Consiglio di Stato
Adunanza Generale del 25 ottobre 2004
N. Sezione 10548/04
N. Gab. 2/04

OGGETTO
MINISTERO DELLE ATTIVITÀ PRODUTTIVE – Schema di decreto legislativo recante il “Codice dei diritti di proprietà industriale”, ai sensi dell’art. 15 della legge 12 dicembre 2002, n. 273.


Il Consiglio
Visto lo schema di decreto legislativo recante il “Codice dei diritti di proprietà industriale”, ai sensi dell’art. 15 della
legge 12 dicembre 2002, n. 273, trasmesso con nota del Ministero delle attività produttive prot. n. 22513-R3b/131 del 14 settembre 2004, pervenuta il 21 settembre 2004, sul quale il Ministero delle attività produttive richiede il parere del Consiglio di Stato;
Esaminati gli atti e uditi i relatori ed estensori, Consiglieri Luigi Carbone, Goffredo Zaccardi, Rosanna De Nictolis e Giancarlo Montedoro;

PREMESSO e CONSIDERATO:

1. Lo schema di decreto legislativo in esame sottopone al parere del Consiglio di Stato il nuovo “Codice dei diritti di proprietà industriale”, in attuazione della delega contenuta nell’articolo 15 della legge 12 dicembre 2002, n. 273, recante “Misure per favorire l’iniziativa privata e lo sviluppo della concorrenza”.
L’alinea del comma 1 del citato art. 15 è stato novellato dall’art. 2, comma 8, della legge 27 luglio 2004, n. 196, di conversione del decreto legge 28 maggio 2004, n. 136 (recante disposizioni urgenti per garantire la funzionalità di taluni settori della pubblica amministrazione), prolungando di sei mesi il termine per l’esercizio della delega (inizialmente previsto in “diciotto mesi” e ora portato a “due anni”) per cui la scadenza del termine per l’esercizio della delega è ora stabilita alla data del 29 dicembre 2004.
L’intervento costituisce uno dei primi e più importanti codici adottati nel corso della presente legislatura (un precedente, relativo però ad una situazione del tutto peculiare, è costituito dallo schema di decreto legislativo recante la “Istituzione del sistema pubblico di connettività e della rete internazionale della pubblica amministrazione” su cui cfr. il parere della Sezione per gli atti normativi n. 7904/04 del 30 agosto 2004).
Pur se la norma delegante da cui il codice trae origine non è una di quelle contenute nella legge 29 luglio 2003, n. 229, recante “Interventi in materia di qualità della regolazione, riassetto normativo e codificazione - Legge di semplificazione 2001”, ma è ad essa antecedente, la delega su cui si fonda il codice in oggetto costituisce un’anticipazione di quelle della legge di semplificazione per il 2001 (che peraltro era stata presentata antecedentemente dal Governo ma è stata approvata successivamente dal Parlamento).
Difatti, l’art. 15 della l. n. 273 del 2002 richiama espressamente, tra i criteri di delega, la norma-cardine della semplificazione normativa, che è sempre rimasta l’articolo 20 della l. n. 59 del 1997, da ultimo novellato proprio dalla legge n. 229 del 2003. Orbene, il comma 2 dell’art. 1 della l. n. 229 del 2003 estende espressamente i nuovi principi e criteri direttivi del riformulato art. 20 della legge n. 59 del 1997 anche alle deleghe ancora in corso approvate prima della l. n. 229 che vi facciano riferimento: tra queste rientra anche la delega in oggetto (il comma 2 dell’art. 1 della l. n. 229 in questione recita: “Le disposizioni di cui all’articolo 20 della legge 15 marzo 1997, n. 59, come sostituito dal presente articolo, si applicano anche alle deleghe legislative in materia di semplificazione e riassetto normativo conferite con leggi approvate dal Parlamento nel corso della presente legislatura prima della data di entrata in vigore della presente legge”).
Si può, quindi, affermare che l’intervento in esame segna l’avvio di una nuova fase in materia di semplificazione e riordino (ora denominato “riassetto”) normativo dopo quella dei cd. “testi unici misti” di cui all’abrogato art. 7 della legge 8 marzo 1999, n. 50 (soppresso dall’art. 23, comma 3, della l. n. 229 del 2003).
Tale nuova fase si inserisce tra le iniziative del legislatore italiano volte a realizzare la “semplificazione normativa”, a ridurre il numero esorbitante delle regole del nostro ordinamento e a porre rimedio alla loro contraddittorietà, alla loro onerosità nei confronti di cittadini e imprese, alla loro relativamente non elevata qualità.
Il primo intervento in materia è costituito dall’art. 2 della legge n. 537 del 24 dicembre 1993, in cui fu lanciato il primo processo sistematico di delegificazione e semplificazione di un numero consistente di procedimenti amministrativi prima regolati dalla legge, per proseguire con l’articolo 20 della legge 15 marzo 1997, n. 59 (di cui si è appena detto) e sfociare nelle tre “leggi annuali di semplificazione” (che però hanno subito assunto una cadenza più lenta), interamente dedicate alla materia della semplificazione normativa e amministrativa.
Si tratta della legge 8 marzo 1999, n. 50 (“Delegificazione e testi unici di norme concernenti procedimenti amministrativi – Legge di semplificazione 1998”), della legge 24 novembre 2000, n. 340 (“Disposizioni per la delegificazione di norme e per la semplificazione di procedimenti amministrativi. Legge di semplificazione 1999”) e della già citata 29 luglio 2003, n. 229, “legge di semplificazione 2001”. Con esse si è progressivamente passati da un “modello di semplificazione/delegificazione” che consisteva nella emanazione di regolamenti ex art. 17, comma 2, l. n. 400 del 1988, su singoli procedimenti amministrativi ad un “modello di riordino/riassetto” di intere materie organiche, prima con testi unici e poi con “codici” (cfr. ampiamente infra, al punto 3). Accanto al processo di codificazione si sono introdotti – anche se spesso solo in via sperimentale – strumenti innovativi per il miglioramento della qualità della regolazione mutuati dall’esperienza comparata e internazionale (come la consultazione e l’analisi di impatto della regolamentazione di cui rispettivamente agli articoli 1, comma 2, e 5 della legge n. 50 del 1999).

2. In considerazione del fatto che tutti gli interventi succedutisi da oltre dieci anni (anche quelli di riordino, codificazione o riassetto) si inseriscono in una strategia di “semplificazione” e che anche le “leggi annuali” di recente emanate in materia fanno perno su questo concetto, si ritiene opportuno operare una ricognizione preliminare sul significato attuale del concetto di “semplificazione” – un concetto che è andato evolvendosi negli anni – come risulta anche dal significato che tale termine ha assunto nel linguaggio della normativa, della dottrina e anche dei documenti degli organismi di categoria.

2.1. Nell’esperienza internazionale, il punto di partenza è la tendenza a liberare i mercati e i cittadini da regole prescrittive, attuando un ampio processo di liberalizzazione e di deregolazione che liberi energie economiche e risorse umane in un mercato globalizzato. L’approccio al tema è determinato, nella sua genesi, dalle esigenze di un mercato in evoluzione, in cui vi sono spinte contrapposte: da un lato, verso una sempre maggiore deregolazione per favorire l’azione degli operatori, dall’altro, verso una “iperregolamentazione” di alcuni settori con funzioni di disciplina della concorrenza e di protezione di interessi di natura prioritaria (ambiente, salute, sicurezza). Tali spinte trovano il loro momento di composizione nella ricerca della “giusta dose” di regolazione e della buona qualità della normazione.
L’approccio italiano è stato invece, almeno inizialmente, diverso. Come è stato osservato anche in dottrina, l’analisi economica delle regole è rimasta a lungo fuori dal dibattito politico-istituzionale sulla normazione e la produzione delle leggi è stata, specie all’inizio, fortemente influenzata da un’impostazione di tipo “giuridico”, non sempre attenta agli effetti che si dispiegano sui destinatari delle regole.
Particolarmente significativa dell’evoluzione del tipo di approccio al tema della semplificazione è l’esperienza italiana della riforma amministrativa. Gli anni ‘90 sono stati caratterizzati, come è noto, da un rinnovato interesse per un diverso ruolo dell’amministrazione pubblica del nostro Paese nei confronti dei cittadini e non a caso le prime norme in materia di “semplificazione” si inserivano in leggi generali di riforma dell’amministrazione (l. n. 537 del 1993 e l. n. 59 del 1997).
Il punto di partenza era costituito dalla presa d’atto che l’amministrazione deve essere meno autoreferenziale e soddisfare le esigenze che vengono dagli “amministrati”; l’erogazione dei servizi al pubblico – di tipo burocratico (certificati) o imprenditoriale (forniture di servizi) – deve essere efficiente ed economicamente competitiva. Per fare questo, occorrono regole più flessibili: è in questa cornice che si è imposto anche il tema della delegificazione, incentrato essenzialmente su un processo di snellimento dei procedimenti amministrativi e di riorganizzazione dell’apparato di governo secondo regole più flessibili (questo periodo è stato efficacemente caratterizzato dalla dottrina come passaggio “dalla legge al regolamento”).

2.2. L’impulso dato alla semplificazione “di singoli procedimenti” della ricordate leggi n. 537 del 1993 e n. 59 del 1997 ha successivamente indotto a una pausa di riflessione dalla quale sono emerse due esigenze: svincolare il “metodo della semplificazione” da un’ottica di semplice “semplificazione amministrativa”, pure indispensabile; ridurre cospicuamente il numero di norme esistenti nel nostro ordinamento (risultato che invece non si consegue attraverso l’emanazione di nuovi regolamenti di delegificazione: cfr. infra, punto 2.3).
Sul piano operativo, questo processo di maturazione segna il passaggio da un concetto – più risalente – di “semplificazione” limitato al mero snellimento dei procedimenti amministrativi (e dell’organizzazione degli uffici pubblici), operato tramite la delegificazione di una parte della loro disciplina, ad un concetto più ampio e attuale, in linea con l’esperienza internazionale, che ricomprende l’intera tematica generale della “qualità” delle regole. Laddove una normazione “di qualità” implica sia coerenza e chiarezza da un punto di vista giuridico-formale (regole leggibili sia per gli operatori che per i cittadini) che essenzialità e minore onerosità da un punto di vista economico-sostanziale (una regola interviene solo quando è indispensabile e se i benefici da ottenere sono superiori ai costi).
Tale accezione più ampia di semplificazione è certamente quella intesa dalle tre “leggi annuali” ad essa dedicate (l’ultima, la l. n. 229 del 2003, reca significativamente la locuzione “qualità della regolazione” anche nel titolo). Come è stato affermato a commento della prima legge, la n. 50 del 1999, “la nuova fase di semplificazione delle procedure avviata dalla legge n. 50 del 1999 mira a svincolare la cultura della semplificazione da una considerazione eminentemente giuridica e burocratica e a cogliere la valenza economica del processo di semplificazione nel più generale contesto della riforma della regolazione”.

2.3. In piena coerenza con la descritta, più ampia accezione di semplificazione intesa come sinonimo di qualità della regolamentazione, si colloca altresì la scelta legislativa degli ultimi anni, cui si è accennato retro, al punto 1, di privilegiare un’opera di riduzione del numero di norme e, in generale, di consolidamento/codificazione di quelle restanti. La finalità di riduzione degli oneri burocratici (la cd. semplificazione “sostanziale”) della disciplina non scompare (anzi, si accresce di strumenti nuovi di analisi di impatto), ma si accompagna ad un’opera di smaltimento dello stock normativo.
La portata dell’“inflazione normativa”, che rende peculiare la situazione del nostro Paese rispetto ad altri Stati, è tale da condizionare qualsiasi strategia di “qualità della regolazione”, che non può limitarsi ai pur essenziali profili “sostanziali” di riduzione degli oneri delle regole. Su questo aspetto si innesta l’ulteriore esigenza che il linguaggio normativo sia semplice e chiaro.
Inoltre, lo strumento dei regolamenti di delegificazione si dimostra sempre meno adeguato – se non altro come strumento-cardine di intervento – nel nuovo assetto di poteri normativi disposto dalla riforma del Titolo V della Costituzione (cfr. anche infra, il punto 4.5).
Ciò non significa che la delegificazione, di per sé, nelle materie in cui lo Stato conservi ancora una potestà regolamentare ai sensi dell’art. 117 Cost., non resti uno strumento efficace per rendere più flessibili taluni aspetti di una disciplina. Ma la sua utilità, evidentemente, si accresce laddove lo si inserisca nell’ambito di un processo di riduzione dello stock normativo (il rapporto tra codici e delegificazione è previsto espressamente dall’art. 20, comma 2 e comma 3, lett. c), come introdotto dalla l. n. 229 del 2003, nonché, per la delega su cui si fonda lo schema in questione, dall’art. 15, comma 1, lett. g), della l. n. 272 del 2002).
La necessità di un intervento di riordino normativo – che costituiva già l’obiettivo principale del programma di riordino delle norme legislative e regolamentari delineato dall’articolo 7 della legge n. 50 del 1999, anche se quella legge operava ancora un ampio ricorso alla tecnica di delegificazione “per singoli procedimenti” – si accentua nella legge n. 229 del 2003, che elimina del tutto il filone di intervento tramite singoli regolamenti di delegificazione e fonda la strategia di semplificazione sul “riassetto” sostanziale delle materie, che deve avvenire tramite decreti legislativi di riforma dei singoli settori, i quali si conformino, oltre a principi e criteri direttivi specifici per le singole materie, a principi e criteri direttivi comuni, ispirati alla massima riduzione dell’intervento pubblico laddove non necessario (cfr. l’art. 1 della legge n. 229 del 2003, che ha interamente sostituito l’art. 20 della l. n. 59 del 1997 e che costituisce criterio di delega anche per l’intervento qui in oggetto, come si è detto retro, al punto 1).
La medesima legge n. 229 del 2003 (della quale, come si è visto, l’intervento in esame costituisce l’anticipazione) reca anche, per la prima volta, nel titolo, il termine “codificazione”.
Di tale processo – su cui occorre, brevemente, soffermarsi – lo schema di codice in esame rappresenta la prima manifestazione.

3. Lasciando da parte, per il momento, i profili della qualità della normazione relativi alla misurazione dell’impatto, specie economico, delle regole sui loro destinatari – su questo, si tornerà comunque infra, al punto 4.4 – occorre ora soffermarsi sull’uso della denominazione di “codice”, in luogo di “testo unico”.

3.1. Se il modello illuministico della codificazione è sicuramente scomparso (si è anche parlato di “età della decodificazione”), l’esigenza di raccogliere organicamente le norme che disciplinano una stessa materia si fa sempre più pressante: tale esigenza ha consentito, negli ultimi anni, un ritorno anche del concetto di codificazione – sotto forme diverse e soprattutto con metodologie più attente all’impatto sostanziale delle norme, oltre alla indispensabile coerenza e armonia giuridica delle stesse all’interno del codice e con le altre norme dell’ordinamento giuridico.
Le codificazioni incentrate sull’unità del soggetto giuridico e sulla centralità e sistematicità del diritto civile stanno, quindi, lasciando spazi a micro-sistemi legislativi, dotati di una razionalità più debole, non fondati sull’idea dell’immutabilità della società civile, improntati a sperimentalismo ed incentrati su logiche di settore, di matrice non esclusivamente giuridica.
Cambia in tal modo l’idea di codificazione: essa si accompagna al raggiungimento di equilibri provvisori, ma di particolare significato perché orientati a raccogliere le numerose leggi speciali di settore, in modo tale da conferire alla raccolta una portata sistematica, orientandola ad idee regolative capaci di garantire l’unità e la coerenza complessiva della disciplina. Siamo in una fase storica nella quale all’idea regolativa del codice si è sostituita l’esistenza di discipline sistematicamente organizzabili in una pluralità di codici di settore. A questa codificazione di nuova generazione appartiene senz’altro il codice dei diritti di proprietà industriale, che sotto questo profilo merita apprezzamento.

3.2. In Italia, come è noto, si è da poco conclusa una breve fase connotata da “testi unici misti” ai sensi dell’art. 7 della l. n. 50 del 1999, ora abrogato, che ha prodotto risultati comunque positivi da un punto di vista della chiarezza delle discipline riordinate. Si ricordano, tra gli altri, i testi unici sulla documentazione amministrativa (n. 445 del 28 dicembre 2000), sull’edilizia (n. 380 del 6 giugno 2001), sull’espropriazione (n. 327 dell’8 giugno 2001) e sulle spese di giustizia (n. 115 del 30 maggio 2002).
Queste opere ricomprendono in uno stesso testo disposizioni sia legislative che regolamentari.
È noto che ai testi unici misti era stata riconosciuta natura di decreti legislativi delegati, come tali aventi capacità “innovativa” del livello normativo primario (cfr. la risoluzione della Camera dei deputati del 19 ottobre del 1999 sul programma governativo di riordino e le modifiche all’art. 7 della legge n. 50 del 1999 apportate dall’art. 1 della l. n. 340 del 2000). Tale loro capacità era, però, limitata, secondo il criterio di delega dell’art. 7, coma 2, lett. d) della l. n. 50 del 1999, al “coordinamento formale” della legislazione vigente, con la (sola) possibilità di apportare, “nei limiti di detto coordinamento, le modifiche necessarie per garantire la coerenza logica e sistematica della normativa anche al fine di adeguare e semplificare il linguaggio normativo”.
Per contro, il duplice effetto di delegificazione e semplificazione procedimentale aveva molto accentuato le capacità innovative per il livello secondario dei testi unici misti (capacità, peraltro, ancora molto consistenti prima dell’avvento della riforma del Titolo V della Costituzione).

3.3. Oggi, lo strumento di intervento dei testi unici misti “di riordino” è stato soppresso dalla legge n. 229 del 2003, che prevede dei decreti legislativi “di riassetto” o “codici”.
L’obiettivo comune, sia ai precedenti testi unici misti di riordino che agli attuali decreti legislativi di riassetto, è certamente quello della “riorganizzazione” (termine che comprende sia il “riordino” che il “riassetto”) delle fonti di regolazione e una drastica riduzione del loro numero, in modo da permettere ai cittadini di avere un quadro ben preciso e unitario delle regole che disciplinano un settore della vita sociale.
La differenza tra testi unici e “codici” consiste, sotto un primo profilo, nell’abbandono del livello regolamentare (su cui cfr. infra, al punto 4.6). Ciò può comportare, in certi casi, la legificazione o la ri-legificazione di alcuni aspetti della disciplina, prima regolati con norme secondarie. In più punti dello schema in oggetto, e persino nella disciplina generale, il codice dei diritti di proprietà industriale ha “cucito” insieme, vista la loro stretta connessione, norme legislative con disposizioni di origine regolamentare, che vengono quindi legificate (si tratta, in qualche modo, del processo opposto a quello descritto retro, al punto 2.1, con un passaggio “dal regolamento alla legge”: per approfondimenti cfr. infra, i punti 17.1 e 18.1, ma anche le disposizioni generali ed i principi fondamentali “legificano” norme secondarie e si pensi alle disposizioni regolamentari in tema di rivendicazione di priorità che confluiscono nell’art. 4).
Quanto al secondo profilo, quello della capacità innovativa della previgente disciplina di livello primario, va chiarito il ricorso al termine “riassetto” normativo, un termine inusuale nel lessico degli interventi in materia di qualità regolamentare, dove è invece più ricorrente il termine “riordino”. Il legislatore degli anni 2002-2003, forse nell’intento di segnare maggiormente le distanze dalla precedente esperienza dei testi unici misti, ha preferito abbandonare l’utilizzo del termine “riordino” e definire i decreti legislativi previsti dalla legge n. 229 del 2003 (e dalla l. n. 273 del 2002) come “decreti di riassetto”, anche a costo di ricorrere ad un termine meno indicativo e, soprattutto, meno comprensibile e più atecnico.
Nella sostanza, la finalità è la stessa di quella del riordino normativo, e lo è anche la “qualità” dell’intervento, effettuato tramite uno strumento con capacità innovativa delle fonti primarie quale il decreto legislativo. Ciò che cambia è la portata, per così dire, “quantitativa” dell’intervento innovativo, poiché per i decreti legislativi “di riassetto” vi sono criteri di delega più ampi e incisivi, che autorizzano il legislatore delegato non soltanto ad apportare modifiche di “coordinamento formale” alla disciplina di rango legislativo, ma anche a consistenti innovazioni del merito della disciplina codificata.
In realtà, anche a voler considerare il riordino come un intervento prevalentemente ricognitivo della disciplina previgente (il che non è, poiché “riordino” resta un concetto con valenza generale, riferito solo nella contingenza dell’art. 7 della l. n. 50 del 1999 ai testi unici misti), rispetto alla parola “riassetto” appare preferibile il termine “codificazione” – che pure compare nella l. n. 229 del 2003, ma soltanto nel suo titolo. Il termine “codice”, pur nella accezione “non illuministica” che oggi solo può avere, contiene entrambi gli elementi caratterizzanti sopra descritti: l’innovatività sostanziale e il consolidamento formale.
Peraltro, “codice” è l’espressione cui, correttamente, fa ricorso lo schema di decreto legislativo in oggetto, superando le incertezze terminologiche della l. n. 229 sopra descritte.

3.4. A conclusione di questo punto, si può quindi affermare che i “codici” che caratterizzano questa nuova fase di “riassetto normativo” posseggono due requisiti essenziali:
- la riforma dei contenuti della disciplina legislativa della materia, ispirandosi necessariamente anche a criteri di semplificazione “sostanziale” (alleggerimento degli oneri burocratici) e di “deregolazione”;
- la creazione di una raccolta organica, a livello primario (e solo a questo livello, salvo quanto di dirà in seguito, infra, al punto 4.6), di tutte le norme relative a una determinata materia.
Il primo requisito (tipico dei decreti legislativi innovativi) li distingue dai precedenti testi unici, quantomeno nella parte di innovazione sui contenuti; il secondo (tipico, invece, dei testi unici) li caratterizza nell’ambito degli ordinari decreti legislativi di riforma di una materia ai sensi dell’art. 76 Cost..

4. Una volta chiarito il quadro concettuale dell’intervento di codificazione in oggetto, anche in prospettiva di futuri ulteriori interventi, appare utile ora soffermarsi su alcune questioni relative al metodo della codificazione, ormai definite nella pratica europea e internazionale.

