Osservazioni e Proposte
Assemblea, 26 giugno 2003


Il Gruppo di lavoro intercommissione, costituito dal CNEL con il compito di esaminare i problemi attuativi del titolo V della II parte della Costituzione, ha affrontato il tema della attuazione dell’autonomia finanziaria prevista dal nuovo assetto istituzionale rilevando come sia indispensabile sciogliere, in via preliminare, i nodi della corretta ripartizione delle competenze legislative, come delineate dall’articolo 117, e amministrative, di cui all’articolo 118.

1. L’attuale fase istituzionale, infatti, impone una riflessione circa il nuovo riparto delle competenze tra Stato, Regioni ed Enti Locali, con particolare riferimento a quanto attiene agli ambiti in cui risultano coinvolti il soddisfacimento e la garanzia dei diritti costituzionali (civili e sociali).
In primo luogo, v’è l’esigenza di avviare e rendere effettiva la riforma realizzata con la legge costituzionale n. 3 del 2001; in secondo luogo, la prospettiva dell’ulteriore riforma del titolo V della Costituzione richiede un approfondimento intorno alle implicazioni che le soluzioni proposte potrebbero comportare sul piano dei diritti costituzionali.

2. In tema di attuazione l’impianto costituzionale determinato dalla riforma del 2001 richiede interventi attuativi che, in special modo in settori a forte impatto sociale ed economico, si rendono necessari da subito, non solo per dar corpo al nuovo riparto di competenze, ma anche per contribuire a rendere effettiva la tutela dei diritti.
Almeno tre sono i profili da considerare come prioritari.

2.1. Sul piano dei poteri legislativi il nuovo testo costituzionale e la riflessione che ne è conseguita hanno sottolineato, in particolare, la funzione riservata alla competenza statale per la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, nel senso di riconoscere ad essa, appunto, una funzione di garanzia di uguaglianza nel godimento dei diritti su tutto il territorio nazionale.
Ciò non toglie che, data la rilevanza delle materie rimesse alla competenza concorrente dall’art. 117, terzo comma, sia quanto mai necessario procedere alla determinazione dei principi fondamentali statali, procedendo nell’immediato secondo la linea tracciata dalla legge 5 giugno 2003, n.131, così da consentire che gli interventi dei legislatori regionali siano previamente, e coerentemente, riconducibili al quadro normativo di principio di fonte statale.
Per quanto concerne i livelli essenziali delle restazioni, questi costituiscono un argine al potenziale di differenziazione che l’articolazione della potestà legislativa potrebbe comportare anche nell’ambito dei diritti costituzionali, in particolare proprio in quelle materie, quali ad esempio l’assistenza, affidate oggi alla competenza esclusiva delle Regioni.
La riserva statale per la determinazione dei livelli essenziali costituisce,infatti, una competenza di salvaguardia dell’unità del sistema per quanto riguarda il soddisfacimento dei diritti, valevole nei confronti delle competenze regionali, siano esse concorrenti o piene-esclusive.
Quando sono in gioco diritti costituzionalmente tutelati, non vi possono essere ambiti legislativi regionali sottratti alla incidenza dei livelli essenziali.
Il che non preclude che le Regioni possano operare in termini aggiuntivi rispetto alla previsione statale, innalzando la soglia “nazionale” di godimento del diritto, purché siano in grado di sostenerla, sia sotto il profilo finanziario che organizzativo.
Trattandosi di determinare il contenuto del diritto cui far corrispondere il livello essenziale in ordine al suo godimento, la base legislativa sembra assolutamente necessaria e non prescindibile, anche se non è da escludere che essa possa essere integrata e sviluppata da regolamenti, o da provvedimenti governativi, da adottare in regime d’intesa con Regioni ed Enti Locali.
Al di là dei meri caratteri formali, di una previsione costituzionale che riserva alla esclusiva competenza della legge dello Stato la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, rimangono le considerazioni volte a guardare il significato più proprio dell’opzione costituzionale, orientata a rafforzare l’incidenza legislativa e, in particolare, quella del Parlamento, quale espressione della rappresentatività nazionale. Il Parlamento, infatti, privato di ambiti significativi nella normazione di settore, mantiene la competenza fondamentale di assicurare l’unitarietà del sistema di garanzie relative ai diritti costituzionalmente previsti.

