Avvertenza: lo studio che segue costituisce la riproduzione della parte relativa al contenzioso costituzionale del Terzo Rapporto annuale sullo stato del regionalismo in Italia . Esso riguarda esclusivamente le questioni di legittimità costituzionale ed i conflitti di attribuzione intersoggettivi, sollevati nel corso dell'anno 2004 con riferimento alle disposizioni costituzionali modificate dalla riforma del Titolo V della Costituzione e pendenti alla data della sua pubblicazione (o decisi nel corso del 2005).


SOMMARIO:
1. Profili “quantitativi” del contenzioso.
2. Profili “qualitativi” del contenzioso sulle leggi.
2.1. I ricorsi dello Stato: ordinati per parametro.
2.1.1. Il principio di equiordinazione e di autonomia degli enti costitutivi della Repubblica (art. 114 Cost.).
2.1.2. I vincoli comunitari (art. 117, primo comma, Cost.).
2.1.3. Le competenze legislative esclusive dello Stato (art. 117, secondo comma, Cost.).
2.1.3.1. Politica estera e rapporti internazionali dello Stato; rapporti con l’Unione europea; diritto di asilo e condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea (lett. a)).
2.1.3.2. Immigrazione (lett. b)).
2.1.3.3. Moneta; tutela della concorrenza; sistema tributario e contabile dello Stato (lett. e)).
2.1.3.4. Organi dello Stato (lett. f)).
2.1.3.5. Ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali (lett. g)).
2.1.3.6. Ordine pubblico e sicurezza (lett. h)).
2.1.3.7. Ordinamento civile e penale (lett. l)).
2.1.3.8. Determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (lett. m)).
2.1.3.9. Norme generali sull’istruzione (lett. n)).
2.1.3.10. Organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane (lett. p)).
2.1.3.11. Profilassi internazionale (lett. q)).
2.1.3.12. Pesi e misure; coordinamento informativo, statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale (lett. r)).
2.1.3.13. Tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali (lett. s)).
2.1.4. Le competenze legislative esclusive dello Stato (art. 117, secondo comma, Cost.) ed i principi fondamentali delle materie di legislazione concorrente (art. 117, terzo comma, Cost.).
2.1.4.1. Tutela e sicurezza del lavoro.
2.1.4.2. Istruzione.
2.1.4.3. Professioni.
2.1.4.4. Tutela della salute.
2.1.4.5. Protezione civile.
2.1.4.6. Governo del territorio.
2.1.4.7. Coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario.
2.1.4.8. Valorizzazione dei beni culturali.
2.1.5. La potestà legislativa concorrente ed i principi fondamentali delle materie (art. 117, terzo comma, Cost.).
2.1.5.1. Professioni.
2.1.5.2. Porti.
2.1.5.3. Ordinamento della comunicazione.
2.1.6. La riserva di legge regionale ex art. 117, terzo e quarto comma, Cost.
2.1.7. La riserva di legge statale in materia di procedure per la partecipazione delle Regioni alla fase ascendente del diritto comunitario e discendente del diritto internazionale e comunitario (art. 117, quinto comma, Cost.).
2.1.8. La potestà regolamentare dello Stato (art. 117, sesto comma, Cost.).
2.1.9. L’assetto delle funzioni amministrative (art. 118, primo e secondo comma, Cost.).
2.1.10. La competenza della legge statale a disciplinare forme di intesa e coordinamento nella materia dei beni culturali (art. 118, terzo comma, Cost.).
2.1.11. I limiti dell’autonomia finanziaria delle Regioni (art. 119 Cost.).
2.1.12. Il potere sostitutivo del Governo ed il principio di leale collaborazione (art. 120, secondo comma, Cost.).
2.1.13. I limiti al potere statutario delle Regioni (artt. 121, 122, 123 e 126 Cost.).
2.2. I ricorsi delle Regioni e delle Province autonome: ordinati per oggetto.
2.2.1. Il decreto legge 29 agosto 2003, n. 239 (“Disposizioni urgenti per la sicurezza e lo sviluppo del sistema elettrico nazionale e per il recupero di potenza di energia elettrica. Delega al Governo in materia di rimunerazione della capacità produttiva di energia elettrica e di espropriazione per pubblica utilità”), convertito dalla legge n. 290/2003.
2.2.2. Il decreto legislativo 16 ottobre 2003, n. 288 (“Riordino della disciplina degli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, a norma dell’articolo 42, comma 1, della legge 16 gennaio 2003, n. 3”).
2.2.3. La legge 24 dicembre 2003, n. 350 (legge finanziaria 2004).
2.2.3.1. Art. 2, comma 38.
2.2.3.2. Art. 2, comma 70.
2.2.3.3. Art. 3, comma 32.
2.2.3.4. Art. 3, comma 43.
2.2.3.5. Art. 3, comma 75.
2.2.3.6. Art. 3, commi 76, 77 e 82.
2.2.3.7. Art. 3, comma 92.
2.2.3.8. Art. 3, commi 108-115.
2.2.3.9. Art. 4, commi 1-6.
2.2.3.10. Art. 4, commi 18 e 19.
2.2.3.11. Art. 4, commi 29 e 30.
2.2.3.12. Art. 4, commi 61 e 63.
2.2.3.13. Art. 4, commi 82 e 83.
2.2.3.14. Art. 4, commi 106-111
2.2.3.15. Art. 4, comma 112-115
2.2.3.16. Art. 4, comma 125.
2.2.3.17. Art. 4, comma 157.
2.2.3.18. Art. 4, comma 167.
2.2.3.19. Art. 4, commi 209-211.
2.2.3.20. Art. 4, commi 215-217.
2.2.3.21. Art. 4, comma 246.
2.2.4. Il decreto legge 14 novembre 2003, n. 314 (“Disposizioni urgenti per la raccolta, lo smaltimento e lo stoccaggio, in condizioni di massima sicurezza, dei rifiuti radioattivi”), convertito dalla legge n. 368/2003.
2.2.5. La legge 9 gennaio 2004, n. 4 (“Disposizioni per favorire l’accesso dei soggetti disabili agli strumenti informatici”).
2.2.6. Il decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 28 (“Riforma della disciplina in materia di attività cinematografiche, a norma dell’art. 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137”).
2.2.6.1. Art. 1, comma 4.
2.2.6.2. Art. 3.
2.2.6.3. Art. 4.
2.2.6.4. Art. 8.
2.2.6.5. Artt. 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17 e 19.
2.2.6.6. Art. 22, commi 1 e 5
2.2.7. Il decreto legislativo 19 febbraio 2004, n. 59 (“Definizione delle norme generali relative alla scuola dell’infanzia ed al primo ciclo dell’istruzione, a norma dell’articolo 1 della legge 28 marzo 2003, n. 53”).
2.2.7.1. Art. 7, commi 1, 2, primo periodo, e 4, primo periodo, e art. 10, commi 1, 2, primo periodo, e 4, primo periodo.
2.2.7.2. Art. 7, comma 4, secondo periodo, e art. 10, comma 4, secondo periodo.
2.2.7.3. Art. 7, commi 5, secondo periodo, e 6, e art. 10, comma 5, secondo periodo.
2.2.7.4. Art. 12, comma 1, ultimo periodo, e art. 13, comma 1, secondo periodo.
2.2.7.5. Art. 12, comma 2, e art. 13, comma 3.
2.2.7.6. Art. 15, comma 1, secondo periodo.
2.2.8. La legge 26 maggio 2004, n. 138 (“Conversione, con modificazioni, del decreto legge 29 marzo 2004, n. 81, recante interventi urgenti per fronteggiare situazioni di pericolo per la salute pubblica”).
2.2.9. Il decreto legislativo 29 marzo 2004, n. 99 (“Disposizioni in materia di soggetti e attività, integrità aziendale e semplificazione amministrativa in agricoltura, a norma dell’art. 1, comma 2, lettere d), f), g), l), ee) della legge 7 marzo 2003, n. 38”).
2.2.9.1. Artt. 13, comma 4.
2.2.9.2. Artt. 14, comma 6.
2.2.9.3. Artt. 17, comma 1.
2.2.9.4. Art. 18, comma 2 e 4.
2.2.10. Il decreto legislativo 1° aprile 2004, n. 111 (“Norme di attuazione dello statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia concernenti il trasferimento di funzioni in materia di viabilità e trasporti”).
2.2.11. Il decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124 (“Razionalizzazione delle funzioni ispettive in materia di previdenza sociale e di lavoro, a norma dell’articolo 8, della legge 14 febbraio 2003, n. 30”).
2.2.11.1. Art. 1, comma 1, primo periodo, e art. 6, comma 1.
2.2.11.2. Art. 6, comma 3, primo periodo.
2.2.11.3. Art. 2, art. 3, commi da 1 a 4, art. 4, art. 5, commi da 1 a 3, e art. 7.
2.2.11.4. Art. 8.
2.2.11.5. Art. 10, commi 1, ultimo periodo, 3 e 4.
2.2.11.6. Art. 11, commi 1, 4, secondo periodo, 5 e 6, art. 12, commi 1, 2, primo periodo, 3 e 4, art. 14, comma 2, primo periodo, art. 15, comma 1, primo periodo, art. 16, commi 1 e 2, art. 17, commi 1 e 2, e art. 18.
2.2.12. Il decreto legge 28 maggio 2004, n. 136 (“Disposizioni urgenti per garantire la funzionalità di taluni settori della pubblica amministrazione”), convertito dalla legge n. 186/2004.
2.2.13. I decreti legislativi 26 maggio 2004 n. 153 (“Attuazione della legge 7 marzo 2003, n. 38 in materia di pesca marittima”) e 154 (“Modernizzazione del settore della pesca e dell’acquacoltura, a norma dell’art. 1, comma 2, della legge 7 marzo 2003, n. 38”).
2.2.14. Il decreto legge 12 luglio 2004, n. 168 (“Interventi urgenti per il contenimento della spesa pubblica”), convertito dalla legge n. 191/2004.
2.2.14.1. Art. 1, comma 4.
2.2.14.2. Art. 1, commi 5, 9, 10 e 11.
2.2.14.3. Art. 3, comma 1.
2.2.15. La legge 23 agosto 2004, n. 239 (“Riordino del settore energetico, nonché delega al Governo per il riassetto delle disposizioni vigenti in materia di energia”).
2.2.15.1. Art. 1, commi 2, lett. c), 4, lett. f), 56, 57, 58 e 84
2.2.15.2. Art. 1, comma 4, lett. c).
2.2.15.3. Art. 1, commi 7, lett. g), h) e i), 8, lett. a), punti 3 e 7, lett. b), punto 3, 24, lett. a), 33 e 77-83.
2.2.15.4. Art. 1, comma 26.
2.2.15.5. Art. 1, comma 121.
2.2.16. Il decreto legislativo 6 ottobre 2004, n. 251 (“Disposizioni correttive del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, in materia di occupazione e mercato del lavoro”).
3. Profili “qualitativi” del contenzioso per i conflitti di attribuzione.
3.1. I ricorsi dello Stato. – 3.2. I ricorsi delle Regioni e delle Province autonome: ordinati per parametro.
3.2.1. L’art. 117 Cost.
3.2.2. Gli artt. 117 e 118 Cost.
3.2.3. Gli artt. 117 e 119 Cost.
3.2.4. Gli artt. 117 e 120 Cost.
3.2.5. Gli artt. 114, 117 e 118 Cost.
3.2.6. Gli artt. 114, 117, 118 e 119 Cost.
3.2.7. Gli artt. 114, 117, 118 e 120 Cost.
3.2.8. Gli artt. 114, 117, 118, 119 e 120 Cost.
NOTE
Tabelle allegate



1. Profili “quantitativi” del contenzioso

Come già nel primo e nel secondo rapporto annuale sullo stato del regionalismo in Italia (1), questa parte è dedicata all’analisi dell’andamento e dei contenuti del contenzioso tra Stato e Regioni prodotto dalle innovazioni normative dovute alla riforma del Titolo V (2). Pertanto, essa esamina gli atti introduttivi dei giudizi innanzi alla Corte costituzionale (ricorsi per questione di legittimità costituzionale e per conflitto di attribuzione) promossi dallo Stato, dalle Regioni e dalle Province autonome, che hanno assunto la violazione delle nuove norme costituzionali. Peraltro, a differenza di quanto avvenuto nei precedenti rapporti, considerata la quantità (e la complessità) delle questioni sollevate in via principale, si è ritenuto opportuno limitare l’analisi a queste ultime (“contenzioso costituzionale in senso stretto”) prescindendo da quelle sollevate in via incidentale.
Cominciando dal profilo “quantitativo” del contenzioso, va rilevato che il numero totale dei ricorsi in via principale depositati nell’anno 2004 è stato di 116, di cui 108 (più del 93%) fondati (tra le altre) sulle nuove disposizioni costituzionali. 62 di questi ricorsi (più del 57%) sono stati proposti dallo Stato, mentre i rimanenti 46 (quasi il 43%) dalle Regioni o dalle Province autonome.
Il numero totale dei ricorsi per conflitto di attribuzione depositati nel medesimo anno, invece, è stato di 33, di cui 17 riguardanti conflitti interorganici e 16 conflitti intersoggettivi, 14 dei quali (più dell’87% ) sono fondati (anche) sui nuovi parametri costituzionali (3). La larghissima maggioranza di questi ultimi (12, quasi l’86%), sono stati proposti dalle Regioni o dalle Province autonome, mentre soltanto due dallo Stato (poco più del 14%).
I dati del 2004 possono essere confrontati con quelli dell’anno precedente. Nel corso del 2003, infatti, sono stati depositati 98 ricorsi per questione di legittimità costituzionale (18 in meno rispetto all’anno successivo), 90 dei quali (quasi il 92%) fondati (tra le altre) sulle disposizioni del Titolo V post riforma. 36 di tali ricorsi (il 40%) sono stati proposti dallo Stato, 54 (il 60%) dalle Regioni e dalle Province autonome.
Nello stesso anno di riferimento sono stati depositati nel complesso 37 ricorsi per conflitto di attribuzione (quattro in più rispetto all’anno successivo), di cui 22 per conflitti interorganici e 15 per conflitti intersoggettivi, 12 dei quali (l’80%) fondati sulle disposizioni del “nuovo” Titolo V. 11 di tali ricorsi (più del 91%) sono stati proposti dalle Regioni e dalle Province autonome, mentre soltanto uno (più dell’8%) dallo Stato.
In sintesi, il terzo anno di vigenza della riforma del Titolo V, anzitutto, ha determinato, rispetto all’anno precedente, un ulteriore (e consistente) incremento del numero totale dei ricorsi in via principale (pari quasi al 16%), posto che v’è stato un analogo aumento di quelli fondati sui nuovi disposti costituzionali, ed il rovesciamento del rapporto Stato-Regioni (e Province autonome) nell’uso di tale strumento di sindacato di costituzionalità: all’incirca, da 2/3 nel 2003 a 5/4 nel 2004 (4). In secondo luogo, a fronte di una (leggera) diminuzione del totale dei ricorsi per conflitto di attribuzione, nel 2004 vi è stato un aumento percentuale (più del 7%) dei ricorsi per conflitti intersoggettivi fondati sul nuovo Titolo V, i quali hanno continuato a ripartirsi tra Stato e Regioni in un rapporto “sbilanciato” a favore delle seconde (all’incirca, 1/11 nel 2003, 1/6 nel 2004) (5).



2. Profili “qualitativi” del contenzioso sulle leggi

2.1. I ricorsi dello Stato: ordinati per parametro

Posto che nel momento in cui si scrive (6) 24 dei 108 ricorsi in via principale fondati sulle nuove disposizioni costituzionali sono stati definiti dalla Corte costituzionale nel corso del 2004 (per i quali si rinvia alla parte di tale rapporto dedicata alla giurisprudenza costituzionale (7), la nostra attenzione cade sui 35 ricorsi decisi nel corso del 2005 e sui 49 ancora pendenti, di cui 52 sono stati proposti dallo Stato e 32 dalle Regioni o Province autonome.
I 52 ricorsi dello Stato possono essere ordinati in tredici gruppi, tenendo conto del diverso parametro costituzionale (prevalentemente) invocato dallo Stato per denunciare l’illegittimità costituzionale di una legge regionale o provinciale (8).


2.1.1. Il principio di equiordinazione e di autonomia degli enti costitutivi della Repubblica (art. 114 Cost.)

Il primo gruppo di ricorsi dello Stato comprende quelli che hanno invocato l’art. 114 Cost., deducendo il principio di equiordinazione tra Stato, Regioni ed enti locali (primo comma) e quello di autonomia dei Comuni, delle Province, delle Città metropolitane e delle Regioni (secondo comma). In particolare, il ricorso n. 48 (9) ha impugnato l’art. 1 della legge della Regione Abruzzo n. 4/2004 (intitolata “Controllo sostitutivo sugli atti degli enti locali e degli enti dipendenti dalla Regione”), poiché esso attribuisce la potestà di controllo sostitutivo su tutti gli atti obbligatori degli enti locali ad una autorità, il Difensore civico regionale, il quale, in quanto (tendenzialmente) indipendente dall’esecutivo regionale, non rivestirebbe quella natura di organo di governo che, secondo l’insegnamento della Corte costituzionale, deve caratterizzare gli enti titolari di poteri sostitutivi, capaci di incidere sull’autonomia (costituzionalmente garantita) dell’ente sostituito (10). E la Consulta, anche nel caso de quo, ha confermato il proprio orientamento, dichiarando con la sentenza n. 167 del 2005 l’illegittimità costituzionale della norma abruzzese proprio per l’impossibilità di qualificare il Difensore civico regionale quale organo di governo regionale legittimato all’esercizio di poteri che incidono sull’autonomia costituzionale di enti politicamente rappresentativi.
Analogamente, il ricorso n. 56 (11) ha sollevato la questione di legittimità costituzionale, per violazione dell’art. 114, dell’intera legge della Regione Emilia-Romagna n. 5/2004 (contenente “Norme per l’integrazione sociale dei cittadini stranieri immigrati […]”), e, in particolare, dell’art. 3, comma 5, della medesima, poiché esso, prevedendo che la Regione eserciti i poteri sostitutivi nei confronti degli enti locali inadempienti secondo le modalità previste dalla disciplina regionale vigente, non determinerebbe in alcun modo il tipo di potere sostitutivo attribuito alla Regione. Nella sentenza n. 300 del 2005 la Corte costituzionale ha ritenuto infondata tale questione, poiché l’inadempimento da parte degli enti locali è da intendersi come chiaramente riferito alle attività di cui agli artt. 4 e 5 della legge censurata, che disciplinano le funzioni delle Province e dei Comuni nella materia de qua (12).
Il ricorso n. 77 (13) ha invocato l’art. 114 per censurare l’art. 6 della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia n. 21/2004 (recante “Riordinamento normativo dell’anno 2004 per i settori della protezione civile, ambiente, lavori pubblici, pianificazione territoriale, trasporti ed energia”), ai sensi del quale la Regione provvede agli interventi di bonifica dei siti inquinati di Trieste e della laguna di Marano e Grado mediante “delegazione amministrativa”, rispettivamente, all’Ente Zona Industriale di Trieste ed al Consorzio di Sviluppo Industriale nella zona Aussa-Corno. Secondo la difesa erariale, infatti, l’uso dello strumento della delegazione amministrativa intersoggettiva interferirebbe sulle competenze comunali e provinciali in materia di bonifica dei siti inquinati e sulla costante adeguabilità degli interventi e delle relative modalità attuative, in violazione dell’art. 114 (e dell’art. 118, primo e secondo comma) Cost., dal momento che il soggetto individuato dalla Regione vanterebbe nei confronti degli altri soggetti istituzionali che concorrono all’attività di bonifica, di “una inammissibile posizione di garanzia e/o di inamovibilità derivante dall’esistenza di una legge regionale”.
All’art. 114 ha fatto riferimento anche il ricorso n. 104 (14), con cui il Commissario dello Stato per la Regione siciliana ha impugnato, tra gli altri, l’art. 25 del disegno di legge della Regione siciliana n. 917 (dal titolo “Misure finanziarie urgenti. Assestamento del bilancio della Regione e del bilancio dell’Azienda delle foreste demaniali della Regione siciliana per l’anno finanziario 2004. Nuova decorrenza di termini per la richiesta di referendum”), approvato dall’Assemblea regionale il 21-22 ottobre 2004, ai sensi del quale un’apposita conferenza di servizi, composta dagli assessori regionali competenti e dal sindaco del Comune interessato, può deliberare la realizzazione delle opere previste e finanziate dal Patto territoriale delle Isole Eolie anche in deroga al Piano territoriale paesistico ed alle norme urbanistiche vigenti. Secondo il Commissario per lo Stato, infatti, tale disposizione consentirebbe la deroga allo strumento urbanistico vigente privando ope legis il Consiglio comunale del potere di esprimersi sulla variante al Piano regolatore generale. Peraltro, sul ricorso in parola la Corte costituzionale si è espressa con l’ordinanza n. 103 del 2005, che ha dichiarato cessata la materia del contendere posto che, dopo la proposizione del medesimo, la delibera legislativa censurata è stata promulgata con l’omissione delle parti impugnate (15).
Ancora, l’art. 114 è stato invocato dal ricorso n. 105 (16), che ha sollevato la questione di costituzionalità, tra gli altri, dell’art. 64 dello Statuto della Regione Liguria (approvato in prima deliberazione il 27 luglio 2004 e in seconda deliberazione il 28 settembre 2004), il quale prevedeva che “la Regione può istituire e disciplinare enti locali non previsti direttamente dall’art. 114 della Costituzione”, laddove quest’ultimo definisce tassativamente le articolazioni territoriali di autonomia che compongono la Repubblica. Peraltro, il processo costituzionale originato dal ricorso in parola è stato dichiarato estinto dalla Corte costituzionale con l’ordinanza n. 353 del 2005, poiché il Governo, in seguito alla riapprovazione dello Statuto (in prima lettura il 23 novembre 2004 e in seconda lettura il 28 gennaio 2005) in adeguamento alle censure formulate, ha rinunciato al ricorso.
L’ultimo ricorso che ha fatto riferimento all’art. 114 è stato il n. 116 (17), con cui il Commissario dello Stato per la regione siciliana ha impugnato, tra gli altri, l’art. 11, comma 1, del disegno di legge n. 924 (recante “Disposizioni programmatiche e finanziarie per l’anno 2005”), approvato dall’Assemblea regionale il 17 dicembre 2004, ai sensi del quale spetta all’assemblea dei soci delle società di ambito per la gestione integrata dei rifiuti determinare la tariffa del servizio di gestione del ciclo dei rifiuti urbani. Tale disposizione, secondo il ricorso del Commissario dello Stato, costituirebbe una indebita compressione dell’autonomia e del potere di auto-organizzazione degli enti locali, posto che l’art. 49, comma 8, del d.lgs. n. 22/1997 assegna la competenza a determinare le tariffe del servizio in questione agli enti locali e, dunque, ai relativi Consigli, quali organi rappresentativi dell’intera collettività locale. Anche il ricorso in parola è stato definito con un’ordinanza della Corte costituzionale di cessazione della materia del contendere, poiché successivamente all’impugnazione la predetta delibera legislativa è stata promulgata con l’omissione di tutte le disposizioni oggetto di censura (18).