4.1. Sotto un primo profilo, occorre rilevare anzitutto che la nuova opera di codificazione avviata dalla l. n. 229 del 2003 e dalle norme ad essa strettamente connesse, come l’art. 15 della l. n. 273 del 2002, è concepita come un’iniziativa di “riassetto” normativo che investe una pluralità di discipline, con principi e criteri generali comuni che affiancano criteri specifici “di settore”, relativi a ciascuna materia oggetto di codificazione. La presenza di tali criteri di metodo, di semplificazione e di deregolazione, validi per tutti gli interventi, è evidente nel nuovo testo dell’art. 20 della l. n. 59 del 1997, come novellato dalla l. n. 229 del 2003 (testo che, come si è visto retro, al punto 1, ha una portata espansiva nei confronti delle altre deleghe “di riassetto”, tra cui quella qui in esame).
L’Adunanza generale è dell’avviso che questo dato normativo sia caratterizzante dell’intero processo di codificazione. Altrimenti, per riformare in modo organico singoli settori sarebbe bastato al legislatore ricorrere a singole (e asistematiche) disposizioni di delega, contenute in leggi diverse e non collegate tra loro, come peraltro accade da sempre nell’ordinamento repubblicano, poiché da sempre ciò è consentito in via generale dall’art. 76 della Costituzione.
Pertanto, l’unitarietà della sede di previsione (il novellato art. 20 della l. n. 59 del 1997) e dei criteri metodologici di codificazione (non, ovviamente, di quelli sostanziali relativi al contenuto delle singole materie oggetto di codificazione) segnala l’esigenza di un approccio coordinato, se non comune, riguardo agli interventi di codificazione, quantomeno per gli aspetti di “metodo” e per gli strumenti giuridici da adottare.
Peraltro, tale visione unitaria appare essere quella che garantisce un’opera di codificazione più coerente e incisiva: basti pensare, con riferimento allo schema in oggetto, alle problematiche che esso pone nella definizione del confine con la materia del diritto d’autore (peraltro, di competenza di un Dicastero diverso da quello qui proponente), che un approccio coordinato e trasversale può risolvere più efficacemente. Una conferma dell’utilità di tale approccio proviene dalle frequenti raccomandazioni dell’Unione Europea e del Consiglio d’Europa, oltre che dall’esperienza della Commission supérieure de codification francese, istituita nel 1989 tra gli Uffici del Primo Ministro, che, con i suoi compiti di assistenza – non certo di sostituzione – delle amministrazioni di settore, ha consentito di codificare una buona parte dell’ordinamento francese con criteri metodologici comuni, salvaguardando ovviamente tutte le specificità delle diverse materie codificate, cui provvedono le amministrazioni di settore responsabili per ciascun code, ma delimitandone con coerenza i rispettivi confini.
Anche riguardo alla diversa finalità di alleggerimento degli oneri burocratici e di deregolazione (molto accentuata, come si è detto, dalla legge n. 229 del 2003) viene da più parti rilevato un dato di fondo ai processi di semplificazione e di deregulation che accomuna tutte le esperienze che si sono succedute negli anni: la dialettica, in qualche caso inevitabilmente conflittuale, tra gli interessi di settore che emergono nel corso dell’istruttoria normativa e un interesse trasversale, di tipo “istituzionale”, “neutro”, alla qualità della normazione.
Può essere utile aggiungere che, nella pratica internazionale – in primo luogo, ufficialmente, dal Rapporto dell’OCSE (l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) sulla Regulatory Reform in Italy del 2001, ma anche dalla più attenta dottrina – la riforma del sistema di regolazione richiede un forte coordinamento all’interno del centro di produzione normativa e forme tendenzialmente stabili di raccordo interistituzionale tra i centri medesimi, in primo luogo all’interno del Governo, ma anche tra Parlamento e Governo e tra Stato e Regioni (su questo specifico profilo, v. infra, il punto 4.5).
In conclusione sul punto, ciò che più rileva è sottolineare il carattere unitario di una funzione di governo volta ad assicurare, con la qualità della normazione, un’azione di rivisitazione normativa ispirata a metodologie e finalità omogenee, a garantire la coerenza del processo di semplificazione, a renderlo periodicamente misurabile in termini di abolizione di norme, di riduzione di incombenze amministrative, di tempi e di costi e, infine, a tener conto del rapporto tra semplificazione e cd. multilevel governance, in cui oltre allo Stato sono soggetti fondamentali della produzione normativa anche le Regioni e l’Unione Europea.

4.2. Le indicazioni provenienti dall’esperienza internazionale e dalla dottrina (ma cfr. pure la “Relazione del Governo al Parlamento per l’adozione del programma di riordino delle norme legislative e regolamentari”, presentata il 6 luglio 1999 – AC – XII legislatura – doc. XXVII n.5) consentono, altresì, di individuare alcuni profili ormai tipizzati della metodologia e della tecnica di elaborazione dei codici e dei testi unici, dei quali potrebbe essere utile tener conto per l’attuazione del processo di codificazione:
a) perimetrazione, cioè individuazione degli ambiti di materia e dei raggruppamenti normativi che vanno ricompresi nel testo unico;
b) redazione del “piano dell’opera”, di facile comprensibilità, da trasformare alla fine in un vero e proprio “indice del codice” (che l’Adunanza generale ritiene sia utile redigere anche per l’intervento in oggetto);
c) analisi “interna” della normativa, in modo da procedere ad accorpamenti, smembramenti o suddivisioni delle norme nelle varie parti del testo e, in definitiva, a una loro riallocazione sistematica.
La stesura del testo unico è condotta previa definizione di alcuni criteri comuni, quali l’uniformità della terminologia usata, la ripartizione delle norme in gruppi a seconda se sia possibile modificarle o se ci si debba limitare al coordinamento formale, la semplicità del linguaggio e la semplificazione di quello esistente, la tecnica dei rinvii e delle citazioni, il trattamento delle cd. norme intruse, la soluzione delle antinomie (alcuni di questi problemi, di natura tecnica, possono ricollegarsi a scelte di teoria generale: si pensi al tema delle antinomie, collegato a quello della completezza dell’ordinamento giuridico e alle lacune), il lavoro di aggiornamento periodico dei codici e di difesa dell’unitarietà della sede della disciplina.
Un cenno particolare merita la questione della semplificazione del linguaggio. È noto che esistono diverse teorie sul linguaggio giuridico: quelle che tendono ad avvicinarlo senz’altro al linguaggio comune e quelle che sottolineano la valenza tecnica non solo dei termini ma anche della struttura logica della proposizione giuridica. Probabilmente, la soluzione va ricercata pragmaticamente di volta in volta, avendo cura che il testo sia chiaro e, al tempo stesso, che non sempre in un singolo testo può modificarsi un termine se, in altri testi e nel linguaggio corrente tra giuristi e nelle corti, il termine ha ormai acquisito un significato ben preciso.

4.3. L’eliminazione, ove possibile, dell’intervento normativo-burocratico sembra costituire il contenuto più chiaramente innovativo dei “codici” di questa nuova fase alla stregua dei nuovi criteri contenuti nell’art. 20 della legge n. 59 del 1997 come modificato dalla l. n. 229 del 2003 (applicabili, come si è detto retro, al punto 1, anche alla delega in oggetto).
Va, pertanto, rilevata la necessità di inserire, ove possibile, nell’opera di riforma e di codificazione di una singola materia, elementi che comportino una effettiva semplificazione e un effettivo alleggerimento degli oneri burocratici per i cittadini e per le imprese, oltre che un arretramento dell’intervento pubblico in un dato settore. E di darne atto espressamente.
Sul punto, occorre precisare che la specifica materia oggetto dello schema in esame non è certamente tra quelle che maggiormente si prestano a quest’opera di semplificazione e deregulation, trattando di diritti per gran parte non incisi da oneri amministrativi. Ciò nonostante, alcuni profili appaiono passibili di un intervento semplificatorio, come ad esempio quelli relativi al procedimento di registrazione del marchio (per gli specifici rilievi, anche critici, di questa Adunanza generale sul punto, cfr. infra, il punto 18.1 del parere).

4.4. Sotto un altro profilo, l’opera di codificazione – comportando come si è visto un effetto non solo di riordino ma anche fortemente innovativo dell’ordinamento – va considerata alla stregua di ogni “nuova regolazione” e ad essa andranno, pertanto, applicati, quando saranno portati a regime, gli strumenti tipici di qualità della normazione: l’analisi di impatto della regolazione (AIR), la consultazione, la valutazione ex post dell’impatto regolamentare (VIR).

4.5. Un altro profilo problematico per la nuova fase di codificazione – molto accresciutosi a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione – proviene dalla necessità di prendere in considerazione il rapporto con le competenze normative regionali.
Ciò vale non soltanto, come si è detto retro, al punto 4, per le materie a legislazione concorrente (art. 117, terzo comma, Cost.), ma anche per quei profili della competenza legislativa esclusiva dello Stato che si incrociano con altre materie in cui sono previsti poteri normativi regionali (cfr., sul punto, anche il già richiamato parere della Sezione consultiva per gli atti normativi n. 3075/04 del 17 maggio 2004, in materia di immigrazione).
In realtà, la riforma del Titolo V ha radicalmente cambiato il contesto rispetto alle precedenti politiche di semplificazione, nelle quali lo strumento dei regolamenti statali di delegificazione era ancora preponderante. In questi ultimi anni ci si muove, invece, in un contesto nuovo, a più livelli, in cui molte scelte rilevanti sono adottate anche in sede regionale, per non parlare di quelle che si prendono in sede di Unione Europea, che pure sfuggono al “semplificatore” nazionale.
Pertanto, il processo di codificazione deve operare nel rispetto di un assetto riformato dei centri di produzione normativa, in cui lo Stato continua, in parte, a dettare i principi e le Regioni acquistano progressivamente spazi di intervento.
In tali settori, il livello normativo primario appare oggi l’unico praticabile per una raccolta dei principi fondamentali o, comunque, per interventi normativi di tipo trasversale da parte dello Stato che possano assicurare le esigenze di unitarietà compatibili con le nuove competenze normative regionali: tali finalità potranno essere perseguite anche dai nuovi codici, in modo che i principi in questione siano agevolmente ricavabili nell’ambito della disciplina organica della materia “codficata”.

4.6. Un altro delicato aspetto dell’attività di codificazione prevista dal nuovo art. 20 della l. n. 59 del 1997 e dalle norme ad esso connesse – attività che va limitata al solo livello legislativo, vista la soppressione dei testi unici misti – è il suo rapporto con la normativa regolamentare.
La codificazione deve garantire il più possibile non solo l’organicità della materia oggetto del riordino ad un dato livello normativo (quello primario), ma anche la sua completezza. E tale completezza non può prescindere, per le materie in cui tale competenza sia rimasta in capo allo Stato, dalla normazione secondaria: non solo quella di natura attuativa e integrativa, ma anche quella di delegificazione. Tale ultimo profilo appare rafforzato, nel caso di specie, dalla disposizione della delega di cui alla lettera g) del comma 1 dell’art. 15 della l. n. 273 del 2002, oltre che dal novellato art. 20 della l. n. 59 del 1997.
Lo strumento dei testi unici misti, anche se poteva comportare l’indubbio svantaggio di accostare, talvolta addirittura nello stesso articolo, disposizioni di rango normativo diverso, aveva dato risultati positivi diffusamente riconosciuti, soprattutto per il vantaggio di contenere in un unico contesto una disciplina completa, già direttamente applicabile in tutti i suoi aspetti perché provvista anche delle disposizioni integrative e attuative (cfr., ad esempio, il parere della Sezione atti normativi del 18 settembre 2000 riguardo al t.u. sulla documentazione amministrativa, e i due pareri dell’Adunanza generale del 29 marzo 2001 sui testi unici in materia di edilizia e di espropriazione, rispettivamente n. 3 e n. 4 del 2001).
Sotto questo profilo, l’introduzione di un corpus normativo compiuto soltanto per la normazione di livello primario e non anche per quella di livello secondario può apparire un limite rilevante, oltre che per la possibile legificazione dei profili più strettamente connessi (cfr. retro, punto 3.3), anche per la stessa immediata operatività della disciplina, per la sua completezza, per la sua leggibilità, per la sua diretta applicabilità da parte degli operatori e degli interpreti. Ma tale limite appare a questo Consiglio di Stato superabile, anche in assenza di una espressa previsione nella delega, alla stregua delle considerazioni che seguono.
L’Adunanza rileva come una norma generale che fondi la potestà normativa secondaria del Governo nell’ambito del processo di riassetto sia, oggi, fornita dal comma 2 dell’art. 20 della l. n. 59 del 1997, come riformulato dalla l. n. 229 del 2003, che autorizza interventi regolamentari sia ai sensi del comma 1 che del comma 2 dell’art. 17 della l. n. 400 del 1988.
Alla stregua di tale disposizione generale, e in considerazione del fatto che il Governo può in ogni momento avvalersi della propria potestà normativa secondaria, che è una potestà autonoma e non “delegata” (ovviamente, per le sole materie consentite ai sensi dell’art. 117 Cost.), può ritenersi che la redazione e l’adozione di un corpus organico di norme di natura regolamentare possa avvenire anche contestualmente al processo di adozione del codice e non richieda un ulteriore fondamento legislativo nelle specifiche norme di delega “sostanziale” per le singole materie.
In altri termini, nel corso di un intervento di riassetto ai sensi della l. n. 229 (cui quello in oggetto va, anche per tale profilo, assimilato), in alternativa alla codificazione, ad un livello primario, di norme di origine regolamentare – che è un intervento cui ricorrere con estrema cautela (cfr., in relazione allo schema in oggetto, infra, il punto 18.1) – ben si potrebbe operare una verifica delle norme regolamentari preesistenti e della loro compatibilità o meno con la nuova disciplina di rango legislativo. Tale verifica potrebbe indurre ad intervenire su tale normativa regolamentare per adeguarla al mutato quadro di livello superiore e, possibilmente, per consolidarla in un secondo testo unico, di livello secondario.
L’adozione “in parallelo” di tale seconda disciplina organica, di rango regolamentare, produrrebbe l’innegabile vantaggio di disporre, alla fine del processo di codificazione, di un quadro unitario della disciplina, in tutti i suoi livelli, già corredato delle norme che ne consentono la diretta attuazione in ogni sua parte.
Certo, occorrerebbe un accorto sistema di rinvii tra i due testi – che resterebbero comunque separati, a differenza che nei testi unici misti – ma la loro redazione contestuale potrebbe risultare vantaggiosa anche a questo scopo (anzi, sarebbe auspicabile una pubblicazione ad hoc sulla Gazzetta Ufficiale di entrambi i testi, a fini di leggibilità e di chiarezza, per offrire agli operatori un unico “testo” con tutta la normativa completa).
Un diverso ordine di problemi riguarda il rapporto tra i diversi livelli di fonte secondaria in un eventuale testo unico ad hoc.
Se può essere semplice raggruppare in due corpi distinti norme legislative e norme regolamentari, va tenuto presente che le norme regolamentari possono essere di vario rango, perché contenute in regolamenti governativi o ministeriali. In tal caso, l’inclusione della normativa secondaria in un regolamento unico (necessariamente di tipo governativo) comporterebbe, per i regolamenti ministeriali, l’innalzamento della fonte, il che, a prescindere dall’opportunità, è illegittimo (come questo Consiglio ha già avuto modo di rilevare) perché è una legge, ai sensi dell’articolo 17, comma 3, a fondare la potestà regolamentare dei ministri, e tale previsione non può essere derogata da un regolamento governativo. Si può allora ritenere necessario che una disposizione del codice consenta, in deroga alla precedente previsione che ha fondato la potestà regolamentare del ministro, di disciplinare la materia con regolamento governativo.
In alternativa, occorrerebbe riordinare le norme di rango secondario mantenendo la distinzione dei livelli, giungendo ad adottare due testi regolamentari distinti, uno di norme di livello governativo e uno di livello ministeriale.

5. Dopo aver esaminato in via generale i profili problematici del processo di codificazione, si può ora passare ad esaminare, sempre sotto tali profili generali, la specifica norma di delega da cui trae origine lo schema in oggetto.
Come si è rilevato, la delega di cui all’art. 15 della l. n. 273 del 2002 costituisce un’anticipazione del metodo introdotto in via generale dalla legge di semplificazione per il 2001, la n. 229 del 2003.
L’oggetto fondante della delega è, infatti, il “riassetto” delle disposizioni “vigenti” in materia di proprietà industriale (del concetto di riassetto si è già parlato retro, al punto 3.3).
La norma in questione tiene distinti abbastanza chiaramente i profili “sostanziali” da quelli “metodologici” della codificazione: se le lettere b), c), d), e), h) della norma di delega comportano una vera e propria delega legislativa, nel senso tradizionale del termine, di “riforma” del settore, è evidente anche l’intento di “codificazione” del settore medesimo nelle lettere a), f) e g), che assumono una portata “metodologica”:
- la lettera a), relativa alla “ripartizione della materia per settori omogenei” e al “coordinamento, formale e sostanziale, delle disposizioni vigenti per garantire coerenza giuridica, logica e sistematica”;
- la lettera f), sull’ “introduzione di appositi strumenti di semplificazione e riduzione degli adempimenti amministrativi”;
- la lettera g), che autorizza la delegificazione e opera il “rinvio alla normazione regolamentare della disciplina dei procedimenti amministrativi secondo i criteri di cui all’articolo 20 della legge 15 marzo 1997, n. 59” (è stato già affrontato e risolto retro, al punto 1, il problema della valenza “mobile” del rinvio all’articolo 20, riformulato successivamente all’approvazione della delega in oggetto ma mentre essa era ancora in corso).
Della ottemperanza a tali specifici criteri di delega da parte dello schema in oggetto si tratterà infra, nell’esame delle singole disposizioni condotto nei punti 7 e seguenti ed al punto 18.

6. Per completare questo quadro generale, occorre far cenno al ruolo consultivo del Consiglio di Stato nell’ambito dell’attività di codificazione.

6.1. Come è noto, la legge 15 maggio 1997, n. 127 ha modificato il baricentro dell’attività consultiva del Consiglio di Stato diversa da quella finalizzata all’esame dei ricorsi straordinari al Presidente della Repubblica.
Con la previsione del parere obbligatorio dell’Istituto su ogni manifestazione regolamentare del Governo e dei singoli Ministri (art. 17 l. n. 400 del 1988) e la creazione di un’apposita Sezione esclusivamente dedicata all’attività consultiva sugli atti normativi del Governo (art. 17 l. n. 127 del 1997) è venuto emergendo il chiaro disegno dell’ordinamento statale di utilizzare quale organo ausiliario dell’attività di regolazione, sia secondaria che di riordino e di riassetto, il Consiglio di Stato (cfr., sul punto, il parere dell’Adunanza generale del 2 ottobre 2003, n. 4/03, relativo al Consiglio di giustizia Amministrativa per la Regione Sicilia, nonché il citato parere della Sezione per gli atti normativi n. 3075/04 del 17 maggio 2004, sulla disciplina attuativa in materia di immigrazione).

6.2. È evidente che la posizione di terzietà e di garanzia del Consiglio di Stato conferisce al suo parere sugli schemi di atti normativi un ruolo peculiare, che lo colloca al termine del processo di redazione degli atti normativi e che va fornito al Governo subito prima della deliberazione finale del Consiglio dei Ministri o del Ministro, su uno schema definitivo, che abbia tenuto conto di tutti gli apporti endoprocedimentali interni al processo di formazione della decisione normativa (cfr. la pacifica giurisprudenza consultiva di questo Consiglio di Stato, ribadita sin dai primi pareri della Sezione per gli atti normativi: 22 settembre 1997 n. 106, n. 107, n. 108, n. 110 e n. 117; 20 ottobre 1997 n. 145; ma cfr. anche, da ultimo, il citato parere della stessa Sezione 17 maggio 2004 n. 3075).
L’unica eccezione a questa regola generale può essere costituita dai pareri delle Camere parlamentari, laddove previsti, poiché tali avvisi costituiscono il frutto di una valutazione di natura ontologicamente differente da quella prevista per il parere del Consiglio di Stato dall’art. 17 della legge n. 400 del 1988 o dall’art. 17 della legge n. 127 del 1997. Tali pareri, infatti, negli sviluppi più recenti della prassi, vengono considerati non come atti endoprocedimentali in senso tecnico ma piuttosto come pareri in funzione “politica”, di indirizzo del Parlamento al Governo, in quanto tali estranei al procedimento amministrativo inteso come serie di atti funzionalmente collegati in vista del provvedimento finale, sicché rientra solo nella responsabilità politica del Governo il tenerne o meno conto.

