italiani, e dunque ad una condizione particolare e diversa da quella del non-cittadino soggiornante regolarmente anche in modo stabile e continuativo; d’altro lato perché, sempre per l’impianto del testo unico sull’immigrazione extracomunitaria, il rilascio della carta di soggiorno comporta l’accertamento di capacità economica; sicché il condizionare alla carta di soggiorno il diritto di elettorato potrebbe equivalere a reintrodurre, per una via traversa, limitazioni del diritto di elettorato per censo, in violazione dello spirito stesso del principio costituzionale del suffragio universale.
    L’articolo 3 del progetto di legge disciplina, sulla scorta di principi omologhi a quelli preordinati per elezioni locali, il diritto di elettorato attivo e passivo a livello regionale.
    Naturalmente, essendo le regioni ordinarie e speciali, nonché le province autonome, dotate in materia di competenza legislativa, la legge statale deve limitarsi a dettare norme di principio, sia pur da reputarsi inderogabili in quanto espressamente qualificate come di principio fondamentale e di principio dell’ordinamento giuridico della Repubblica: una legge elettorale regionale e provinciale che non si adeguasse d detti principi sarebbe, comunque, fatalmente destinata ad incurrere in censura di incostituzionalità.
    L’articolo 4 fa salva la disciplina più favorevole che, per il diritto di elettorato, sia o possa essere stabilita a vantaggio dei cittadini – dell’Unione europea, non solo in ossequio ad obblighi comunitari, ma altresì per decisione autonoma del legislatore italiano, statale o regionale. Sembra infatti opportuno, per ragioni di armonia di sistema oltrechè per l’ottemperanza ad obblighi comunitari, prevenire il rischio di un trattamento deteriore per il diritto di elettorato per i cittadini europei, che è attualmente previsto senza speciali limitazioni riportate alla durata del regolare soggiorno in Italia ma solo per le elezioni comunali.
    L’articolo 5 sancisce che l’iscrizione nelle liste elettorali di chi non sia cittadino italiano, necessaria all’esercizio del diritto di elettorato, avviene a domanda, in armonia con la disciplina dettata per i cittadini dell’Unione europea.
    L’articolo 6 prevede, infine, la ratifica ed esecuzione della Convenzione sulla partecipazione degli stranieri alla vita pubblica a livello locale, fatta a Strasburgo il 5 febbraio 1992. Si fa presente, da ultimo, che il presente disegno di legge è stato redatto tenendo conto di talune indicazioni dell’Associazione nazionale dei comuni italiani.

 

DISEGNO DI LEGGE

Art. 1.

(Diritti di partecipazione politica
ed amministrativa)

    1. La partecipazione alla vita politica ed alle attività di pubblica amministrazione, comprensiva del diritto di accesso e della partecipazione al procedimento amministrativo, è assicurata a tutti, senza discriminazioni in base a cittadinanza o nazionalità.

    2. Il comma 1 costituisce principio fondamentale dell’ordinamento della Repubblica.

Art. 2.

(Diritto di elettorato nelle elezioni comunali e provinciali)

    1. Il diritto di elettorato attivo e passivo nelle elezioni comunali, provinciali e delle città metropolitane è garantito a chi non sia cittadino italiano quando abbia maturato cinque anni di regolare soggiorno in Italia.

    2. Gli statuti ed i regolamenti comunali, provinciali e delle città metropolitane disciplinano le forme di partecipazione degli stranieri alla vita politica ed amministrativa,
    3. Le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano osservano le disposizioni del presente articolo come principi fondamentali dell’ordinamento della Repubblica.

Art. 3.

(Diritto di elettorato nelle elezioni regienali)

    1. Il diritto di elettorato attivo e passivo nelle elezioni regionali è garantito a chi non sia cittadino italiano quando abbia maturato cinque anni di regolare soggiorno in Italia.

    2. La disposizione di cui al comma 1 costituisce principio fondamentale, ai sensi dell’articolo 122 della Costituzione.

Art. 4.

(Diritto di elettorato dei cittadini europei)

    1. La presente legge non pregiudica la disciplina più favorevole stabilita dalla legge statale o regionale per il diritto di elettorato attivo e passivo e le sue modalità di esercizio da parte dei cittadini dell’Unione europea.

Art. 5.

(Iscrizione nelle liste elettorali)

    1. Per l’esercizio del diritto di elettorato attivo e passivo, chi non sia cittadino italiano deve presentare al sindaco del comune di residenza domanda per l’iscrizione nelle liste elettorali. Per le modalità di iscrizione nelle liste elettorali si applica, in quanto compatibile, la disciplina concernente i cittadini dell’Unione europea.

Art. 6.

(Ratifica ed esecuzione della Convenzione di Strasburgo limitatamente al Capitolo C)

    1. Il Presidente della Repubblica è autorizzato a ratificare la Convenzione sulla partecipazione degli stranieri alla vita pubblica a livello locale, fatta a Strasburgo il 5 febbraio 1992, limitatamente al Capitolo C.

    2. Piena ed intera esecuzione è data alla convenzione di cui al comma 1 a decorrere dalla data della sua entrata in vigore, in conformità a quanto disposto dall’articolo 12 della medesima convenzione.

 
[TESTO_FOTOGRAFATO_NON_DISPONIBILE]
[TESTO_FOTOGRAFATO_NON_DISPONIBILE]
[TESTO_FOTOGRAFATO_NON_DISPONIBILE]
[TESTO_FOTOGRAFATO_NON_DISPONIBILE]
[TESTO_FOTOGRAFATO_NON_DISPONIBILE]
[TESTO_FOTOGRAFATO_NON_DISPONIBILE]
[TESTO_FOTOGRAFATO_NON_DISPONIBILE][TESTO_FOTOGRAFATO_NON_DISPONIBILE]
[TESTO_FOTOGRAFATO_NON_DISPONIBILE]
[TESTO_FOTOGRAFATO_NON_DISPONIBILE][TESTO_FOTOGRAFATO_NON_DISPONIBILE][TESTO_FOTOGRAFATO_NON_DISPONIBILE]
[TESTO_FOTOGRAFATO_NON_DISPONIBILE]

Menu

Contenuti