2.1.2. I vincoli comunitari (art. 117, primo comma, Cost.)

Un secondo gruppo di ricorsi ha invocato il primo comma dell’art. 117 Cost., ai sensi del quale la potestà legislativa regionale (così come quella statale) deve essere esercitata nel rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario. In particolare, due ricorsi analoghi, i nn. 7 (19) e 19 (20), hanno sollevato la questione di legittimità costituzionale di due leggi regionali che hanno dichiarato denuclearizzati i territori della Basilicata e della Calabria (leggi n., rispettivamente, 31/2003 e 26/2003), deducendo la violazione dei vincoli comunitari (21). Secondo la difesa erariale, infatti, le norme regionali, precludendo in via generale il transito e la presenza nel territorio regionale di materiale nucleare non prodotto nel territorio regionale, in primo luogo, violerebbero il d.lgs. n. 230/1995 (“Attuazione delle direttive 89/618/Euratom, 90/641/Euratom, 92/3/Euratom e 96/29/ Euratom in materia di radiazioni ionizzanti”), che, attuando la normativa comunitaria, pone una disciplina completa di tutta la materia, incluso il trasporto, la spedizione, l’importazione e l’esportazione di materiali radioattivi, rivolta al contemperamento degli interessi del mercato con la tutela dell’ambiente e della salute. In secondo luogo, esse violerebbero anche l’art. 23 del Trattato CE, poiché, costituendo i rifiuti nucleari merce ai sensi della medesima disposizione, anche per essi varrebbe il principio della libera circolazione, che comporta il divieto di qualsiasi restrizione quantitativa (art. 28 Trattato CE). Peraltro, con la sentenza n. 62 del 2005 la Corte costituzionale ha deciso i ricorsi in questione in senso favorevole al Governo, ma, come vedremo più avanti, ha ritenuto prevalente (ed assorbente) un’altra violazione della Costituzione prospettata dalla difesa erariale (quella della competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema di cui all’art. 117, secondo comma, lett. s), Cost.).
Con il ricorso n. 16 (22) il Governo ha eccepito la violazione dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario da parte dell’art. 2, commi 2 e 3, della legge della Regione Abruzzo n. 17/2003 (dedicata all’“Istituzione del registro regionale degli amministratori di condominio”) che, stabilendo i requisiti per l’iscrizione al registro regionale degli amministratori di condominio, la cui carenza comporta il divieto di esercizio di tale attività, lederebbe i principi comunitari sulla libera circolazione del lavoro e delle imprese di cui agli artt. 3, comma 1, lett. c), 49 e 57 del Trattato CE, determinando a carico dei cittadini comunitari una sostanziale limitazione, nell’ambito del territorio della Regione Abruzzo, nell’esercizio di un’attività di prestazione di servizi esente da vincoli di carattere generale.
Altri due ricorsi analoghi, i nn. 21 (23) e 54 (24), sono fondati sul primo comma dell’art. 117 Cost. Si tratta di atti che hanno ad oggetto norme regionali riguardanti gli organismi geneticamente modificati (OGM): rispettivamente, l’art. 2 della legge della Regione Puglia n. 26/2003 e gli artt. 1, 2, 3 e 7 della legge della Regione Marche n. 5/2004. Secondo il Governo, infatti, posto che il primo dispone un divieto generalizzato di coltivazione di piante e di allevamento di animali geneticamente modificati o di ogni altro tipo di OGM e gli altri un divieto generalizzato di coltivazione e consumo, nonché l’esclusione da qualsiasi incentivazione di ogni tipo di organismo geneticamente modificato, entrambe le leggi regionali si porrebbero in contrasto, in primo luogo, con l’art. 22 della direttiva 2001/18/CE (“Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sull’emissione deliberata nell’ambiente di organismi geneticamente modificati”), che, stabilendo il principio della libera circolazione, dispone che gli Stati membri non possono vietare, limitare o impedire l’immissione in commercio di OGM, come tali o contenuti in prodotti, conformi ai requisiti della direttiva stessa. Inoltre, il predetto “divieto generalizzato” determinerebbe la violazione delle disposizioni di cui all’art. 23 della predetta direttiva 2001/18/CE e all’art. 25 del decreto legislativo n. 224 del 2003, di attuazione della medesima direttiva; secondo la difesa erariale, infatti, tali disposizioni conterrebbero “una clausola di salvaguardia”, in base alla quale solo le previste autorità competenti (il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio d’intesa con i Ministeri della salute, del lavoro, delle politiche agricole, delle attività produttive, nonché dell’istruzione, dell’università e della ricerca) potrebbero bloccare, ricorrendone gli specifici presupposti e con le modalità previste, la circolazione di un prodotto contenente OGM ritenuto pericoloso, avviando una serie di consultazioni al termine delle quali la Commissione UE dovrebbe decidere sulla fondatezza delle misure unilaterali di salvaguardia, ripristinando un eguale livello di protezione all’interno della Comunità, ovvero invitando lo Stato che le abbia adottate ad abrogarle e a ripristinare la libera circolazione del prodotto sul proprio territorio.
Anche i ricorsi in questione sono già stati definiti dalla Corte costituzionale che, nella sentenza n. 150 del 2005, ha dichiarato inammissibili le questioni sollevate per l’erronea indicazione delle norme interposte (25): gli artt. 22 e 23 della direttiva 2001/18/CE e l’art. 25 del d.lgs. n. 224 del 2003, infatti, si riferiscono esclusivamente all’immissione in commercio di alimenti contenenti OGM, mentre le disposizioni regionali impugnate riguardano il diverso profilo della coltivazione di prodotti agricoli o dell’allevamento di animali geneticamente modificati.
Il ricorso n. 58 (26) ha censurato gli artt. 1 e 2 della legge della Regione Abruzzo n. 14/2004 (recante “Disposizioni urgenti in materia di zootecnia”) che, sospendendo la campagna di profilassi dell’influenza catarrale degli ovini (c.d. “blu tongue”) e consentendo la movimentazione, commercializzazione e macellazione degli animali non vaccinati nel territorio regionale fino al 21 dicembre 2004, interromperebbero e modificherebbero le procedure fissate dalla direttiva 2000/75/CE in materia senza il consenso della Commissione europea.
Con il ricorso n. 62 (27) il Governo ha impugnato, tra gli altri, l’art. 38 della legge della Provincia autonoma di Bolzano n. 1/2004 (“Disposizioni per la formazione del bilancio di previsione per l’anno finanziario 2004 e per il triennio 2004-2006 e norme legislative collegate – legge finanziaria 2004”), il quale consente che i sottoprodotti animali non idonei al consumo umano possano “essere trasportati dall’imprenditore agricolo senza ulteriori oneri autorizzativi alla più vicina struttura autorizzata ai fini dello smaltimento”. Secondo la difesa erariale, tale disposizione si porrebbe in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost. poiché violerebbe i vincoli comunitari derivanti dal regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio dell’Unione del 3 ottobre 2002, n. 1774, che all’art. 7 ha disciplinato la raccolta, il trasporto e il magazzinaggio di tali sottoprodotti e all’art. 9 ha posto l’obbligo per i mittenti, i vettori ed i destinatari di tenere un apposito registro. La Corte costituzionale, nella sentenza n. 304 del 2005, ha dichiarato la questione inammissibile, posto che il ricorrente non ha in alcun modo argomentato per quale ragione dovesse essere preso in considerazione l’art. 117 Cost., anziché lo statuto speciale della Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol.
Il ricorso n. 95 (28) ha sollevato la questione di costituzionalità, per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. dell’art. 37, commi 2 e 3, e dell’art. 49 della legge della Regione Toscana n. 38/2004 (intitolata “Norme per la disciplina della ricerca, coltivazione ed utilizzazione delle acque minerali, di sorgente e termali”), poiché, disciplinando i contenitori delle acque, utilizzerebbe una terminologia differente da quella della disciplina comunitaria in materia di imballaggi preconfezionati (direttive del Consiglio n. 75/106/CEE e 75/107/CEE) e delle norme statali di attuazione della stessa (Titolo I e II del decreto legge 3 luglio 1976, n. 451, convertito nella legge 19 agosto 1976, n. 614). In particolare, le disposizioni regionali fanno riferimento alla “capacità nominale” del contenitore, “definita alla temperatura di 20 gradi centigradi”, mentre nella disciplina statale di derivazione comunitaria si usa il termine “volume” (“nominale” ed “effettivo”) ed il riferimento alla temperatura (di 20 gradi centigradi) riguarda il volume effettivo e non quello nominale.
Ancora, il ricorso n. 100 (29) ha invocato l’art. 117, primo comma, Cost. per censurare l’art. 7, comma 4, lett. d), della legge della Regione Abruzzo n. 23/2004, recante “Norme sui servizi pubblici locali a rilevanza economica”, che fa divieto alle società a capitale interamente pubblico, affidatarie dirette del servizio pubblico, di conferire incarichi professionali, di collaborazione e di qualsiasi altro genere, in favore di persone e/o società legate da rapporti di dipendenza e/o di collaborazione con l’ente o gli enti titolari del capitale sociale, come tali obbligati ad esercitare sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi. Secondo la difesa erariale, tale disposizione, in quanto intenda ricondurre alla trasgressione del divieto la nullità dell’atto costitutivo del rapporto vietato, configurerebbe delle incompatibilità nell’esercizio della professione che possono porsi i contrasto con i principi della libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi di cui agli artt. 52, 58 e 59-66, del Trattato CE.
Infine, è fondato sul primo comma dell’art. 117 Cost. il ricorso n. 102 (30), con cui il Governo ha impugnato, tra gli altri, l’art. 2, comma 1, lett. f), della legge della Regione Abruzzo n. 22/2004 (contenente “Nuove disposizioni in materia di politiche di sostegno alla economia ittica”), che prevede la promozione di certificazioni di qualità del prodotto ittico catturato dalla marineria abruzzese o allevato in impianti di acquicoltura e maricoltura dislocati nel territorio regionale o nel mare antistante la Regione Abruzzo. Secondo l’Avvocatura dello Stato, tale disposizione, attuando un’autonoma protezione della produzione agroalimentare locale con l’istituzione di un marchio regionale, non sarebbe in linea con il regolamento comunitario n. 2081/1992 e sarebbe comunque incompatibile con l’art. 28 del Trattato CE, che vieta l’introduzione di qualsiasi misura pubblica che possa ostacolare l’importazione da altri paesi comunitari.


2.1.3. Le competenze legislative esclusive dello Stato (art. 117, secondo comma, Cost.)

2.1.3.1. Politica estera e rapporti internazionali dello Stato; rapporti con l’Unione europea; diritto di asilo e condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea (lett. a))

Un terzo gruppo di ricorsi verte essenzialmente sulla difesa da parte della Stato delle competenze legislative esclusive attribuitegli dall’art. 117, secondo comma, Cost. In particolare, hanno fatto riferimento alla competenza in materia di “politica estera” (lett. a) dell’art. 117, secondo comma), anzitutto, i ricorsi n. 22 (31) e 111 (32), con cui il Governo ha impugnato due disposizioni analoghe contenute, rispettivamente, nell’art. 10, comma 2, della legge della Regione Emilia-Romagna n. 26/2003 (recante “Disposizioni in materia di pericoli di incidenti rilevanti connessi con determinate sostanze pericolose”) e nell’art. 6, comma 3, della legge della Regione Marche n. 18/2004 (intitolata “Norme relative al controllo del pericolo di incidenti rilevanti. Decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 334 sul rischio industriale – attuazione della direttiva 96/82/CE”). Tali norme, attribuendo alle Province il compito di definire, nell’ambito dei piani di emergenza esterna, le disposizioni per garantire l’informazione dei servizi di emergenza di altri Stati in caso di incidenti che possono avere conseguenze al di là delle frontiere, sarebbero incompatibili con la normativa statale di riferimento, che individua nel Prefetto l’organo all’uopo competente (art. 20 del d.lgs. n. 334/1999). Peraltro, nella sentenza n. 214 del 2005, riguardante il ricorso n. 22, la Corte costituzionale ha già dichiarato infondata la questione de qua, poiché l’art. 20, ultimo comma, del d.lgs. n. 334 del 1999 pone come limite della sua vigenza l’attuazione dell’art. 72 del d.lgs. n. 112 del 1998, il quale conferisce alla Regione le competenze amministrative in materia, fra l’altro, di adozione di provvedimenti in tema di controllo dei pericoli da incidenti rilevanti. Pertanto, “l’attribuzione alla Provincia, da parte della Regione, (…) di una competenza amministrativa ad essa conferita dall’art. 72 d.lgs. n. 112 del 1998, non solo non viola la potestà legislativa dello Stato (…), ma costituisce applicazione di quanto alla Regione consente la stessa legge statale (…)” (33).
Ha invocato la competenza esclusiva dello Stato in materia di politica estera anche il ricorso n. 85 (34), con cui il Governo ha impugnato, tra gli altri, l’art. 4, comma 1, della legge della Provincia autonoma di Trento n. 6/2004 (recante “Disposizioni in materia di organizzazione, di personale e di servizi pubblici”) che, prevedendo la possibilità di destinare personale provinciale, anche con qualifica dirigenziale, a prestare temporaneamente servizio presso la Rappresentanza italiana presso l’Unione europea o altri organismi comunitari e sopranazionali, disponendone il distacco, lederebbe la predetta competenza esclusiva dello Stato. In effetti, la normativa statale di riferimento prevede che la figura dell’esperto provinciale o regionale sia reperita tra i funzionari e non tra i dirigenti, disponendone il collocamento fuori ruolo e non il distacco, e che la designazione avvenga ad opera della Conferenza dei Presidenti delle Regioni e Province autonome e la nomina da parte del Ministro degli affari esteri (artt. 168 d.P.R. n. 18/1967 e 58 l. n. 52/1996).
Analogamente, con il ricorso n. 101 (35) il Governo ha impugnato l’art. 2, comma 1, lett. c) e d), della legge della Regione Umbria n. 18/2004, recante “Interventi di assistenza sanitaria in favore di Paesi extracomunitari in gravi difficoltà assistenziali e sanitarie”. Secondo la difesa erariale, infatti, le predette disposizioni, prevedendo interventi sanitari in Paesi extracomunitari mediante la valorizzazione delle risorse umane disponibili sull’area dell’intervento e l’invio nei Paesi oggetto dell’intervento di attrezzature medico chirurgiche non utilizzate, rientrerebbero nella materia della politica estera sub specie “cooperazione allo sviluppo”.
Con il ricorso n. 72 (36) il Governo ha sollevato la questione di legittimità costituzionale della legge della Regione Marche n. 51/2004, contenente “Norme in materia di pesca marittima ed acquacoltura”. Secondo la difesa erariale, infatti, l’art. 4, comma 1, lett. a), della medesima, prevedendo che il piano regionale della pesca contenga interventi volti alla salvaguardia delle risorse ittiche della Regione, qualificherebbe tali risorse biologiche come regionali, impedendone una disciplina di tutela e conservazione uniforme, nel rispetto degli accordi e dei trattati internazionali in materia (quali, l’UN Convention on the law of the sea del 1982 e l’UN Fish stocks agreement del 1995). Per tale via la norma regionale in parola lederebbe la competenza esclusiva dello Stato in materia di “rapporti internazionali”. Il medesimo ricorso ha impugnato anche l’art. 4, comma 2, lett. a), della legge marchigiana, che, attribuendo alla regolamentazione regionale attuativa il compito di disciplinare distretti di pesca per l’attività di pesca produzione mediante regole obbligatorie per tutti gli operatori del settore, opererebbe una regionalizzazione della flotta di pesca contraria ai principi unitari che regolano la pesca nazionale, per i quali essa può essere esercitata nelle acque nazionali e, nei casi previsti, in acque internazionali o, secondo accordi bilaterali, in acque di altre nazioni. In tale prospettiva la disposizione regionale violerebbe la competenza esclusiva dello Stato in tema di rapporti internazionali e con l’Unione europea, in relazione ai regolamenti CE in materia (nn. 3690/1993 e 2371/2002).
Analogamente, il (già menzionato) ricorso n. 102 ha eccepito l’illegittimità costituzionale, per violazione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di rapporti internazionali, anche dell’art. 2, comma 1, lett. g), della legge della Regione Abruzzo in materia di politiche di sostegno all’economia ittica (l.r. n. 22/2004) che, prevedendo tra le finalità da perseguire tramite l’istituendo Fondo quelle di conservazione ed incremento delle risorse ittiche, la predisposizione di piani di gestione di aree di riserva, nonché il monitoraggio di specie ittiche e dell’ambiente marino, fornirebbe una connotazione regionale a risorse biologiche, quali quelle ittiche, che invece necessiterebbero di una disciplina di tutela e conservazione uniforme, nel rispetto degli accordi e dei trattati internazionali in materia (ancora una volta, l’UN Convention on the law of the sea del 1982 e l’UN Fish stocks agreement del 1995).
Due ricorsi, i nn. 114 e 115 (37), hanno impugnato leggi regionali in materia di condono edilizio, invocando la competenza legislativa esclusiva dello Stato per i rapporti con l’Unione europea, in particolare per quanto concerne il rispetto dei vincoli di finanza pubblica imposti dall’ordinamento comunitario. Il riferimento è alla legge della Regione Emilia-Romagna n. 23/2004 (intitolata “Vigilanza e controllo dell’attività edilizia ed applicazione della normativa statale di cui all’art. 32 del d.l. 30 settembre 2003, n. 326”) e alla legge della Regione Toscana n. 53/2004 (contenente “Norme in materia di sanatoria edilizia straordinaria”), censurate dal Governo nelle parti in cui esse, comprimendo eccessivamente la possibilità di accedere al condono, lederebbero le potestà legislative statali connesse al governo della finanza pubblica: a titolo esemplificativo, si pensi all’art. 33, comma 1, della legge emiliana, che vieta la sanatoria per i nuovi manufatti edilizi realizzati in contrasto con la legislazione urbanistica o con le prescrizioni degli strumenti urbanistici vigenti al 31 marzo 2003, o all’art. 2, comma 1, della legge toscana, che vieta la sanatoria per le nuove costruzioni residenziali e per gli altri interventi ed opere (comprese le ristrutturazioni) realizzati in assenza di concessione edilizia, laddove la normativa statale ha ammesso la sanabilità di tutte le nuove costruzioni residenziali non superiori a limiti volumetrici espressamente indicati (art. 32 del d.l. n. 326/2003 cit.).
Infine, il (già citato) ricorso n. 56 ha sollevato la questione di legittimità della legge della Regione Emilia-Romagna n. 5/2004 anche con riferimento alla lett. a) dell’art. 117, secondo comma, Cost., posto che sia gli artt. 6 e 7 della legge, che riconoscono forme di partecipazione dei cittadini stranieri immigrati all’attività politico-amministrativa della Regione, quali componenti della Consulta regionale, sia l’art. 10 della medesima, che consente ai cittadini immigrati di accedere all’edilizia residenziale pubblica ed ai benefici per la prima casa, incidono sulla materia della “condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea”. Peraltro, la sentenza n. 300 del 2005 ha dichiarato infondate le questioni de quibus, poiché le norme regionali censurate, lungi dall’invadere materie attribuite esclusivamente allo Stato, costituiscono anzi l’attuazione, da parte della Regione Emilia-Romagna, delle disposizioni statali contenute nel decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (“Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione giuridica dello straniero”) che prevedono forme di partecipazione dei cittadini stranieri soggiornanti regolarmente nel Paese alla vita pubblica locale e che riconoscono ai medesimi il diritto di accedere ai benefici previsti dalla normativa in tema di edilizia residenziale pubblica.