6.3. L’art. 17, comma 25, della legge n. 127 del 1997, nel delimitare le funzioni consultive obbligatorie del Consiglio di Stato, fa rientrare, accanto all’attività regolamentare – governativa e ministeriale – anche “l’emanazione dei testi unici”.
Tale espressione va intesa in senso ampio, poiché è antecedente alla nuova fase di codificazione di cui alla l. n. 229 del 2003 (ed anche alla fase di riordino avviata con la l. n. 50 del 1999) e si colloca in un periodo in cui quel termine comprendeva, indistintamente, sia i testi unici “compilativi” sia quelli “innovativi”. Riguardo a questi ultimi, come si è visto ampiamente retro, ai punti 2 e 3, solo ora è tornato ad usarsi il termine “codice”, che deve quindi ritenersi compreso nell’ambito di applicazione del citato comma 25.
Pertanto, se dalla dizione del comma in questione possono escludersi i decreti legislativi “ordinari” – e cioè quelli non contenenti elementi di “riordino” o di “riassetto”, nelle accezioni evidenziate retro, al punto 3 – per i “decreti di riassetto” o codici (come già per i decreti di “riordino”) che recano invece, come elemento caratterizzante, anche la raccolta in un “testo unico” delle disposizioni vigenti, va ritenuta applicabile la disposizione che prevede il parere obbligatorio del Consiglio di Stato, anche laddove la specifica norma di delega non dovesse contenere tale indicazione.
La volontà del legislatore di sottoporre tutti i decreti legislativi di questo tipo al parere del Consiglio di Stato, anche in assenza di una previsione specifica nella legge delegante, viene ribadita nell’ambito dei criteri generali di delega forniti del novellato art. 20 della l. n. 59 del 1997, che al comma 3, lett. a), prevede espressamente, per tutti gli interventi di riassetto, il parere del Consiglio di Stato (“reso nel termine di novanta giorni dalla richiesta”). E il comma 2 dell’art. 1 della l. n. 229 del 2003 (già riportato retro, al punto 1), che segue immediatamente alla riformulazione dell’art. 20 operata dal comma 1, estende, come si è visto, “le disposizioni di cui all’articolo 20 della legge 15 marzo 1997, n. 59, come sostituito dal presente articolo” – ivi compresa quindi la disposizione che prevede in via generale il parere del Consiglio di Stato sui decreti di riassetto – “anche alle deleghe legislative in materia di semplificazione e riassetto normativo conferite con leggi approvate dal Parlamento nel corso della presente legislatura prima della data di entrata in vigore della presente legge”.
La esposta affermazione è, peraltro, coerente con l’argomento sistematico della possibilità, presente sin dal testo unico del 1907 (e ribadita dal t.u. 26 giugno 1924, n. 1054, all’articolo 14, secondo comma), di demandare direttamente al Consiglio di Stato la redazione degli schemi di testi unici o di codici di leggi e regolamenti (e nello stesso senso, a dimostrazione della continuità della presenza del Consiglio di Stato nel processo di riordino normativo, si veda pure l’abrogato articolo 7, comma 5, della legge n. 50 dell’8 marzo 1999).
L’assetto sopra descritto è ribadito, infine, dall’art. 2, comma 3, della legge 5 giugno 2003, n. 131, in relazione ai decreti legislativi di adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale n. 3 del 2001, di riforma del Titolo V della Costituzione, ha previsto il parere del Consiglio di Stato, confermando la specificità del suo ruolo in relazione all’attività normativa. La legge in parola, inoltre, conferma espressamente la collocazione del parere del Consiglio al termine del processo di formazione della volontà del regolatore laddove afferma, anche per i decreti legislativi in questione, che i relativi schemi, ormai definiti nella fase “interna” al Governo, “dopo l’acquisizione dei pareri del Consiglio di Stato e della Conferenza unificata”, “sono trasmessi alle Camere”.

6.4. Un ultimo chiarimento va fornito in relazione alle modalità di espressione del parere sugli atti normativi del Governo da parte del Consiglio di Stato.
Il comma 28 dell’art. 17 della l. n. 127 del 1997, nel costituire una Sezione ad hoc per l’esame degli schemi di atti normativi, dispone che “il parere del Consiglio di Stato è sempre reso in adunanza generale per gli schemi di atti legislativi e di regolamenti devoluti dalla sezione o dal presidente del Consiglio di Stato a causa della loro particolare importanza”.
La legge n. 127 del 1997 rimette, dunque, la scelta di adire o meno l’Adunanza generale alla responsabile decisione della Sezione per gli atti normativi, ovvero del Presidente del Consiglio di Stato.
La norma sembra legittimare, come uno dei criteri di scelta, il riferimento della “particolare importanza” di uno schema normativo all’innovatività giuridica dell’intervento esaminato dal Consiglio di Stato (come è il caso dello schema in oggetto).
Resta, poi, ferma la facoltà di un Ministro “di esigere che dati affari siano trattati in adunanza generale” ai sensi dell’art. 23 del t.u. del 1924, così come resta salva la facoltà del Consiglio di Stato (anche attraverso la nuova Sezione per gli atti normativi) di fare rapporto al Capo del Governo “quando all’esame degli affari discussi dal Consiglio risulti che la legislazione vigente è in qualche parte oscura, imperfetta od incompleta” (art. 58 del r.d. n. 444 del 1942).

7. La delega per il riassetto delle disposizioni in materia di proprietà industriale, recata dall’art. 15 l. 12 dicembre 2002, n. 273, è una delega di indubbia ampiezza, connotata da principî e criteri direttivi di una certa generalità, che contiene comunque criteri specifici che eccedono il puro riordino della materia ed il suo adeguamento ai mutamenti intervenuti nelle fonti comunitarie e nella disciplina internazionale, quando, alla lettera c), pone un criterio che riguarda anche il diritto di autore, per il quale si prevede una revisione ed un’armonizzazione con la disciplina della proprietà industriale sui disegni o modelli e, alla lettera h), prevede la possibilità di toccare la materia dei segreti aziendali e, quindi, delle c.d. proprietà industriali non titolate (tanto che l’ultimo criterio di delega impone al legislatore delegato una cautela volta a salvaguardare la rivelazione o l’impiego di conoscenze tecnico-industriali generalmente note e facilmente accessibili agli esperti del settore).
Va rilevato che, in ogni caso, menzionandosi un’esigenza di coerenza giuridica logica e sistematica, sono legittimati interventi che non si traducono in una mera nuova sistemazione dell’esistente, ma possono giustificare l’introduzione di innovazioni, anche significative.
Il Consiglio, nell’esaminare lo schema di decreto di attuazione, tiene conto ovviamente dell’insegnamento del giudice delle leggi sulla necessaria elasticità della delega quando abbia ampio oggetto e sul grado di opportuna discrezionalità da riconoscersi al legislatore delegato; ad esempio, quando Corte cost. 5 febbraio 1999, n. 15 assume che, ai fini del controllo di un preteso vizio costituzionale di eccesso di delega, occorre condurre l’interpretazione tenendo conto del complessivo contesto e delle finalità che hanno ispirato la legge delega, considerando che i principi e criteri direttivi, oltre che fondamento e limite, sono anche un criterio interpretativo delle norme delegate (da leggere, fin dove possibile, in senso compatibile con i principi della delega), ed infine riconoscendo al legislatore delegato un potere di scelta negli ambiti alternativi ad esso offerti, delinea un percorso logico di controllo che proietta la sua portata oltre il giudizio di costituzionalità per la rispondenza alla delega, divenendo in primo luogo guida all’interprete per individuare l’oggetto e la materia rimessa dal legislatore delegante al legislatore delegato e guida allo stesso legislatore delegato.
Pertanto, in questo quadro, l’ampiezza della delega va misurata alla luce degli obiettivi dati al legislatore delegato che, riguardando il riassetto della disciplina della proprietà industriale, sono destinati, inevitabilmente, a produrre effetti di rilievo anche sulla disciplina del codice civile, che, seppure non formalmente toccata dalle disposizioni del codice dei diritti di proprietà industriale, ne risulta risagomata.
Il principale intento del codice dei diritti di proprietà industriale è di garantire l’ordinata raccolta dei diritti di proprietà aventi contenuto intellettuale, natura immateriale nonché attitudine ad essere sfruttati industrialmente, in particolare stabilendo un organico raccordo della disciplina del codice di settore con il codice civile ed altresì dettando un’adeguata disciplina dei principi comuni ai diversi diritti.
Mentre la normativa ricostruisce in un quadro nuovo e moderno i nessi sistematici che collegano i vari diritti di proprietà industriale, sotto entrambi i profili prima indicati (ossia raccordo con il codice civile e compiutezza della disciplina relativa ai principi generali) possono essere segnalati i tratti peculiari dell’opera intrapresa.

7.1. In primo luogo va segnalata la problematica legata alla futura coesistenza del codice civile e del codice dei diritti di proprietà industriale.
Non può assumersi come una novità la esistenza, a fianco del codice civile, di una normazione speciale, che specifichi le regole relative alle modalità di gestione dei beni produttivi: già nella sistematica del codice, alla definizione del concetto generale di proprietà (quale diritto di godere e di disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo) si accompagna il rinvio a limiti che sono nel codice civile ma possono rinvenirsi e si rinvengono anche in altre fonti (poiché l’art. 832 del codice civile precisa che il diritto di proprietà è assicurato “entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi previsti dall’ordinamento giuridico”).
Il codice civile nasce quindi con un’apertura verso le leggi speciali, come disciplina che detta la cornice generale dei principi e delle disposizioni generali relative ai rapporti fra privati, destinata ad essere completata dalla legislazione speciale, che ora inizia a raccogliersi con i codici di settore.
Il codice civile del 1942, termine ultimo del processo di unificazione del diritto privato, momento di confluenza del diritto commerciale nel diritto civile, è connotato dalla centralità dell’impresa, dalla feconda idea regolativa di una molteplicità di statuti proprietari ritagliati sui diversi usi dei beni produttivi, dalla necessaria compresenza delle regole codicistiche e delle regole contenute nella legislazione speciale.
Il crescere della legislazione speciale impone la nuova sistemazione delle disiecta membra delle fonti extracodicistiche in codici di settore, al fine di offrire all’interprete un testo di riferimento sistematicamente organizzato, che renda meno erratico il processo interpretativo, meno casuale lo sviluppo della riflessione scientifica e della giurisprudenza.
Ciò premesso in via generale ed in modo da valutare favorevolmente l’opera di riordino e sistemazione operata dal nuovo codice di settore, va peraltro rilevato che sotto il profilo del raccordo con il codice civile qualche perplessità potrebbe destare l’enucleazione di una serie di posizioni giuridiche soggettive, che, protette in precedenza con le norme contro la concorrenza sleale, ora vengono ritenute in possesso di un’oggettività sufficiente a ricomprenderle nello schema della proprietà industriale.
Si tratta, secondo la relazione, della disciplina dei marchi c.d. di fatto e delle informazioni aziendali riservate; disciplina che, oggettivata, viene spostata dal piano delle regole di condotta dell’attività d’impresa a quello dei beni, garantiti secondo schemi proprietari.
Ciò, in astratto, potrebbe determinare un parziale svuotamento della disciplina del codice civile relativa alla concorrenza sleale; codice civile che, peraltro, formalmente non viene modificato, come puntualmente rilevato nella relazione al provvedimento. La scelta di oggettivare tali posizioni giuridiche comporterebbe un’accentuazione dei profili della tutela dell’imprenditore interessato allo sfruttamento del marchio di fatto o dell’informazione riservata rispetto alla tutela garantita ad altri soggetti come i consumatori. In particolare, con la sussunzione di tali situazioni nell’ambito dei diritti di proprietà esse riceverebbero una tutela immediata che, in precedenza, non era loro garantita, trattandosi di mediatamente tutelare l’impresa, avuto riguardo all’interesse dei consumatori ed alle condizioni del mercato.
Il fatto che tale scelta moltiplicherebbe le situazioni proprietarie tutelate, creandone nuove, per le quali prevede statuti differenziati del diritto di proprietà, tanto da definirle situazioni di diritti di proprietà industriale non titolata, creando un tertium genus, fra la tutela dell’attività e la tutela del tradizionale diritto di proprietà industriale, che per la sua natura immateriale, è normalmente definito mediante il ricorso a procedimenti amministrativi di brevettazione o registrazione, non deve tuttavia guardarsi criticamente poiché già nella sistematica del codice civile è scontata la pluralità degli statuti giuridici della proprietà.
Né può dirsi che la scelta operata sul piano sistematico non garantisca la coerenza postulata dalla legge-delega, poiché essa persegue l’obiettivo dell’ unificazione nell’unica categoria dei diritti di proprietà industriale delle diverse situazioni giuridiche soggettive ravvisabili nella materia,anche se tale obiettivo, a questo stadio dello sviluppo storico e della riflessione sugli istituti giuridici, non si è tradotto in un vero e proprio trattamento giuridico unitario della proprietà industriale che si presenta diversamente conformata a seconda che i diritti siano quelli c.d. titolati (ossia fatti oggetto di una procedura di accertamento amministrativo) o non titolati.
Giova anche osservare che la chiarezza dogmatica della divisione fra diritti titolati e non titolati non è discutibile, pur comportando tale summa divisio una scissione all’interno dell’unitaria categoria del diritto soggettivo di proprietà industriale.
La scelta in questione, inoltre, a parere del Consiglio, era obbligata ed imposta dalla legge delega nella parte in cui prescriveva al legislatore delegato l’adeguamento della disciplina dei diritti di proprietà industriale al diritto internazionale vigente nel settore ed è nel complesso in sostanza corrispondente alla situazione del diritto vivente: riportare queste situazioni di proprietà c.d. non titolata al codice di settore, sottraendole così alla disciplina codicistica, non è una innovazione dirompente, che svuota il codice civile, in quanto la disciplina dettata dal codice, nel suo complesso, appare in linea con l’accordo TRIP’s o Agreement on Trade-Related Aspects of Intellectual Property Rights, (ratificato in Italia con legge 29 dicembre 1994, n. 747, parte quarta, sezioni da I a VII) sulla proprietà intellettuale e la configurazione di alcune posizioni come dotate di tutela reale può apparire conforme all’evoluzione del diritto industriale raggiunta dalla giurisprudenza.
Deve inoltre notarsi che l’accordo TRIP’s, che è parte integrante del GATT, concluso a Marrakesh il 15 aprile 1994 (l’accordo TRIP’s è un'importante Convenzione sugli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale attinenti al commercio) è lo schema basilare al quale è ispirata la struttura del codice che costituisce, sotto questo profilo, una recezione, sin nell’elencazione della tipologia dei diritti proprietari tutelati, delle tipologie di situazioni giuridiche previste dall’accordo TRIP’s con la aggiunta della disciplina in tema di nuove varietà vegetali prevista dalla Sezione VIII del Capo II del codice, con piena attuazione del criterio di delega prima ricordato.
La disciplina della proprietà industriale con l’accordo TRIP’s si è sostanzialmente internazionalizzata ed il codice prende atto di questi connotati internazionali della materia.
Infatti, anche solo prendendo in considerazione la normativa sulle invenzioni, va rilevato che essa e più in generale la disciplina della ricerca e dello sviluppo scientifico e tecnico, pur restando sostanzialmente invariato l'impianto normativo risalente alla Convenzione di Monaco del 5 ottobre 1973 (istitutiva del brevetto europeo e ratificata dal nostro Paese con l. 26 maggio 1978, n. 260) ed alla conseguente riforma della legge nazionale attuata con d.P.R. 22 giugno 1979, n. 338, si è considerevolmente evoluta ed arricchita negli anni successivi.
Soprattutto negli anni '90, la disciplina della proprietà intellettuale si è estesa a nuovi territori, ampliando, in modo spesso imprevedibile, l'importanza e la complessità sistematica di questa sempre più importante parte dell'ordinamento giuridico.
Le ragioni di questa evoluzione sono molteplici.
Esse possono individuarsi, in primo luogo, nell'affermarsi di una decisa tendenza alla "internazionalizzazione" della materia, derivante non solo dall'esigenza di integrazione a livello europeo (che si realizza attraverso convenzioni, regolamenti e direttive comunitarie), ma anche dalla spinta ad una sempre più incisiva armonizzazione della disciplina di tutti i Paesi industrializzati ed in via di sviluppo (in relazione alla quale è sufficiente ricordare - come si è detto - l'Agreement on Trade-Related Aspects of Intellectual Property Rights, cosiddetto TRIP’s, del 15 aprile 1994, ratificato dall'Italia con l. 29 dicembre 1994, n. 747 ed attuato con d. lg. 19 marzo 1996, n. 198).
Questa eccezionale evoluzione si ricollega poi allo sviluppo della ricerca ed al realizzarsi di nuove tecnologie, che comportano investimenti e rischi economici ingentissimi e che richiedono strumenti giuridici di protezione particolarmente efficaci.
È sufficiente richiamare l'estendersi della tutela brevettuale alle invenzioni farmaceutiche, la cui brevettabilità risale alla decisione della Corte costituzionale 20 marzo 1978 n. 20, seguita dalle disposizioni per il rilascio del certificato complementare di protezione per i medicamenti oggetto di brevetto, di cui alla l. 19 ottobre 1991, n. 349 ed al reg. CEE 18 giugno 1992, n. 1768/92; alle nuove varietà vegetali (la cui brevettabilità è stata introdotta sino dal 1975) oggi disciplinate dal d.P.R. 18 aprile 1994, n. 391 e dal reg. CE 27 luglio 1994, n. 2100/94, cui si aggiunge il reg. CE 8 agosto 1996, n. 1610/96 istitutivo di un certificato complementare di protezione per i prodotti fitosanitari; ai programmi per elaboratore, cui si applica, in virtù della l. 29 dicembre 1992, n. 518 ed in attuazione della direttiva CEE 14 maggio 1991, n. 91/250, il diritto d'autore ed in relazione ai quali sono stati anche emanati la l. 23 dicembre 1993, n. 547 in tema di criminalità informatica ed il d.P.R. 3 gennaio 1994, n. 244 sul registro pubblico speciale per i programmi per elaboratore; alle cosiddette topografie di prodotti a semiconduttori che, sulla base della direttiva CE 16 dicembre 1986, n. 87/54, sono oggi disciplinate dalla l. 21 febbraio 1989, n. 70 e dal regolamento di cui al d.m. 11 gennaio 1991, n. 122.
Né può omettersi di segnalare l'ingresso nell'area della brevettabilità delle biotecnologie, in relazione alle quali deve richiamarsi la proposta modificata di direttiva del Consiglio CE del 25 gennaio 1996, n. 96/C296/03.
Per tutto quanto esposto sull’internazionalizzazione della materia, tenuto conto dell’intento di ispirarsi all’accordo TRIP’s, va rilevato che la sistematica del codice si presenta modellata e ricalcata sulle fonti internazionali, risentendo in un certo modo della impostazione di queste ultime, che, riservando spazio autonomo a discipline molto tecniche (quali, ad esempio, quella sulle topografie di prodotti a semiconduttori), purtroppo non sono facilmente traducibili in principi generali od in regole di natura prettamente codicistica od in regole aventi carattere di schema giuridico fondamentale per la generalità dei rapporti civili.
Ciononostante il Consiglio di Stato, tenuto conto della pluralità delle fonti riordinate, della loro plurima origine e complessa stratificazione, valuta la codificazione settoriale come un progresso in grado di garantire una migliore leggibilità del sistema.
Quanto poi alla disciplina dei principi fondamentali ed alle disposizioni generali del codice, che costituiscono la disciplina comune ai diversi diritti di proprietà industriale va notato che particolare valore unificante rivestono non tanto le norme relative al Capo I (che appaiono scarne e potrebbero irrobustirsi con una considerazione di altri aspetti comuni ai diversi istituti, ad es. quali regole comuni in tema di nullità e decadenza dei titoli) quanto le disposizioni in tema di tutela processuale e di acquisto e mantenimento dei diritti di proprietà industriale e relative procedure.

7.2. Ulteriori considerazioni devono essere svolte in ordine al concetto di proprietà industriale.
Nel secolo scorso, nell’economia mondiale e sul piano giuridico, in modo diversificato a seconda delle normative presenti nei diversi ordinamenti giuridici nazionali ed in quello internazionale in genere, è emerso come unitario il complesso degli istituti giuridici riassunto con il nome di proprietà intellettuale.
La proprietà intellettuale è il diritto di utilizzazione esclusiva delle creazioni dello spirito, con essa ci si riferisce a quei beni astratti o immateriali che possono concretizzarsi, ma non necessariamente, in prodotti tangibili, che possiedono un’autonomia esistenziale propria, a prescindere dal prodotto stesso.
La proprietà intellettuale è ripartita fra disciplina del diritto di autore e disciplina della proprietà industriale: le diverse materie, come segnalato dalla relazione, fanno capo a diversi dicasteri, ma le fonti del diritto internazionale e la dottrina giuridica hanno preso a considerarle unitariamente.
L’individuazione degli oggetti della proprietà intellettuale ed industriale si trova nella già citata Convenzione adottata a Stoccolma nel giugno-luglio 1967 (firmata il 14 luglio di quell’anno e ratificata dall’Italia con l. 28 aprile1976, n. 424).
Tale convenzione ha stabilito che nella proprietà intellettuale devono ricomprendersi i diritti relativi alle:
1) opere letterarie, artistiche e scientifiche;
2) interpretazioni degli artisti interpreti ed esecuzioni degli attori, fonogrammi ed emissioni radiofoniche;
3) invenzioni in tutti i settori delle attività umane;
4) scoperte scientifiche;
5) disegni e modelli ornamentali e diritti relativi;
6) marchi di fabbrica, di commercio, di servizio, nonché nomi e denominazioni commerciali;
oltre che
7) la protezione contro la concorrenza sleale e ogni altro diritto derivante dall’attività intellettuale nel settore industriale, scientifico, letterario ed artistico.
Alcune delle categorie menzionate rientrano nel diritto d’autore o nei diritti a quest’ultimo connessi (1 e 2).
Le scoperte scientifiche non sono oggetto di proprietà industriale al di là dell’esistenza di ricadute applicative delle scoperte, sicché la loro inclusione senza distinguo, nel novero di tali diritti operata dalla richiamata fonte convenzionale, appare obiettivamente una “forzatura” della logica dell’istituto; di tanto il codice ha opportunamente tenuto conto nel prevedere una disciplina delle invenzioni farmaceutiche e dei principi attivi che, come si osserverà nell’esame delle singole disposizioni, appare tesa a ricercare un punto di equilibrio fra produttori di farmaci ed imprese farmaceutiche titolari di brevetti.
In linea di massima, anche se in maniera non del tutto netta, l'invenzione va inoltre tenuta distinta dalla scoperta, come previsto dall’art. 45 del codice, norma che è effettivamente di basilare importanza definendo l’oggetto del brevetto.
La scelta operata nel codice non è andata nel senso di riconoscere all'autore della scoperta la possibilità di partecipare ai vantaggi economici delle invenzioni che derivino direttamente dalla scoperta e di cui questa rappresenti quindi l'immediata premessa, o di porre a carico dello Stato, analogamente a quanto è previsto da altre legislazioni, l'onere di una ricompensa a favore dell'autore della scoperta.
Il codice all’art. 45, comma 2, lett. a), precisa che le scoperte, le teorie scientifiche ed i metodi matematici (così come i piani, i principi ed i metodi per attività intellettuali, per gioco o per attività commerciale ed i programmi per elaboratore nonché la presentazione di informazioni) non costituiscono oggetto di brevetto per invenzione nel caso in cui le scoperte siano nella domanda di brevetto considerate in quanto tali ossia non fatte oggetto di un’attività inventiva che modifica lo stato della tecnica.
Trattandosi di conferma del diritto vigente, il Consiglio sottolinea la delicatezza della tematica, centrale per trovare un punto di equilibrio fra libertà della ricerca scientifica e sviluppo industriale (un equilibrio che è rilevante in vari settori di punta delle attività industriali, come nella ricerca nel campo delle biotecnologie), entrambi valori costituzionalmente tutelati ed oggetto di un complesso bilanciamento da parte del legislatore.