2.2. Alla definizione dei nuovi confini legislativi tra Stato e Regioni fa fronte, nel riformato impianto costituzionale, un deciso superamento del principio del parallelismo (coincidenza della titolarità del potere legislativo e di quello amministrativo), per cui in via generale, a norma del primo comma dell’art. 118 della Costituzione, l’attività di amministrazione sarà prevalentemente comunale o locale. Il che deve comportare che, anche nel campo degli interventi volti al soddisfacimento dei diritti, un ruolo essenziale debba essere riconosciuto nell’erogazione effetti va delle risorse, in funzione delle prestazioni, alle amministrazioni di base, con particolare riferimento alle risorse necessarie per garantire quei diritti essenziali la cui determinazione è riservata alla competenza legislativa dello Stato mentre le attività operative sono competenza degli Enti Locali.
Ciò implica, da parte dello Stato e delle Regioni, un’opera di completamento, laddove necessario, del conferimento di funzioni amministrative a favore degli Enti Locali, da realizzare quanto prima attraverso
una specifica legislazione statale, a partire dall’attuazione della lett. p), secondo comma dell’art. 117, e regionale nelle materie di rispettiva competenza.

2.3. Il nuovo assetto delle competenze legislative ed amministrative si inscrive, nel titolo V riformato, in una prospettiva di accresciuta autonomia finanziaria di Regioni ed Enti Locali in un quadro che, peraltro, considera come componente imprescindibile delle risorse assegnate “ai Comuni, alle Province,alle Città metropolitane e alle Regioni (per) finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite” quelle connesse alla perequazione delle risorse finanziarie (art. 119, III e V), che sono una tra le competenze esclusive dello Stato (art. 117, II, lett. e).
A tale proposito, sotto il profilo attuativo, si rende necessario l’intervento immediato del legislatore statale volto a determinare i mezzi perequativi e gli interventi aggiuntivi, laddove necessari, tali da consentire, nel quadro della nuova finanza regionale e locale, la garanzia delle esigenze unitarie connesse con le prestazioni concernenti diritti civili e sociali.
Peraltro né il sistema di entrate proprie né gli interventi perequativi ed aggiuntivi dello Stato possono essere considerati come un mero vincolo in negativo per la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni. Il nuovo sistema finanziario delle Regioni e degli Enti Locali deve piuttosto costituire lo strumento per lo sviluppo e l’ampliamento della sfera stessa di soddisfacimento dei diritti in relazione a nuove situazioni di bisogno oggetto di tutela.

3. L’articolo 119 non deve, infatti, essere isolato dal contesto come se la nuova disciplina facesse cadere ogni solidarietà ed ogni tutela unitaria dei principi fondamentali di cittadinanza normati nella prima parte della Costituzione. In realtà non solo il Titolo V della II parte della Costituzione va letto all’interno del sistema costituzionale di cui restano, dunque, pienamente validi i principi fondamentali (a partire da quelli dell’articolo 3 o, per riferirsi alla normativa fiscale, quelli dell’articolo 53 sulla progressività complessiva del sistema tributario) ma proprio all’interno del titolo V e dello stesso articolo 119 si ritrovano norme che sarebbero incomprensibili senza una interpretazione in chiave di federalismo solidale dell’intera riforma.
Nell’articolo 119 le norme sulla “autonomia di entrata e di spesa” e quelle sull’attribuzione di compartecipazioni e addizionali su “tributi erariali riferibili al territorio” di ciascuna Regione o Ente Locale fanno sistema con quelle sui fondi perequativi: quello del terzo comma che, in funzione delle attività ordinarie, integra le risorse dei “territori con minore capacità fiscale per abitante” al fine di consentir loro “di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite”, e quello del quinto comma, che è destinato a finanziare interventi più strutturali di “sviluppo, coesione e solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e
sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona”.
Non casualmente questi compiti sono assegnati allo Stato (dalla lettera e) del 2° comma dell’articolo 117) e, nel secondo caso, con un ruolo che non può limitarsi all’erogazione delle risorse ma richiede un esplicito protagonismo.
Sono questi i riferimenti finanziari delle norme che all’interno del titolo V, nell’articolo 117, dettano le regole di un federalismo solidale, l’unico adeguato ad un paese, come l’Italia, caratterizzato da forti squilibri territoriali.