2.1.3.2. Immigrazione (lett. b)

Il ricorso n. 56, testé menzionato, ha eccepito l’illegittimità costituzionale della legge emiliana anche con riferimento all’art. 3, comma 4, lett. d), che prevede un’attività di osservazione e monitoraggio, da svolgere “in raccordo con le prefetture”, del funzionamento dei centri c.d. “di accoglienza”, per lesione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di “immigrazione” (lett. b) dell’art. 117, secondo comma, Cost.). Secondo il ricorso, inoltre, tale competenza esclusiva statale influirebbe sull’illegittimità costituzionale del comma 5 della medesima disposizione, cui si è più sopra accennato. Infatti, l’attribuzione alla Regione di un potere sostitutivo nei confronti degli enti locali per l’inadempimento delle funzioni disciplinate dall’art. 3 della legge regionale sarebbe illegittimo, posto che quest’ultimo – come detto – sarebbe invasivo della competenza legislativa statale.
Peraltro, anche tali censure sono state ritenute infondate dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 300 del 2005. Con riferimento alla prima, il giudice delle leggi ha affermato che la disposizione impugnata non contiene alcuna disciplina dei centri di permanenza temporanea che si ponga in contrasto con quella statale che li ha istituiti (art. 14 del d.lgs. n. 286 del 1998), “limitandosi a prevedere la possibilità di attività rientranti nelle competenze regionali, quali l’assistenza in genere e quella sanitaria in particolare, peraltro secondo modalità (in necessario previo accordo con le prefetture) tali da impedire comunque indebite intrusioni” (38). Quanto alla seconda, come già detto, la Corte ha osservato che l’inadempimento da parte degli enti locali è da intendersi come chiaramente riferito alle attività degli artt. 4 e 5 della legge regionale, che disciplinano le funzioni delle Province e dei Comuni nella materia de qua.

2.1.3.3. Moneta; tutela della concorrenza; sistema tributario e contabile dello Stato (lett. e))

I due (già menzionati) ricorsi nn. 114 e 115, aventi ad oggetto le leggi delle Regioni Emilia-Romagna (l.r. n. 23/2004) e Toscana (l.r. n. 53/2004) sul condono edilizio, hanno eccepito anche la lesione delle competenze legislative esclusive dello Stato in materia di “moneta” (intesa quale moneta unica difesa dai parametri di Maastricht) e di “sistema tributario e contabile dello Stato”.
Alla competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di “tutela della concorrenza” ha fatto riferimento il (già menzionato) ricorso n. 95, che ha censurato le disposizioni della legge toscana n. 38/2004 in materia di contenitori di acque minerali, di sorgente e termali anche perché la differente terminologia usata (agli artt. 37, commi 2 e 3, e 49, comma 1, lett. d)) rispetto alla disciplina statale (e comunitaria) di riferimento potrebbe sottrarre qualche operatore economico al dovere di rispettare le regole poste per una corretta competizione e per la protezione dei consumatori, e quindi favorirlo consentendogli ingiusti vantaggi.
La medesima violazione è stata eccepita anche dal (già citato) ricorso n. 100, avente ad oggetto la legge della Regione Abruzzo n. 23/2004 sui servizi pubblici locali a rilevanza economica. In tale ottica, infatti, sono state censurate, anzitutto, le previsioni che vietano alle società a capitale interamente pubblico proprietarie di reti o affidatarie dirette della gestione del servizio (e rispettive collegate e controllate) la partecipazione alle gare per la scelta del soggetto gestore del servizio e per la scelta del socio privato delle società a capitale misto (artt. 4, comma 4, e 7, comma 4, lett. b), l.r. cit.). Esse, infatti, ponendosi in contrasto con la normativa statale, ai sensi della quale il medesimo divieto non sarà operativo sino al 31 dicembre 2006 (art. 113, comma 15-quater, d.lgs. n. 267/2000), determinerebbero una “rottura” dell’unicità del mercato nazionale con riferimento al territorio abruzzese e, dunque, la lesione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di “tutela della concorrenza”.
Analogamente, il ricorso in parola ha impugnato la previsione di un limite minimo (40 per cento del capitale) per la partecipazione azionaria del socio privato, da scegliere con procedura ad evidenza pubblica, della società mista cui può essere conferita la titolarità della gestione del servizio pubblico a rilevanza economica (art. 7, commi 1, lett. b), l.r. cit.). Tale disposizione, infatti, sarebbe suscettibile di alterare il mercato e comunque contrasterebbe con la scelta del legislatore statale di non fissare alcun limite alla partecipazione del socio privato al fine di potersi assicurare anche apporti di non elevato rilievo finanziario da parte di soggetti in possesso della necessaria capacità tecnica.
Anche il ricorso n. 102, più volte citato, ha invocato la lesione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di “tutela della concorrenza”, considerato che la certificazione di qualità del prodotto ittico abruzzese preconizzata dalla legge regionale n. 22/2004 è finalizzata a garantire i consumatori ed alla tutela della concorrenza imprenditoriale.
Con il ricorso n. 55 (39) il Governo ha impugnato l’art. 6 della legge della Regione Lazio n. 2/2004 (“Legge finanziaria regionale per l’esercizio 2004”) che, prevedendo l’esenzione dal pagamento della tassa automobilistica regionale ed il diritto al rimborso in caso di perdita del possesso del veicolo annotata nel pubblico registro automobilistico, lederebbe la potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia di tributi erariali. In effetti, alla stregua di un recente (e già consolidato) orientamento della Corte costituzionale, la predetta tassa non può essere qualificata, allo stato, tributo proprio delle Regioni nel senso fatto proprio dall’art. 119, secondo comma, Cost., bensì un tributo erariale la cui disciplina rientra nella competenza legislativa esclusiva dello Stato di cui alla lett. e) dell’art. 117, secondo comma, Cost., posto che il legislatore statale ha attribuito alle Regioni, oltre al gettito della tassa, l’attività amministrativa connessa alla sua riscossione ed un limitato potere di variazione del suo importo, ma mantiene la competenza per ogni altro aspetto della disciplina sostanziale della tassa stessa (v. il d.P.R. n. 39/1953 – “Testo unico delle leggi sulle tasse automobilistiche”; gli artt. 23 e 24 d.lgs. n. 504/1992 – “Riordino della finanza degli enti territoriali, a norma dell’articolo 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421”; l’art. 17 l. n. 449/1997 – “Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica”) (40).
E analogo è stato il ragionamento svolto dal Governo in altri ricorsi riguardanti norme in materia di tributi. In particolare, nel ricorso n. 57 (41) il Governo ha sollevato l’illegittimità costituzionale delle disposizioni di cui alle lett. j) ed n), dell’art. 1, comma 1, della legge della Regione Lombardia n. 5/2004 (intitolata “Modifiche a leggi regionali in materia di organizzazione, sviluppo economico e territorio. Collegato ordinamentale 2004”), che prevedono, rispettivamente, l’estensione della caratteristica di storicità, ai fini dell’esenzione dal pagamento delle tasse automobilistiche, anche ai veicoli iscritti a club, registri e associazioni di settore riconosciuti dalla Regione Lombardia e l’elevazione a 16 euro dell’importo della tassa per il rilascio della concessione di caccia e pesca. Ebbene, secondo la difesa erariale, tali disposizioni, ponendosi in contrasto con la normativa statale di riferimento (rispettivamente, l’art. 60, comma 4, del d.lgs. n. 285/1992, che limita la caratteristica di storicità ai soli veicoli iscritti nei registri ivi indicati, ed il d.lgs. n. 230/1991, che determina l’importo della tassa per il rilascio delle concessioni regionali in 8,52 euro), violerebbero la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di “sistema tributario e contabile dello Stato”. In tale materia rientrerebbero infatti le tasse automobilistiche e di concessione che, pur essendo destinate a beneficio delle Regioni, non possono essere definite quali tributi propri delle Regioni ai sensi dell’art. 119, secondo comma, Cost., ma tributi erariali per i quali la legge statale riconosce alle Regioni limitati spazi di autonomia.
Ancora, con il ricorso n. 60 (42) il Governo ha eccepito l’illegittimità costituzionale dell’art. 44, comma 3, della legge della Regione Emilia-Romagna n. 7/2004 (“Disposizioni in materia ambientale. Modifiche ed integrazioni a leggi regionali”) per violazione dell’art. 117, secondo comma, lett. e), Cost., in relazione all’art. 3, comma 29, della legge n. 549/1995 (“Misure in tema di razionalizzazione della finanza pubblica”). Infatti, la disposizione regionale, rimettendo ad una deliberazione della Giunta regionale la fissazione dell’ammontare del tributo speciale per il deposito in discarica dei rifiuti, laddove la citata norma statale riserva alla legge regionale tale compito, lederebbe la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di tributi erariali. E la Corte costituzionale, nella sentenza n. 335 del 2005, ha dichiarato fondata la censura in questione, osservando che, dovendo il tributo speciale per il deposito in discarica dei rifiuti essere considerato statale e non proprio della Regione, viola il parametro costituzionale richiamato la norma regionale che risulti incompatibile con la disciplina statale di riferimento.
Sempre sulle medesime basi il Governo ha impugnato: con il ricorso n. 75 (43), l’art. 81, comma 1, lett. a), b) e c), della legge della Regione Abruzzo n. 15/2004 (“Disposizioni finanziarie per la redazione del bilancio annuale 2004 e pluriennale 2004-2006 della Regione Abruzzo. Legge finanziaria regionale 2004”), che estende l’ambito delle esenzioni dal pagamento della tassa automobilistica a fattispecie ulteriori rispetto a quelle previste dall’art. 17 del d.P.R. n. 39/1953; con il ricorso n. 108 (44), la legge della Regione Molise n. 18/2004 (“Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 13 gennaio 2003, n. 1, concernente disposizioni per l’applicazione del tributo speciale per il deposito in discarica di rifiuti”), nella parte in cui, pur essendo stata promulgata nell’agosto 2005 (e pubblicata nel mese successivo), ha previsto un nuovo e maggiore ammontare del tributo per il deposito in discarica di rifiuti con decorrenza dal 1° gennaio 2005, mentre ai sensi della norma statale di riferimento la legge regionale che fissa l’ammontare dell’imposta deve essere emanata entro il 31 luglio di ogni anno per l’anno successivo con l’espressa conseguenza che, in caso di mancata determinazione nel termine di legge, si intende prorogata la misura vigente (art. 3 della l. n. 549/1995), nonché nella parte in cui determina l’ammontare dell’imposta per i rifiuti nei settori minerario, estrattivo, edilizio, lapideo e metallurgico in misura eccedente quella massima disposta dalla normativa statale (art. 3, comma 29, l. n. 549/1995).
Ed un percorso argomentativo simile è alla base anche del ricorso n. 80 (45), con cui il Governo ha impugnato l’art. 1, comma 19, della legge della Regione Molise n. 15/2004 (“Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio”), per il quale il cacciatore di altre Regioni, per essere ammesso a praticare la caccia nel territorio di una Provincia della Regione Molise, è tenuto al pagamento di una “quota” determinata dalla Provincia interessata in un importo compreso tra quello della tassa di concessione governativa ed il triplo della stessa. Ebbene, secondo la difesa erariale, con la norma censurata la Regione Molise avrebbe istituito un nuovo e distinto tributo rispetto alle tasse di concessione regionali che la normativa statale di riferimento autorizza nei limiti ivi indicati (art. 23 l. n. 157/1992): pertanto, la disposizione regionale, ponendosi in contrasto con la legge statale per quanto essa fissa precisi confini in cui è autorizzata la istituzione di tasse regionali per l’attività venatoria, violerebbe la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia tributaria.
Ha infine invocato la lett. e) dell’art. 117, secondo comma, Cost., sub specie “sistema tributario e contabile dello Stato”, il (già citato) ricorso n. 72 (46), che ha sollevato la questione di legittimità anche dell’art. 9 della legge della Regione Marche n. 11/2004, ai sensi del quale i canoni relativi alle concessioni demaniali marittime per gli usi relativi alle attività di pesca sono determinati dalla Regione. Secondo il Governo, infatti, la determinazione dei predetti canoni non può che spettare allo Stato, atteso che quest’ultimo ha la titolarità dominicale dei beni demaniali in questione.

2.1.3.4. Organi dello Stato (lett. f))

Il ricorso n. 105 ha sollevato, tra le altre, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 20, comma 2, lett. b), dello Statuto ligure, il quale disponeva che il Presidente del Consiglio regionale “accerta il verificarsi dei presupposti di scioglimento del Consiglio nei casi indicati dall’art. 126, comma 3, della Costituzione e dallo Statuto, e promuove il conseguente decreto del Presidente della Repubblica”. Ebbene, secondo la difesa erariale, tale disposizione statutaria, disponendo l’intervento provvedimentale del Capo dello Stato al di là delle ipotesi di scioglimento previste dall’art. 126, primo comma, Cost. (atti contrari alla Costituzione, gravi violazioni di legge, ragioni di sicurezza nazionale), avrebbe violato l’art. 117, secondo comma, lett. f), Cost., che riserva alla potestà legislativa esclusiva dello Stato la disciplina delle funzioni degli organi dello Stato. Peraltro, come già ricordato, con l’ordinanza n. 353 del 2005 la Corte costituzionale ha dichiarato estinto il giudizio in esame per l’intervenuta rinuncia del Governo al ricorso, determinata dalla modifica dello Statuto nelle parti censurate.
Anche i ricorsi n. 22 e 111, già presi in esame sotto altro profilo, hanno invocato la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di “organi dello Stato” per censurare le disposizioni regionali che attribuiscono alle Province il compito di prendere le “misure di coordinamento delle risorse necessarie” previste dalla normativa nazionale in materia di controllo dei pericoli di incidenti rilevanti connessi a determinate sostanze pericolose (punto 2, lett. c), dell’allegato IV del d.lgs. n. 339/1999). Secondo la difesa erariale, infatti, tali misure, che investono anche organi dello Stato, non possono essere decise dalle Province, posto che il loro utilizzo deve essere disposto tenendo conto delle esigenze di intervento al di fuori della Provincia o della Regione. Peraltro, come detto, la Corte costituzionale ha già respinto, con riferimento al ricorso n. 22, l’eccezione di incostituzionalità in esame.

2.1.3.5. Ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali (lett. g))

Il (già citato) ricorso n. 72 ha impugnato la legge della Regione Marche n. 11/2004, in materia di pesca marittima ed acquicoltura, anche nella parte in cui prevede che tra i componenti delle nuove strutture regionali della Consulta per l’economia ittica e della Commissione tecnico-scientifica vi sia un rappresentante delle Capitanerie di porto, individuato nel direttore marittimo o in un suo delegato (artt. 6, comma 2, lett. e), e 7, comma 1, lett. f)). Ebbene, richiamando l’orientamento espresso di recente dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 134 del 2004, il Governo ha eccepito che le predette disposizioni, imponendo al titolare di un ufficio periferico dello Stato (o ad un suo delegato) di far parte di organismi regionali si porrebbero in contrasto con la potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia di “ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato”, di cui alla lett. g) dell’art. 117, secondo comma, Cost.
Ed identica è l’argomentazione con cui un altro ricorso già esaminato, il n. 102, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale di una disposizione analoga, contenuta nella legge della Regione Abruzzo n. 22/2004 in materia di politiche di sostegno all’economia ittica (art. 3, comma 2), la quale prevede che tra i componenti della Conferenza regionale della pesca vi siano rappresentanti di organismi statali, quali ad esempio le Capitanerie di porto. Alla stessa stregua, con il ricorso n. 113 (47), è stata censurata la disposizione della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia n. 25/2004 (intitolata “Interventi a favore della sicurezza e dell’educazione stradale”) la quale prevede che la Consulta regionale della sicurezza stradale sia composta dal Comandante del Comando Regione carabinieri (o da un suo delegato), dal Dirigente del Compartimento polizia stradale del Friuli-Venezia Giulia (o da un suo delegato) e da un rappresentante dei Comandi provinciali dei vigili del fuoco, designato d’intesa fra gli stessi (art. 4, comma 3, lett. e), f) ed m)).
Il medesimo parametro costituzionale è stato altresì invocato dal (già menzionato) ricorso n. 85, per il quale la norma della legge trentina che disciplina il distacco del personale provinciale presso gli organismi internazionali (art. 4, comma 1, l.p. n. 6/2004) violerebbe anche la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di ordinamento degli organi e degli uffici dello Stato.
Ancora, con il ricorso n. 103 (48) il Governo ha impugnato la legge della Regione Abruzzo n. 26/2004, intitolata “Intervento della Regione Abruzzo per contrastare e prevenire il fenomeno del mobbing e lo stress psico-sociale sui luoghi di lavoro”. In particolare, la legge in parola, non individuando né l’ambito dell’“intervento della Regione Abruzzo, né la tipologia dei “luoghi di lavoro”, renderebbe possibili ingerenze, non soltanto della Regione, ma anche di organizzazioni datoriali private o sindacali nei rapporti di lavoro pubblico statale (ad esempio, presso un Tribunale od un Ufficio territoriale del Governo), con palese invasione della competenza di cui alla lett. g) dell’art. 117, secondo comma, Cost.
Infine, il ricorso n. 110 (49) ha sollevato la questione di legittimità costituzionale degli artt. 2, 3 e 4, della legge della Regione Toscana n. 50/2004 (recante “Disposizioni regionali in materia di libere professioni intellettuali”), ai sensi dei quali gli ordini ed i collegi professionali costituiscono propri coordinamenti regionali, quali strutture operative proprie dotate di autonomia organizzativa e finanziaria e rappresentate (unitamente alle associazioni professionali) nella Commissione regionale delle professioni e delle associazioni professionali, con il compito di promuovere attività di formazione ed aggiornamento professionale. Ora, secondo l’Avvocatura dello Stato, posto che gli ordini ed i collegi professionali sono enti pubblici nazionali, le disposizioni de quibus finirebbero per invadere la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di “ordinamento e organizzazione amministrativa (…) degli enti pubblici nazionali”.