7.3. Gli altri istituti prima indicati – menzionati dalla Convenzione di Stoccolma - sono tutti riconducibili al concetto di proprietà industriale (che comprende quindi i diritti relativi alle invenzioni (brevetti) ai modelli ed ai disegni ornamentali, ai marchi, ai segni, alla concorrenza sleale).
La proprietà è detta “industriale” anche se la disciplina dei brevetti e delle invenzioni è il cuore della materia, poiché, a ben vedere, i marchi di fabbrica e di commercio, nonché quelli di servizio, i nomi e le indicazioni commerciali costituiscono oggetto di interesse economico anche e specialmente per le imprese commerciali.
Discussa è anche la natura dei diritti sulle invenzioni e sulla proprietà industriale ; in dottrina c’è chi qualifica il diritto di proprietà industriale un diritto su un bene immateriale, e qualifica la relativa posizione giuridica come diritto di privativa, come diritto soggettivo assoluto avente ad oggetto il bene immateriale (invenzione od altro); c’è chi invece, fermo il concetto di proprietà come disponibilità massima ed esclusiva di un bene riferibile ad ogni oggetto economico e, quindi, anche a beni immateriali, ritiene che si tratti, nel caso della proprietà industriale, di un diritto di proprietà di tipo del tutto particolare, che con la proprietà ha in comune solo il nome, essendovi un regime giuridico dell’acquisto e del godimento speciale, connotato dalla presenza di attività amministrative di accertamento costituivo, da vicende dell’utilizzazione che, di norma, hanno durata temporanea, dando luogo quindi ad una forma di proprietà temporanea.
Si deve a questo proposito riconoscere che una delle caratteristiche salienti della disciplina della proprietà industriale è la sua origine nel mondo dei privilegi regi e delle concessioni, quindi la matrice amministrativistica della disciplina che è ancora evidente negli istituti della brevettazione e della registrazione.
L’utilizzazione del termine proprietà è ormai sintomatico dell’intenzione di riconoscere queste posizioni giuridiche come posizioni giuridiche originarie, legate all’opera del pensiero umano, oggetto principe della proprietà: se è immaginabile un oggetto della proprietà, personale ed indipendente, questo è proprio il pensiero umano.
Ancor oggi si assiste ad un graduale processo di emersione di nuove situazioni giuridiche e di nuovi oggetti che costituiscono punti di riferimento per la proprietà su beni immateriali di cui il codice tiene conto prevedendo i c.d. diritti non titolati, anche se, per altri versi, il campo delle situazioni protette previste dal codice non è completo poiché esso, per le ragioni illustrate in relazione, non comprende il diritto di autore, le invenzioni biotecnologiche e tutti i segni distintivi dell’impresa (ad esempio, non si rinviene nel codice la disciplina della ditta che rimane confinata nel codice civile e che ben potrebbe figurare nel codice di proprietà industriale in considerazione del fatto che la legge delega non esclude la possibilità di “toccare” anche il codice civile, intervendovi con novellazioni o abrogazioni seguite da innesti o trapianti di istituti del codice civile nel codice di settore).
In assenza di questo più vasto riordino si segnala che gli effetti di armonizzazione della materia indubbiamente conseguiti, pur importanti, sono ancora incompleti.
La parte generale della disciplina, gli articoli disciplinanti gli istituti comuni, avrebbero potuto dettare la disciplina comune dell’intervento degli uffici amministrativi competenti alla registrazione e brevettazione, attività aventi natura di accertamento costitutivo, funzioni di certezza, necessarie per configurare il bene immateriale ed assicurarne la spettanza, il sicuro acquisto e la circolazione, ma senza che le attività abbiano connotati discrezionali.

8.1. L’art. 1 apre il Capo I del codice, che contiene disposizioni generali e principi fondamentali.
La norma, dedicata alla definizione dell’ambito dei diritti di proprietà industriale, realizza l’intenzione sistematica di ricomprendervi, oltre alle invenzioni ai modelli di utilità, ai disegni e modelli, alle nuove varietà vegetali, alle topografie dei prodotti a semiconduttori ed ai marchi, anche gli altri segni distintivi tipici ed atipici (che tuttavia non sono poi analiticamente contemplati nel codice che non menziona la ditta e neanche il marchio di fatto nel Capo II), le indicazioni geografiche, le denominazioni di origine ed infine le informazioni aziendali riservate.
Si tratta di una norma nuova, che non costituisce recezione di disposizioni già esistenti.
Il Consiglio osserva che la rubrica recita “(Ambito dei diritti di proprietà industriale)” mentre la disposizione è volta a chiarire non la portata applicativa dei singoli diritti di proprietà industriale ma il contenuto dell’espressione proprietà industriale.
Sarebbe per questo preferibile un'altra intitolazione del genere : “(Diritti di proprietà industriale)”.
Inoltre l’elencazione dei singoli diritti andrebbe preferibilmente effettuata nell’ordine in cui essi appaiono nel Capo II del codice, ossia iniziando dai marchi e finendo alle nuove varietà vegetali, anche se l’ordine prescelto appare chiaramente volto ad indicare una scala decrescente di tipicità, una gradazione dei diritti che va dal tipico all’atipico, scala peraltro che ispira la disposizione di cui all’art. 2. Si segnala peraltro che il marchio viene menzionato senza distinguere fra marchio registrato e marchio di fatto o marchio non registrato, pur trattandosi di posizioni giuridiche non assimilabili.
La norma elenca otto situazioni proprietarie, fra le quali i segni distintivi diversi dal marchio registrato essendo annoverati fra i diritti non titolati meriterebbero una considerazione a sé stante, anche se ciò determinerebbe un non perfetto allineamento alla sistematica del TRIP’s, con il risultato, tuttavia, di evidenziare immediatamente la diversa tipologia e struttura delle situazioni protette.

8.2. L’art. 2, dedicato alla costituzione, serve a mettere in evidenza, per i riflessi sistematici che ne derivano, la distinzione tra i diritti di proprietà industriale titolati e cioè costitutivamente originati dalla brevettazione oppure dalla registrazione, e quelli non titolati che sorgono da determinati presupposti di legge, e che, tuttavia, riferiscono la tutela ad un oggetto specifico.
Nell’ordinamento italiano i diritti di proprietà industriale titolati partecipano alla più generale disciplina dei beni mobili registrati soprattutto per quanto concerne la circolazione e la trascrizione degli atti di trasferimento.
Qui si apprezza l’obiezione, di cui dà conto la relazione, secondo cui l’allargamento dei diritti di proprietà industriale ai diritti non titolati, comportando il riferimento alla normativa della concorrenza sleale, ne determina la divisione in due tronconi.
La relazione nota che la disciplina della concorrenza sleale, più che essere divisa in due tronconi, ne viene ridimensionata, poiché essa non è più applicabile alle situazioni che trovano protezione come diritti reali su beni immateriali, come diritti di proprietà industriale.
Si tratterebbe di assicurare una tutela della stessa natura e degli stessi effetti ma solo più articolata e completa.
La relazione osserva che la giurisprudenza già attualmente assicura protezione al marchio di fatto mediante l’applicazione analogica delle norme sui marchi e protegge i segreti aziendali applicando le sanzioni e le misure cautelari previste dalla legge sulle invenzioni (poiché il segreto industriale è previsto all’art. 6 bis del r.d. 29 giugno 1939, n. 1127 d’ora innanzi “legge sulle invenzioni”).
L’ampliamento delle categorie dei diritti di proprietà industriale ai diritti non titolati non è in discussione poiché già l’accordo TRIP’s prevedeva la tutelabilità di posizioni non titolate (ad esempio indicazioni geografiche e denominazioni di origine), mentre la ragionevolezza della considerazione dei marchi di fatto e delle informazioni riservate come beni direttamente tutelabili e non come espressioni sintetiche che denotano regole dettate per la disciplina dell’attività d’impresa ha un indubbio referente oggettivo nella realtà/realità del segno distintivo atipico e dell’informazione riservata intesa come know-how e nell’ancora imperfetta emersione alla stregua di beni giuridici distinguibili dall’attività d’impresa di oggetti di tutela quali l’avviamento o l’onorabilità dell’impresa.
Con il riconoscimento legislativo delle posizioni non titolate può dirsi avviato un processo legislativo di qualificazione della proprietà industriale come “nuova” e “peculiare” ricchezza dell’impresa, che, ovviamente sarà suscettibile di mostrare in futuro nuove potenzialità in relazione allo sviluppo dei modelli organizzativi delle imprese e dei mercati.
Sul piano del formale si segnala che la rubrica dell’art. 2 andrebbe denominata più esattamente “(Costituzione ed acquisto dei diritti di proprietà industriale)” ovvero, più sinteticamente, “(Costituzione ed acquisto dei diritti)”.
Al comma 4 dopo le parole “ricorrendone i presupposti” andrebbe inserita la parola “di legge”.
Si segnala inoltre che la disposizione di cui all’art. 2 chiarisce che la brevettazione e la registrazione danno luogo ai “titoli” di proprietà industriale ma non definisce la nozione di titolo, che è legata non ad un’attività negoziale privata ma ad un’attività amministrativa di accertamento ed abilitazione.
Ne deriva la necessità di precisare la natura amministrativa dell’attività di brevettazione e registrazione, quali attività costitutive dei diritti di proprietà industriale, attività di accertamento costitutivo, soggette quindi ad un regime speciale di invalidazione, da concepirsi in termini generali, con conseguente arricchimento del Capo I - come già suggerito -con una disciplina comune a tali attività amministrative ed alle cause di nullità e decadenza dei titoli.

8.3. Nell’art. 3, dedicato al trattamento dello straniero, confluiscono, secondo la relazione, gli artt. 23 e 24 della legge marchi (r.d. n. 929/1942); l’art. 21 della legge sulle invenzioni (r.d. n. 1127/1939); l’art. 5 della legge sulle topografie dei prodotti a semiconduttori (legge n. 70/1999); l’art. 10 delle norme di adeguamento alle prescrizioni dell’atto di revisione del 1991 della Convenzione Internazionale per la protezione delle novità vegetali.
Occorre rilevare, a giudizio del Consiglio, che le norme richiamate nella relazione non sono le uniche rilevanti e neanche le principali trasfuse nel testo.
Il testo di cui all’art. 3 infatti appare piuttosto recepire le norme di attuazione della Convenzione di Parigi e del complesso dei trattati che legano l’Italia all’OMC (Organizzazione mondiale del Commercio).
In particolare la convenzione di Parigi sulla proprietà industriale, conclusa nel 1883, e sottoposta a numerose revisioni fino all’atto di Stoccolma del 1967, appare il perno della disposizione, ove estende la tutela anche ai cittadini di Stati non facenti parte di dette convenzioni, ma che siano domiciliati o abbiano uno stabilimento industriale o commerciale effettivo e serio sul territorio di uno Stato facente parte della Convenzione di Parigi per la protezione della proprietà industriale (art. 3 della convenzione di Parigi).
Va ricordato che la convenzione di Parigi è stata ratificata dall’Italia con legge 28 aprile 1976, n. 424, è entrata in vigore il 20 aprile del 1977 ed è ancora in vigore.
Pertanto, sono il testo della Convenzione di Parigi e la legge di ratifica (l. n. 424/1976) la vera e propria matrice dell’art. 3, unitamente alle altre norme prima indicate.
Va segnalato anche che viene abrogata, dall’art. 245 del codice, la legge 21 febbraio 1989, n. 70, che all’art. 5 della legge n. 70/1989 detta una normativa più complessa, quanto al riconoscimento dei diritti agli stranieri, di quella contenuta nell’art. 3 del codice che, erroneamente, menziona i cittadini di altro Stato accordando sempre il trattamento a condizione di reciprocità, senza distinguere e considerare separatamente i cittadini che appartengono alla Comunità europea o a Stati che sono stipulanti la convenzione sulla protezione delle topografie dei prodotti a semiconduttori.
Prima di procedere ad abrogazioni, occorre trasfondere completamente il contenuto della disciplina “abroganda” che si vuole (o si deve) salvare nella nuova disciplina.
Inoltre l’art. 3 non menziona, per quanto attiene alle topografie dei prodotti a semiconduttori, le persone giuridiche che sono oggetto di protezione secondo il menzionato art. 5 della legge n. 70/1989.
In materia di nuove varietà vegetali la norma di cui all’art. 10 del d.lgs. n. 455/1998 non riconosce automaticamente il trattamento accordato ai cittadini italiani ai cittadini di uno Stato facente parte della convenzione per la protezione delle varietà vegetali, mentre non è stata fornita alcuna spiegazione di tale difformità, ossia del superamento della condizione di reciprocità precedentemente sancita per i cittadini di Stati aderenti all’UPOV.
Anche nel caso delle nuove varietà vegetali non v’è più alcun riferimento alle persone giuridiche, che invece erano menzionate nella normativa precedente e sulla soppressione di tale riferimento non è fornita alcuna spiegazione.

8.4. L’art. 4 disciplina il diritto di priorità.
Conviene ricordare le norme che, secondo la relazione, sono confluite nel testo, al fine di verificare la corrispondenza sostanziale della nuova disciplina alla precedente.
In particolare, a tenore della relazione, sono confluite nell’art. 4 gli artt. 16 e 17 del regolamento marchi (d.P.R. n. 795/1948), l’art. 11 del regolamento invenzioni (r.d. 244/1940), l’art. 15 del regolamento modelli (r.d. n. 1354/1941) e l’art. 11 della legge sulle nuove varietà vegetali.
Sul piano formale il comma 1 dell’art. 4 appare una disposizione troppo faticosa da leggere, non comprendendosi dopo il verbo reggente la proposizione “abbia depositato”, quali siano gli oggetti della disciplina (essi appaiono “la domanda di brevetto” o la domanda di “certificato” o la domanda di “registrazione”).
La norma andrebbe più convenientemente riformulata inserendo la congiunzione disgiuntiva “o” prima delle parole “certificato di utilità”, eliminando la parola “certificato” prima di “d’autore d’invenzione”, inserendo la disgiuntiva “o” prima della parola “registrazione”, sostituendo alla disgiuntiva “o” che precede le parole “modello” e “marchio” la preposizione “di”.
Il comma 4, introducendo il diritto di priorità interno valido solo per i brevetti di invenzione, costituisce una disposizione non collocata nella sede appropriata del codice, in quanto l’art. 4, essendo incluso nella parte generale, dovrebbe contenere norme applicabili a tutti gli istituti in modo “generale” o “trasversale”. La norma pertanto dovrebbe essere collocata nella disciplina dei brevetti di invenzione.
La norma, verificata alla luce della conformità al diritto europeo della concorrenza, non pone particolari problemi se interpretata nel senso di assicurare il vantaggio della priorità ad invenzioni che risultino già sufficientemente descritte all’atto della prima iscrizione, costituendo il secondo deposito, sul piano sostanziale, solo una più analitica descrizione di un’ideazione già compiuta all’atto del primo deposito.

8.5. L’art. 5, secondo la relazione, è norma riproduttiva delle disposizioni di cui all’art. 1-bis legge marchi (r.d. 929/1942), art. 1 legge invenzioni (r.d. n. 1127/1939), art. 16 della legge sulle nuove varietà vegetali (d.lgs. n. 455/1998).
La disciplina è meramente riproduttiva di quella esistente per quanto riguarda le disposizioni di cui al comma 1 ed al comma 2.
Opportuna è l’innovazione che fa riferimento non solo alla Unione Europea, ma allo Spazio economico europeo ( che comprende paesi, come la Svizzera e l’Islanda, che non sono nella Unione).
Il comma 3 riproduce la norma di cui all’art. 16 della legge sulle nuove varietà vegetali, con formulazione prolissa e di difficile lettura, se ne consiglia la riformulazione mantenendo, per quanto possibile, la sintesi della disposizione originaria o “spezzando” i periodi con i segni d’interpunzione o formulando più commi nell’ambito della disposizione.
La norma di cui al comma 3, inoltre, riguardando le sole nuove varietà vegetali, potrebbe spostarsi nel capo II.

9. Si devono premettere alcune considerazioni generali sui marchi, disciplinati dagli artt. 7-28 del codice.
L'attitudine del segno a simbolizzare e sintetizzare qualità e rapporti, in termini di diretta inerenza fisica o di astratto riferimento, in una con la sua idoneità ad esprimere valori di situazioni ed oggetto, non poteva non trovare applicazione nei comportamenti a contenuto economico.
Corrispondentemente, con la conseguente assunzione di un rilievo economico, il segno è venuto a formare il punto di riferimento oggettivo di norme giuridiche.
E così come è vasto, concettualmente e praticamente, l'arco di possibili funzioni significanti del segno, così egualmente ampio è stato l'angolo visuale onde il segno, rilevante nei rapporti economici, è stato preso in considerazione dal diritto.
Il segno può essere disciplinato in funzione dell'individuazione di soggetti, situazioni ed oggetti.
Può così essere rilevante ai fini dell'individuazione del soggetto che pone in essere una determinata attività economica (imprenditore) e la stessa attività nella sua oggettività di dato organico di comportamento (impresa) sia in forma individuale attraverso il segno-ditta sia in forma associata, ad esempio attraverso il segno costituito dalla ragione sociale.
Speciale rilievo assume però il segno, come «marchio», con riferimento alla possibile identificazione di rapporti e qualità afferenti alle realtà oggettive, ancorché non necessariamente corporee, formanti oggetto di scambio.
Si passa così dalla considerazione del segno in generale al marchio, come segno di natura particolare, avente rilievo sostanziale nelle vicende dei rapporti economici e rilievo formale, di natura giuridica, come punto di riferimento della relativa previsione, nella inerenza all'oggetto in cui si imprime e nel valore significante che assume rispetto a quest'ultimo nei rapporti di scambio. Inerenza che, realizzatasi all'origine in termini di materiale impressione sull'oggetto, è venuta ad assumere un valore traslato.
In tal senso la normativa vigente in Italia parla di marchio agli art. 2569 ss. del codice civile, riconoscendo un diritto esclusivo di utilizzazione del marchio di impresa definito come denominazione od emblema destinato a distinguere merci od altri prodotti; nozione questa poi estesa, come «marchio di servizio» (l. 24 dicembre 1959, n. 1178, di ratifica dell'accordo di Madrid per la registrazione internazionale dei marchi nel testo di Nizza del 15 dicembre 1957), al segno destinato a contraddistinguere le attività di imprese di trasporti e comunicazioni, pubblicità, costruzioni, assicurazioni e credito, spettacolo, radio e televisione, trattamento di materiali e simili.
Nell’un caso e nell'altro il segno trova disciplina in quanto marchio, come strumento di distinzione di entità, reali o di mero comportamento, formanti oggetto di rapporti di scambio ed in funzione del valore che esso assume in relazione a tali rapporti.
Si parla di marchio e si fornisce la disciplina a segni in forma di marchi, sempre con riferimento alla esplicazione di una funzione significativa afferente ad entità oggettive, nelle disposizioni in tema di denominazioni d'origine, di indicazioni merceologiche, di indicazioni di provenienza e di marchio nazionale per l'esportazione.
In effetti, allorché il marchio, dal riferimento a cose corporee od alla prestazione di energie (ormai considerabili in termini di realità) passa a distinguere dati di comportamento, il diaframma tra segno distintivo di oggetti reali (cose costituenti il punto di riferimento del segno marchio) e segno distintivo di posizioni soggettive di comportamento economico (impresa od azienda, a seconda delle diverse accezioni) sembra farsi quanto mai labile.
In tal senso, ad esempio, deve intendersi la dottrina che attribuisce al marchio, al di là di una generica funzione di indicazione di provenienza, una funzione distintiva dell'azienda (quale «nome proprio» considerato in tale funzione), intesa quale entità di comportamento sostanziale.
Sorge qui il problema delicato, non affrontato dal codice, della definizione del marchio rispetto alla ditta. Pur non potendosi negare l'unità sostanziale di certi fenomeni, va osservato che un criterio di distinzione tra il dato di comportamento rilevante come attività imprenditoriale individuata dalla ditta ed il dato di comportamento individuato dal marchio possa situarsi nel diverso rilievo che nei due istituti riceve la considerazione strutturale dell'impresa.
Il segno denominato “ditta” considerato oggettivamente (in modo svincolato cioè da una funzione specifica di identificazione del soggetto agente economicamente) individua l'organizzazione della impresa e la sua struttura aziendale, intese nel loro complesso quali espressioni e manifestazioni dinamiche di attività economica.
Il marchio individua i prodotti in senso lato (prodotti in senso stretto e servizi offerti e forniti dall'impresa). Ne individua pertanto le prestazioni. Anche se queste si traducono in un dato di comportamento strettamente legato alla organizzazione, intesa in senso dinamico, della impresa, è pur sempre possibile, sia pure in termini di sottocategoria, pervenire ad un principio di distinzione del segno marchio dalla ditta oggettiva, intendendolo come strumento di individuazione, non tanto dell'organizzazione in sé, quanto dei comportamenti organizzati costituenti le prestazioni offerte.