4. Nella determinazione di una forma di compiuta “autonomia finanziaria di entrata” occorre, in primo luogo, ricercare un giusto equilibrio tra “tributi propri”, e “compartecipazioni”.
L’assetto attuale prevede due fondamentali tributi propri (la cui struttura base è definita con normativa statale), l’IRAP per le Regioni e l’ICI per i Comuni (con entrate pari, rispettivamente, a 30 e 10 miliardi di Euro). Gli altri tributi propri hanno un rilievo quantitativo marginale e non è prevedibile che possano accrescerlo significativamente in futuro.
Una rilevante novità nella attribuzione dei compiti operativi è introdotta dall’articolo 118 (“Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che per assicurarne l'esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza”). L’attività amministrativa è, conseguentemente, competenza propria degli Enti Locali, il cui finanziamento va garantito, con le nuove regole dell’articolo 119, attraverso tributi propri,compartecipazioni e quote del fondo perequativo. E’ evidente il rilievo quantitativo e qualitativo del problema, e l’importanza di delineare procedure condivise per l’esercizio dei poteri di coordinamento da parte della Regione,tenendo conto sia delle concrete funzioni attribuite, sia delle scelte che hanno determinato in ciascuna Regione specifici assetti del territorio.

5. Alla determinazione delle nuove competenze delle Regioni e degli Enti Locali deve farsi fronte con una puntuale concertazione tra i diversi livelli istituzionali non solo sulla tipologia delle funzioni ma anche sui loro costi complessivi e su quelli standard. Concertazione e coordinamento tra i diversi livelli istituzionali sono anche condizione perché la ripartizione delle nuove competenze in materia di entrate possa avvenire a pressione complessiva sui cittadini e sulle imprese se non ridotta almeno invariata (valutando insieme prelievo fiscale, contributivo, tariffario). Occorre, in sostanza, superare una prassi recente secondo la quale, nella fase di transizione dal centro alla periferia della titolarità delle funzioni in materia di entrata e di spesa, l’assenza di trasparenti procedure di concertazione interistituzionale ha trasferito oneri sui cittadini e sulle imprese in termini di incremento del prelievo complessivo o di riduzione della quantità e della qualità dei servizi. Dovrebbe in ogni caso determinarsi una riduzione della quota di imposizione centrale ed un incremento di quella locale. Ciò non significa, però, che si debba dare vita ad una molteplicità di tributi locali sostitutivi di quelli centrali, le aliquote dei quali si ridurrebbero. Se ciò accadesse si porrebbero alcuni delicati problemi.
Un’eccessiva utilizzazione dello strumento dei tributi propri introdurrebbe, in primo luogo, un problema generale di coerenza dell’ordinamento tributario e, inoltre, problemi specifici per i contribuenti e per le amministrazioni.