2.1.3.6. Ordine pubblico e sicurezza (lett. h))

La lett. h) dell’art. 117, secondo comma, Cost. è alla base di due ricorsi, i nn. 25 (50) e 44 (51), con cui il Presidente del Consiglio dei ministri ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge della Regione Veneto n. 41/ 2003 (“Disposizioni di riordino e semplificazione normativa – collegato alla legge finanziaria 2003, in materia di prevenzione, sanità, servizi sociali e sicurezza pubblica”) e dell’art. 37 della legge della Regione Basilicata n. 1/2004, (“Disposizioni per la formazione del bilancio di previsione annuale e pluriennale della Regione Basilicata – legge finanziaria 2004”) che eliminano l’obbligo del libretto di idoneità sanitaria, di cui all’art. 14 della legge 30 aprile 1962, n. 283, rispettivamente, per il personale addetto alla produzione e vendita di alimenti e per il personale delle farmacie (52). Infatti, posto che secondo un consolidato orientamento della Corte di cassazione il menzionato art. 14, trovando la sua ratio nell’evitare che operatori non sani o portatori di malattie vengano a contatto con i prodotti alimentari in modo che l’utenza sia sottratta al pericolo di eventuali contagi, assurge a “norma imperativa attinente all’ordine pubblico e posta a tutela […] del diritto alla salute, costituzionalmente garantito alla generalità dei cittadini” (53), le disposizioni regionali impugnate violerebbero la competenza legislativa esclusiva dello Stato in tema di “ordine pubblico e sicurezza” (54). Peraltro, con la sentenza n. 95 del 2005 la Corte costituzionale ha ritenuto infondate le questioni in esame, richiamando la propria giurisprudenza che, nel vigore del nuovo art. 117 Cost., ha riferito la materia “ordine pubblico e sicurezza” alle sole “misure inerenti alla prevenzione dei reati o al mantenimento dell’ordine pubblico” (sentt. n. 407/2002 e 6, 162, 428 del 2004).
Il medesimo parametro è stato invocato anche dal ricorso n. 56, già esaminato sotto molteplici profili. Infatti, secondo la difesa erariale, le disposizioni della legge della Regione Emilia-Romagna n. 5/2004 in materia di monitoraggio dei centri c.d. “di accoglienza” degli immigrati (art. 3, comma 4, lett. d)) e di poteri sostitutivi della Regione nei confronti degli enti locali (art. 3, comma 5) sarebbero illegittime anche perché lesive della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di “ordine pubblico e sicurezza”. Peraltro, come già visto, la sentenza n. 300 del 2005 ha dichiarato infondate le questioni in esame.
La lett. h) dell’art. 117, secondo comma, è alla base anche del (già citato) ricorso n. 113, con cui il Governo ha impugnato le norme della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia n. 43/2004 che attribuiscono alla Regione la funzione di coordinamento sul territorio dell’azione dei soggetti che a vario titolo operano nel campo della sicurezza e dell’educazione stradale (art. 1, comma 2, lett. d)) e che comprendono nel piano regionale della sicurezza stradale il perseguimento ed il rafforzamento dell’azione di prevenzione, controllo e repressione, attraverso un coordinamento tra le forze di polizia, nonché il miglioramento delle regole e dei controlli sui veicoli, attraverso accordi mirati a migliorare la sicurezza dei veicoli (art. 2, comma 3, lett. c) e e)). Secondo il ricorrente, infatti, posto che la nozione di sicurezza stradale comprenderebbe “oltre a specifici aspetti di sicurezza pubblica, anche tutte le disposizioni a tutela dell’incolumità delle persone” (55), le predette disposizioni investirebbero la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di “ordine pubblico e sicurezza”, ponendosi in contrasto con quanto previsto dall’art. 11 del vigente codice della strada, che attribuisce al Ministero dell’interno il coordinamento specifico dei servizi di polizia stradale, compresi quelli svolti dagli appartenenti ai Corpi di polizia municipale.

2.1.3.7. Ordinamento civile e penale (lett. l))

Un cospicuo numero di ricorsi ha invocato la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di “ordinamento civile e penale” di cui alla lett. l) dell’art. 117, secondo comma, Cost. Anzitutto, il ricorso n. 5 (56) ha impugnato il comma 3 e 7 dell’art. 66 della legge della Regione Veneto n. 27/2003, recante “Disposizioni generali in materia di lavori pubblici d’interesse regionale e per le costruzioni in zone classificate sismiche”. La prima disposizione, derogando alla previsione contenuta nell’art. 18 della legge n. 64/1974 (e ribadita dall’art. 94, comma 1, d.P.R. n. 380/2001), per la quale non è consentito dare inizio a lavori edilizi in zone sismiche “senza preventiva autorizzazione scritta” degli uffici tecnici competenti, prevedeva che l’attestato deposito del progetto di lavori e delle inerenti relazioni presso il Comune territorialmente competente costituisse autorizzazione all’inizio dei lavori. L’altra disposizione censurata prevedeva che la dichiarazione di conformità del direttore dei lavori edilizi, munita di attestazione comunale del relativo avvenuto deposito, costituisse, a tutti gli effetti, la “certificazione” di rispondenza delle opere in cemento armato alle norme tecniche, laddove l’art. 28 della legge n. 64/1974 (così come l’art. 62 d.P.R. n. 380/2001) dispone che la predetta “certificazione” deve essere rilasciata dal competente ufficio tecnico regionale. Ebbene, secondo la difesa erariale, le norme regionali censurate ledevano la potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia di “ordinamento civile” della proprietà e dei relativi limiti, sub specie di autorizzazioni al suo godimento. Peraltro, posto che successivamente alla proposizione del ricorso le disposizioni de quibus sono state abrogate dalla legge della Regione Veneto n. 13/2004, il Governo ha rinunciato al medesimo e la Regione Veneto ha accettato la rinuncia. Pertanto, con l’ordinanza n. 40 del 2005 la Corte costituzionale ha dichiarato estinto il processo.
Sempre per violazione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di “ordinamento civile” con il ricorso n. 15 (57) il Governo ha sollevato la questione di legittimità costituzionale della legge della Provincia autonoma di Bolzano n. 15/2003, intitolata “Anticipazione dell’assegno di mantenimento a tutela del minore. Secondo il ricorrente, infatti, tale legge, disciplinando l’erogazione anticipata al genitore (o al diverso soggetto affidatario) dell’assegno di mantenimento per il minore, quando esso non venga corrisposto dall’obbligato nei termini ed alle condizioni stabiliti dall’autorità giudiziaria, avrebbe ad oggetto una normativa rientrante nella materia dell’“ordinamento civile” e non riconducibile alla diversa materia della “assistenza e beneficenza pubblica”, di esclusiva competenza provinciale in forza dell’art. 8, n. 25, dello statuto speciale di autonomia riconosciuto al Trentino-Alto Adige. In tal modo, la Provincia avrebbe ecceduto i limiti della propria potestà legislativa esclusiva, andando a disciplinare la materia della tutela del minore e dei rapporti familiari in genere, attribuita dalla Costituzione alla competenza legislativa esclusiva dello Stato. Il ricorso ha inoltre indicato uno specifico motivo di illegittimità costituzionale con riferimento all’art. 12 della legge provinciale impugnata, che modifica la disciplina civilistica della surrogazione legale di cui all’art. 1203, numero 5, del codice civile, ovvero di un istituto che, rientrando nella materia dell’“ordinamento civile, non può essere ricondotta all’autonomia legislativa della Provincia autonoma di Bolzano. Peraltro, nella sentenza n. 106 del 2005 la Corte costituzionale, dopo aver delimitato l’oggetto del giudizio ai soli artt. 1, 6 e 12 della legge provinciale, in quanto esplicitamente indicati nella delibera di impugnazione assunta dal Consiglio dei ministri, ha accolto soltanto la questione relativa all’art. 12, mentre ha respinto quelle relative alle altre due disposizioni: secondo il giudice delle leggi, infatti, l’intervento pubblico previsto dalle disposizioni censurate appare riconducibile alla nozione di “assistenza pubblica”, di competenza esclusiva della Provincia autonoma di Bolzano, posto che la legge non prevede un’automatica sostituzione della Provincia a colui che è obbligato al mantenimento del minore, ma disciplina le condizioni particolari (ad esempio, basso reddito familiare, pronuncia dell’autorità giudiziaria, etc.) per beneficiare dell’anticipazione dell’assegno di mantenimento, definendo un’area di intervento dell’“assistenza pubblica”.
La lett. l) dell’art. 117, secondo comma, Cost. è alla base anche del ricorso n. 39 (58), che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 21 della legge della Regione Umbria n. 26/2003 (intitolata “Ulteriori modificazioni, nonché integrazioni della legge regionale 3 gennaio 2000 n. 2. Norme per la disciplina dell’attività di cava e per il riuso di materiali provenienti da demolizioni”), il quale introduce un art. 18-ter nella legge regionale n. 2/2000. Infatti, secondo la difesa erariale, tale disposizione, disponendo (al comma 1) che i materiali provenienti da scavi di opere civili non impiegati nella realizzazione delle opere stesse sono ceduti a titolo gratuito al Comune competente per territorio, qualora eccedano la quantità di ventimila metri cubi totali, e (al comma 2) che il Comune utilizza i predetti materiali per finalità di tutela dell’ambiente, ovvero dispone per il loro conferimento, a titolo oneroso, ad impianti di prima lavorazione o trasformazione di materiali di cava presenti nel territorio regionale, concretizzerebbe un’espropriazione senza indennizzo per una finalità puramente lucrativa (risparmio di spesa nell’acquisto degli inerti o cessione dietro corrispettivo) e, in tal modo, inciderebbe sulla materia dell’“ordinamento civile”, riservata dalla Costituzione alla competenza legislativa esclusiva dello Stato. Peraltro, con riferimento alla questione in esame, la Corte costituzionale ha dichiarato cessata la materia del contendere nella sentenza n. 108 del 2005, in quanto la norma censurata, successivamente alla proposizione del ricorso, è stata integralmente sostituita dall’art. 2 della legge della Regione Umbria n. 34/2004, che non prevede più la cessione a titolo gratuito al Comune dei materiali di cava eccedenti una determinata quantità.
La materia dell’“ordinamento civile” è altresì alla base del ricorso n. 63 (59), avente ad oggetto l’art. 50, comma 8, lett. c), della legge della Regione Veneto n. 11/2004 (“Norme per il governo del territorio”), ai sensi del quale i Piani regolatori generali possono stabilire distanze tra gli edifici minori di quelle previste dalla normativa regolamentare statale (art. 9 d.m. n. 1444/1968 del Ministro dei lavori pubblici) nel caso che gli edifici esistenti antistanti a quelli da costruire siano stati realizzati legittimamente ad una distanza inferiore ai cinque metri. Ebbene, secondo l’Avvocatura dello Stato, atteso che le norme degli strumenti urbanistici che prescrivono le distanze tra le costruzioni – o come spazio tra le medesime o come distacco dal confine – incidono sulla materia, di esclusiva competenza statale, dell’ordinamento civile, in quanto concorrono alla stessa configurazione del diritto di proprietà, disciplinando i rapporti di vicinato, assicurando un’equità nell’utilizzazione edilizia dei suoli privati ed attribuendo il diritto reciproco al loro rispetto, il legislatore regionale non potrebbe autorizzare gli strumenti urbanistici a derogare ai limiti imposti dalla normativa statale. Peraltro, come vedremo più avanti, nella sentenza n. 232 del 2005 la Corte costituzionale, pur riconoscendo che la disciplina delle distanze rientra nella materia dell’ordinamento civile per quanto concerne i rapporti tra proprietari di fondi finitimi, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma regionale impugnata per un profilo diverso (violazione di un principio fondamentale della materia, di legislazione concorrente, “governo del territorio”).
Anche il ricorso n. 65 (60), riguardante la legge della Regione Molise n. 9/2004 recante “provvedimenti per l’adozione di minori da parte delle coppie residenti nella Regione Molise”, ha invocato la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di “ordinamento civile”. In particolare, il Governo ha sollevato la questione di legittimità dell’art. 2 della legge menzionata, nella parte in cui attribuisce alla Regione facoltà che la legislazione statale riserva alla Commissione nazionale per le adozioni internazionali (art. 39 l. n. 184/1983): quella di stabilire apposite convenzioni con i centri di intermediazione nazionali ed esteri, con gli organi organi giudiziari minorili e con le organizzazioni e gli enti autorizzati che operano nel campo dell’adozione internazionale e quella di rilasciare, previa convenzione con la predetta Commissione nazionale, l’autorizzazione all’ingresso ed al soggiorno permanente del minore straniero adottato o affidato a scopo di adozione, nonché il certificato di conformità dell’autorizzazione alle disposizioni della Convenzione dell’Aja del 1993 per la tutela dei minori.
La competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di “ordinamento civile” è alla base anche del ricorso n. 76 (61), con cui il Governo ha censurato diversi articoli della legge della Regione Emilia-Romagna n. 11/2004, dedicata allo “Sviluppo regionale della società dell’informazione”. In particolare, il complesso disposto normativo dell’art. 12 della predetta legge regionale è stato censurato in quanto ritenuto contrastante con le disposizioni del codice in materia di protezione dei dati personali (d.lgs n. 196/2003) e, dunque, lesivo della competenza legislativa (e regolamentare) dello Stato in materia di trattamento dei dati personali, ricavabile (oltre che dalle lett. m) ed r), anche) dalla lett. l) dell’art. 117, secondo comma, Cost. Secondo il Governo, la prevista generale condivisione delle informazioni per la formazione di un patrimonio informativo comune di stabile supporto alle varie attività di tutti i soggetti, pubblici e privati, che operano in ambito regionale per ogni diversa finalità di interesse pubblico, sarebbe in contrasto con quanto previsto dall’art. 11 del predetto codice, per il quale i dati personali devono essere raccolti e registrati per scopi determinati ed espliciti, essere pertinenti e non eccedenti rispetto alle specifiche finalità per le quali sono raccolti e essere conservati per un periodo di tempo non superiore a quello necessario per gli scopi per i quali sono stati raccolti; con la medesima disposizione sarebbe in contrasto anche l’affermazione, di principio ed assoluta, di apertura di tale patrimonio alla disponibilità ed al libero utilizzo di soggetti terzi, estranei ad attività di interesse pubblico; ancora, l’obbligatoria messa a disposizione dei dati che soggetti pubblici e privati detengono nei propri sistemi informativi, senza una verifica di necessità, contrasterebbe sia con l’art. 11 cit., sia con l’art. 19, comma 2, del codice per la privacy, ai sensi del quale la comunicazione dei dati da parte di un soggetto pubblico ad altri soggetti pubblici è ammessa solo quando è prevista da una norma di legge o di regolamento (che, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lett. l), e sesto comma, Cost. dovrebbe ritenersi) di livello statale.
Con la sentenza n. 271 del 2005 la Corte costituzionale, dopo aver ricondotto il codice per la privacy essenzialmente alla materia dell’“ordinamento civile” e pur ammettendo la competenza del legislatore regionale a disciplinare procedure o strutture organizzative che prevedono il trattamento di dati personali nell’integrale rispetto della legislazione statale sulla loro protezione, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 12 della legge emiliana, ritenendolo contrastante, sotto molteplici profili, con la legislazione statale in materia di protezione di dati personali (per il riferimento all’istituto della “cessione” dei dati personali, non previsto dalla normativa statale e comunque in contrasto con essa; per la previsione che la Regione e gli enti regionali incontrano il solo limite dell’art. 18 del codice, laddove quest’ultimo prevede molteplici altri limiti per i trattamenti effettuati da soggetti pubblici; per l’imposizione alle associazioni ed ai soggetti privati che operano in ambito regionale per finalità di interesse pubblico dell’obbligo, anch’esso non previsto dal codice, di fornire la disponibilità dei dati contenuti nei propri sistemi informativi).
Il medesimo parametro costituzionale è stato invocato anche dal ricorso n. 81 (62), con cui il Governo ha impugnato gli artt. 2 e 4 della legge della Regione Umbria n. 8/2004, intitolata “Ulteriori modificazioni ed integrazioni della legge regionale 28 febbraio 1994, n, 6 – Disciplina della raccolta, coltivazione, conservazione e commercio dei tartufi”. Secondo l’Avvocatura dello Stato, infatti, l’individuazione degli ambiti in cui la raccolta dei tartufi è libera, operata dall’art. 2 cit., qualora intenda disciplinare la libertà anche nei confronti dei proprietari dei fondi interessati, investirebbe il regime civilistico della proprietà, ponendosi in contrasto con la legislazione nazionale di riferimento che vieta la raccolta nei terreni coltivati (l. n. 752/1985) e nei fondi chiusi (artt. 841 e 842 c.c.). Analogamente, l’art. 4 della legge umbra, derogando alla legislazione statale (art. 3 l. n. 752/1985) per la definizione ed individuazione delle tartufaie coltivate o controllate (nelle quali la proprietà sui tartufi prodotti non segue la proprietà del terreno, ma è di tutti coloro che le conducono), inciderebbe sul regime della proprietà e, dunque, lederebbe la competenza legislativa esclusiva dello Stato in tema di “ordinamento civile”.
Anche il (già citato) ricorso n. 100, avente ad oggetto la legge abruzzese n. 23/2004 sui servizi pubblici locali a rilevanza economica, ha fatto riferimento alla competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di “ordinamento civile”. Anzitutto, secondo il Governo, la disposizione che fa divieto alle società a capitale interamente pubblico, affidatarie dirette del servizio pubblico, di conferire incarichi professionali, di collaborazione e di qualsiasi altro genere, in favore di persone e/o società legate da rapporti di dipendenza e/o di collaborazione con l’ente o gli enti titolari del capitale sociale (art. 7, comma 4, lett. d)), impingerebbe anche nella materia dell’“ordinamento civile” sotto vari profili: in quanto determina la nullità dell’atto costitutivo del rapporto vietato, in quanto incide sull’autonomia di società di diritto privato e, infine, in quanto configura delle incompatibilità inerenti all’esercizio della professione. Il medesimo ricorso ha altresì impugnato la previsione che impone alle società a capitale interamente pubblico, affidatarie dirette del servizio pubblico, l’obbligo di rispettare le procedure di evidenza pubblica (così come previsto per gli enti locali) per l’assunzione di personale dipendente (art. 7, comma 4, lett. f)): anche tale disposizione, infatti, ponendo a carico di società private obblighi e oneri non previsti per l’instaurazione dei rapporti di lavoro nel settore privato, sarebbe lesiva della predetta competenza statale.
Analogamente, la legge abruzzese sul mobbing e lo stress psico-sociale sui luoghi di lavoro (l.r. n. 26/2004) è stata censurata dallo Stato anche per violazione della lett. l) dell’art. 117, secondo comma, Cost. Il (già citato) ricorso n. 103 ha infatti eccepito che essa incide sui rapporti di lavoro e di impresa e, più in generale, sui rapporti civilistici interpersonali, configurando il mobbing e lo stress psico-sociale sui luoghi di lavoro quali fattispecie di illecito contrattuale.
Il ricorso n. 110, cui si è già accennato, ha eccepito che la disposizione della legge toscana n. 50/2004 in materia di professioni intellettuali che disciplina l’istituzione e la composizione della Commissione regionale delle professioni e delle associazioni professionali (art. 4), prevedendo che ne facciano parte i rappresentanti delle associazioni professionali (oltre quelli dei coordinamenti regionali per le professioni), sarebbe lesiva anche della lett. l) dell’art. 117, secondo comma, Cost., atteso che la regolamentazione delle associazioni professionali (e delle loro articolazioni territoriali) andrebbe ricondotta alla materia dell’“ordinamento civile”.
Il (già citato) ricorso n. 16 ha impugnato la disposizione della legge della Regione Abruzzo n. 17/2003 che preclude l’attività di amministratore di condominio per chi non è iscritto nell’apposito registro regionale (art. 2, comma 3) anche per violazione della potestà legislativa esclusiva statale in materia di “ordinamento civile e penale”: secondo il ricorrente, infatti, da un alto, l’attività in questione rientrerebbe nei rapporti privatistici, dall’altro, la qualificazione della stessa come “professione”, l’accesso alla quale viene subordinato al superamento di un esame di abilitazione, comporterebbe che lo svolgimento delle funzioni di amministratore in carenza di iscrizione nel predetto registro concretizzi la fattispecie – penalmente rilevante – di esercizio abusivo della professione.
La potestà legislativa esclusiva statale in materia di “ordinamento civile e penale” è stata evocata anche dal ricorso n. 62, cui pure si è già accennato. In particolare, il Governo ha impugnato l’art. 34 della legge provinciale altoatesina n. 1/2004, ai sensi del quale “per le materie di competenza legislativa della Provincia” e “fatte salve le disposizioni penali”, l’intero art. 32 del decreto legge n. 269/2003, in materia di condono edilizio, “non trova applicazione in provincia di Bolzano”. Secondo l’Avvocatura dello Stato, posto che l’ordinamento civile e penale rientra tra le materie riservate alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, le Regioni non potrebbero introdurre in tale ambito discipline diversificate: invero, fatti identici (quali, ad esempio, le edificazioni in assenza di permesso di costruire) non potrebbero essere repressi penalmente in alcune Regioni e non in altre, in quanto sanati “per condono”, così come non potrebbero essere trattati differentemente in occasione di vicende civilistiche (quali, ad esempio, i trasferimenti di proprietà). Peraltro, in seguito al sopravvenire di mutamenti sostanziali del quadro normativo in termini di piena satisfattività delle pretese fatte valere dal ricorrente (specificatamente, l’abrogazione della norma censurata, operata dall’art. 29, comma 1, lett. e), della legge provinciale n. 4/2004), la Corte costituzionale, con la sentenza n. 304 del 2005, ha dichiarato cessata la materia del contendere in relazione alla questione in esame.
Analogamente, i due (già menzionati) ricorsi n. 114 e 115, aventi ad oggetto le leggi della Regioni Emilia-Romagna (l.r. n. 23/2004) e Toscana (l.r. n. 53/2004) sul condono edilizio, hanno eccepito anche la lesione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di “ordinamento civile e penale”: secondo l’Avvocatura dello Stato, infatti, l’eccessiva restrizione operata dai legislatori regionali dell’ambito di applicazione della legislazione statale in tema di condono edilizio obbligherebbe i giudici comuni a rendere, a carico dei proprietari ed autori di illeciti (e di eventuali controinteressati e parti offese), pronunce quanto meno asistematiche.
La competenza legislativa esclusiva dello Stato di cui alla lett. l) dell’art. 117, secondo comma, Cost., sub specie “ordinamento (…) penale”, è stata richiamata dal ricorso n. 38 (63), con cui il Governo ha sollevato la questione di legittimità costituzionale, tra gli altri, dell’art. 3, comma 3, della legge della Regione Puglia n. 29/2003 (intitolata “Disciplina delle funzioni amministrative in materia di tratturi”), che, consentendo la sanatoria, previo parere della Soprintendenza archeologica, delle opere abusivamente eseguite successivamente all’imposizione sui tratturi del vincolo archeologico (dd.mm. 15 giugno 1976, 20 marzo 1980 e 22 dicembre 1983), comporterebbe il venir meno delle sanzioni penali collegate all’abuso.
Il medesimo vizio è stato eccepito dal ricorso n. 50 (64), che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3 della legge della Regione Veneto n. 4/2004 (recante “Norme per la trasparenza dell’attività amministrativa regionale”), ai sensi del quale, fatto salvo quanto previsto dalle norme vigenti, “l’amministrazione regionale procede immediatamente al trasferimento di sede o all’attribuzione ad altro incarico del dipendente condannato, per i reati contro la pubblica amministrazione, con sentenza di primo grado”. Secondo il Governo, la norma regionale lederebbe l’ambito della legislazione esclusiva dello Stato in materia penale, di cui all’art. 117, secondo comma, lett. l), Cost., sovrapponendosi alla legge statale n. 97/2001, relativa ai rapporti tra procedimento penale e procedimento disciplinare, che, esclusivamente in relazione ad alcuni gravi reati contro la pubblica amministrazione, contempla (all’art. 3, comma 1) il trasferimento ad altro ufficio in caso di rinvio a giudizio e (all’art. 4) la sospensione dal servizio in caso di condanna anche non definitiva. Pertanto, la norma censurata, quand’anche applicabile ai soli reati contro la pubblica amministrazione diversi da quelli previsti dalla predetta legge statale, finirebbe con l’introdurre ulteriori effetti sanzionatori conseguenti a fatti reato, ledendo le attribuzioni legislative esclusive dello Stato. Nella sentenza n. 172 del 2005, però, la Corte costituzionale, dopo aver precisato che la disposizione regionale deve ritenersi operante solo in relazione ai reati contro la pubblica amministrazione diversi da quelli previsti dalla legge statale n. 97/2001, ha diversamente opinato, ritenendo che la (poco incisiva) misura del provvisorio trasferimento di sede o dell’assegnazione ad altro incarico non costituisca un effetto sanzionatorio della sentenza di condanna per determinati fatti reato, bensì una misura organizzativa interna volta a garantire, in via cautelare, la credibilità e la fiducia di cui l’amministrazione deve godere presso i cittadini e che può essere gravemente compromessa dalla condanna, anche solo di primo grado, del pubblico dipendente.