9.1. La disciplina dei marchi si apre con l’art. 7 che disciplina l’oggetto della registrazione e si ispira all’art. 16 della legge sui marchi (r.d. n. 929/1942) dettando, tuttavia, una più analitica descrizione dell’oggetto del marchio (prima limitata a parole, figure o segni) che si vuole comprensiva di nomi di persone, disegni, lettere, cifre, suoni, forma del prodotto o della confezione di esso, combinazioni o tonalità cromatiche.
Il Consiglio non ha particolari rilievi da svolgere sulla maggiore analiticità dell’elencazione dei segni oggettivabili in marchi, salvo a rilevare che dizioni analitiche possono porre problemi di involontaria esclusione di fattispecie dall’ambito della disciplina nel caso del verificarsi di fenomeni di assunzione a marchio di segni non menzionati dalla norma. Peraltro la tutela, in tal caso, si avrebbe sul piano del marchio di fatto.
L’art. 8 disciplina nomi, ritratti di persone e segni notori. Questa norma riproduce l’art. 21 della legge marchi arricchita con una disciplina dei nomi, segni o denominazioni notori. La rubrica andrebbe meglio indicata come “Ritratti di persone, nomi e segni notori” per seguire l’ordine dell’esposizione.
L’art. 9 disciplina i marchi di forma e riproduce l’art 18 comma 1 lett. c) della legge marchi. Non risolta in questa norma, come nella precedente, appare la difficile questione relativa alla qualificazione come marchio di forma (di cui è vietata la registrazione) delle qualità estetiche del prodotto, come il confezionamento, non tutelabile alla stregua di marchio non per il suo valore ornamentale intrinseco, ma in quanto si tratti di una forma che dà valore sostanziale al prodotto (e quindi con riguardo alla proiezione del segno sul mercato).
La questione del marchio di forma ornamentale andrebbe affrontata quantomeno in relazione, chiarendo la funzione del riferimento al valore sostanziale del prodotto ed i requisiti per ritenere l’ inscindibilità del segno ornamentale (non tutelabile come marchio) e la possibile interferenza di questa fattispecie con la disciplina dei modelli ornamentali e con il diritto di autore, questione che è stata rimessa all’interprete.
Valuti l’Amministrazione, tenendo conto dell’interesse che il mondo delle aziende italiane, operanti in settori ove la creatività artistica può considerarsi “un valore aggiunto”, se vi sia un interesse all’esatta individuazione dei confini delle regole in materia di marchio di forma rispetto alla disciplina dei modelli ornamentali ed al diritto di autore.
Va segnalato che l'art. 16, rubricato "rinnovazione", riproduce l'art. 5 della legge marchi, con esclusione del comma 2 di questa norma che è stato soppresso per precludere la possibilità di apportare al marchio "modifiche nei caratteri non distintivi che non alterino sostanzialmente la identità del marchio inizialmente registrato" e così esonerare l'ufficio da un giudizio di fatto di esito incerto, mentre l'art. 28, rubricato "convalidazione", riproduce l'art. 48 della legge marchi, ad esclusione del comma 2, che in precedenza era stato mantenuto per errore perché incompatibile con la trasformazione in nullità relativa della nullità del marchio derivante dal conflitto con diritti anteriori di terzi a seguito della attuazione, con D.L. 8.10.1999, n. 447, del protocollo relativo all'intesa di Madrid sulla registrazione internazionale dei marchi.
Su questi interventi “manutentivi” non vi sono osservazioni particolari.

10. La disciplina delle indicazioni geografiche è attualmente contenuta nel d.lgs. 19 marzo 1996 n. 198.
Il codice la recepisce agli artt. 29 e 30, dando alla stessa nuova sistemazione nel catalogo dei diritti di proprietà industriale.
Si tratta di una disciplina fondamentale per dare sostegno al c.d. “Made in Italy”, ossia a quelle tipologie di prodotti (moda, agroalimentare) che sono sensibili a connotazioni geografiche legate a tradizioni produttive.
La sempre maggiore frequenza – da più parti segnalata - di episodi di contraffazione di tali denominazioni è indice della necessità di tale tutela.
L'art. 29, rubricato "oggetto della tutela", riproduce l'art. 31 del D. Lgs. 19.3.1996 n. 198 attuativo dei TRIP’s che, a sua volta, riproduce il comma 1 dell'art. 22 dei TRIP’s.
L'art. 30, rubricato "tutela", riproduce, quanto al comma 1, il comma 2 dell'art. 31 del D. Lgs. 19.3.1996, n. 198 e, quanto al comma 2, il comma 3 del suddetto decreto legislativo.

11. Quanto ai disegni e modelli, disciplinati agli artt. 31- 44, va osservato, in via generale, che con l'espressione «modello industriale» il nostro legislatore indica sinteticamente una categoria di creazioni intellettuali che, in prima approssimazione, possono identificarsi con la 'forma originale di un prodotto industriale'.
La precisazione del concetto non è tuttavia agevole e pone, come si è già segnalato trattando dei marchi di forma, delicati problemi di definizione – affrontati dalla più autorevole dottrina - nei confronti delle invenzioni industriali, delle opere dell'arte figurativa ed anche dei segni distintivi; inoltre, al suo interno, possono distinguersi aspetti o momenti particolari, come quello funzionale e quello estetico, la cui separazione è rilevante sul piano normativo, ove si distingue fra modello di utilità e modello o disegno ornamentale.
Il problema del quale conviene preliminarmente occuparsi deriva dalla constatazione che nella forma di un oggetto può realizzarsi una invenzione industriale, una creazione artistica, un segno distintivo, oltre naturalmente ad un modello industriale. È perfettamente concepibile infatti che vere e proprie invenzioni consistano nella forma di determinati oggetti.
Ancor più evidente è che la forma di un oggetto può costituire un’opera d'arte, un'opera dell'ingegno cioè di carattere creativo appartenente alle arti figurative; senza dire dell'imponente fenomeno del design, che, fondendo in sé il momento funzionale con quello estetico e sostanziandosi proprio nella forma originale di prodotti industriali, si identifica con il tema considerato.
Lo stesso può dirsi infine anche per i segni distintivi, poiché, in connessione con la moderna tecnica delle vendite e la grande influenza che ha su di esse la pubblicità, la forma del prodotto acquista sempre maggior rilievo; si assiste all'affiancarsi al segno distintivo classico, costituito dal marchio (inteso come un segno applicato o impresso sul prodotto, ma concettualmente scindibile dal prodotto stesso), di una serie di altri mezzi di distinzione e caratterizzazione consistenti appunto nella forma del prodotto, del recipiente, dell'involucro ed in genere nella confezione del prodotto stesso. La funzione distintiva insomma si realizza anche attraverso la forma (ed il cosiddetto marchio di forma ne costituisce l'esempio più evidente).
Ma a questo collegamento fra le diverse fattispecie considerate, collegamento consistente nella possibilità che la forma ne costituisca l'elemento caratteristico ed il denominatore comune, non corrisponde una identica disciplina. Su questo piano infatti le distinzioni tradizionali sono sempre state nettissime.
Da un lato si pone la categoria delle creazioni intellettuali destinate alla soluzione di un problema tecnico od a conferire una particolare funzionalità a macchine, strumenti, oggetti d'uso; si tratta delle «invenzioni industriali» (art. 12 l. brev.) e dei «modelli di utilità» (art. 2 r.d. 25 agosto 1940, n. 1411), la cui disciplina è caratterizzata dalla essenzialità della brevettazione e dalla durata limitata nel tempo dell'esclusiva attribuita dal brevetto. Le invenzioni industriali e i modelli di utilità si differenziano tuttavia fra loro; i titoli di protezione sono distinti (distinguendosi appunto fra brevetto per invenzione industriale e brevetto per modello di utilità) e la durata dell'esclusiva è diversa (rispettivamente, di venti e di cinque anni). Tale impianto non è sostanzialmente toccato dal codice.
Dall'altro lato, le creazioni delle arti figurative, anche se si realizzano nella forma di un prodotto industriale e sempre che il loro valore artistico sia scindibile dal carattere industriale del prodotto al quale sono associate (art. 2 n. 4 l. 2 aprile 1941, n. 633), sono protette dal diritto d'autore, prescindendo quindi dalla brevettazione e per un tempo pressoché illimitato (cinquanta anni dopo la morte dell'autore elevati a settanta dalla legge 6 febbraio 1996 n. 52 per tener conto della maggiore longevità assicurata dallo sviluppo della medicina e tutelare l’autore per due generazioni).
Se invece manca la dissociabilità concettuale dell'opera artistica dal prodotto industriale, si ha la categoria in esame, quella del modello o disegno ornamentale, al quale non sono applicabili le norme sul diritto d'autore (art. 5, ultimo comma, r.d. n. 1411 del 1940); tale categoria di creazioni è invece tutelata dalla legge sui modelli industriali attraverso la concessione di brevetto per modello o disegno ornamentale che attribuisce un'esclusiva limitata alla durata di quattro anni (poi portati a cinque, durata confermata dal codice), come per i modelli di utilità.
Autonoma, infine, è la disciplina dei segni distintivi, categoria nella quale, come si è notato, possono farsi rientrare alcune creazioni di forma quando se ne consideri essenzialmente la funzione individuatrice del prodotto: questa normativa, sia attraverso il sistema della brevettazione (brevetto per marchio di impresa), sia prescindendone (disciplina della concorrenza sleale), assicura alla forma distintiva una tutela illimitata nel tempo.
A questa preliminare esposizione delle diverse norme applicabili alle creazioni di forma di un prodotto industriale, si debbono aggiungere alcune considerazioni sulla loro reciproca compatibilità o incompatibilità: è infatti evidente che la difficile distinzione delle fattispecie è resa praticamente assai rilevante dall'esclusione del concorso delle diverse normative (oltre che dalle loro profonde differenze); tanto più che, in determinate ipotesi, le fattispecie astratte, pur concettualmente distinte, coesistono nel caso concreto.
Il nostro ordinamento contrappone dunque rigidamente le invenzioni ai modelli industriali, così da escludere, di norma, ogni possibilità di «concorso» o di «passaggio» da una forma di tutela all'altra.
Nonostante l'evanescenza della distinzione, si presuppone che la qualificazione di un trovato come invenzione industriale escluda che esso possa qualificarsi come modello di utilità e viceversa; l'art. 4 r.d. n. 1411 del 1940, consente, nell'incertezza, di presentare due domande di brevetto, contemporanee ed alternative, rispettivamente per invenzione e per modello di utilità, ma la norma espressamente conferma che può essere rilasciato un solo brevetto(tale norma non è stata riprodotta nel codice).
Pur se fondata su un criterio discretivo delle distinte fattispecie estremamente tenue, altrettanto rigida è stata la separazione, sul piano normativo, fra diritto d'autore e modelli o disegni ornamentali.
Ciò risulta tanto dall'art. 5, ultimo comma, del r.d. n. 1411 del 1940, che espressamente stabilisce che ai modelli o disegni ornamentali non sono applicabili le disposizioni sul diritto d'autore (disposizione non riprodotta nel codice), quanto dal già richiamato art. 2 n. 4 l. n. 633 del 1941, cit. che presupponeva, per l'applicazione di tale normativa, la scindibilità del valore artistico dal carattere industriale del prodotto (disposizione poi abrogata dal decreto legislativo n. 95/2001); da tali norme si desumeva che alle creazioni il cui valore artistico fosse limitato all'attribuzione di un particolare pregio formale ad un prodotto industriale, e fosse quindi inscindibile da quest'ultimo, si dovessero applicare le norme sui modelli o disegni ornamentali con assoluta esclusione della disciplina del diritto d'autore.
Una così netta esclusione del cumulo era da ritenersi anche estesa, nei casi limite in cui si volessero prospettare ipotesi di concorso, alla relazione fra la normativa del diritto d'autore e quella propria delle invenzioni e dei modelli di utilità.
Al fondo si trovava sempre l'idea di escludere che attraverso altri istituti giuridici la soluzione di un problema tecnico od una forma funzionale possano essere monopolizzate, senza brevettazione e soprattutto senza limiti di tempo.
La dottrina in proposito riteneva che la nostra legge, riducendo la tutela del design alla durata prima quadriennale (ora quinquennale) dei brevetti per modelli di utilità e per modello o disegno ornamentale, rischiasse di negare ogni effettiva protezione ad un'attività creativa che, proprio nel nostro Paese, raggiunge risultati di grandissimo rilievo, sia in termini assoluti che in termini strettamente economici.
Il problema, come rilevato dalla relazione al codice, non è del tutto risolto dalla nuova disciplina del d.lgs. n. 95/2001 che ha aggiunto all’art. 2 della legge 22 aprile 1941 n. 633 una previsione diretta a contemplare, nell’elenco delle opere dell’ingegno proteggibili, “le opere del disegno industriale che presentino di per sé carattere creativo e valore artistico” (art. 2, comma 1, numero 10).
Il diritto di autore infatti per tale disciplina è protetto, nel caso di modelli o disegni che esprimano una realtà qualitativamente diversa dal (e artisticamente superiore rispetto al) mero design.
Il codice di settore prevede inoltre una durata di questo diritto di autore diversa da quella ordinaria del diritto di autore e di cui si dirà più oltre.
La stessa esigenza ispira infine la soluzione del problema del concorso fra la disciplina dei modelli (e delle invenzioni), da un lato, e quella dei marchi (marchi di forma) e della concorrenza (imitazione servile), dall'altro.
Con riguardo ai marchi, l'art. 18, n. 3, della relativa legge (r.d. 21 giugno 1942, n. 929) nega la brevettabilità delle «figure o segni il cui carattere distintivo è inscindibilmente connesso con quello di utilità e di forma» escludendo quindi il concorso della normativa propria delle invenzioni, dei modelli di utilità e, secondo l'interpretazione dominante, dei modelli o disegni ornamentali, con quella dei marchi; il nostro legislatore dà quindi esplicitamente la prevalenza al principio generale per il quale un qualsiasi trovato, utile od ornamentale, in quanto costituisce un elemento dello sviluppo della tecnica ed un aspetto dell'evoluzione della tecnologia e della produzione industriale, non può essere monopolizzato illimitatamente e comunque al di fuori della disciplina prevista per le invenzioni ed i modelli industriali. La disciplina è ora riprodotta all’art. 18 del codice.
Anche dal punto di vista della disciplina della concorrenza sleale, ed in particolare con riferimento alle ipotesi di imitazione servile (art. 2598 n. 1 c.c.), la soluzione non è diversa: l'ipotesi è che una data forma, funzionale od estetica, brevettata o brevettabile, per esempio, come modello di utilità od ornamentale (ma è concepibile anche l'ipotesi della brevettazione come invenzione industriale) svolga, od abbia comunque acquisita, anche una precisa funzione distintiva, così che l'attività di un imprenditore concorrente, che (senza violare le norme sulla esclusiva brevettuale per l'intervenuta scadenza o decadenza del brevetto od anche per la mancata brevettazione) realizzi l'identico prodotto, possa qualificarsi come un atto di concorrenza sleale.
Ammettendo tale forma di tutela, si perpetuerebbe l'esclusiva sulla forma del prodotto, oltre i limiti di durata del brevetto o addirittura in assenza di brevettazione.
Questo risultato, ritenuto inammissibile perché in contrasto col principio sopra enunciato, viene evitato dalla teoria della «forma necessaria» secondo la quale, quando una determinata forma è «necessaria», cioè inscindibilmente connessa con l'utilità di un qualsiasi trovato (invenzione, modello di utilità, modello ornamentale), l'imitazione è per ciò stesso lecita, sempre che naturalmente sussista questo elemento di inscindibilità e quindi di necessarietà.
Il fondamento di questa conclusione si trova nell'analogia con la ricordata normativa in materia di marchi di forma (art. 18 n. 4 r.d. n. 929/1942) e nel concetto di correttezza (art. 2598 n. 3 c.c.), che costituisce anche il limite della teoria della cosiddetta forma necessaria.
Sempre con riferimento al concorso di questi istituti giuridici, si deve ancora ricordare che il grado di differenziazione che si richiede per escludere la contraffazione varia in funzione delle diverse normative; nel caso, per esempio, delle norme repressive della concorrenza sleale per imitazione servile è sufficiente un qualsiasi elemento idoneo ad escludere la confondibilità, anche se del tutto insignificante dal punto di vista della funzionalità o dell'estetica del prodotto. Perciò l'ipotesi di una forma tanto «necessaria» da escludere addirittura la possibilità di apporre sul prodotto idonei segni distintivi al fine di evitare la confondibilità sembra estremamente improbabile. È da ritenersi, in altre parole, che nei casi concreti il conflitto ipotizzato sia da imputarsi o all'assenza di un'effettiva volontà di evitare ogni confusione usando altri elementi distintivi o, dall'altra parte, ad una sopravalutazione dell'efficacia distintiva della forma che nasconde l'interesse a perpetuare l'esclusiva sulla forma utile od ornamentale.
Da questo quadro, caratterizzato dalla relativa incompatibilità fra la disciplina delle invenzioni e dei modelli industriali (e di questi istituti fra loro) e la normativa che assicura l'utilizzazione economica dell'opera artistica al suo autore o l'uso degli elementi distintivi all'imprenditore, si stacca una ipotesi particolare di concorso: l'art. 8 r.d. n 1411 del 1940 dispone che, se la forma o il disegno di un oggetto conferisce ad esso un nuovo carattere ornamentale e nello stesso tempo ne accresce l'utilità, può essere chiesto (dallo stesso soggetto) contemporaneamente il brevetto, tanto per modello o disegno ornamentale, quanto per modello di utilità. Si tratta di una norma ora riprodotta nell’art. 40 del codice.
Da un certo punto di vista si tratta di una norma molto importante, perché, riconoscendo la possibilità che una data forma sia ad un tempo funzionale ed esteticamente pregevole, apre la via ad una disciplina del design organica e razionale; ed il fatto che tale coincidenza sia considerata come eccezionale, mentre è oggi del tutto normale e costituisce anzi il canone primo di una estetica industriale, non esclude certamente l'interesse di tale normativa.
Da un diverso e più concreto punto di vista, deve invece notarsi che il nostro ordinamento giuridico rimane parco nel consentire una tutela effettiva del design, perché l'accostamento fra momento funzionale e momento estetico (cioè la sostanziale equazione fra modello di utilità e modello o disegno ornamentale, di cui si è detto) avviene, come è stato notato in dottrina, “sul livello più basso, con esclusione della rilevanza del diritto di autore”.
Il codice non risolve tale problematica, giustificando la mancata attuazione della delega (nel punto ove prevede revisione e armonizzazione della protezione del diritto d'autore sui disegni e modelli con la tutela della proprietà industriale, con particolare riferimento alle condizioni alle quali essa è concessa, alla sua estensione e alle procedure per il riconoscimento della sussistenza dei requisiti) con riferimento alla sua vaghezza ed alle preoccupazioni che il cumulo delle tutele suscita nella piccola e media impresa italiana, spaventata da una nozione di artisticità applicata all’industria. Eppure, in presenza delle caratteristiche dei prodotti e dei processi dell’industria italiana, che ha le sue punte proprio in settori ove tali innovazioni sono rilevanti, il punto rimane aperto e non può non essere segnalato dal Consiglio.

11.1. Venendo al commento delle singole disposizioni, e limitando le osservazioni ai testi che sono innovativi, il Consiglio rileva che :
L'art. 38, rubricato "Diritto alla registrazione ed effetti", quanto ai commi 1, 2 e 3 riproduce l'art. 7 Legge Modelli; quanto ai commi 4, 5 e 6 riproduce la corrispondente disciplina sulle invenzioni industriali (commi 2 e 3 dell'art. 4 Legge Invenzioni).
Il punto costituisce una novità in quanto viene trasfusa la disciplina in materia di brevetti, ai modelli e disegni industriali, al fine di chiarire la decorrenza degli effetti della registrazione, che viene fatta risalire alla data in cui la domanda di registrazione viene resa accessibile al pubblico. Si prevede la possibilità per il richiedente la registrazione di chiedere l’esclusione dell’accessibilità per un periodo non superiore a trenta mesi e la possibilità di provvedere comunque a notifiche individuali al fine di fare decorrere il termine a favore del richiedente.
Si tratta di una disciplina opportuna, che definisce in termini di certezza gli effetti della registrazione, prevedendo alcune cautele, su un modello consolidato perché tratto dalla disciplina sulle invenzioni.
Va anche considerato che la rilevanza della domanda di registrazione dei modelli, ai fini della decorrenza degli effetti, può trarsi anche dall’esistenza dell’istituto generale del diritto di priorità, con la disposizione in esame se ne chiarisce l’operatività.
L'art. 44, rubricato "Durata del diritto di autorizzazione economica per diritto d'autore" è illustrato diffusamente, per la sua importanza nella relazione al provvedimento. Si tratta della normativa, alla quale si sono già dedicate ampie considerazioni, tesa a dare tutela al diritto di utilizzazione economica del disegno o modello protetto dal diritto di autore, prevedendo una durata di tale diritto che, come la relazione segnala, appare difforme da quella prevista dalla normativa comunitaria (dir. 93/38 CE) che è di settanta anni post mortem autoris.
Il Consiglio ritiene che le argomentazioni offerte dalla relazione non appaiono conferenti al fine di giustificare la scelta della previsione della durata venticinquennale del diritto di utilizzazione.
In primo luogo va rilevato che la norma di cui all’art. 17 della legge 12 dicembre 2002, n. 273 che prevede tale termine non detta un criterio di delega ma è una norma di carattere materiale; in secondo luogo deve rilevarsi che i diritti connessi aventi per la normativa una durata più limitata nel tempo, non possono considerarsi avere la stessa natura delle opere dell’ingegno in quanto mancano del requisito dell’originalità proprio di queste ultime.
Sul dubbio di compatibilità comunitaria è invece pertinente il richiamo all’art. 17 della direttiva 13 ottobre 1998 n. 71 che recita “i disegni e modelli protetti come disegni o modelli registrati in uno Stato membro o con effetti in uno Stato membro a norma della presente direttiva sono ammessi a beneficiare altresì della protezione della legge sul diritto d'autore vigente in tale Stato fin dal momento in cui il disegno o modello è stato creato o stabilito in una qualsiasi forma. Ciascuno Stato membro determina l'estensione della protezione e le condizioni alle quali essa è concessa, compreso il grado di originalità che il disegno o modello deve possedere.”
Il punto relativo alla legittimità comunitaria della disposizione è legato alla portata da riconoscersi al termine “condizioni alle quali … è concessa” l’estensione della protezione, se da intendersi come comprensiva della durata del diritto di autore oppure no.
Rileva il Consiglio che la disposizione, contenendo l’inciso “compreso il grado di originalità che il disegno o modello deve possedere” sembrerebbe alludere alla possibilità del legislatore di conformare la disciplina del diritto di autore cumulato al modello anche quanto alla durata, essendo tale aspetto astrattamente sussumibile nel termine “condizioni alle quali … è concessa” l’estensione.
Di contro potrebbe osservarsi che la durata è un elemento essenziale del diritto di autore, sicché riconosciuto il cumulo, la protezione dovrebbe avvenire alle condizioni previste dalla direttiva n. 93/98 CE (settanta anni).
Il Consiglio, in proposito, ritiene che la disposizione della direttiva n.71/98 CE sia sufficientemente ampia , nel suo tenore, da offrire “copertura” comunitaria al più breve termine di durata della protezione del diritto di autore connesso a modelli industriali, come appare confermato da analoghe scelte effettuate da altri Paesi della Comunità ( il Dicastero ha fatto riferimento all’esperienza della Gran Bretagna ).
Inoltre va sottolineato che i redattori del codice si sono limitati a riprodurre la disposizione già attualmente vigente ( e che, verosimilmente, avrebbe continuato ad esserlo anche se non fosse stata trasfusa nel codice ), effettuando quindi una recezione giustificabile in considerazione del fatto che, in virtù dei compiti assegnati con la delega, il Governo deve operare il “riassetto” della normativa e quindi non può, in adempimento di tale criterio direttivo, omettere di considerare la disposizione in questione, salva l’eventuale sua disapplicazione nelle competenti sedi.