5.1. Da un punto di vista generale l’introduzione di tributi propri richiederebbe una complessa valutazione (all’interno di ciascuna regione e nel rapporto tra i diversi sistemi tributari locali) in relazione al principio costituzionale contenuto nell’articolo 53, comma 2°, secondo il quale “il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Nel regime attuale il limitato ambito di autonomia fiscale rende meno rilevante l’esigenza di misurare la costituzionalità dei tributi locali in relazione alla progressività, che, comunque, è garantita dalla vasta area impositiva centrale. Il problema della rogressività della fiscalità non statale diverrebbe rilevante, in relazione al nuovo regime di autonomia, qualora si ritenesse, in attuazione del comma 2 dell’articolo 119, di accentuare il peso dei tributi propri. La legge sui principi generali e sul coordinamento dovrebbe, comunque, farsi carico del tema della garanzia della progressività, non solo come elemento di tutela dei diritti dei cittadini all’interno di una Regione, ma anche, e soprattutto, come criterio di garanzia di diritti essenziali di cittadinanza nazionale.

5.2. Dal lato dei contribuenti un’eccessiva ampiezza dell’imposizione locale si scontrerebbe con la generale aspirazione ad un numero contenuto di tributi, con procedure standardizzate di definizione, accertamento ed esazione del debito. Un’autonoma determinazione di una molteplicità di tributi locali, salvo che la legge di principi non definisse così in dettaglio le condizioni generali da ridurre la successiva applicazione a mera attività esecutiva, rischierebbe di accentuare il fastidio per la molteplicità (e la diversità) di adempimenti cui sarebbero soggetti i cittadini. Si tratterebbe di un rischio tanto più rilevante in relazione alla assai labile struttura degli apparati tributari dei livelli politico-amministrativi sub statuali.

5.3. Dal punto di vista delle amministrazioni, in particolare per gli Enti Locali minori, sarebbe forte il rischio di doversi dotare di apparati i cui costi amministrativi potrebbero non essere compatibili con le risorse recuperate.

6. In relazione ai problemi evidenziati al punto precedente (ferma restando l’assegnazione ai Comuni delle competenze in materia di tassazione degli immobili e alle Regioni dell’IRAP) i tributi propri dovrebbero, dunque, convivere con un’ampia fascia di compartecipazioni e di addizionali.
Una simile scelta si espone ad un duplice ordine di obiezioni.
Da un lato si può osservare che le compartecipazioni non rendono esplicita la responsabilità dei diversi livelli istituzionali, e in particolare dei poteri locali, circa il livello di pressione fiscale sui cittadini e sulle imprese. In realtà, peraltro, il bilancio delle pubbliche amministrazioni è costruito per la parte più rilevante, con la tecnica della manovra ai margini di una spesa storica consolidata. I tributi propri (sia quelli decisi con autonoma individuazione dei cespiti e delle aliquote sia quelli attribuiti da leggi dello Stato, come l’IRAP e
l’ICI) forniscano un gettito largamente eccedente le effettive possibilità di manovra dei singoli livelli amministrativi.
In secondo luogo il sistema di finanziamento dei poteri locali attraverso quote di tributi statali potrebbe sembrare limitativo di una reale “autonomia di entrata”. Una risposta a tale obiezione potrebbe consistere nella definizione di procedure che rendessero più incisiva la partecipazione del sistema delle Regioni e delle Autonomie Locali alla determinazione del gettito derivante dalle quote di compartecipazione e di addizionale attraverso:
6.1. processi di codecisione delle basi imponibili;
6.2. coinvolgimento nei processi di accertamento;
6.3. procedure che salvaguardino, comunque, la quota di prelievo.

In relazione ai punti 6.1 e 6.2 si potrebbero stimolare i livelli locali ad un’attiva partecipazione prevedendo meccanismi per quantificare il maggior gettito accertato per la collaborazione di Regioni ed Enti Locali attribuendo loro, su tale quota, per un certo numero di esercizi, quote aggiuntive di compartecipazione.
Si potrebbe, per il punto 6.3, prevedere che, definiti, con le procedure individuate nella legge 5 giugno 2003, n.131, i parametri per garantire integralmente il normale esercizio delle funzioni attribuite (compresa la quota di risorse destinate ad alimentare il fondo perequativo), ci sia una sede collegiale (la Conferenza Stato-Regioni e quella Unificata, la Commissione bicamerale integrata e, in prospettiva, la Camera delle Autonomie) che debba esprimere l’intesa sulle variazioni del regime. La normativa di attuazione dell’articolo 119 potrebbe prevedere, con una integrazione dell’articolo 27 delle legge 468/78, che le modifiche nella attribuzione di competenze legislative e amministrative e quelle del regime fiscale centrale debbano essere compensate con modifiche di valore equivalente, anche in prospettiva, della quota regionale e locale di compartecipazione e/o dell’aliquota normale delle addizionali.