2.1.3.8. Determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (lett. m))

La competenza legislativa esclusiva di cui alla lett. m) dell’art. 117, secondo comma, Cost. è stata invocata anzitutto nel ricorso n. 5, con cui – come già visto –è stata impugnata la legge della Regione Veneto n. 27/2003, in materia di lavori pubblici d’interesse regionale e di costruzioni in zone classificate sismiche. Ebbene, secondo la difesa erariale, le disposizioni che attribuivano valore autorizzatorio (all’inizio dei lavori) all’attestazione del deposito del progetto di lavori presso il Comune competente e certificatorio (della rispondenza delle opere in cemento armato alle norme tecniche) alla dichiarazione di conformità del direttore dei lavori edilizi (art. 66, commi 3 e 7), derogando alla normativa statale di riferimento (artt. 18 e 28 l. n. 64/1974), ledevano la predetta competenza legislativa esclusiva dello Stato, volta ad assicurare su tutto il territorio nazionale anche un livello di prestazioni (amministrative) adeguate a tutelare il diritto dei singoli ad una pari protezione dell’incolumità e salute personale. Come detto, peraltro, successivamente alla proposizione del ricorso, le norme censurate sono state abrogate e la Corte costituzionale ha dichiarato estinto il processo con l’ordinanza n. 40 del 2005.
Anche il ricorso n. 26 (65) ha invocato la competenza legislativa esclusiva dello Stato nella “determinazione dei livelli essenziali concernenti i diritti civili e sociali” allorché ha impugnato l’art. 6, comma 1, lett. g), della legge della Regione Umbria n. 24/2003, intitolata “Sistema museale regionale – Salvaguardia e valorizzazione dei beni culturali connessi”, che attribuisce alla Regione il potere esclusivo di determinare e verificare gli standard qualitativi e quantitativi da assicurare nell’esercizio delle funzioni di conservazione, valorizzazione, gestione e promozione del patrimonio culturale e dei musei, delle raccolte e delle altre strutture di proprietà pubblica.
Ancora, con il (già citato) ricorso n. 60 il Governo ha eccepito l’illegittimità costituzionale anche dell’art. 47 della legge della Regione Emilia-Romagna n. 7/2004, che rimette ad un decreto del Presidente della Giunta regionale il metodo per la determinazione della tariffa relativa al servizio pubblico integrato e alla gestione dei rifiuti, per violazione della lett. m) dell’art. 117, secondo comma, Cost. Secondo il ricorrente, infatti, l’individuazione dei criteri per la determinazione della tariffa in materia di acque, attribuita allo Stato dall’art. 13, comma 3, della legge n. 36 del 2004 con un procedimento che prevede la concertazione e l’intesa con le Regioni, costituisce per sua natura un livello essenziale di prestazione che deve essere garantito su tutto il territorio nazionale. Peraltro, nella sentenza n. 335 del 2005 la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile tale questione, posto che il ricorrente si è limitato ad invocare il parametro costituzionale, senza fornire alcuna motivazione in ordine al medesimo.
La competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di livelli essenziali delle prestazioni è stata richiamata anche dal (già citato) ricorso n. 76, avente ad oggetto, tra gli altri, l’art. 12 della legge della Regione Emilia-Romagna n. 11/2004, dedicata allo sviluppo della “società dell’informazione”. Secondo il ricorrente, infatti, la competenza legislativa (e regolamentare) dello Stato in materia di trattamento dei dati personali sarebbe ricavabile (oltre che dalle lett. l) ed r), anche) dalla lett. m) dell’art. 117, secondo comma, Cost. Nella sentenza n. 271 del 2005 la Corte costituzionale, pur avendo accolto l’eccezione di legittimità costituzionale proposta, ha ritenuto improprio il riferimento a tale disposizione, atteso che “la legislazione sui dati personali non concerne prestazioni, bensì la stessa disciplina di una serie di diritti personali attribuiti ad ogni singolo interessato, consistenti nel potere di controllare le informazioni che lo riguardano e le modalità con cui viene effettuato il loro trattamento” (66).
Infine, è fondato sulla competenza legislativa de qua il ricorso n. 98 (67), con cui il Governo ha impugnato gli artt. 3, commi 2 e 3, e 5 della legge della Regione Piemonte n. 20/2004, recante “Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 18 marzo 1992, n. 16 (Diritto allo studio universitario), per i quali è rimessa alla Giunta regionale la fissazione dei criteri di merito per l’assegnazione delle borse di studio (anche per gli studi all’estero). Secondo il Governo, infatti, tali disposizioni, derogando a quanto previsto dalla legislazione nazionale che, al fine di garantire l’uniformità di trattamento su tutto il territorio nazionale, rimette ad un d.P.C.m (tra l’altro) la definizione dei criteri di merito (art. 4 l. n. 390/1991), sarebbero lesive della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, posto che andrebbe certamente ritenuta essenziale la prestazione finanziaria senza la quale lo studente meritevole e bisognoso non può accedere alla istruzione superiore.

2.1.3.9. Norme generali sull’istruzione (lett. n))

Il ricorso n. 98 testé menzionato ha eccepito l’illegittimità costituzionale della norma regionale impugnata anche con riferimento alla competenza legislativa esclusiva dello Stato in tema di fissazione delle “norme generali sull’istruzione”. Secondo il ricorrente, infatti, posto che tale categoria individua quelle norme che impongono un trattamento uniforme su tutto il territorio nazionale, in quanto eventuali varianti regionali potrebbero pregiudicare gli interessi perseguiti, nel loro novero rientrerebbe anche l’art. 4 della legge n. 390/1991 cit., che mira – per l’appunto – ad attuare l’uniformità di trattamento su tutto il territorio nazionale.
La medesima competenza statale è richiamata dal (già citato) ricorso n. 62, con cui il Governo ha sollevato anche la questione di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 4, della legge provinciale altoatesina n. 1/2004, per il quale la Giunta provinciale ha il potere di disciplinare la stipulazione di contratti di lavoro a tempo determinato di durata pluriennale con il personale docente delle scuole a carattere statale al fine di soddisfare le esigenze della continuità didattica. Tale disposizione, derogando alla disciplina dettata dalla legislazione statale di riferimento, che fissa quella annuale come durata massima delle supplenze scolastiche (art. 4 della l. n. 124 1999), si porrebbe in contrasto con la lett. n) dell’art. 117, secondo comma, Cost. Nella sentenza n. 323 del 2005, però, la Corte costituzionale ha ritenuto inammissibile la questione in parola per difetto di adeguata motivazione, posto che, al di là della mera evocazione di parametri costituzionali, l’unica motivazione del ricorso consisteva nell’asserito contrasto tra la norma impugnata e l’art. 4 della legge n. 124 del 1999, senza peraltro che fosse neppure precisato sotto quale profilo siffatto contrasto tra legge provinciale e legge statale si traducesse in un vizio di illegittimità costituzionale della prima.

2.1.3.10. Organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane (lett. p))

Sulla lett. p) dell’art. 117, secondo comma, Cost., che attribuisce allo Stato la competenza legislativa esclusiva in materia di “organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane”, vertono le censure di illegittimità costituzionale mosse da due dei ricorsi già presi in esame: il n. 48 ed il 100. Quanto al primo, la censura inerente all’art. 1 della legge della Regione Abruzzo n. 4/2004, che attribuisce al Difensore civico regionale poteri di controllo sostitutivo sugli enti locali, è stata motivata anche sulla base della considerazione che non spetterebbe alla Regione ed esulerebbe dalla sua competenza legislativa la regolamentazione, sia pure in via sostitutiva, delle materie che rientrano nella competenza esclusiva dello Stato, fra cui la materia “organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane”. Come visto, nella sentenza n. 167 del 2005 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma abruzzese, ritenendo peraltro assorbita la censura testé esaminata.
Il ricorso n. 100, invece, ha sollevato anche la questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 4, lett. g), della legge della Regione Abruzzo n. 22/2004, per il quale sono ineleggibili a Sindaco, Presidente della Provincia, Consigliere comunale, provinciale e circoscrizionale dei Comuni e delle Province titolari del capitale sociale delle società affidatarie della gestione del servizio pubblico i legali rappresentanti ed i componenti degli organi esecutivi delle medesime società. Secondo il ricorrente, infatti, tale disposizione sarebbe invasiva della competenza legislativa esclusiva dello Stato di cui alla lett. p) dell’art. 117, secondo comma, Cost.

2.1.3.11. Profilassi internazionale (lett. q))

Ha invocato la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di “profilassi internazionale” (art. 117, secondo comma, lett. q), Cost.) il ricorso n. 58, cui si è già accennato per un altro profilo. Infatti, le disposizioni della legge abruzzese n. 14/2004 che hanno sospeso la campagna di profilassi dell’influenza catarrale degli ovini, consentendo altresì la movimentazione, commercializzazione e macellazione degli animali non vaccinati nel territorio regionale fino al 21 dicembre 2004 (art. 1 e 2), violerebbero anche la predetta competenza legislativa esclusiva dello Stato.

2.1.3.12. Pesi e misure; coordinamento informativo, statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale (lett. r))

La competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di pesi e misure è stata richiamata da un altro ricorso già esaminato, il n. 95, che ha censurato le disposizioni della legge toscana n. 38/2004 in materia di contenitori di acque minerali, di sorgente e termali nella parte in cui prevedono una terminologia differente (artt. 37, commi 2 e 3, e 49, comma 1, lett. d)) rispetto alla disciplina statale (e comunitaria) di riferimento. Ebbene, secondo l’Avvocatura dello Stato, la disciplina unificata e comune delle indicazioni metrologiche, da ricondurre alla lett. r) dell’art. 117, secondo comma, Cost. (sub specie “pesi, misure […]”), sarebbe effettiva soltanto se essa viene applicata dalla generalità degli operatori.
Il secondo periodo della lett. r) dell’art. 117, secondo comma, Cost. (“coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale”) è menzionato nel ricorso n. 76, che – come visto – ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12 della legge emiliana n. 11/2004, dedicata allo sviluppo della “società dell’informazione”. Secondo l’Avvocatura dello Stato, infatti, la competenza legislativa (e regolamentare) dello Stato in materia di trattamento dei dati personali sarebbe ricavabile (oltre che dalle lett. l) ed m), anche) dalla lett. r) dell’art. 117, secondo comma, Cost. Peraltro, nella sentenza n. 271 del 2005 la Corte costituzionale, pur avendo dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 12 della legge emiliana, ha ribadito che la predetta competenza esclusiva statale concerne solo un coordinamento di tipo tecnico che, comunque, non esclude una competenza regionale nella disciplina e gestione di una propria rete informativa (68).
D’altra parte, sempre con riferimento alla competenza di legislazione esclusiva dello Stato in esame, il ricorso n. 76 ha sollevato anche la questione di costituzionalità degli artt. 13 e 14 della stessa legge emiliana, che concernono, rispettivamente, l’impostazione del sistema informativo regionale (SIR) e l’integrazione del SIR, previa intesa con le amministrazioni statali e gli enti pubblici nazionali, dei flussi informativi a scala nazionale, nonché l’utilizzo dei dati a scala regionale inclusi nei sistemi informativi gestiti o posseduti dalle amministrazioni ed enti medesimi. Secondo l’Avvocatura dello Stato, infatti, ciascun sistema informativo, strumentale all’esercizio di competenze distinte anche a livello costituzionale, si caratterizzerebbe per forme e modalità di trattamento dei dati differenti, che non sono suscettibili di interscambio al di fuori delle condizioni e delle cautele previste dalla normativa statale, volta ad evitare la messa in pericolo dei diritti inviolabili garantiti dall’art. 2 Cost. L’interscambio di diversi sistemi informativi previsto dalla legge della Regione Emilia-Romagna avverrebbe invece al di fuori delle regole fissate dal Codice nei diversi settori. In particolare, la prevista collaborazione anche delle aziende sanitarie per l’immissione ed il trattamento dei dati a scala regionale e locale, nonché per l’alimentazione e l’aggiornamento dei flussi informativi (art. 13), e la realizzazione con il sistema delle aziende sanitarie di supporti e procedure informatiche per l’estrazione automatica da archivi ed il trattamento dei dati necessari ad integrare le basi informative del SIR (art. 14), sarebbero disciplinate in modo generico ed indiscriminato. Non vi sarebbe, infatti, alcuna particolare considerazione dei dati sensibili (di cui all’art. 4, comma 1, lett. d), d.lgs. 196/2003) e ciò sarebbe in contrasto con gli artt. 20, 21 e 22 del d.lgs n. 196 del 2003, che ne consentono il trattamento solo se autorizzato da espressa disposizione di legge statale nella quale siano precisati i tipi di dati trattabili, le operazioni eseguibili e le specifiche finalità di rilevante interesse pubblico perseguite e, per i soggetti pubblici, lo limitano ai dati indispensabili per svolgere attività istituzionali.
Peraltro, la Corte costituzionale, nella sentenza testé citata, ha ritenuto solo in parte fondata la questione in parola, limitandosi a dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 13 della legge emiliana nella parte in cui non richiama il rispetto della legislazione statale in materia di protezione dei dati personali. Infatti, il giudice delle leggi, dopo aver ribadito l’irrilevanza della competenza esclusiva del legislatore statale in tema di “coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale”, ha ritenuto non conforme a Costituzione la configurazione, ad opera dell’art. 13, di un vero e proprio sistema informativo regionale (nel quale confluiscono molteplici dati anche personali, sia ordinari che sensibili, provenienti da diverse pubbliche amministrazioni) senza l’esplicito richiamo dei limiti e delle garanzie che la normativa statale prevede per l’utilizzo dei dati personali.