12. La disciplina delle invenzioni è contenuta negli artt. 45-81.
E’ stato detto che le capacità creative dell'uomo sono talmente diverse e multiformi che è assai arduo, per non dire impossibile, fissare degli schemi e precostituire delle categorie. La creazione, infatti, è anche, per certi aspetti, intuizione personale; e l'intuizione sfugge a qualsiasi classificazione in quanto è espressione della genialità dell'intelletto umano, cioè di un'attività della persona che è regolata soltanto da una disciplina interiore, unicamente ed esclusivamente soggettiva.
Tuttavia, in via di approssimazione, a seconda dell'oggetto dell'attività intellettiva e soprattutto attraverso una considerazione a posteriori del suo risultato, cioè della singola opera creata, si ritiene possibile distinguere le opere dell'ingegno dalle invenzioni vere e proprie.
Non si tratta, com'è evidente, di una distinzione del tutto e sempre accettabile, specialmente dal punto di vista sostanziale: non soltanto perché non è sempre possibile distinguere le opere dell'ingegno dalle invenzioni, ma soprattutto perché è in certo senso arbitrario, sul piano sostanziale, operare delle discriminazioni relativamente ad un'attività che in ogni caso è espressione dell'estro individuale: in tal senso, infatti, tutta l'attività creativa costituisce opera dell'ingegno individuale, quale che sia il suo oggetto, cioè il campo nel quale si manifesti ed il risultato in cui si concretizzi.
Comunque, tale distinzione viene comunemente praticata dagli interpreti ed è recepita dalla legge. In tali termini, dunque, con quel tanto di arbitrario che essa presenta, può essere accolta ed in tali termini quindi può convenirsi che le opere dell'ingegno sono costituite da tutte quelle attività creative della persona che si concretizzano in manifestazioni riguardanti la letteratura, la musica, le arti figurative, l'architettura, il teatro e la cinematografia, qualunque ne sia il modo o la forma di espressione (art. 1 l. 22 aprile 1941, n. 633), mentre le invenzioni sono costituite da tutte le altre attività creative della persona, il cui risultato riguardi metodi o processi di lavorazione industriale, macchine, strumenti, utensili o dispositivi meccanici, prodotti o risultati industriali, applicazioni tecniche di princìpi scientifici (art. 2585 c.c. e art. 12 r.d. 29 giugno 1939, n. 1127).
In tal modo, la distinzione tra le opere dell'ingegno, propriamente dette, e le invenzioni industriali risiederebbe, dal punto di vista del diritto, in ciò che queste ultime sono destinate ad «essere adoperate per la produzione di altri beni o servizi», a differenza delle prime che sono invece destinate ad altri fini, prevalentemente di natura estetica, che interessano il campo dell'arte (letteraria, musicale e figurativa). In ogni caso, comunque, alla discutibile diversità dell'oggetto dell'attività intellettiva, certamente si contrappone, sul piano del diritto, una diversa regolamentazione: infatti, la disciplina dettata dalla legge, contenuta nel r.d. n. 1127/1939, cit., in gran parte riprodotta nel codice, è affatto speciale e riguarda propriamente le invenzioni industriali, non anche le (altre) opere dell'ingegno.
L'attività creativa della persona, quale che sia il campo nel quale si esplichi, culturale in genere o propriamente tecnico-industriale, ha trovato in passato e trova ancora, nella vigente legislazione, ampia rilevanza. E non potrebbe essere diversamente: ché, lo sviluppo della scienza in generale ed il progresso della tecnica rappresentano fenomeni che trovano vasta eco di natura sociale ed economica, ed anche nell'esperienza giuridica sono, in misura altrettanto notevole, avvertiti e tutelati, tanto più nell’epoca attuale, connotata dalla globalizzazione dei mercati e da un’aspra competitività fra le imprese, che si volge nella cornice della regolamentazione giuridica.
Così, il diritto si preoccupa del progresso, tende a favorirlo; e la legislazione vigente (al pari di quelle che l'hanno preceduta) è ispirata e, per certi versi, condizionata da tale precipua ed imprescindibile finalità.
Le invenzioni industriali hanno una ben precisa rilevanza nell'àmbito dell'esperienza giuridica; e proprio nella misura in cui contribuiscono ad arricchire il patrimonio tecnico della collettività.
In tal modo, nel sistema della legge, è proprio il contributo che apportano al progresso tecnico, la ragione giustificatrice ed al tempo stesso il limite della rilevanza che le invenzioni hanno nell'àmbito dell'esperienza giuridica: sia il diritto riconosciuto all'inventore di utilizzare in via esclusiva il risultato dell'idea, sia la temporaneità di tale diritto sono predisposti e voluti in funzione della specifica finalità perseguita dalla legge, che è appunto quella di favorire, incessantemente, l'incremento del patrimonio tecnico-culturale della collettività.
A ben guardare, infatti, il diritto di esclusiva funge da stimolo all'attività creativa, in quanto l'inventore è sollecitato dalla previsione dei guadagni che può conseguire dallo sfruttamento (esclusivo) della (sua) idea: e, per ciò stesso, il diritto in parola viene a prospettarsi in maniera coerente con l'avvertita finalità di favorire il progresso della tecnica e, anzi, si traduce in una concreta attuazione di essa. Parimenti dicasi con riferimento alla temporaneità dell'esclusiva accordata all'inventore, perché tale limitazione si risolve nel divieto di escludere la collettività dai vantaggi derivanti dalle invenzioni, e finisce quindi con l'arricchire il patrimonio culturale e con il favorirne l'ulteriore sviluppo.
In definitiva, il sistema della legge è preordinato al fine di conseguire il progresso tecnico: e tale risultato è, dunque, lo scopo precipuo della complessa disciplina dettata dalla legge in tema di invenzioni ed in funzione di esso «deve essere ispirata la sua valutazione, onde evitarne degenerazioni che possono riuscire assai pericolose».
Che l'interesse a promuovere il progresso della tecnica rappresenti la fondamentale esigenza perseguita dal legislatore è generalmente ammesso dagli interpreti, secondo cui questo interesse si articolerebbe in tre distinti aspetti, «e cioè nell'interesse ad ottenere sollecitamente la divulgazione di invenzioni, sì che esse servano di base e di stimolo per nuove invenzioni o scoperte; nell'interesse a stimolare la ricerca; infine nell'interesse a che le nuove conoscenze siano poste a disposizione della collettività, sì che essa le possa liberamente attuare».
La disciplina del codice è in gran parte riproduttiva della disciplina esistente. Il codice, per consapevole scelta, non contiene una disciplina delle invenzioni biotecnologiche, oggetto della direttiva 94/44/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, e ciò per i limiti oggettivi della legge di delega; mantiene distinta la disciplina dei brevetti per invenzioni da quella dei modelli di utilità, nonostante tale distinzione non sia contemplata dalla Convenzione sul brevetto europeo, considerato brevetto per modello quando viene nazionalizzato in Italia. La mancata soppressione della disciplina dei modelli di utilità è giustificata con riferimento ai lavori preparatori della disciplina comunitaria per i modelli di utilità che, quindi, stanno per essere rivitalizzati a livello europeo.
Una particolare attenzione è stata riservata (art. 61) alla disciplina del certificato complementare nazionale, titolo di protezione brevettuale ad esaurimento, disciplinato dal regolamento del Consiglio 1768/1992 /CE del 18 giugno 1992, fatta oggetto di recenti modifiche con la legge 15 aprile 2002, n. 63 e con la legge 15 giugno 2002 n. 112 che, a giudizio dei redattori del codice, ha avuto l’effetto di procrastinare eccessivamente la caduta in pubblico dominio delle invenzioni farmaceutiche.
Altro significativo intervento ha riguardato la disciplina delle invenzioni dei dipendenti che stabilisce dei nuovi specifici parametri per la determinazione dell’equo premio, prevedendo anche l’intervento di un collegio di arbitratori.
La relazione al codice segnala novità in tema di invenzioni realizzate dai ricercatori delle università e degli enti di ricerca, materia che era già stata toccata dalla legge 18 ottobre 2001, n. 383, giustificate dalla ritenuta incongruenza della disciplina del 2001 in quanto attribuisce la titolarità del diritto di utilizzazione al ricercatore universitario ossia ad un soggetto rivelatosi non capace di comportarsi in modo tale da ottenere in concreto lo sfruttamento dell’invenzione in modo diretto od indiretto.
Peraltro tale attribuzione di titolarità del diritti derivanti dall’invenzione al ricercatore non è stata modificata dal testo del codice, che si presenta, così come segnalato più avanti nel parere, difforme dalla relazione e recante un testo di portata assai meno innovativa di quanto preannunciato.
L'art. 52, rubricato “Rivendicazioni”, riproduce nel primo comma l'art. 5 del Regolamento Invenzioni (R.D. 5 febbraio 1940, n. 244); nei commi 2 e 3 riproduce il comma 3 dell'art. 8 della convenzione sull'unificazione di alcuni principi della legislazione sui brevetti di invenzione firmata a Strasburgo il 27 novembre 1963 e l'art. 69 della Convenzione sul brevetto Europeo firmata a Monaco il 5 ottobre 1973; nel comma 3 applica il protocollo interpretativo dell'art. 69 della Convenzione sul brevetto Europeo che, ai sensi dell'art. 164.1, fa parte integrante della convenzione stessa.
I commi 2 e 3 introducono nell’ordinamento interno delle novità rilevanti in tema di interpretazione della portata dell’invenzione, tese ad orientare il giudice all’atto di individuare l’esatta portata del diritto di brevetto, mediando fra l’intento dell’inventore e l’esigenza di ragionevole sicurezza dei terzi.
Si tratta di principî codificati nel diritto internazionale, di cui è senz’altro opportuna l’introduzione.
L'art. 61, rubricato “Certificato complementare”, contiene nel primo comma una avvertenza superflua in funzione della quale i certificati complementari retti dal regolamento 1768/92/CEE sono – ovviamente – disciplinati da tale regolamento; nei commi 2, 3 e 4 riproduce i commi 4 e 5 dell'art. 4 bis Legge Invenzioni (introdotto dalla legge 19 ottobre 1991, n. 349); negli artt. 5 e 6 riproduce la norma dell'art. 8 del D.L. 15 aprile 2002, n. 63, convertito con legge 15 giugno 2002, n. 112.
L'art. 64 del codice, rubricato “Invenzioni dei dipendenti”, riproduce i primi due commi dell'art. 23 Legge Invenzioni, con l'aggiunta nel secondo comma dell'inciso tratto dalla giurisprudenza consolidata dalla Suprema Corte “qualora il datore di lavoro ottenga il brevetto” e con la modificazione chiarificatrice secondo la quale “per la determinazione dell'equo premio si terrà conto dell'importanza della protezione conferita all'invenzione dal brevetto, delle mansioni svolte e della retribuzione percepita dall'inventore nonché del contributo che questi ha ricevuto dall'organizzazione aziendale”. Si tratta della fissazione di parametri di commisurazione dell’equo premio che non può che valutarsi favorevolmente sul piano delle esigenze di certezza del diritto.
Il comma 3 riproduce l'art. 24 della Legge Invenzioni; i commi 4 e 5 riproducono l'art. 25 della Legge Invenzioni con qualche precisazione chiarificatrice in tema di qualificazione del collegio competente alla determinazione dell’equo premio in caso di mancato accordo.
Il collegio è definito come collegio di arbitratori (art. 1349 cod. civ.) e non di arbitri: la definizione potrebbe apparire non consona all’attività svolta ove si ritenesse la stessa diretta alla risoluzione di una lite piuttosto che ad integrare le volontà negoziali.
Rileva in proposito il Consiglio che il dubbio potrebbe superarsi, considerando l’attività degli arbitratori con riferimento alla necessità di integrazione del contratto, che sorge per effetto dell’evenienza, spesso non prevedibile, dell’invenzione.
L’attività di integrazione del contenuto del contratto attiene ovviamente all’oggetto del medesimo, a tale elemento della fattispecie dovendosi riportare la determinazione dell’equo compenso da pagarsi al lavoratore per l’invenzione, equo compenso che costituisce una precisa obbligazione del datore di lavoro.
Il richiamo poi alle regole del codice di procedura civile sull’arbitrato non muta la natura dell’istituto ma assume solo valore di chiarimento per l’interprete.
Si rinvia altresì alla notazione svolta nell’esame degli artt. 143 e 194 sulla eventuale competenza del Presidente della Sezione specializzata del Tribunale di Roma e non del Presidente del Tribunale di Roma; notazione che deve intendersi riferibile anche alla disposizione in esame.
L'art. 65 del Codice, rubricato “invenzioni dei ricercatori delle università e degli enti pubblici di ricerca”, riproduce la disciplina dell'art. 24 bis Legge Invenzioni come introdotto dalla legge 18.10.2001, n. 383 introducendo diverse novità, (volte a render meglio applicabile la disciplina che costituisce una delle riforme più rilevanti della manovra economica del Governo dell’anno 2001), segnalate dalla relazione ma non riscontrate nel testo trasmesso.
In particolare la relazione (pag. 44) segnala che si è prevista una disciplina del diritto di opzione che tuttavia non è prevista da nessuno dei cinque commi della disposizione.
Il Consiglio richiama quindi il Dicastero ad un’attività volta a rendere coerente la relazione con il testo.
L'art. 77, rubricato “Effetti della nullità” riproduce l'art. 59 bis con l'aggiunta della lettera c) che estende il principio della irretroattività della dichiarazione di nullità anche ai compensi corrisposti ai dipendenti inventori.
Si tratta di una novità che va vista favorevolmente atteso l’intento protettivo del lavoratore-inventore.
L'art. 81, rubricato “Licenza volontaria sui principî attivi mediata dal Ministro”, riproduce gli artt. 8 bis, 8 ter e 8 quater della legge 15 giugno 2003, n. 112 di conversione del decreto legge 15 aprile 2002, n. 63: la norma costituisce un’importante innovazione che va salutata favorevolmente, in quanto è diretta a stabilire un limite alla protezione assicurata dai certificati complementari di cui alla legge 19 ottobre 1991, n. 349, la cui scadenza vede muoversi i contrapposti interessi delle imprese farmaceutiche e delle imprese fabbricanti di principi attivi per l’esportazione.
La norma introduce, anche in pendenza di validità ed efficacia dei certificati, una liberalizzazione della produzione, per l’esportazione, dei principi attivi, disposta con la mediazione del Ministro, garanzia dell’autorevolezza dell’intervento.
Le finalità sociali della disposizione sono evidenti: essa dovrebbe consentire di soddisfare provvisoriamente il fabbisogno di medicinali generici di alcuni Paesi delle aree più povere del pianeta, senza tuttavia deflettere dal rispetto degli standards internazionali sulla protezione della proprietà industriale.

13. La disciplina dei modelli di utilità è contenuta negli artt. 82-86.
La scelta del codice è stata di conservare come distinto diritto di proprietà industriale i modelli di utilità c.d. invenzioni minori. Il riordino è avvenuto senza significative innovazioni.
L'art. 85, rubricato “durata ed effetti della brevettazione”, riproduce il primo comma dell'art. 9 del r.d. 25 agosto 1940, n. 1411, c.d. Legge Modelli; il secondo comma chiarisce ad abundantiam che gli effetti della brevettazione del modello di utilità equivalgono in tutto e per tutto agli effetti della brevettazione delle invenzioni industriali.
La norma è una novità per i modelli di utilità, ma allinea in modo opportuno la disciplina dei brevetti per invenzioni e quella per i modelli e, quindi, va salutata con favore.

14. La disciplina dei prodotti a semiconduttori (artt. 87-97) ha natura di disciplina tecnica ed ha origine nell’accordo TRIP’s.
L'art. 93, rubricato “Decorrenza e durata della tutela”, presenta un primo comma che sembra scritto per errore, per cui esso deve essere riformulato.

15. La disciplina delle informazioni segrete (artt. 98 e 99) costituisce una significativa previsione, volta a dare corpo alla categoria dei diritti di proprietà industriale c.d. non titolati.
L'art. 98, rubricato “Oggetto della tutela” e l’art. 99, rubricato “Tutele”, corrispondono entrambi all'art. 6 bis della Legge Invenzioni. Essi non dànno luogo a rilievi.

16. La disciplina delle nuove varietà vegetali (artt. 110-116) ha origine da fonti convenzionali.
L'art. 108, rubricato “limitazioni del diritto del costitutore”, riproduce l'art. 14 della Legge varietà vegetali, mentre al comma 2 si introduce una nuova disciplina della moltiplicazione del materiale proveniente da varietà oggetto di privativa, che non si coordina con la disposizione dell’art. 107, comma 1, che richiede l’autorizzazione del costitutore, per la moltiplicazione della varietà protetta; va, pertanto, inserito un inciso del tipo “fermo quanto disposto dall’art, 107, comma 1,”.

17. Il capo III del codice è rubricato “Tutela giurisdizionale dei diritti di proprietà industriale” ed è articolato in due sezioni: sezione I “Disposizioni processuali” (artt. 177-143) e sezione II “Misure contro la pirateria” (artt. 144-146).
Il Capo V del codice è rubricato “Procedure speciali” (artt. 194-200).
I due capi vanno esaminati congiuntamente, presentando aspetti disciplinatori comuni.

17.1. Si impone anzitutto una notazione di carattere sistematico in ordine alla distribuzione degli argomenti tra il capo III e il capo V.
Il capo III, ancorché rubricato “Tutela giurisdizionale dei diritti di proprietà industriale”, contiene, nella sezione I, denominata “Disposizioni processuali”, norme che non hanno portata esclusivamente processuale, e, segnatamente, norme che riguardano la espropriazione dei diritti di proprietà industriale e la trascrizione di una serie di atti relativi a tali diritti.
Il capo V, a sua volta, nella eterogenea categoria delle “Procedure speciali”, riunisce sia procedimenti amministrativi che procedimenti giurisdizionali, e, in particolare:
- il procedimento di espropriazione;
- il procedimento di trascrizione;
- il procedimento giurisdizionale di esecuzione e quello giurisdizionale di sequestro;
- il procedimento di segretazione militare;
- il procedimento di licenza obbligatoria e di licenza volontaria sui principi attivi;
- il procedimento giurisdizionale davanti alla Commissione ricorsi.
Si deve evidenziare, allora, la imperfetta distribuzione sistematica degli argomenti e la frammentazione di materie unitarie in due capi distinti.
Infatti:
- il ricorso giurisdizionale davanti alla Commissione ricorsi, è disciplinato, quanto a termini per ricorrere e composizione della Commissione, nel capo III, e per i suoi aspetti procedurali, nel capo V;
- il procedimento giurisdizionale di esecuzione e sequestro di diritti di proprietà industriale, anziché nell’ambito delle disposizioni processuali, è collocato nel capo delle procedure speciali, salva una norma generalissima (art. 137) collocata nel capo III;
- la materia delle espropriazioni e delle trascrizioni è frammentata tra i due capi, contenendo il terzo la disciplina dei presupposti e dell’ambito, e il quinto gli aspetti procedurali.
Tale frammentazione ha forse una spiegazione “storica” nella circostanza che nell’assetto normativo anteriore al codice, gli aspetti essenziali di espropriazione, trascrizione, commissione ricorsi, esecuzione forzata, sono disciplinati nella legislazione sui brevetti, mentre gli aspetti di dettaglio nei relativi regolamenti di attuazione.
E, infatti, da una lettura comparata del nuovo codice e della normativa del 1939 – 1940, emerge che nel capo III del codice risultano trasfuse le disposizioni del r.d. n. 1127/1939 (brevetti per invenzioni industriali) e del r.d. n. 929/1942 (marchi registrati), e nel capo V venendo in tal modo legificate (retro, n. 4.6) le disposizioni del regolamento n. 244/1940 (regolamento relativo ai brevetti) e del regolamento n. 795/1948 (regolamento relativo ai marchi di impresa).
Ma siffatta sistemazione non può più essere seguita una volta che si unifichi tutta la disciplina in un “codice”, atteso che nella logica di una codificazione, ciascuna materia deve essere unitariamente disciplinata in un’unica sede.
Sembra allora corretto:
1) mantenere nel capo III tutta la disciplina strettamente processuale, e, dunque, trasferire in tale capo il contenuto degli articoli 197 (“procedura di esecuzione e sequestro dei titoli di proprietà industriale”), e 200 (“procedura avanti la Commissione dei ricorsi”) dello schema, ora collocati nel capo V; l’attuale articolo 200 andrà collocato dopo gli artt. 135 e 136 (rispettivamente “commissione dei ricorsi” e “funzione consultiva e compensi”), e l’attuale articolo 197 andrà collocato dopo l’attuale art. 137 (“esecuzione forzata”);
2) sottrarre al capo III le discipline non strettamente processuali (anche se presentano pure profili processuali), e dunque trasferire nel capo V il contenuto degli articoli 138, 139, 140 (rispettivamente “trascrizione”, “effetti della trascrizione”, “diritti di garanzia”) e il contenuto degli articoli 142 e 143 (rispettivamente “decreto di espropriazione”, “indennità di espropriazione”).
Gli attuali articoli 138, 139, e 140, andranno collocati nel capo V prima dell’attuale articolo 195 (“domande e procedura di trascrizione”), mentre gli attuali articoli 142 e 143 andranno collocati nel capo V prima dell’articolo 194 (“procedura di espropriazione”).
La rinumerazione degli articoli del codice imporrà attenzione nei rinvii, contenuti all’interno di ciascun articolo, ad altri articoli rinumerati.