7. Tra le entrate proprie si colloca a pieno titolo, per “i territori con minore capacità tributaria per abitante”, anche la quota ad essi attribuita del fondo perequativo di cui all’articolo 119. Un istituto simile era già previsto, nel precedente regime costituzionale. La nuova disciplina conferisce a tale istituto una maggiore forza essendo previsto che tali risorse concorrano, con i tributi propri, le addizionali e le compartecipazioni, e “senza vincolo di destinazione”, a “finanziare integralmente le funzioni pubbliche … attribuite” a Regioni ed Enti Locali. Inoltre il fondo perequativo dovrebbe concorrere a realizzare i generali principi di eguaglianza e solidarietà contenuti nella prima parte della Costituzione e, in relazione al nuovo Titolo V, a garantire concretezza di risorse in funzione degli standard “dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”, di cui alla lettera m) dell’articolo 117, 2° comma. In relazione alla competenza esclusiva dello Stato nella perequazione sembra emergere dal testo costituzionale l’esigenza di un fondo perequativo gestito dallo Stato per ciascuno dei livelli istituzionali sub statuali (Regioni, Province, Comuni).
Anche la dotazione complessiva di risorse da assegnare a tale fondo potrebbe essere reperita attraverso quote di compartecipazione.
Partendo da una quota base di compartecipazione deguata al soddisfacimento di “tutte le funzioni assegnate” nella Regione, nella Provincia,nella fascia di Comuni, a maggiore capacità fiscale, che dovrebbe essere attribuita immediatamente a tutte le istituzioni locali in relazione all’area di riferimento (intendendo, per le imposte sui redditi, non il territorio di riscossione ma quello di produzione del relativo reddito e, per quelle sui consumi, la determinazione dell’ISTAT sulla ripartizione dei consumi regionali) si dovrebbe poi individuare la quota necessaria, per ciascun fondo perequativo, da ripartire con procedure di solidarietà verticale tra le Regioni, le Province, i Comuni, con minore capacità fiscale, al fine di garantire integralmente il fabbisogno per quanto riguarda i diritti essenziali e in misura differenziata per quanto riguarda le altre funzioni in essere al momento della applicazione della legge.

8. Sia le compartecipazioni sia il fondo perequativo di cui al 3° comma dell’articolo 119, dovrebbero essere costruiti con una quota di alcuni grandi tributi erariali. In relazione alla dimensione delle risorse necessarie i possibili tributi erariali da prendere in considerazione sono sostanzialmente quattro:
accisa sugli oli minerali, IVA. IRPEF, IRPEG. L’ordine non è casuale. Mentre i gettiti dei primi due tributi, riferendosi a consumi, sono spalmati in modo equilibrato sull’intero territorio nazionale quelli del terzo e, soprattutto, del quarto sono massicciamente concentrati nelle regioni più ricche del paese. La scelta dovrebbe, dunque, partire da una utilizzazione dell’accisa sugli oli minerali e dell’IVA. I criteri di ripartizione, delle quote dei fondi perequativi dovrebbero essere definiti dallo Stato, previa consultazione con il sistema delle
autonomie, sulla base di parametri che tengano conto di un ventaglio di indicatori legati ai bisogni (diritti di standard essenziali per i cittadini) ma anche all’efficienza delle amministrazioni interessate (capacità di combattere l’evasione, di utilizzare le risorse in funzione di uno sviluppo e, quindi, di un riequilibrio endogeno etc.). Si potrebbe, in sostanza, prevedere che Regioni, Province e Comuni più efficienti e rigorosi fruiscano di una quota maggiore del rispettivo fondo, al fine di accelerare il processo di riequilibrio.