2.1.3.13. Tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali (lett. s))

Ben 17 ricorsi del Governo (di cui 16 già presi in esame per altri profili) hanno invocato la lett. s) dell’art. 117, secondo comma, Cost., che riserva al legislatore statale la competenza in materia di “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”. Anzitutto, i ricorsi nn. 7 e 19 hanno dedotto l’illegittimità costituzionale delle leggi regionali, rispettivamente, della Basilicata (n. 31/2003) e della Calabria (n. 26/2003), che hanno dichiarato denuclearizzati i relativi territori, anche con riferimento al parametro costituzionale ora in esame. Invero, l’Avvocatura dello Stato, richiamando la giurisprudenza del giudice delle leggi per la quale la lett. s) dell’art. 117, secondo comma, Cost. configura la tutela dell’ambiente quale valore trasversale, idoneo ad incidere anche su materie di competenza regionale nella forma degli standard minimi di tutela posti dallo Stato (69), ha eccepito che le leggi regionali censurate, precludendo in via generale il transito e la presenza nel territorio regionale di materiale nucleare non prodotto nel territorio regionale, violerebbero gli standard di tutela fissati nel d.lgs. n. 230 del 1995 in tema di trasporto di materie radioattive (art. 21). Tale disciplina, infatti, richiede un’apposita autorizzazione ministeriale nella quale possono essere stabilite particolari prescrizioni definite dall’ANPA, valide per l’intero viaggio e da attuare sui territori di tutte le Regioni interessate. Ebbene, secondo la difesa erariale, il divieto di transito nell’ambito di una Regione, incidendo sui rischi connessi al viaggio, potrebbe rendere non più adeguate le prescrizioni imposte, pregiudicando le possibilità di prevenzione e di controllo dello Stato.
Come già accennato, nella sentenza n. 62 del 2005 la Corte costituzionale, nel dare ragione al Governo, ha osservato che le norme regionali impugnate, disciplinando in modo preclusivo di ogni altro intervento la presenza e lo stesso transito, nei rispettivi territori, di sostanze radioattive, erano palesemente invasive della competenza legislativa esclusiva attribuita allo Stato in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema dall’art. 117, secondo comma, lett. s), Cost. La Corte ha altresì aggiunto la violazione, non invocata dall’Avvocatura dello Stato, del vincolo generale imposto alle Regioni dall’art. 120, primo comma, Cost., che vieta ogni misura atta ad ostacolare la libera circolazione delle cose e delle persone fra le Regioni.
Anche altri due ricorsi analoghi, i nn. 21 e 54, aventi ad oggetto le leggi regionali sugli OGM, rispettivamente, della Puglia (n. 26/2003) e delle Marche (n. 5/2004), hanno dedotto altresì la violazione della competenza legislativa dello Stato in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema: il previsto divieto generalizzato alla presenza di OGM sul territorio regionale, infatti, si porrebbe in contrasto con il (e comunque al di fuori del) quadro procedurale che – come visto – l’art. 25 del decreto legislativo n. 224 del 2003 delinea per l’ipotesi di blocco della circolazione di un prodotto contenente OGM ritenuto pericoloso, ai fini di una uniforme tutela ambientale su tutto il territorio nazionale. Peraltro, nella sentenza n. 150 del 2005 la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile anche la questione in parola, posto che il ricorso era carente di una specifica motivazione relativa al presunto contrasto delle norme regionali con l’art. 25 del d.lgs. n. 224/2003 cit.
Ancora, due ulteriori ricorsi analoghi, i nn. 22 e 111, hanno censurato le disposizioni delle leggi regionali dell’Emilia-Romagna (n. 26/2003) e delle Marche (n. 18/2004) che prevedono la competenza delle Province, invece che dei Prefetti – come dispone la normativa statale (art. 20 del d.lgs. n. 334/1999) –, per la definizione dei piani di emergenza esterni in materia di controllo dei pericoli di incidenti rilevanti connessi all’uso di determinate sostanze pericolose, anche con riferimento alla violazione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di “tutela dell’ambiente”. Infatti, i predetti piani, dovendo indicare, tra l’altro, nome e funzione delle persone autorizzate ad attivare e dirigere le misure di intervento, mezzi di informazione tempestiva, misure di coordinamento delle risorse necessarie, mezzi per l’informazione della popolazione circa i comportamenti da adottare, disposizioni per garantire l’informazione dei servizi di emergenza di altri Stati membri in caso di incidenti con conseguenze transfrontaliere, riguarderebbero operazioni che possono andare ben al di là del territorio della Provincia o della stessa Regione e che, in relazione alla posizione geografica di alcune Regioni, potrebbero riflettersi anche oltre i confini nazionali.
Come detto, nella sentenza n. 214 del 2005 la Corte costituzionale ha dichiarato infondata la questione di legittimità proposta dal ricorso n. 22 anche sotto il profilo in esame: infatti, la Consulta, richiamando la sua copiosa giurisprudenza in materia, ha osservato che, “contrariamente all’assunto del ricorrente, la tutela dell’ambiente, di cui alla lettera s) dell’art. 117, secondo comma, della Costituzione, si configura come una competenza statale sovente connessa e intrecciata inestricabilmente con altri interessi e competenze regionali concorrenti. Nell’ambito di dette competenze concorrenti, risultano legittimi gli interventi posti in essere dalla Regione stessa, nel rispetto dei principî fondamentali della legislazione statale in materia ed altresì l’adozione di una disciplina maggiormente rigorosa rispetto ai limiti fissati dal legislatore statale (sentenza n. 222 del 2003). In più occasioni questa Corte ha avuto modo di precisare che la “tutela dell’ambiente” […] si configura come un valore costituzionalmente protetto ed investe altre materie che ben possono essere di competenza concorrente regionale, quale la “protezione civile”. A tale proposito, l’art. 20 del d.lgs. n. 334 del 1999, sulla disciplina dei piani di emergenza esterni, riserva allo Stato il compito di fissare standard di tutela uniformi sull’intero territorio nazionale (sentenze n. 307 del 2003; n. 407 del 2002): detta regolamentazione esclude la incompatibilità della competenza esclusiva dello Stato con interventi specifici del legislatore regionale (sentenze n. 259 del 2004; n. 312 e n. 303 del 2003)” (70).
La competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di “tutela dell’ambiente” è alla base del ricorso n. 39, che ha impugnato anche l’art. 5, della legge umbra n. 26/2003, in materia di cave, nella parte in cui, nel vietare l’apertura di nuove cave e la riattivazione di cave dismesse all’interno dei parchi nazionali o regionali (comma 2), prevede la possibilità di deroghe (commi 3 e 5) per interventi di ampliamento (sia pure solo per interventi in corso di attività alla data di entrata in vigore della norma impugnata e solo per l’estrazione di pietre ornamentali) o completamento delle cave in servizio, o di reinserimento o recupero ambientale di cave dismesse, sia pure in ogni caso solo nelle ipotesi previste dal PRAE (Programma regionale attività estrattive) per le quali la Giunta regionale esprime parere vincolante. La norma impugnata, infatti, violerebbe alcune disposizioni della legge quadro sulle aree protette (l. n. 394/1992), da ritenersi standard di tutela uniformi a valere sull’intero territorio nazionale, anche ove incidenti sulle competenze legislative regionali, riconducibili alla finalità di tutelare il valore costituzionale unitario dell’ambiente. In particolare, secondo l’Avvocatura dello Stato le norme regionali contrasterebbero con l’art. 11, comma 3, lett. b), della legge quadro, che, tra le attività vietate all’interno del parco, indica l’apertura di cave nonché l’asportazione di minerali, e stabilisce che eventuali deroghe siano previste con regolamento adottato dall’ente Parco, nonché con l’art. 22, comma 1, lett. d), della stessa legge, che indica, tra i principi fondamentali per la disciplina delle aree naturali protette regionali, l’adozione, secondo criteri stabiliti con legge regionale in conformità ai principi di cui all’art. 11, di regolamenti delle aree protette.
Con la sentenza n. 108 del 2005 la Corte costituzionale ha dichiarato fondata la questione proposta solo relativamente ai parchi nazionali. Infatti, il giudice delle leggi, dopo aver ricordato che, relativamente alla “tutela dell’ambiente” di cui lett. s) dell’art. 117, secondo comma, Cost., non si può parlare di una “materia” in senso tecnico, riservata rigorosamente alla competenza statale, quanto piuttosto di un valore costituzionalmente protetto che può investire competenze regionali, per cui se, per un verso, spetta allo Stato il compito di fissare standard di tutela uniformi sull’intero territorio nazionale, per l’altro, risulta legittima l’adozione di una disciplina regionale maggiormente rigorosa rispetto ai limiti fissati dal legislatore statale (71), ha osservato che dal confronto fra la norma statale interposta in materia di parchi nazionali (art. 11, comma 3, lett. b), l. n. 394/1991) e la norma regionale impugnata risultava che le modifiche introdotte, lungi dal disporre una disciplina più rigorosa rispetto ai limiti fissati dal legislatore statale, derogavano in peius agli standard di tutela uniforme sull’intero territorio nazionale.
La Consulta ha invece dichiarato infondata la questione per quanto riguarda i parchi regionali. Infatti, rispettando il disposto dell’art. 22 della l. n. 394/1991, la legge regionale si è limitata a riprodurre i principi fondamentali per la disciplina delle aree protette contenuti nell’art. 11 della stessa legge: il divieto di condurre cave nei parchi regionali e la possibilità, in alcune ipotesi ben circoscritte, di deroghe a tale divieto.
Ha invocato la lett. s), dell’art. 117, secondo comma, Cost. anche il ricorso n. 58: secondo l’Avvocatura dello Stato, infatti, le disposizioni della legge abruzzese n. 14/2004 che hanno sospeso la campagna di profilassi dell’influenza catarrale degli ovini, consentendo altresì la movimentazione, commercializzazione e macellazione degli animali non vaccinati nel territorio regionale fino al 21 dicembre 2004 (artt. 1 e 2), violerebbero anche la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema.
Con il ricorso n. 59 (72) il Governo ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 3, lett. b) e c), della legge della Regione Marche n. 6/2004 (dedicata alla “Disciplina delle aree ad elevato rischio di crisi ambientale”), che attribuiscono alla Regione, al fine di dichiarare una determinata area ad elevato rischio di crisi ambientale, la competenza ad individuare “i limiti oltre i quali la qualità dell’ambiente deve essere considerata insufficiente” nonché “il limite oltre il quale il rischio di eventi straordinari è da ritenersi inaccettabile”. Infatti, secondo la difesa erariale, tali disposizioni, in assenza di un richiamo al rispetto della normativa comunitaria e nazionale di settore, si risolvono nell’attribuzione alla Regione della competenza a determinare standard ambientali, che devono considerarsi riservati alla competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di “tutela dell’ambiente”. Peraltro, successivamente alla proposizione del ricorso, il Presidente del Consiglio dei ministri, preso atto che la Regione Marche, con la legge regionale n. 21/2004 (“Modifica della legge regionale 6 aprile 2004, n. 6 – Disciplina delle aree ad elevato rischio di crisi ambientale”), ha modificato la norma impugnata introducendo il richiamo esplicito alla osservanza della normativa nazionale e comunitaria di settore, ha depositato atto di rinuncia al ricorso, che è stato accettato dalla Regione Marche. Pertanto, con l’ordinanza n. 329 del 2005 la Corte costituzionale ha dichiarato estinto il processo de quo.
Secondo il ricorso n. 62, l’art. 38 della legge altoatesina n. 1/2004, per il quale i sottoprodotti animali non idonei al consumo umano possono “essere trasportati dall’imprenditore agricolo senza ulteriori oneri autorizzativi alla più vicina struttura autorizzata ai fini dello smaltimento”, sarebbe in contrasto anche con la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela dell’ambiente. Peraltro, anche con riferimento a tale questione la Corte costituzionale, nella sentenza n. 304 del 2005, si è pronunciata per l’inammissibilità, atteso che la censura non è stata sorretta da un’adeguata motivazione.
Il ricorso n. 72 ha impugnato la disposizione della legge marchigiana n. 51/2004, per la quale il piano regionale della pesca contiene interventi volti alla salvaguardia delle risorse ittiche della regione (art. 4, comma 1, lett. a)), anche per violazione della lett. s) dell’art. 117, secondo comma, Cost. Secondo il Governo, infatti, tale disposizione, qualificando come regionali le predette risorse biologiche, ne impedirebbe una disciplina di tutela e di conservazione uniforme predisposta dallo Stato.
Analogamente, nel ricorso n. 102 il Governo ha dedotto l’illegittimità della norma della legge abruzzese n. 22/2004 che, prevedendo tra le finalità da perseguirsi tramite l’istituendo Fondo quelle di conservazione ed incremento delle risorse ittiche, la predisposizione di piani di gestione di aree di riserva, nonché il monitoraggio di specie ittiche e dell’ambiente marino (art. 2, comma 1, lett. g)), fornirebbe una connotazione regionale a delle risorse biologiche, quali quelle ittiche, che invece necessiterebbero di una disciplina di tutela e conservazione uniforme su tutto il territorio nazionale.
Con il ricorso n. 77 il Governo ha dedotto l’illegittimità costituzionale della norma della legge friulana n. 21/2004 che disciplina gli interventi di bonifica dei siti inquinati di Trieste e della laguna di Marano e Grado (art. 6) anche per violazione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema. Gli interventi di bonifica nei siti inquinati, infatti, sono disciplinati dall’art. 1, comma 3, della legge n. 426 del 1998, che attribuisce al Ministero dell’ambiente l’adozione di un programma nazionale di bonifica e ripristino ambientale dei siti inquinati contenente gli interventi d’interesse nazionale, gli interventi prioritari, i soggetti beneficiari, i criteri di finanziamento di singoli interventi e le modalità di trasferimento delle relative risorse.
La competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema è alla base anche del ricorso n. 81, con cui il Governo ha impugnato la disposizione della legge umbra n. 8/2004, che individua gli ambiti in cui la raccolta dei tartufi è libera (art. 2). Premessa la riconducibiltà della disciplina della raccolta dei tartufi alla materia in parola, atteso che “la raccolta indisciplinata produce l’estinzione delle tartufaie e danni irreparabili al patrimonio ambientale” (Corte costituzionale, sent. n. 328/1990), l’Avvocatura dello Stato ha dedotto il contrasto tra la norma regionale censurata e la disciplina nazionale di riferimento (l. n. 572/1985): laddove quest’ultima prevede che la raccolta dei tartufi sia libera nei boschi e nei terreni non coltivati, la prima estende la libertà, tra gli altri, ai parchi, alle aree naturali protette, alle aziende faunisticovenatorie, alle aree demaniali, e così via.
La lett. s) dell’art. 117, secondo comma, Cost., sub specie “tutela […] dei beni culturali”, è alla base, anzitutto, del ricorso n. 26, avente ad oggetto la disposizione della legge umbra n. 24/2003 che attribuisce alla Regione il potere esclusivo di determinare e verificare gli standard qualitativi e quantitativi da assicurare nell’esercizio delle funzioni di conservazione, valorizzazione, gestione e promozione del patrimonio culturale e dei musei, delle raccolte e delle altre strutture di proprietà pubblica (ar. 6, comma 1, lett. g)). Secondo l’Avvocatura dello Stato, infatti, posto che la tutela dei beni culturali è un valore nazionale unitario, come tale attribuito dalla Costituzione alla legislazione statale, la norma regionale de qua sarebbe costituzionalmente illegittima, in quanto contrastante con la normativa nazionale che riserva allo Stato la tutela dei beni culturali trasferiti alle Regioni, nonché la fissazione dei criteri tecnico-scientifici e degli standard minimi da osservare nell’esercizio delle attività trasferite “in modo da garantire un adeguato livello di fruizione collettiva dei beni, la loro sicurezza e la prevenzione dai rischi” (art. 150 d.lgs. n. 112/1998).
Analogamente, il ricorso n. 38 ha impugnato diverse disposizioni della legge pugliese n. 29/2003, in materia di tratturi, per violazione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in tema di “tutela […] dei beni culturali”. I tratturi, infatti, sono qualificati come beni archeologici e soggetti alla tutela propria dei beni culturali, ai sensi del decreto legislativo n. 490 del 1999 e dei decreti ministeriali 15 giugno 1976, 20 marzo 1980 e 22 dicembre 1983. In particolare, le norme che abilitano i piani comunali dei tratturi a prevedere, previa acquisizione del mero parere consultivo (e non dell’autorizzazione) della Soprintendenza archeologica, l’alienazione dei medesimi a privati o la loro destinazione al soddisfacimento di (generiche) esigenze di carattere pubblico (art. 2, commi 2 ed 8), potrebbero determinare un’utilizzazione delle aree tratturali in deroga al regime di tutela loro imposto dalla legge statale; la previsione ai sensi della quale la Giunta regionale, acquisito il parere favorevole della Soprintendenza archeologica, può autorizzare la realizzazione da parte di enti pubblici di opere pubbliche e di pubblico interesse nelle aree tratturali definite di interesse archeologico (art. 3, comma 2) derogherebbe al regime nazionale di tutela dei beni di interesse archeologico, per il quale la Soprintendenza archeologica ha il potere di approvazione dei progetti delle opere di qualsiasi genere da eseguirsi in aree vincolate (artt. 21 e 23 d.lgs. n. 490/1999) e l’ulteriore vincolo paesaggistico (ope legis, ai sensi dell’art. 146, comma 1, lett. m), d.lgs. n. 490/1999) può essere rimosso solo previa acquisizione della autorizzazione della Regione alla manomissione del bene vincolato, sottoposta a successivo controllo di legittimità da parte della competente Soprintendenza (art. 151 d.lgs. n. 490/1999); infine, la possibilità che i tronchi tratturali possano essere alienati a favore del soggetto utilizzatore, comunque possessore alla data di entrata in vigore della legge (art. 4, comma 1, lett. b)) sarebbe in contrasto con la l’art. 2 d.P.R. n. 283 del 2000, che dispone l’inalienabilità dei beni archeologici, consentendone solo il trasferimento tra soggetti titolari di demanio.
Con il ricorso n. 63 il Governo ha censurato anche l’art. 40 della legge veneta n. 11/2004, nella parte in cui attribuisce al Piano di assetto territoriale (PAT), con riguardo ai manufatti ed agli spazi liberi dei centri storici, alle ville venete, agli edifici ed ai complessi di valore monumentale e testimoniale, la determinazione delle categorie in cui gli stessi devono essere raggruppati con l’indicazione dei valori di tutela in funzione degli specifici contesti da salvaguardare, e, per ogni categoria, l’individuazione degli interventi, delle destinazioni d’uso ammissibili, mentre al Piano degli interventi (PI) l’indicazione, per ciascun manufatto, delle caratteristiche tipologiche di riferimento, nonché la corrispondente categoria di intervento edilizio come determinata dal PAT (commi 3, 4 e 5). Tali disposizioni, ad avviso del ricorrente, sarebbero lesive dell’art. 117, secondo comma, lett. s), Cost., che riserva alla potestà legislativa esclusiva dello Stato la “tutela […] dei beni culturali”. Infatti, come affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 9 del 2004, tutti gli interventi diretti alla conservazione ed al recupero dei beni culturali e, prima ancora, allo stesso riconoscimento della loro valenza culturale, sono riconducibili alla predetta materia e non a quella della valorizzazione (di competenza concorrente).
Peraltro, nella sentenza n. 232 del 2005 la Corte costituzionale ha ritenuto infondata la questione proposta. Premessa l’analogia tra tutela dei beni culturali e tutela dell’ambiente sotto il profilo teleologico (visto che “ha un proprio ambito materiale, ma nel contempo contiene l’indicazione di una finalità da perseguire in ogni campo in cui possano venire in rilievo beni culturali” (73)) e richiamata l’ormai copiosa (e nota) giurisprudenza sulla seconda, per la quale spetta allo Stato il potere di dettare standard di protezione uniformi validi in tutte le Regioni, ma queste ultime sono legittimate a perseguire scopi di tutela (ambientale, ma anche dei beni culturali) nell’esercizio delle proprie competenze legislative (concorrenti o residuali), la Consulta ha considerato le norme regionali impugnate non invasive delle competenze statali: infatti, “stabilire che […] sia il PAT a determinare i livelli di tutela e le modalità di utilizzazione dei beni culturali esistenti nei centri storici, non comporta contraddizione della normativa statale in tema di tutela dei beni culturali, in quanto la disciplina regionale è in funzione di una tutela non sostitutiva di quella statale, bensì diversa ed aggiuntiva, da assicurare nella predisposizione della normativa di governo del territorio, nella quale necessariamente sono coinvolti i detti beni” (74). In altri termini, “la legge regionale non stabilisce nuovi criteri di identificazione dei beni culturali ai fini del regime proprio di questi nell’ambito dell’ordinamento statale, bensì prevede che nella disciplina del governo del territorio – e quindi per quanto concerne le peculiarità di questa – si tenga conto non soltanto dei beni culturali identificati secondo la normativa statale, ma eventualmente anche di altri, purché però essi si trovino a far parte di un territorio avente una propria conformazione e una propria storia (v. sentenza n. 94 del 2003)” (75).