17.2. Si formulano le seguenti osservazioni e si suggeriscono le seguenti modifiche.
L’art. 120, co. 2, nell’individuare i criteri di competenza territoriale, trascrive fedelmente l’art. 75, co. 2, r.d. n. 1127/1939 e l’art. 56, co. 2, r.d. n. 929/1942. Tuttavia, la norma non è del tutto chiara, posto che, da un lato, si fa riferimento al foro del “domicilio” del convenuto (con ciò facendo pensare che è irrilevante il luogo di residenza o dimora del convenuto), e dall’altro lato si dice che si utilizza il foro dell’attore quando il convenuto non ha in Italia “residenza, dimora o domicilio eletto”. Sul versante dell’attore, da un lato si dice che si utilizza il criterio del luogo di residenza o domicilio dell’attore, dall’altro si dice che è competente il tribunale di Roma, se né attore né convenuto hanno in Italia domicilio reale o domicilio eletto. Il che farebbe pensare che il tribunale di Roma è competente quando attore o convenuto sono residenti in Italia, ma non abbiano ivi domicilio, il che si tradurrebbe in un evidente carico di lavoro ulteriore per il tribunale di Roma, laddove esistono altri tribunali specializzati nella materia dei brevetti.
Essendo chiaro l’intento di utilizzare un criterio in tutto simile al c.d. “foro generale delle persone fisiche” di cui all’art. 18 cod. proc. civ., va introdotta una norma in tutto simile al citato art. 18.
Sembra allora corretto riscrivere la norma come segue: “Le azioni previste al comma 1 si propongono davanti all’autorità giudiziaria del luogo in cui il convenuto ha la residenza o il domicilio e, se questi sono sconosciuti, del luogo il cui il convenuto ha la dimora, salvo quanto previsto nel comma 3. Quando il convenuto non ha residenza, dimora o domicilio nel territorio dello Stato, le azioni sono proposte davanti all’Autorità giudiziaria del luogo in cui l’attore ha la residenza o il domicilio. Qualora né l’attore, né il convenuto abbiano nel territorio dello Stato residenza, dimora, domicilio, è competente l’Autorità giudiziaria di Roma”.
Nell’art. 120, co. 6, la parola “giurisdizione” va sostituita con quella “circoscrizione”; l’espressione “giurisdizione” infatti, mutuata dall’art. 76, r.d. n. 1127/1939 e dall’art. 57, r.d. n. 929/1942, significa, qui, ambito territoriale di competenza del giudice.
L’art. 121, co. 2, nel riprodurre fedelmente l’art. 77, co. 2, r.d. n. 1127/1939, e l’art. 58 bis, co. 1, r.d. n. 929/1942, utilizza un linguaggio arcaico e contorto; inoltre l’art. 121, co. 2, si limita a prevedere una richiesta del giudice di informazioni alla controparte, laddove lo strumento per tale richiesta era correttamente individuato dall’art. 77 e nell’art. 58 bis previgenti nell’interrogatorio; pertanto l’espressione “essa può ottenere che il giudice ne disponga l’esibizione oppure che richieda le informazioni alla controparte” va sostituita con la seguente: “essa può chiedere al giudice di ordinarne l’esibizione ovvero di disporre l’interrogatorio della controparte”.
L’art. 122, co. 1, stabilisce che l’azione diretta ad ottenere la dichiarazione di decadenza o di nullità di un titolo di proprietà industriale “può essere esercitata da chiunque vi abbia interesse e promossa di ufficio dal pubblico ministero”. Occorre coordinare tale previsione con quella di cui all’art. 118, co. 4, secondo cui l’azione di nullità può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse solo dopo che siano decorsi due anni dalla data di pubblicazione della concessione del brevetto o della registrazione, senza che l’avente diritto si sia valso delle azioni ad esso spettanti.
Giova ricordare che nella disciplina vigente è solo previsto che:
- per i brevetti per invenzioni l’azione di nullità può essere proposta da chiunque vi avesse interesse solo decorsi due anni senza iniziative dell’avente diritto (art. 27 bis, r.d. n. 1127/1939);
- per i brevetti per invenzioni l’azione di nullità può essere azionata anche dal pubblico ministero (art. 78, co. 1, r.d. n. 1127/1939);
- per i brevetti per invenzioni non è invece contemplata una norma come quella contenuta nell’art. 122, co. 1, secondo cui l’azione di nullità può essere esercitata da chiunque vi abbia interesse, senza limiti temporali;
- per i marchi è previsto che l’azione possa essere proposta da chiunque vi avesse interesse e dal pubblico ministero (art. 59, co. 1, r.d. n. 929/1942).
Una volta che il nuovo codice abbia optato per mantenere la norma dell’art. 27 bis, r.d. n. 1127/1939, riproducendola nell’art. 118, comma 4, l’art. 120, co. 1, va coordinato con tale previsione.
Si potrebbe, per esempio, alla fine del comma 1 dell’art. 122, fare salvo il disposto dell’art. 118, comma 4, ovvero sancire la legittimazione popolare decorso il termine di cui all’art. 118, comma 4.
Si suggerisce inoltre di scegliere se attribuire al pubblico ministero la legittimazione ad agire senza limite temporale, oppure solo dopo decorsi i due anni di cui al citato art. 118, comma 4. Sembra preferibile questa seconda soluzione, che attenua il rischio che terzi diversi dall’avente diritto sollecitino l’azione del pubblico ministero, prima del decorso dei due anni che costituiscono lo spatium deliberandi per le azioni di esclusiva spettanza dell’avente diritto.
Sul piano formale, si osserva che nell’art. 122, co. 3, si menziona genericamente la “Convenzione di Parigi”, come anche in altri articoli del codice (v. per esempio art. 3), senza che vi sia un articolo del codice contenente le definizioni ovvero gli estremi completi degli atti che vengono citati. Si suggerisce, pertanto, o di introdurre in apertura del codice una norma contenente le definizioni e le citazioni complete, ovvero di completare, in ogni articolo, la indicazione degli estremi degli atti citati.
Nell’art. 124, co. 3, si stabilisce, con norma nuova, non prevista nelle precedenti discipline, che la sentenza che accerta la violazione di un diritto di proprietà industriale può ordinare la distruzione di tutte le cose costituenti la violazione. Sarebbe opportuno fare salvo il limite generale alla distruzione, sancito dall’art. 2933, co. 2, cod. civ., laddove la distruzione sia di pregiudizio all’economia nazionale (in tali casi residua solo il rimedio del risarcimento del danno) (si pensi al caso di invenzione, che, ancorché utilizzata in violazione dell’altrui diritto di proprietà industriale, abbia dato luogo alla realizzazione di beni mobili utilizzati da pubbliche amministrazioni o gestori di servizi pubblici a servizio dell’intera collettività).
Nell’art. 124, comma 4, secondo rigo, la parola “ordinata” va sostituita con la parola “ordinato”.
L’art. 124, co. 7, nel riprodurre l’art. 86, co. 3, r.d. n. 1127/1939 e l’art. 66, co. 4, r.d. n. 929/1942, stabilisce che sulle controversie che insorgono nell’esecuzione delle sentenze sui diritti di proprietà industriale, decide il giudice che ha emesso la sentenza, “con ordinanza non soggetta a gravame”. Nel nuovo ordinamento costituzionale, vi è, in relazione a tale ordinanza “non impugnabile”, comunque il rimedio del ricorso in cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost. Trattasi infatti di provvedimento decisorio atto a definire un giudizio. E’ preferibile sostituire l’espressione “ordinanza” con quella “sentenza”, in analogia all’art. 618 c.p.c. (che stabilisce che l’opposizione all’esecuzione e l’opposizione agli atti esecutivi sono decise con sentenza non impugnabile). Può essere mantenuto l’inciso “non soggetta a gravame”, che compare anche nell’art. 618 c.p.c., inciso che vale ad escludere un giudizio di appello, ma non impedisce in ogni caso il ricorso in cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost.
Nell’art. 127, comma 3, l’espressione “estensibile fino a 2065,83 euro” va sostituita con quella “fino a 2065,83 euro”.
L’art. 128, comma 3, relativamente al procedimento giurisdizionale di descrizione, riproduce formalmente la normativa vigente (art. 82, commi 1 e 4, r.d. n. 1127/1939; art. 62, commi 1 e 4, r.d. n. 929/1942), anche nel rinvio al cod. proc. civ., in relazione alla disciplina del procedimento di istruzione preventiva. Come in precedenza, viene stabilito che non si applicano i commi 2 e 3 dell’art. 693, l’art. 694 e il comma 2 dell’art. 696. Vi è però un profilo di contraddittorietà, ereditato dalla disciplina attualmente in vigore. Da un lato, infatti, il comma 3 dell’art. 128 dichiara inapplicabili i commi 2 e 3 dell’art. 693, relativi al procedimento di istruzione preventiva in caso di eccezionale urgenza, dall’altro lato il comma 4 dell’art. 128 richiama l’art. 697 che disciplina i provvedimenti da adottarsi in caso di eccezionale urgenza. Sembra perciò corretto dichiarare inapplicabile solo il comma 2 dell’art. 693 (che prevede una regola di competenza territoriale aggiuntiva, in effetti incompatibile con la nuova competenza delle sezioni specializzate), mentre deve ritenersi applicabile il comma 3 dell’art. 693, che disciplina il contenuto del ricorso in caso di eccezionale urgenza. Pertanto va sostituita, all’art. 128, co. 3, l’espressione “non si applicano i commi 2 e 3 dell’art. 693 del codice di procedura civile” con quella “non si applica il comma 2 dell’art. 693 del codice di procedura civile”.
Nell’art. 128, comma 6, sostituire l’espressione “un esposizione” con quella “un’esposizione”.
Nell’art. 130, comma 3, secondo rigo, l’espressione “di descrizione di sequestro” va sostituita con quella “di descrizione e di sequestro”.
L’art. 134, commi 1 e 3, letti in combinato disposto, estendono la giurisdizione delle sezioni specializzate di cui all’art. 16, legge n. 273 del 2002 e relativo decreto legislativo di attuazione, a materie non direttamente contemplate dalla legge delega. L’art. 16 della legge delega si riferisce infatti ai procedimenti giurisdizionali in materia di proprietà industriale, nonché a quelli in materia di concorrenza sleale connessi con l’esercizio dei diritti di proprietà industriale. L’articolo in commento contempla anche i processi “in materia di illeciti ai sensi della legge 10 ottobre 1990, n. 287 e degli articoli 81 e 82 del Trattato UE afferenti all’esercizio dei diritti di proprietà industriale”. In definitiva si attirano nell’orbita delle sezioni specializzate le controversie in tema di intese restrittive della concorrenza e abuso di posizione dominante. Tuttavia, per non eccedere l’oggetto della delega, va chiarito che la competenza delle sezioni specializzate investe soltanto:
- le controversie che la l. n. 287 del 1990 attribuisce al giudice ordinario (e non anche quelle devolute al giudice amministrativo);
- le controversie in tema di intese restrittive della concorrenza e abuso di posizione dominante strettamente connesse alla violazione di diritti di proprietà industriale: e vanno meglio chiariti il senso e la portata di tale connessione.
Nell’art. 134, comma 1, l’espressione “sleale concorrenza” va sostituita con quella “concorrenza sleale”, più consona all’usuale linguaggio normativo.
Nell’art. 134, comma 3, è preferibile, per evitare dubbi esegetici, specificare che rientrano nella competenza delle sezioni specializzate anche le controversie in materia di indennità di espropriazione dei diritti di proprietà industriale, di cui conosce il giudice ordinario.
In relazione all’art. 135, comma 1, che disciplina i ricorsi contro i provvedimenti dell’Ufficio brevetti, proposti alla competente Commissione (che è una giurisdizione speciale preesistente alla Costituzione), anzitutto il Consiglio di Stato sottolinea con favore la innovazione sostanziale di prevedere un termine di impugnazione di sessanta giorni, in sostituzione di quello speciale di trenta giorni previsto dalla disciplina previgente (art. 35, r.d. n. 1127/1939; art. 33, r.d. n. 929/1942): tale innovazione equipara il regime temporale del ricorso alla Commissione a quello del ricorso ai Tribunali amministrativi regionali, garantendo meglio il diritto di difesa. Per evitare dubbi esegetici, è preferibile menzionare espressamente, tra le controversie devolute alla Commissione ricorsi, quelle contro i provvedimenti dell’Ufficio italiano brevetti che rifiutano la trascrizione.
Nell’art. 135, comma 3, va sostituita l’espressione “sono nominati con decreto del Ministro delle attività produttive, durano in carica due anni e sono rinnovabili” con l’espressione “sono nominati con decreto del Ministro delle attività produttive e durano in carica due anni. L’incarico è rinnovabile”, ovvero con quella, utilizzata dall’art. 71, co. 1, r.d. n. 1127/1939, “sono nominati con decreto del Ministro delle attività produttive, durano in carica due anni e sono rieleggibili”.
Nell’art. 135, comma 4, che regola la composizione della commissione ricorsi, prevedendo i tecnici aggregati senza voto deliberativo, va salutata con favore la mancata riproduzione dell’art. 71, comma 2, r.d. n. 1127/1939, a tenore del quale “il direttore dell’Ufficio brevetti fa parte della commissione senza voto deliberativo”.
Invero, l’Ufficio brevetti è amministrazione resistente, quale autorità che ha emesso il provvedimento che viene impugnato davanti alla commissione ricorsi; sicché, appare incostituzionale il ruolo, che riveste attualmente, di componente, ancorché senza voto, della commissione ricorsi, non potendosi cumulare in uno stesso soggetto il ruolo di parte e di giudice, né il ruolo di parte e di consulente.
Per coerenza, occorre anche sopprimere il successivo art. 200, comma 9, che invece mantiene la figura del direttore dell’ufficio brevetti, come partecipante alle sedute della commissione.
L’art. 136, nel prevedere la funzione consultiva della Commissione ricorsi in materia di proprietà industriale, ha portata molto più estesa dell’art. 71, comma 3, r.d. n. 1127/1939, secondo cui tale funzione consultiva si esercitava solo nei confronti del Ministero dell’industria (ora Ministero delle attività produttive). Con la nuova norma, la Commissione ricorsi potrebbe essere investita da richieste di parere da parte di qualsivoglia pubblica amministrazione. Non sembra corretto, sia sul piano sistematico, sia per considerazioni di copertura finanziaria, generalizzare la funzione consultiva della Commissione. Si suggerisce, pertanto, di precisare, nell’art. 136, che la funzione consultiva viene esercitata su richiesta del Ministero delle attività produttive.
Nell’art. 138, comma 1, che elenca gli atti soggetti a trascrizione, alla lettera b), laddove vengono menzionati, come soggetti a trascrizione, gli atti costitutivi di diritti di garanzia, per completezza vanno indicati anche “i privilegi speciali che la legge preveda vadano trascritti”. Giova infatti ricordare che il d.lgs.lgt. n. 367 del 1944, all’art. 7, co. 6, ha previsto un privilegio speciale legale sui brevetti, soggetto a trascrizione. Sebbene si tratti di ipotesi arcaica e probabilmente non più attuale – ma mai formalmente abrogata – non si può escludere l’eventualità di leggi che prevedano privilegi speciali soggetti a trascrizione.
Nell’art. 138, comma 1, la lett. h) contempla, oltre alla trascrizione delle sentenze, la trascrizione, in via facoltativa, delle domande dirette ad ottenere le sentenze che pronunciano la nullità, annullamento, risoluzione, revocazione, rescissione, di un atto trascritto.
Andrebbe invece in un comma a parte stabilito, in termini generali, che può essere chiesta la trascrizione delle domande giudiziali (sempre come facoltà della parte interessata) relative a tutte le sentenze soggette a trascrizione ai sensi dell’art. 138, con la conseguenza che gli effetti della trascrizione della sentenza risalgono alla data della trascrizione della domanda giudiziale.
E, invero, nel precedente art. 122 viene stabilito come obbligatorio l’invio all’Ufficio brevetti di una copia dell’atto introduttivo di ogni giudizio civile in materia di diritti di proprietà industriale.
Le norme in commento riproducono fedelmente l’art. 80, commi 1 e 2, r.d. n. 1127/1939 e l’art. 60, commi 1 e 2, r.d. n. 929/1942.
Osserva la Sezione che a tale obbligatorio invio (che costituisce condizione di procedibilità del giudizio di merito), non corrisponde tuttavia alcun obbligo di trascrizione della domanda nel registro tenuto dall’Ufficio brevetti. Solo l’art. 138, comma 1, lett. h), contempla la trascrizione, solo facoltativa, di talune domande giudiziali, e dunque non è stabilito alcun effetto di opponibilità ai terzi della sentenza con effetto dalla data della domanda giudiziale.
Sembra invece opportuno, in analogia con il codice civile, che contempla la trascrizione delle domande giudiziali, ai fini dell’opponibilità delle sentenze di accoglimento ai terzi che abbiano acquistato diritti sulla base di atti trascritti o iscritti dopo la trascrizione delle domande, disciplinare in termini generali la trascrizione delle domande giudiziali relative alle cause sui diritti di proprietà industriale in conformità ai principi sanciti dal codice civile.
Nell’art. 141, comma 1 e comma 3, l’espressione “paese” va sostituita con quella “Paese”.
Nell’art. 142, comma 1, va sostituita l’espressione “Capo dello Stato” con quella “Presidente della Repubblica”, conforme all’attuale assetto costituzionale.
In relazione all’art. 142, comma 2, si segnala che la norma innova in maniera sostanziale rispetto al passato, in quanto impone di determinare l’indennità nel decreto di espropriazione in ogni caso, mentre in passato nell’ipotesi di espropriazione di invenzione nell’interesse della difesa militare del Paese l’indennità poteva essere fissata in un secondo momento (art. 62, r.d. n. 1127/1939).
Si segnala l’opportunità di stabilire un ragionevole criterio guida per la determinazione dell’indennità, ovviamente nella logica dei prezzi di mercato, pur nella consapevolezza che anche la disciplina vigente non stabilisce nessun criterio.
Nell’art. 142, comma 2, secondo rigo, la parola “manato” va sostituita con la parola “emanato”.
In relazione all’art. 143, che prevede un collegio di arbitratori per la determinazione dell’indennità di esproprio, se l’espropriato non accetta quella offerta dall’amministrazione procedente, si segnala l’innovazione sostanziale rispetto al passato, in quanto nella disciplina ora vigente tale meccanismo è previsto solo per le espropriazioni nell’interesse militare (art. 63, r.d. n. 1127/1939).
a. Va anzitutto osservato che l’art. 143 e l’art. 194, commi 4 e 5, vanno meglio coordinati, contenendo disposizioni in parte coincidenti.
b. In secondo luogo va stabilito che il terzo arbitratore, in caso di disaccordo tra le parti, sia nominato dal presidente della sezione specializzata del tribunale di Roma, e non dal presidente del tribunale di Roma, atteso che le competenze giurisdizionali in materia di indennità di esproprio dei diritti di proprietà industriale sembrano da attribuire alle sezioni specializzate previste dalla l. n. 273/2002.
c. La vigente disciplina (art. 63, r.d. n. 1127/1939) fissa dei criteri di professionalità per gli arbitratori. A sua volta il t.u. delle espropriazioni immobiliari richiede che la stima sia effettuata da “tecnici”. Nulla dice invece l’art. 143 sui requisiti di professionalità degli arbitratori. Va pertanto stabilito che per essere nominato arbitratore occorre aver acquisito professionalità ed esperienza nel settore della proprietà industriale.
d. In relazione all’art. 143, comma 2, che prevede la impugnazione della stima degli arbitratori davanti al giudice, è opportuno precisare che la competenza spetta alla sezione specializzata del tribunale di Roma. Inoltre si suggerisce di ricostruire tale giudizio di impugnazione sulla falsariga di quello di opposizione alla stima nelle espropriazioni immobiliari, in quanto si tratta in entrambi i casi di impugnazione di una stima di valore di un bene. Occorrerà dunque anche stabilire il termine per l’impugnazione e la sua decorrenza;
e. In relazione all’art. 143, comma 3, che prevede la giurisdizione del giudice amministrativo sui decreti di espropriazione (eccettuate le questioni indennitarie), si evidenzia la innovazione sostanziale, rispondente ai principi costituzionali, di aver reso giustiziabile il decreto di espropriazione adottato nell’interesse della difesa militare del Paese, decreto che invece l’art. 65, co. 2, r.d. n. 1127/1939, dichiarava non impugnabile. Si segnala che per le espropriazioni immobiliari è prevista la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, e il rito speciale di cui all’art. 23 bis, l. n. 1034/1971. Andrebbe valutata l’opportunità, stante l’analogia delle materie, di prevedere tali regole anche per i decreti di espropriazione dei diritti sulla proprietà industriale. In particolare quanto al rito, sarebbe opportuno prevedere davanti al giudice amministrativo un rito accelerato (quale è quello di cui al citato art. 23 bis) posto che l’esigenza di un processo celere è sentita in relazione alla proprietà industriale, tanto che davanti al giudice ordinario è stato previsto il rito accelerato societario;
f. in relazione all’art. 143, comma 5, in cui si afferma che “i decreti di espropriazione nell’interesse della difesa devono essere annotati nel Registro dei titoli di proprietà industriale a cura dell’Ufficio italiano brevetti e marchi” va soppresso l’inciso “nell’interesse della difesa”, in quanto l’art. 143 riguarda tutti i decreti di espropriazione di diritti di proprietà industriale, e non solo quelli disposti nell’interesse della difesa. Anche nella vigente disciplina (art. 65, co. 3, r.d. n. 1127/1939), l’annotazione riguarda tutti i decreti di espropriazione.
Nell’art. 145, comma 1, primo rigo, vanno sostituite le parole “Comitato nazionale” con le parole “Comitato nazionale anticontraffazione”, utilizzando il nome dato al Comitato dall’art. 4, comma 72, legge n. 350/2003, da cui la norma in commento deriva.
In relazione all’art. 194, comma 2, laddove si stabilisce che il decreto di espropriazione è notificato nelle forme di legge, ancorché la norma costituisca fedele riproduzione delle precedenti (art. 53, co. 1, regolamento n. 244/1940) si suggerisce di chiarire che le forme di legge sono quelle previste per la notificazione degli atti processuali civili.
Nell’art. 194, i commi 4 e 5 vanno meglio coordinati, come già osservato, con l’art. 143, commi 1 e 2, di cui sono in parte una ripetizione.
L’art. 195, comma 1, si limita a stabilire che la domanda di trascrizione va redatta in unico esemplare. La vigente disciplina (artt. 59 e 63, regolamento n. 244/1940; artt. 44 e 48, regolamento n. 795/1948), prevede invece che la domanda sia presentata in doppio esemplare, di cui uno viene restituito al richiedente, con la dichiarazione dell’avvenuta trascrizione. Anche nella nuova disciplina va previsto un meccanismo analogo, di rilascio al richiedente di una ricevuta con annotazione dell’avvenuta trascrizione.
Nell’art. 200, comma 1, va previsto che il trattamento economico del personale di segreteria della Commissione ricorsi, costituito da funzionari dell’Ufficio brevetti, è quello stabilito dalla vigente normativa (legislativa, regolamentare o contrattuale).
L’art. 200, comma 3, stabilisce che in caso di ricorso alla Commissione, all’originale del ricorso vanno accluse sei copie in carta libera, salva la facoltà della segreteria della Commissione di chiedere un numero maggiore di copie. Si segnala che la disciplina ora vigente (art. 79, co. 2, regolamento n. 244/1940; art 52, co. 2, regolamento n. 795/1948), prevede, oltre all’originale, sei copie libere e una in bollo, in totale dunque sette copie. Si suggerisce di stabilire un numero di copie (oltre all’originale) corrispondente al numero di componenti la Commissione che compongono il Collegio, e al numero di controparti. Inoltre sembra corretto che il numero di copie sia stabilito, in via integrativa, non dalla segreteria della Commissione, bensì con un provvedimento di carattere generale del Presidente della Commissione, trattandosi di disposizione ordinatoria del processo.
Sempre in relazione all’art. 200, in combinato disposto con l’art. 135, il Consiglio di Stato, pur consapevole che le norme riproducono fedelmente il diritto vigente, suggerisce di raccogliere la presente occasione per ammodernare il giudizio davanti alla Commissione, attesa la sua riconosciuta natura giurisdizionale, e renderlo conforme ai dettami costituzionali di un processo celere idoneo ad assicurare una difesa effettiva per tutte le parti. Questo, nella logica della VI disposizione finale della Costituzione, che ipone la revisione delle giurisdizioni speciali preesistenti alla Costituzione medesima, ferma restando la impossibilità di un ampliamento delle relative funzioni.
In particolare si osserva quanto segue.
a. In relazione all’art. 200, commi 3 e 5, in combinato disposto con l’art. 135, comma 1, si suggerisce di valutare l’opportunità di modificare il vigente sistema di incardinamento del ricorso davanti alla Commissione (deposito, e trasmissione del ricorso alle controparti a cura della Commissione), con un sistema più moderno e conforme ai ricorsi giurisdizionali amministrativi (notifica del ricorso alle controparti a cura del ricorrente, entro il termine perentorio di sessanta giorni, decorrenti da notificazione, comunicazione o piena conoscenza del provvedimento che si impugna; notifica del ricorso con le forme previste per la notifica del ricorso al T.a.r.; deposito del ricorso entro il termine di giorni trenta decorrenti dall’ultima notificazione); andrebbe altresì chiarito che tra le controparti sono compresi da un lato l’Ufficio brevetti quale amministrazione resistente, e dall’altro lato i controinteressati individuabili in base al provvedimento impugnato.
b. In relazione all’art. 200, comma 8, il Consiglio di Stato suggerisce di valutare l’opportunità di dettare una regola nuova, più confacente alla natura di giurisdizione speciale. La norma stabilisce infatti che le sedute della Commissione non sono valide se non sia presente la maggioranza assoluta dei suoi membri aventi voto deliberativo. Ora, posto che la Commissione si compone di un presidente, un presidente aggiunto, e otto membri, divisi in due sezioni, presiedute dal presidente e dal presidente aggiunto, si deve ritenere che a ciascuna sezione siano assegnati 5 membri compresi i presidenti. Sicché, per le sedute di ciascuna sezione in sede giurisdizionale sembra occorrere la presenza di tre membri (maggioranza assoluta rispetto a 5).
Per la verità una lettura ante litteram della norma fa pensare che a ciascuna seduta devono essere presenti sei membri (maggioranza assoluta dei componenti la commissione), ma sembra una soluzione poco logica e poco compatibile con l’articolazione della Commissione in due sezioni.
Oltretutto un collegio giudicante a sei, oltre che contrastare con le esigenze di economia processuale, comporta difficoltà nella votazione ai fini della formazione della maggioranza.
Una soluzione in termini “giurisdizionali” potrebbe essere quella di stabilire che la Commissione, quando decide sui ricorsi, decide con l’intervento di tre membri con potere deliberativo compreso il Presidente; la regola della necessaria presenza della maggioranza assoluta dei componenti la commissione (sei su dieci) potrebbe essere lasciata per le funzioni consultive della Commissione medesima.
L’art. 200, comma 8, potrebbe, allora, essere così riformulato: “Le sedute della Commissione in sede consultiva non sono valide se non sia presente la maggioranza assoluta dei suoi membri aventi voto deliberativo, salvo il disposto del comma 4. Le Sezioni della Commissione, quando decidono sui ricorsi, giudicano con l’intervento di un Presidente e di due membri aventi voto deliberativo, salvo il disposto del comma 4”.
c. In relazione all’art. 200, commi 9 e 11, attualmente l’amministrazione resistente (ufficio brevetti) ha un ruolo di aiuto e collaborazione nei confronti del collegio, ma non è previsto che si costituisca in giudizio come amministrazione resistente e che possa difendersi con l’assistenza di un legale. Tale sistema non è più confacente all’attuale sistema di giustizia amministrativa, che contempla la tutela risarcitoria a fronte di provvedimenti illegittimi della pubblica amministrazione. L’Ufficio brevetti, in caso di accoglimento del ricorso, potrebbe essere esposto a domande risarcitorie, e pertanto ne andrebbe riconosciuta la posizione processuale di parte, e non di collaboratore del giudice, per essere in condizione di espletare una difesa tecnica.
Come già osservato in relazione all’art. 135, va soppresso l’art. 200, comma 9, che attribuisce all’Ufficio brevetti, che è parte processuale, anche il ruolo di componente della Commissione e di consulente della stessa. Si può piuttosto prevedere, nell’art. 200, comma 9, che la Commissione ha facoltà di chiedere all’Ufficio brevetti chiarimenti e documenti: questo, in coerenza con altri riti processuali (p.es. processo davanti al T.a.r.), in cui il giudice può sempre chiedere all’amministrazione chiarimenti e documenti.
d. In considerazione della vigente legislazione sulla durata ragionevole del processo, andrebbero scanditi i tempi del giudizio, anche stabilendo il termine di deposito della sentenza (art. 200, comma 15).
e. Avendo la Corte costituzionale ritenuto che la tutela cautelare fa parte integrante della tutela giurisdizionale, andrebbe disciplinato il procedimento cautelare davanti alla Commissione ricorsi.
Si potrebbe, per evitare una disciplina dettagliata che richiederebbe tempo e riflessione, dettare una norma di rinvio al processo davanti al tribunale amministrativo regionale, nei limiti della compatibilità, per quanto attiene a tutela cautelare e termini di deposito della sentenza.