10. Sono, infine, da valutare i tempi della transizione dal previgente regime al nuovo e i problemi legati alla discussione in corso sulla “riforma della riforma”.

10.1. In relazione al primo tema la complessità deriva dal ben noto squilibrio delle istituzioni locali nelle dotazioni finanziarie, nell’efficienza, nella capacità di rispondere in modo adeguato alle domande dei cittadini. E’ del tutto evidente che l’ipotesi di procedere in via preliminare alla definizione degli standard di servizi ed all’adeguamento delle relative dotazioni finanziarie comporterebbe tempi di applicazione della riforma non facilmente definibili. Non si tratta, infatti, soltanto di riequilibrare Centro-Nord e Mezzogiorno. Anche all’interno delle aree sviluppate esistono, infatti, problemi di riequilibrio tra i diversi Enti Locali. In qualche caso emergono, invece, nel Mezzogiorno problemi di storica inefficienza, affrontati con una massiccia dotazione di finanziamenti aggiuntivi, che hanno determinato squilibri finanziari in direzione opposta a quella tradizionalmente evidenziata.
Una ipotesi immediatamente praticabile è quella di un trasferimento, in prima applicazione, delle risorse necessarie per far fronte alle competenze in essere ed alle ulteriori competenze trasferite stabilendo il conseguente livello delle quote di compartecipazione, ivi comprese quelle necessarie per il riequilibrio. Per un certo numero di esercizi la dotazione iniziale potrebbe essere adeguata limitatamente al solo indice di inflazione e le risorse risultante dal differenziale tra la crescita della spesa e quella delle entrate (i tributi crescono, infatti, anche in relazione alla crescita reale del PIL) potrebbero essere utilizzate per il riequilibrio strutturale delle funzioni tra i diversi Enti Locali. Al termine del periodo transitorio si potrebbe riproporzionare la quota delle compartecipazioni (magari con qualche verifica periodica intermedia).

10.2. A proposito delle ipotesi di ulteriore riforma delle norme del titolo V della Costituzione più che la valutazione delle soluzioni avanzate, meritano innanzitutto di essere sottolineati taluni aspetti che sembrano comunque irrinunciabili.
Le ipotesi di ulteriore ampliamento dei poteri regionali (peraltro già previste dall’art. 116, u.c. con il c.d. regionalismo differenziato o asimmetrico), così come la prospettata ridefinizione degli stessi ambiti di competenza statale e regionale, con l’eventuale eliminazione delle competenze concorrenti, non dovrebbero porre in discussione il carattere trasversale della competenza riservata allo Stato per la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni.
La fissazione dei livelli essenziali da parte dello Stato poggia, infatti, su presupposti costituzionali (contenuti già nella prima parte della Costituzione) che informano il sistema di garanzia dei diritti e lo connotano in una chiave necessariamente unitaria e solidaristica, tale da far rilevare le scelte territoriali come elementi positivi di differenziazione e non di discriminazione nel godimento dei diritti.
Il che porta a dover escludere che l’eventuale modifica dell’assetto costituzionale delle competenze possa svuotare la competenza statale per la determinazione dei livelli essenziali e, con essa, vanificare le esigenze costituzionali che la sostengono.
Analogamente quale che sia l’ampiezza delle materie (e delle conseguenti risorse da attribuire alla competenza esclusiva delle Regioni resta irrinunciabile come competenza esclusiva dello Stato quella di attribuzione di risorse, a carico del fondo perequativo di cui al comma 3 dell’articolo 119, che unitamente ai tributi propri e alle compartecipazioni consentano “di finanziare integralmente le funzioni pubbliche attribuite” a regioni e Enti Locali.

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