2.1.4. Le competenze legislative esclusive dello Stato (art. 117, secondo comma, Cost.) ed i principi fondamentali delle materie di legislazione concorrente (art. 117, terzo comma, Cost.)

Il quarto gruppo di ricorsi statali comprende quelli che hanno invocato congiuntamente il secondo ed il terzo comma dell’art. 117 Cost. con riferimento alla medesima disposizione impugnata e che, pertanto, risultano fondati non solo sulla difesa delle competenze legislative esclusive dello Stato, ma anche su quella dei principi fondamentali da esso posti nelle materie di legislazione concorrente. Rilevano in proposito molti atti introduttivi (18) già presi in esame sotto altri profili.

2.1.4.1. Tutela e sicurezza del lavoro

Anzitutto, secondo il ricorso n. 103, che ha impugnato la legge abruzzese sul mobbing e lo stress psico-sociale sui luoghi di lavoro n. 26/2004, la normativa regionale contrasterebbe anche con l’art. 117, terzo comma, Cost., sub specie “tutela e sicurezza del lavoro”, non essendo ricollegata a principi fondamentali posti dal Parlamento nazionale, al quale è riservato il compito di definire il mobbing e lo stress psico-sociale, di reperire un appropriato equilibrio tra i più interessi compresenti, ed anche di disegnare il quadro degli strumenti e delle relative funzioni.

2.1.4.2. Istruzione

Il ricorso n. 62 ha censurato la disposizione della legge altoatesina n. 1/2004 che attribuisce alla Giunta provinciale il potere di disciplinare la stipulazione di contratti di lavoro a tempo determinato di durata pluriennale con il personale docente delle scuole a carattere statale (art. 19, comma 4) anche con riferimento alla violazione della competenza di legislazione concorrente in tema di “istruzione”. Come già ricordato, però, nella sentenza n. 323 del 2005 la Corte costituzionale ha ritenuto inammissibile la questione in parola per carenza di adeguata motivazione sulla prospettata violazione dei parametri costituzionali.
L’invocazione congiunta di competenze legislative esclusive e di principi fondamentali delle materie di legislazione concorrente si ravvisa anche nel ricorso n. 98, con cui il Governo ha impugnato le disposizioni della legge piemontese n. 20/2004 che attribuiscono alla Giunta regionale la fissazione dei criteri di merito per l’assegnazione delle borse di studio (artt. 3, commi 2 e 3, e 5), laddove l’art. 4 della legge n. 390 del 1991 rimette ad un d.P.C.m la definizione di tali criteri. Secondo l’Avvocatura dello Stato, infatti, qualora non si volesse considerare la disposizione statale una delle norme generali sull’istruzione di cui alla lett. n) dell’art. 117, secondo comma, Cost., si dovrebbe comunque riconoscere ad essa la natura di principio fondamentale della materia “istruzione”, come tale non derogabile dalla legislazione regionale.

2.1.4.3. Professioni

Analogamente è accaduto nel ricorso n. 16, con cui il Governo ha denunciato l’illegittimità costituzionale della legge regionale abruzzese n. 17/2003 che ha istituito il registro regionale degli amministratori di condominio. Infatti, l’Avvocatura dello Stato, in via subordinata rispetto agli altri vizi prospettati, ha osservato che il riconoscimento, operato dal legislatore regionale, di una nuova professione, non prevista né istituita da leggi statali, viola il principio fondamentale della materia “professioni” enunciato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 353 del 2003, per il quale l’individuazione delle varie figure professionali, con i relativi profili ed ordinamenti didattici, è riservata allo Stato.

2.1.4.4. Tutela della salute

Ancora, nei ricorsi n. 7 e 19, aventi ad oggetto le leggi regionali, rispettivamente, della Basilicata (n. 31/2003) e della Calabria (n. 26/2003), che hanno dichiarato denuclearizzati i relativi territori, l’Avvocatura dello Stato ha osservato che le predette leggi dovrebbero essere considerate illegittime anche se fossero valutate dal punto di vista della “tutela della salute”, ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost.: esse, infatti, imponendo il divieto di transito per le materie radioattive, non rispetterebbero il principio fondamentale di cui all’art. 21 del d.lgs. n. 230 del 1995, per il quale il trasporto di materie radioattive (non è vietato ma) è soggetto al regime dell’autorizzazione con prescrizioni. Come già visto, con la sentenza n. 62 del 2005 la Corte costituzionale ha dato ragione al Governo, ritenendo peraltro prevalente (ed assorbente) un’altra violazione della Costituzione prospettata dalla difesa erariale (quella della competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema di cui all’art. 117, secondo comma, lett. s), Cost.).
Secondo i ricorsi n. 25 e 44, le disposizioni delle Regioni, rispettivamente, Veneto (art. 1 l.r. n. 41/2003) e Basilicata (art. 37 l.r. n. 1/2004), che eliminano l’obbligo del libretto di idoneità sanitaria, di cui all’art. 14 della legge n. 283 del 1962, violerebbero comunque il principio fondamentale della materia (“tutela della salute”), ricavabile dalla predetta norma statale, la cui ratio è di evitare che operatori non sani o portatori di malattie vengano a contatto con prodotti alimentari esponendo l’utenza al pericolo di eventuali contagi (76). La Corte costituzionale, nella sentenza n. 95 del 2005, ha però ritenuto costituzionalmente legittime le norme regionali anche sotto il profilo in esame: confermando l’avviso espresso nella sentenza n. 162 del 2004, il giudice delle leggi ha ribadito che l’art. 14 della l. n. 283/1962 ha ormai perso la qualità di principio fondamentale, posto che “la legislazione in materia di tutela della disciplina igienica degli alimenti è stata di recente profondamente trasformata anzitutto dalla adozione in una serie di direttive della Comunità europea di modalità diverse di tutela dell’igiene dei prodotti alimentari, fondate sull’autocontrollo da parte degli imprenditori e dei lavoratori dei settori interessati, seppure sotto il controllo pubblico” (77).
Il ricorso n. 103, che ha impugnato la legge abruzzese sul mobbing e lo stress psico-sociale sui luoghi di lavoro n. 26/2004, ha dedotto la violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., anche sub specie “tutela della salute”: secondo l’Avvocatura dello Stato, infatti, anche in tal caso vale la considerazione per la quale la normativa regionale censurata non si ricollegherebbe a principi fondamentali posti dal Parlamento nazionale al fine di definire il mobbing e lo stress psico-sociale, reperire un appropriato equilibrio tra i più interessi compresenti e disegnare il quadro degli strumenti e delle relative funzioni.

2.1.4.5. Protezione civile

I due ricorsi n. 22 e 111, con cui il Governo ha censurato alcune disposizioni delle leggi regionali, rispettivamente, emiliana (art. 10, comma 2, l.r. n. 26/2003) e marchigiana (art. 6, comma 3, l.r. n. 18/2004) in materia di piani di emergenza esterna per il pericolo di incidenti rilevanti connessi con determinate sostanze pericolose, hanno eccepito che le medesime, attribuendo alle Province funzioni amministrative relative a pericoli che possono superare i confini provinciali, regionali e nazionali, avrebbero in ogni caso violato il principio fondamentale della materia “protezione civile”, deducibile dall’art. 20 del decreto legislativo n. 334 del 1999, per cui l’elaborazione e l’attuazione dei piani di emergenza per gli incidenti connessi alle sostanze pericolose spetta ad organi statali. Come già ricordato, nella sentenza n. 214 del 2005, riguardante il ricorso n. 22, la Corte costituzionale ha dichiarato infondata la questione de qua, ritenendo che l’attribuzione alla Provincia, da parte della Regione, di una competenza amministrativa ad essa conferita dallo Stato (art. 72 d.lgs. n. 112 del 1998), non solo non viola la potestà legislativa dello Stato, ma costituisce applicazione di quanto alla Regione consente la stessa legge statale.
Ancora, secondo il ricorso n. 5, con cui è stata impugnata la legge della Regione Veneto n. 27/2003, in materia di lavori pubblici d’interesse regionale e di costruzioni in zone classificate sismiche, le disposizioni che attribuivano valore autorizzatorio (all’inizio dei lavori) all’attestazione del deposito del progetto di lavori presso il Comune competente e certificatorio (della rispondenza delle opere in cemento armato alle norme tecniche) alla dichiarazione di conformità del direttore dei lavori edilizi (art. 66, commi 3 e 7), violavano comunque due principi fondamentali della materia “protezione civile” (in senso preventivo) ricavabili dagli artt. 18 e 28 della legge n. 64 del 1974: rispettivamente, il divieto di inizio di lavori edilizi in zone sismiche senza preventiva autorizzazione scritta ed il rilascio, da parte di un ufficio tecnico della p.a., della certificazione di rispondenza delle opere in cemento armato alle norme tecniche. Come già ricordato, successivamente alla proposizione del ricorso, le norme censurate sono state abrogate e la Corte costituzionale ha dichiarato estinto il processo con l’ordinanza n. 40 del 2005.

2.1.4.6. Governo del territorio

Peraltro, lo stesso ricorso ha argomentato che le predette disposizioni statali (artt. 18 e 28 della l. n. 64/1974) costituivano anche principi fondamentali della materia del “governo del territorio”.
Questi ultimi sono stati invocati altresì nel ricorso n. 60, con cui il Governo ha sollevato la questione di legittimità costituzionale della disposizione della legge emiliana n. 7/2004, che rimette ad un decreto del Presidente della Giunta regionale il metodo per la determinazione della tariffa relativa al servizio pubblico integrato ed alla gestione dei rifiuti (art. 47), anche con riferimento alla violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost. Secondo l’Avvocatura dello Stato, infatti, l’art. 13, comma 3, della legge n. 36 del 1994, che attribuisce allo Stato, d’intesa con le Regioni, la determinazione della tariffa in materia di acque, costituirebbe un principio fondamentale in materia di “governo del territorio”. Come accennato, però, nella sentenza n. 335 del 2005 la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile tale questione, posto che il ricorrente si è limitato ad invocare il parametro costituzionale, senza fornire alcuna motivazione in ordine al medesimo.
Ha dedotto anche la violazione di principi fondamentali della materia de qua il ricorso n. 63, che ha censurato la disposizione della legge veneta n. 11/2004 (“Norme per il governo del territorio”), per la quale i Piani regolatori generali possono stabilire distanze tra gli edifici minori di quelle previste dalla normativa regolamentare statale (art. 9 d.m. n. 1444/1968 del Ministro dei lavori pubblici) nel caso che gli edifici esistenti antistanti a quelli da costruire siano stati realizzati legittimamente ad una distanza inferiore ai cinque metri (art. 50, comma 8, lett. c)). Infatti, secondo la difesa erariale, se si considera la norma censurata sotto il profilo pubblicistico dell’assetto urbanistico, e quindi dei rapporti tra costruttore e pubblica amministrazione, essa contrasta con il principio fondamentale ricavabile in materia di “governo del territorio” dall’art. 41-quinquies della legge n. 1150/1942, circa l’inderogabilità dei limiti di distanza tra i fabbricati stabiliti nell’interesse pubblico.
Come accennato, la Corte costituzionale ha deciso la questione in esame nella sentenza n. 232 del 2005, accogliendo – almeno in parte – la censura statale or ora riferita. La Consulta, dopo aver precisato che la disciplina dei fabbricati – ed in particolare quella dei loro rapporti con il territorio su cui insistono – esorbita dai limiti propri dei rapporti interprivati e tocca anche interessi pubblici per le diverse caratteristiche che il territorio medesimo può presentare, ha osservato che il rilievo delle interferenze tra interessi privati e interessi pubblici e, dunque, della importanza delle caratteristiche locali in tema di distanze tra costruzioni, ha trovato attuazione nell’attribuzione alle Regioni, in sede di competenza concorrente, della materia del governo del territorio (comprensiva dell’urbanistica e dell’edilizia), nell’ambito della quale le Regioni devono rispettare i principi fondamentali posti dalla legislazione statale (art. 873 c.c. e ultimo comma dell’art. 9 d.m. n. 1444/1968, emesso ai sensi dell’art. 41-quinquies della legge n. 1150/1942): anzitutto, quello per il quale la distanza minima tra i fabbricati è determinata con legge statale, mentre in sede locale possono essere fissati limiti maggiori; inoltre, la possibilità che normative locali deroghino alle distanze minime in funzione dell’assetto urbanistico complessivo ed unitario di determinate zone del territorio e non, quindi, dei rapporti tra vicini isolatamente considerati in funzione degli interessi privati dei proprietari dei fondi finitimi. Ebbene, la disposizione regionale censurata non è apparsa alla Corte attenere all’assetto urbanistico complessivo delle zone territoriali interessate dalla deroga, posto che, con riguardo ad una situazione particolare costituita da una costruzione già esistente posta a distanza dal confine inferiore a quella prescritta dalla normativa attualmente vigente, ma legittima secondo la disciplina dell’epoca della costruzione, si limita ad autorizzare il proprietario del fondo confinante a costruire o a mantenere il proprio fabbricato ad una distanza dall’altro manufatto preesistente inferiore a quella ordinariamente stabilita, con il solo rispetto della prescritta distanza dal confine.
I ricorsi n. 114 e 115, aventi ad oggetto le leggi delle Regioni Emilia-Romagna (l.r. n. 23/2004) e Toscana (l.r. n. 53/2004) sul condono edilizio, hanno dedotto anche la violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost. In particolare (ed esemplificando), secondo la difesa erariale, posto che – secondo l’insegnamento espresso dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 196 del 2004 – la disciplina del condono edilizio rientra nella materia concorrente del “governo del territorio”, le norme regionali che escludono la sanabilità delle nuove costruzioni residenziali, di modeste dimensioni, realizzate in contrasto con gli strumenti urbanistici (rispettivamente, artt. 2, commi 1 e 2, e 33, comma 1), violerebbero un principio fondamentale della materia, posto dallo Stato con l’art. 32 del decreto legge n. 326 del 2003. In altri termini, secondo il Governo, “la Regione può specificare i limiti (quantitativi e non) della sanabilità, e persino “limare” entro i margini di ragionevole tollerabilità […] le volumetrie massime previste dal legislatore statale; non può invece negare in toto o in misura prevalente (rispetto al quantum di volumetria ammesso dalla legge statale) la sanabilità di dette costruzioni. Un diniego totale ed aprioristico […] contraddice uno dei principi fondamentali determinati dal legislatore statale e persino la configurabilità […] di una sanatoria straordinaria degli illeciti urbanistici”.


2.1.4.7. Coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario

I ricorsi testé citati hanno invocato anche la competenza dello Stato in materia di “coordinamento della finanza pubblica” (prevista dall’art. 117, terzo comma, e ripresa dall’art. 119, secondo comma, Cost.). Secondo il Governo, infatti, la compressione oggettivamente eccessiva delle possibilità di accedere alla sanatoria straordinaria, riducendo sensibilmente un gettito su cui il legislatore statale fa affidamento per la copertura delle spese pubbliche, lederebbe le potestà statali di governo della finanza pubblica.
La medesima competenza è stata invocata anche nel ricorso n. 62, con cui il Governo ha impugnato la disposizione della legge altoatesina n. 1/2004, che prevede, relativamente al territorio provinciale, la disapplicazione dell’intero art. 32 del decreto legge n. 269 del 2003, in materia di condono edilizio. Secondo l’Avvocatura dello Stato, infatti, considerato che gli introiti attesi dalle oblazioni sono stati inseriti nella finanziaria 2004 dello Stato (l. n. 350/2003), la norma provinciale censurata, sottraendo risorse destinate alla copertura di spese pubbliche approvate dal Parlamento, concreterebbe un ingerenza nella formazione del bilancio annuale dello Stato e, dunque, una compressione della competenza legislativa in materia di “coordinamento della finanza pubblica e dei sistemi tributari”. Come già ricordato, atteso che successivamente alla proposizione del ricorso la disposizione censurata è stata abrogata (art. 29, comma 1, lett. e), della legge provinciale n. 4/2004), la Corte costituzionale, con la sentenza n. 304 del 2005, ha dichiarato cessata la materia del contendere in relazione alla questione in esame.
Ancora, secondo il ricorso n. 100, la previsione di un limite minimo (40 per cento del capitale) per la partecipazione azionaria del socio privato nella società mista titolare della gestione del servizio pubblico locale a rilevanza economica (art. 7, commi 1, lett. b), l.r. Abruzzo n. 23/2004), contrastando con la scelta del legislatore statale di non fissare alcun limite alla partecipazione del socio privato al fine di potersi assicurare anche apporti di non elevato rilievo finanziario da parte di soggetti in possesso della necessaria capacità tecnica, violerebbe anche la competenza legislativa dello Stato alla determinazione dei principi fondamentali per il coordinamento della finanza pubblica.

2.1.4.8. Valorizzazione dei beni culturali

Gli ultimi due ricorsi che compongono il quarto gruppo sono i nn. 26 e 38. Secondo il primo, che ha impugnato la disposizione della legge umbra n. 24/2003 che attribuisce alla Regione il potere esclusivo di determinare e verificare gli standard qualitativi e quantitativi da assicurare nell’esercizio delle funzioni di conservazione, valorizzazione, gestione e promozione del patrimonio culturale (art. 6, comma 1, lett. g)), anche qualora si intendesse tale disposizione come riferita alla materia concorrente della “valorizzazione dei beni culturali” (di cui all’art. 117, terzo comma, Cost.) e non a quella esclusiva della “tutela […] dei beni culturali” (di cui art. 117, secondo comma, lett. s), Cost.), essa risulterebbe comunque viziata, atteso che la Regione non può certo sostituirsi allo Stato nel dettare i principi fondamentali, quali sono quelli relativi alla determinazione di livelli standard.
Analogamente, il ricorso n. 38, avente ad oggetto diverse disposizioni della legge pugliese n. 29/2003 che configurano per i tratturi un regime diverso rispetto a quello dei beni culturali tutelati dalla normativa statale (artt. 2, commi 2 ed 8, 3, comma 2, 4, comma 1, lett. b)), afferma che, anche qualora le norme regionali censurate fossero interpretate come norme di valorizzazione, con conseguente applicazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., esse dovrebbero comunque essere ritenute illegittime, in quanto contrastanti con il principio fondamentale della materia ricavabile dall’art. 97 del decreto legislativo n. 490 del 1990, per il quale anche gli interventi di valorizzazione sono soggetti alle disposizioni di tutela.