18. Il Capo IV del codice disciplina l’acquisto ed il mantenimento dei diritti di proprietà industriale e le relative procedure.
In questa parte del provvedimento, che comprende gli articoli da 147 a 193, sono state raccolte le disposizioni, aventi essenzialmente contenuti amministrativi, che dettano la specifica regolamentazione della gestione dei diritti di proprietà industriale.
Il Capo si compone di quattro sezioni: a) la prima (articoli da 147 a 173) regola la presentazione delle domande e delle istanze in generale e disciplina il deposito delle domande di brevetto nazionali, europee ed internazionali, le richieste di registrazione di marchio, quelle per il conseguimento dei certificati complementari per i medicinali e per i prodotti fitosanitari, le istanze per il riconoscimento delle varietà vegetali e le domande per la registrazione delle topografie dei prodotti a semiconduttori. Sono inserite in questa sezione anche le disposizioni sulla rivendicazione di priorità e quelle che regolano l’esame delle domande , il ritiro, la rettifica o l’integrazione delle stesse, i rilievi che l’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi può muovere sui contenuti delle domande nonché le relative procedure in contraddittorio per consentire la partecipazione del richiedente al procedimento di esame della domanda.
La seconda sezione (articoli da 174 a 184) contiene la regolamentazione delle osservazioni sui marchi e delle opposizioni alla registrazione dei marchi.
La terza sezione (articoli da 185 a 190) disciplina le forme di pubblicità dei titoli di proprietà industriale, mentre la quarta ed ultima sezione (articoli da 191 a 193 ) fissa alcune regole generali sul rispetto dei termini, sulla prorogabilità degli stessi e sull’istituto delle reintegrazione.

18.1. Sul complesso delle disposizioni qui richiamate si devono svolgere alcune osservazioni di carattere generale.
In primo luogo si deve osservare che appaiono rispettati i criteri di delega definiti con l’art. 15, primo comma, lett. a) e b) della legge 12 dicembre 2002 n.273, in quanto la materia è stata riordinata in modo organico e coordinato anche con riguardo alla disciplina internazionale e comunitaria intervenuta nel settore considerato.
E’ stata svolta un’opera sostanzialmente ricognitiva delle norme vigenti e di compilazione di un testo che le raccogliesse tutte in modo sistematico, che consente di ritenere che il Codice che viene proposto corrisponda in definitiva alle esigenze di riassetto della disciplina di settore che il legislatore aveva inteso soddisfare con l’attribuzione della delega di cui al richiamato art. 15.
Appare pertanto corretta la tecnica prescelta per la formulazione del testo in esame, tecnica incentrata per larga parte nella riproposizione dei contenuti delle norme vigenti richiamate analiticamente nelle relazione illustrativa e di cui, coerentemente, si propone l’abrogazione con l’entrata in vigore del Codice.
Una seconda considerazione di carattere generale, il cui rilievo critico deve essere valutato alla stregua dei criteri di delega espressi nelle lett. f) e g) della disposizione di delega richiamata, riguarda la carenza o, quantomeno la scarsa presenza, di istituti che, in linea con i criteri stessi prevedano strumenti di semplificazione e di riduzione degli adempimenti amministrativi.
Appaiono, in effetti, inadeguate a fronte dei criteri di delega ampi ed articolati, le poche disposizioni che recano semplificazioni procedurali contenute negli articoli 147 (previsione di un decreto ministeriale che definisca modalità alternative per il deposito delle domande ed istanze), 156 (riduzione dei documenti necessari per la registrazione del marchio), 158 (divisione della domanda di registrazione del marchio in più istanze nel caso che nascano contestazioni solo su una parte della richiesta) e 159 (esame solo formale della istanza di rinnovazione del marchio).
È necessario in proposito rilevare che, in linea con il criterio di cui alla lett. g) dell’art. 15 della legge n. 273/2002, ampi settori della regolamentazione contenuta nel Codice avrebbero potuto trovare una disciplina adeguata con fonti secondarie, come la procedura di opposizione alla registrazione del marchio di impresa, le modalità di pubblicità dei titoli di proprietà industriale, le norme sull’ordinamento dell’Albo professionale contenute nel successivo Capo VI, la disciplina dei diritti dovuti per i servizi resi in materia di proprietà industriale e la definizione delle funzioni dell’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi (CapoVII).
Da altra angolazione il deposito per via telematica della documentazione richiesta ed il pagamento delle tasse e diritti con lo stesso sistema avrebbero indubbiamente caratterizzato il Codice per un maggiore raccordo con il criterio di cui alla lett. f) dell’art. 15 della legge di delega.
Si deve ancora rilevare che in più occasioni il percorso prescelto è stato quello delle legificazione di norme secondarie, come avviene, in particolare, con gli articoli 164, 165 e 170 per quel che concerne il D.M. 22 ottobre 1976 e con gli articoli 202 e seguenti per quel che riguarda il D.M. n. 342/1995.
Se è comprensibile che non sia del tutto agevole semplificare procedimenti amministrativi in buona parte disciplinati da norme comunitarie ed internazionali ed il Consiglio è, quindi, consapevole delle difficoltà incontrate nella formulazione del testo proposto, tuttavia, almeno con riguardo all’ambito dei procedimenti relativi alle registrazioni nazionali ed alle altre materie innanzi indicate, esisteva oggettivamente uno spazio di attuazione dei criteri di cui trattasi.
Infine è necessario ribadire (v. retro, n. 17.2., sub art. 122, comma 3) che dal punto di vista formale la citazione di atti legislativi e normativi, interni, comunitari ed internazionali non sempre è formulata correttamente con la indicazione completa degli estremi dei relativi atti (così per esempio all’art. 149, primo comma ed all’art. 163); analogamente alcuni organismi sono individuati in modo generico (art. 169, quinto comma), il Ministero delle politiche agricole e forestali che nell’art. 165, comma 1, lett. c, si precisa che verrà individuato in seguito come MIPAF viene invece indicato ancora con l’espressione per esteso (art. 170, primo comma, lett. a). E’, quindi, indispensabile una revisione formale del testo secondo canoni di corretta tecnica legislativa.

18.2. Si rassegnano qui di seguito le osservazioni, sia di carattere formale che con riguardo ai contenuti sostanziali, relative ad alcune disposizioni specifiche.
Art. 147, primo comma: l’espressione “all’atto del ricevimento lo attestano”, essendo riferita al deposito delle domande ed istanze di registrazione presso gli uffici, va sostituita con quella “rilasciano l’ attestazione dell’avvenuto deposito”.
Art. 149, primo comma: l’espressione “nelle modalità” è impropria perché le domande di brevetto possono essere depositate “secondo le modalità” dello specifico regolamento di attuazione, e può essere sostituita con la dizione “secondo le modalità”.
Art.163: il mero riferimento alle norme dei regolamenti comunitari citati nella disposizione in esame non appare sufficiente per chiarire la procedura per il conseguimento del certificato complementare. Sarebbe necessario precisare nel Codice l’organo competente all’esame, le modalità seguite per il rilascio del certificato nonché le fasi procedimentali di istruttoria e contraddittorio che sono espressamente previste per gli altri diritti di proprietà industriale contemplati dal Codice medesimo.
Art.169: nel richiamo contenuto nel terzo comma all’art. 161 va espunto il riferimento al quinto comma dello stesso articolo che non esiste.
Art.183: la disposizione prevede che l’esame delle opposizioni presentate alla registrazione dei marchi sia riservato a funzionari appartenenti alla carriera direttiva o dirigenziale dell’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi nominati con atto del Direttore Generale competente nel limite massimo di trenta unità. E’ previsto che i funzionari in parola seguano un corso di formazione organizzato dall’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi e, per l’ipotesi che i funzionari nominati esaminatori siano in numero inadeguato rispetto alle esigenze, che si possa ricorrere ad esperti esterni ovvero a funzionari del Ministero delle Attività Produttive. In relazione alla delicatezza e difficoltà delle decisioni relative al procedimento di opposizione ed alla necessità di disporre di competenze anche tecniche e professionali per effettuare le valutazioni che si possono presentare nel corso del procedimento stesso, si sottopone alla valutazione dell’Amministrazione l’opportunità di specificare i requisiti degli esaminatori esterni ed i criteri perla scelta di essi.
Art. 184: non appare opportuna la disposizione contenuta nella seconda parte dell’articolo in questione che prevede la facoltà di graduare l’entrata in vigore delle norme sul procedimento di opposizione soltanto ad alcune delle classi di prodotti e servizi per i quali possono essere registrati i marchi d’impresa secondo l’Accordo di Nizza in relazione ad esigenze organizzative non meglio precisate e che determinerebbero la sospensione della applicabilità di un istituto fondamentale per la efficace tutela dei marchi registrati .
Art. 192: la previsione della possibilità di riaprire i termini non rispettati con l’iniziativa del richiedente o del titolare del diritto di proprietà industriale che provi entro due mesi dalla scadenza del termine di aver adempiuto a quanto era prescritto non può essere condivisa per una duplice ragione: sia in relazione alla norma generale, contenuta nell’art. 191, secondo cui è consentito prima della scadenza del termine chiedere ed ottenere una proroga del termine, per cui chi ritenga di non poter essere tempestivo e sia diligente può evitare gli effetti negativi della scadenza del termine che non può osservare, sia con riguardo alla impossibilità della proroga di termini alla cui inosservanza è collegato un effetto decadenziale, termini che, per loro natura e funzione, sono improrogabili.

19. Il Capo VI contiene la regolamentazione dell’ordinamento professionale dei consulenti in proprietà industriale e disciplina la facoltà dei soggetti che avanzano domande o istanze all’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi di farsi rappresentare nei relativi procedimenti (artt. 201-222).
L’ordinamento professionale è stato riordinato nel rispetto delle norme in vigore.
Si formulano, in ordine ai singoli articoli, le seguenti osservazioni:
Art. 203: nella previsione dei requisiti di correttezza formaleper l’iscrizione all’Albo occorre uniformarsi alla vigente disciplina dettata per altri Albi professionali, avendo presente, in particolare, la sopravvenuta normativa in materia di buona condotta civile e morale.
Art. 215: la norma definisce i compiti del Consiglio dell’ordine professionale. Il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha chiesto che sia esplicitato nel testo che ai componenti del Consiglio non sia corrisposto alcun compenso nè il rimborso di spese sostenute a qualsiasi titolo (vedi nota del 9 settembre2004 n.83291 dell’Ufficio del coordinamento legislativo). Tale rilievo può essere accolto parzialmente, nel senso di riconoscere unicamente il rimborso delle spese.
Art. 217: fra le attribuzioni del Consiglio dell’Ordine è prevista la facoltà del Ministro delle Attività Produttive di indicare con decreto specifici compiti. La norma, che è innovativa, appare eccessivamente generica e, qualora si intenda conservarla, andrebbe previsto che gli ulteriori compiti individuati dal Ministro abbiano carattere di strumentalità necessaria rispetto a quelli previsti dal Codice.
Art. 220: la disposizione non prevede, nell’ambito del procedimento disciplinare che può condurre alla irrogazione di sanzioni nei confronti di un iscritto all’Albo, una fase di contestazione degli addebiti precedente all’audizione dell’interessato che potrebbe, quindi, non avere notizia dei contenuti dei rilievi mossi nei suoi confronti nel momento in cui viene sentito. La modifica dell’articolo in esame sul punto appare indispensabile.

20. Il Capo VII del Codice (artt. 223-230) contiene la disciplina della gestione dei servizi diretti a garantire un efficace sistema di tutela della proprietà industriale e dei diritti posti a carico degli utenti dei servizi definendo i compiti dell’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi e contemplando una ampia autonomia finanziaria e contabile fondata sulla percezione di diritti per il compimento di ogni attività prevista nel Codice a tutela della proprietà industriale (conseguimento dei titoli di proprietà, concessioni, opposizioni, trascrizioni, rinnovo e mantenimento in vita dei titoli).
L’entità dei diritti è determinata con provvedimento del Ministro per le Attività Produttive di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze.
Le risorse finanziarie dell’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi sono costituite, inoltre, dalle disponibilità iscritte nello stato di previsione della spesa del Ministero delle Attività produttive e da una quota del cinquanta per cento delle tasse annuali per il mantenimento in vita dei titoli brevettuali europei.
In ordine alla disposizione (art. 224) che disegna questo quadro finanziario vi è il parere negativo espresso dal Ministero dell’Economia e delle Finanze nella nota innanzi richiamata, che si fonda su una duplice argomentazione: la mancanza nella legge di delegazione di una norma specifica che autorizzi la riassegnazione dei diritti all’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi e l’assenza di una idonea copertura finanziaria del provvedimento posto che le somme in questione sono acquisite al bilancio dello Stato.
Merita attenzione anche la norma del Codice che definisce i compiti dell’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi (art. 223) che, al terzo comma, lett.e), prevede l’effettuazione da parte dell’Ufficio, a richiesta di privati di servizi a pagamento.
Anche questa disposizione, in astratto, potrebbe rientrare nell’ambito del criterio di delega ora ricordato, che consente la previsione di forme di autonomia finanziaria dell’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi; essa tuttavia, almeno nella formulazione adottata, può apparire incompatibile con la natura delle funzioni svolte dall’Ufficio che assumono anche natura contenziosa, come in materia di opposizione alla registrazione dei marchi, e che non si conciliano con rapporti di tipo negoziale con soggetti privati anche se aventi ad oggetto servizi non istituzionali.
La delicatezza delle funzioni svolte dall’Ufficio postula che la sua posizione di imparzialità ed indipendenza sia rafforzata rispetto a quella propria di tutti gli organi della Pubblica Amministrazione, mentre la previsione in esame rischia di far apparire meno neutrale l’operato dell’Ufficio che potrebbe essere chiamato ad istruire domande o istanze di soggetti con i quali è in rapporti contrattuali.
Peraltro nel Codice emerge la preoccupazione di una non assoluta adeguatezza delle strutture istituzionali per far fronte ai compiti attribuiti (l’art. 184 prevede che per esigenze organizzative possa essere rinviata almeno in parte l’operatività del regime delle opposizioni alla registrazione dei marchi), dal che discende quantomeno la inopportunità di una disposizione che potrebbe distogliere risorse personali ed organizzative dall’adempimento dei compiti istituzionali.

21. Il Capo VIII reca le norme transitorie e le abrogazioni (artt. 231-245).
La disciplina transitoria contiene la mera riproposizione delle norme transitorie presenti in testi normativi abrogati di cui è ritenuto utile mantenere l’efficacia per consentirne l’ulteriore applicazione alle fattispecie che rientrano nella disciplina transitoria dei testi stessi. Le relative disposizioni vanno pertanto condivise.
Nell’art. 245, recante le abrogazioni, essendosi seguito il metodo di indicare per ogni lettera un provvedimento normativo abrogato, occorre correggere le lettere p), u), dd) che indicano come abrogati, rispettivamente, due provvedimenti, tre provvedimenti, tre provvedimenti normativi.

P. Q. M.

l’Adunanza generale del Consiglio di Stato esprime parere favorevole con le esposte osservazioni.

Per estratto dal verbale

Il Segretario delegato
per il Consiglio di Stato
(Paolo Troiano)

Visto:
Il Presidente
(Alberto de Roberto)





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