2.1.5. La potestà legislativa concorrente ed i principi fondamentali delle materie (art. 117, terzo comma, Cost.)

Il quinto gruppo di ricorsi concerne quelli vertenti sul terzo comma dell’art. 117 Cost. e, quindi, sulla difesa, da parte dello Stato, della competenza a dettare i principi fondamentali delle materie di legislazione concorrente. Vi rientra anzitutto il ricorso n. 5, già esaminato sotto altro profilo. Il Governo, impugnando la legge veneta n. 27/2003, in materia di lavori pubblici d’interesse regionale e di costruzioni in zone classificate sismiche, ne ha censurato anche l’art. 1, il quale prevedeva che la vigente normativa statale in materia di lavori pubblici poteva trovare applicazione (solo) per quanto non diversamente disposto dalla legge regionale in parola (comma 2), approvata nell’esercizio della competenza legislativa residuale di cui all’art. 117, quarto comma, Cost. (comma 1). Infatti, secondo la difesa erariale, da un alto, doveva essere contestato che i lavori pubblici (estesi a comprendere l’attività edilizia in zone sismiche) fossero oggetto della competenza legislativa residuale della Regione, posto che tra le materie di legislazione concorrente ve ne sono alcune che rappresentano settori tipici di intervento della mano pubblica (porti ed aeroporti civili, reti di trasporto e di navigazione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia), dall’altro, il regime degli interventi edilizi ed, in particolare, quello dei titoli abilitativi ad edificare, andava ricondotto – come rimarcato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 303 del 2003 – alla materia dell’urbanistica, da ritenersi ricompresa in quella più ampia del “governo del territorio”. Pertanto, le previsioni in parola, escludendo l’operatività della normativa statale sui lavori pubblici laddove quella regionale disponesse diversamente (e, dunque, ben al di là della disciplina di dettaglio), avrebbero leso la riserva di legge statale in tema di principi fondamentali delle materie concorrenti di cui all’art. 117, terzo comma, Cost. Come già ricordato, successivamente alla proposizione del ricorso, le norme censurate sono state abrogate e la Corte costituzionale ha dichiarato estinto il processo con l’ordinanza n. 40 del 2005.

2.1.5.1. Professioni

Ha invece invocato i principi fondamentali della materia “professioni” il ricorso n. 43 (78), con cui il Governo ha impugnato l’art. 32 della legge della Regione Piemonte n. 1/2004 (recante “Norme per la realizzazione del sistema regionale integrato di interventi e servizi sociali e riordino della legislazione di riferimento”), che attribuisce alla Regione il potere di individuare le figure professionali dei servizi sociali ivi indicate (assistenti sociali, educatori professionali, etc.) (comma 1) e disciplina i titoli di studio necessari per l’esercizio della professione di educatore professionale (comma 2). Con riguardo alla prima disposizione, il Governo, richiamato l’orientamento del Consiglio di Stato per il quale, dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, spetta allo Stato individuare le varie professioni (contenuto e titolo professionale) ed i titoli richiesti per accedervi, sub specie principi fondamentali (79), ha eccepito il mancato rispetto del riparto delle competenze legislative stabilito dall’art. 117, terzo comma, Cost. nella materia “professioni”, e contestato la legittimità dell’ambito di applicazione della norma regionale, esteso a professioni (quali quella dell’assistente sociale e dell’educatore professionale) già regolamentate dalla disciplina statale (rispettivamente, l. n. 84/1993 e d.m. n. 520/1998 ex art. 6, comma 3, d.lgs. n. 502/1992).
In relazione al comma 2 dell’art. 32 della legge piemontese, il ricorso ha censurato l’individuazione di titoli di studio diversi da quelli previsti dalla normativa statale, che richiede una specifica formazione universitaria ed un esame conclusivo del percorso formativo abilitante all’esercizio della professione (art. 5 l. n. 251/2000). Infatti, la norma regionale in questione, nel prevedere quali titoli di accesso alla professione di educatore professionale titoli di formazione regionale e titoli universitari senza alcun esame finale abilitante, sarebbe lesiva non solo della competenza legislativa esclusiva dello Stato, di cui all’art. 33, quinto comma, Cost., in materia di esami per l’abilitazione all’esercizio professionale, ma anche un principio fondamentale della materia “professioni”: quello della tutela dell’utenza. Invero, l’attribuzione di un titolo professionale che per la normativa statale presuppone una formazione universitaria ed un esame di Stato a soggetti in possesso di un titolo di studio inferiore e che non hanno superato un esame di abilitazione, potrebbe indurre in inganno l’utenza sul livello di preparazione del professionista.
Verte sulla violazione dei principi fondamentali in materia di “professioni” anche il ricorso n. 47 (80), con cui il Governo ha impugnato la legge della Regione Abruzzo n. 2/2004 (“Istituzione di corsi di formazione professionale per l’esercizio dell’arte ausiliaria della professione sanitaria di massaggiatore-capo bagnino degli stabilimenti idroterapici”), che – nei suoi due articoli – prevede e regolamenta l’istituzione e l’organizzazione di corsi di formazione professionale per l’abilitazione all’esercizio della professione sanitaria ausiliaria di massaggiatore-capo bagnino degli stabilimenti idroterapici. Secondo il ricorrente, la legge impugnata violerebbe i principi fondamentali posti in materia di professioni (sanitarie ausiliarie) dagli artt. 3-septies e 3-octies del decreto legislativo n. 502 del 1992, che riservano allo Stato il potere di individuare le figure professionali degli operatori sociosanitari ad elevata integrazione sanitaria (quali, ex art. 9 l. n. 323/2000, tutti gli operatori termali) e di determinarne gli ordinamenti didattici. Con la sentenza n. 319 del 2005 la Corte costituzionale ha accolto il ricorso governativo. Secondo il giudice delle leggi, infatti, posto che la legge abruzzese era riconducibile alla materia concorrente delle “professioni” (art. 117, terzo comma, Cost.) e non a quella residuale della “formazione professionale” (art. 117, quarto comma, Cost.), in quanto finalizzata a disciplinare una specifica figura professionale sociosanitaria e le relative modalità di accesso (incluso l’ordinamento didattico), essa violava il principio fondamentale, ricavabile dalla legislazione statale in materia di professioni sanitarie (e già riconosciuto dalla sentenza n. 353 del 2003), per il quale l’individuazione delle figure professionali, con i relativi profili e ordinamenti didattici, è riservata alla competenza legislativa statale.
Analogo è il ricorso n. 82 (81), con cui il Governo ha impugnato la legge della Regione Piemonte n. 13/2004 (intitolata “Regolamentazione delle discipline bio-naturali”), che istituisce un registro per gli operatori delle discipline naturali, finalizzate alla conservazione ed al recupero dello stato di benessere della persona, demandandone l’individuazione ad una delibera della Giunta regionale. Secondo l’Avvocatura dello Stato, infatti, posto che le predette discipline sono riconducibili alla professioni sanitarie, anche non convenzionali, regolate dalla legislazione statale, la legge piemontese contravverrebbe al principio fondamentale stabilito dall’art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 502 del 1992, ai sensi del quale l’individuazione delle professioni sanitarie è riservata allo Stato.

2.1.5.2. Porti

Con il ricorso n. 78 (82) il Governo ha censurato l’art. 9, commi 2 e 3, della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia n. 17/2004 (“Riordino normativo dell’anno 2004 per il settore degli affari istituzionali”), che conferisce al Presidente della Regione il potere di nominare e revocare, previa intesa con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, il Presidente dell’Autorità portuale di Trieste. Ebbene, secondo l’Avvocatura dello Stato, tali disposizioni si porrebbero in contrasto con i principi fondamentali della materia “porti” stabiliti dalla legge statale di riferimento (l. n. 84/1994), per la quale la nomina dei Presidenti delle Autorità portuali spetta al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, previa intesa con la Regione interessata, mentre la revoca degli stessi può essere disposta dalla medesima autorità statale (senza intesa alcuna con la Regione interessata) in casi tassativamente previsti (artt. 8, comma 1 e 1-bis, e 7, comma 3).

2.1.5.3. Ordinamento della comunicazione

I principi fondamentali della materia “ordinamento della comunicazione” sono alla base del ricorso n. 64 (83), con cui il Governo ha sollevato la questione di legittimità costituzionale degli artt. 3 e 6 della legge della Regione Marche n. 7/2004 (“Disciplina della procedura di valutazione di impatto ambientale”), che assoggettano a procedura di valutazione d’impatto ambientale (VIA) anche l’installazione di antenne di radiocomunicazione con frequenze comprese tra 100 KHz e 300 GHz. Ad avviso del ricorrente, infatti, tali disposizioni, imponendo una doppia procedura (verifica preliminare e conseguente procedura di VIA) su categorie di opere non previste dalle norme statali di cui ai d.P.C.m 10 agosto 1988 e 27 dicembre 1988, violerebbero il principio fondamentale della materia stabilito, in attuazione della normativa comunitaria (direttive 2002/19/CEE, 2002/20/CEE e 2002/22/CEE), dall’art. 87 del Codice delle comunicazioni elettroniche (d.lgs. n. 259/2003), che prevede “procedure celeri per la realizzazione di dette infrastrutture”. Peraltro, con l’ordinanza n. 20 del 2005 la Corte costituzionale ha dichiarato il ricorso in parola manifestamente inammissibile per tardività del deposito in cancelleria del medesimo.

2.1.6. La riserva di legge regionale ex art. 117, terzo e quarto comma, Cost.

Il quinto gruppo di ricorsi comprende in realtà un unico atto, il n. 105, con cui il Governo ha censurato anche le disposizioni dello Statuto ligure che attribuivano alla Giunta regionale il potere di approvare regolamenti di delegificazione, in base ad una legge regionale di autorizzazione recante le norme regolatrici della materia e sentita la Consulta statutaria sulla conformità dei primi alla seconda (artt. 50, comma 3 e 76, comma 1, lett. b)). Ebbene, secondo l’Avvocatura dello Stato, le norme censurate avrebbero leso la riserva relativa di legge regionale ricavabile dal disposto di cui all’art. 117, terzo e quarto comma, Cost. (nonché all’art. 121 Cost.: “il Consiglio regionale esercita la potestà legislativa attribuita alla Regione”), per il quale le Regioni hanno potestà legislativa in “ogni materia non espressamente riservata allo Stato” e, “salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato”, “nelle materie di legislazione concorrente”. Peraltro, come già ricordato, con l’ordinanza n. 353 del 2005 la Corte costituzionale ha dichiarato estinto il giudizio in esame per l’intervenuta rinuncia del Governo al ricorso, determinata dalla modifica dello Statuto nelle parti censurate.

2.1.7. La riserva di legge statale in materia di procedure per la partecipazione delle Regioni alla fase ascendente del diritto comunitario e discendente del diritto internazionale e comunitario (art. 117, quinto comma, Cost.)

Anche il settimo gruppo contiene una questione di legittimità costituzionale sollevata nel ricorso testé citato: quella relativa alla disposizione dello Statuto ligure che attribuiva alla Regione il potere di concorrere alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari e di provvedere alla loro esecuzione, nonché quello di attuare ed eseguire gli accordi comunitari (art. 4, comma 2). Secondo l’Avvocatura dello Stato, infatti, tale disposizione, omettendo di riferirsi al necessario rispetto delle norme di procedura stabilite da legge dello Stato, la quale deve disciplinare anche le modalità di esercizio del potere sostitutivo, violerebbe l’art. 117, quinto comma, Cost., che tale limite prevede.
Ed identica è stata l’argomentazione che il Governo ha usato, nel ricorso n. 106 (84), per censurare l’art. 2, comma 3, dello Statuto della Regione Abruzzo, approvato in prima deliberazione il 20 luglio 2001 ed in seconda deliberazione il 21 settembre 2004 (n. 114/9), ai sensi del quale la Regione “partecipa all’attuazione e all’esecuzione degli accordi internazionali dello Stato”.

2.1.8. La potestà regolamentare dello Stato (art. 117, sesto comma, Cost.)

L’ottavo gruppo di ricorsi comprende quelli vertenti sulla competenza regolamentare dello Stato, che l’art. 117, sesto comma, Cost. prevede nelle materie di potestà legislativa esclusiva statale. Rilevano in proposito tre atti, già esaminati sotto molteplici profili. Anzitutto, il n. 63, che ha censurato due disposizioni della legge veneta n. 11/2004, recante “Norme per il governo del territorio”: l’art. 40, commi 3, 4 e 5, e l’art. 50, comma 8, lett. c). Quanto al primo, che attribuisce al Piano di assetto territoriale (PAT), con riguardo ai manufatti ed agli spazi liberi dei centri storici, alle ville venete, agli edifici ed ai complessi di valore monumentale e testimoniale, la determinazione delle categorie in cui gli stessi devono essere raggruppati con l’indicazione dei valori di tutela in funzione degli specifici contesti da salvaguardare, e, per ogni categoria, l’individuazione degli interventi, delle destinazioni d’uso ammissibili, mentre al Piano degli interventi (PI) l’indicazione, per ciascun manufatto, delle caratteristiche tipologiche di riferimento, nonché la corrispondente categoria di intervento edilizio come determinata dal PAT, l’Avvocatura dello Stato, premesso che gli interventi diretti alla conservazione e al recupero dei beni culturali e, prima ancora, allo stesso riconoscimento della loro valenza culturale, rientrano nella competenza legislativa esclusiva dello Stato in tema di tutela dei beni culturali, ha eccepito anche la violazione della relativa competenza regolamentare (art. 117, secondo comma, lett. s), e sesto comma, Cost.). Come già ricordato, però, nella sentenza n. 232 del 2005 la Corte costituzionale ha ritenuto infondata la questione proposta, osservando che “stabilire che […] sia il PAT a determinare i livelli di tutela e le modalità di utilizzazione dei beni culturali esistenti nei centri storici, non comporta contraddizione della normativa statale in tema di tutela dei beni culturali, in quanto la disciplina regionale è in funzione di una tutela non sostitutiva di quella statale, bensì diversa ed aggiuntiva, da assicurare nella predisposizione della normativa di governo del territorio, nella quale necessariamente sono coinvolti i detti beni” (85).
Per quanto riguarda l’art. 50, comma 8, lett. c) della predetta legge veneta, ai sensi del quale i Piani regolatori generali possono stabilire distanze tra gli edifici minori di quelle previste dalla normativa regolamentare statale (art. 9 d.m. n. 1444/1968 del Ministro dei lavori pubblici) nel caso che gli edifici esistenti antistanti a quelli da costruire siano stati realizzati legittimamente ad una distanza inferiore ai cinque metri, il Governo ha osservato che le norme degli strumenti urbanistici che prescrivono le distanze tra le costruzioni incidono, in quanto concorrono alla stessa configurazione del diritto di proprietà, sulla materia dell’“ordinamento civile”, attribuita alla competenza regolamentare (oltre che legislativa) dello Stato (art. 117, secondo comma, lett. l), e sesto comma, Cost.). In tale prospettiva, dunque, il legislatore regionale non potrebbe autorizzare gli strumenti urbanistici a derogare ai limiti imposti dalla normativa statale anche di livello regolamentare. Come già visto, peraltro, nella sentenza n. 232 del 2005 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma regionale impugnata per un profilo diverso (violazione di un principio fondamentale della materia, di legislazione concorrente, “governo del territorio”).
Rileva, in secondo luogo, il ricorso n. 76, che – come visto – ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12 della legge emiliana n. 11/2004, dedicata allo sviluppo della “società dell’informazione”. In particolare, sul presupposto della competenza regolamentare (oltre che legislativa) dello Stato in materia di trattamento dei dati personali, ricavabile dall’art. 117, secondo comma, lett. l), m) ed r), e sesto comma, Cost., la previsione dell’emanazione di un regolamento regionale per la disciplina della cessione dei dati a privati ed enti pubblici economici, violerebbe la potestà regolamentare dello Stato e, in particolare, l’art. 19, comma 3, del codice per la privacy (d.lgs. n. 196/2003), secondo il quale la comunicazione da parte di un soggetto pubblico a privati o ad enti pubblici economici e la diffusione da parte di un soggetto pubblico sono ammesse unicamente quando sono previste da una norma di legge o di regolamento, da intendere – secondo il ricorrente – di livello statale. Come già ricordato, nella sentenza n. 271 del 2005 la Corte costituzionale, dopo aver ricondotto il codice per la privacy essenzialmente alla materia dell’“ordinamento civile” e pur ammettendo la competenza del legislatore regionale a disciplinare procedure o strutture organizzative che prevedono il trattamento di dati personali nell’integrale rispetto della legislazione statale sulla loro protezione, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 12 della legge emiliana, ritenendolo contrastante, sotto molteplici profili, con la legislazione statale in materia di protezione di dati personali.
Infine, può essere ricordato il ricorso n. 95, che ha censurato la legge toscana n. 38/2004 in materia di contenitori di acque minerali, di sorgente e termali, anche in quanto prevede l’emanazione di norme regolamentari di attuazione per disciplinare specificatamente le capacità nominali dei contenitori (art. 49, comma 1, lett. d)). Ebbene, secondo il Governo, posto che la normativa regionale censurata incide sulle competenze di legislazione esclusiva dello Stato in tema di “tutela della concorrenza” e “pesi, misure […]” (rispettivamente, lett. e) ed r) dell’art. 117, secondo comma, Cost.), la disposizione in parola lederebbe anche la competenza regolamentare dello Stato ex art. 117, sesto comma, Cost.

2.1.9. L’assetto delle funzioni amministrative (art. 118, primo e secondo comma, Cost.)

Il ricorso n. 77 ha censurato la disposizione della legge friulana n. 21/2004 per la quale la Regione provvede agli interventi di bonifica dei siti inquinati di Trieste e della laguna di Marano e Grado mediante “delegazione amministrativa”, rispettivamente, all’Ente Zona Industriale di Trieste ed al Consorzio di Sviluppo Industriale nella zona Aussa-Corno (art. 6) anche per violazione della disciplina sull’allocazione delle funzioni amministrative di cui all’art. 118 Cost. Secondo la difesa erariale, infatti, l’uso dello strumento della delegazione amministrativa intersoggettiva interferirebbe sulle competenze comunali e provinciali in materia di bonifica dei siti inquinati e sulla costante adeguabilità degli interventi e delle relative modalità attuative, in violazione (non solo dell’art. 114, ma anche) dell’art. 118, primo e secondo comma, Cost., dal momento che il soggetto individuato dalla Regione vanterebbe nei confronti degli altri soggetti istituzionali che concorrono all’attività di bonifica, di “una inammissibile posizione di garanzia e/o di inamovibilità derivante dall’esistenza di una legge regionale”.


2.1.10. La competenza della legge statale a disciplinare forme di intesa e coordinamento nella materia dei beni culturali (art. 118, terzo comma, Cost.)

Il ricorso n. 38 ha impugnato le disposizioni della legge pugliese n. 29/2003, in materia di tratturi, che abilitano i piani comunali dei tratturi a prevedere, previa acquisizione del mero parere consultivo (e non dell’autorizzazione, come prevede il d.lgs. n. 490/1999) della Soprintendenza archeologica, l’alienazione dei medesimi a privati o la loro destinazione al soddisfacimento di esigenze di carattere pubblico (art. 2, commi 2 ed 8) anche per violazione dell’art. 118, terzo comma, Cost., che riserva alla legge statale la disciplina di forme di intesa e coordinamento nella materia dei beni culturali. Secondo il Governo, infatti, l’esercizio della tutela dei beni culturali è prerogativa dello Stato e “può essere oggetto di intesa e coordinamento con le Regioni solo entro i limiti fissati dalla legge statale, che nel caso è stata violata […]” (86). Il medesimo parametro è stato (meramente) invocato anche a proposito della disposizione ai sensi della quale la Giunta regionale, acquisito il parere favorevole della Soprintendenza archeologica, può autorizzare la realizzazione da parte di enti pubblici di opere pubbliche e di pubblico interesse nelle aree tratturali definite di interesse archeologico (art. 3, comma 2), nella parte in cui derogherebbe al regime nazionale di tutela dei beni di interesse archeologico (ex d.lgs. n. 490/1999: potere della Soprintendenza di approvazione dei progetti delle opere di qualsiasi genere da eseguirsi in aree vincolate e vincolo paesaggistico ope legis, rimuovibile solo previa acquisizione della autorizzazione della Regione alla manomissione del bene vincolato, sottoposta a successivo controllo di legittimità da parte della competente Soprintendenza).

2.1.11. I limiti dell’autonomia finanziaria delle Regioni (art. 119 Cost.)

Nell’undicesimo gruppo rientrano quattro dei ricorsi già esaminati (i nn. 55, 57, 80 e 108), i quali – come già accennato – sono fondati sul recente (ma già consolidatosi) orientamento che la Corte costituzionale ha assunto nell’interpretazione dell’autonomia finanziaria (e dei relativi limiti) delle Regioni (e degli enti locali) di cui al nuovo art. 119 Cost. In un cospicuo numero di pronunce (cfr. le sentenze n. 296, 297 e 311 del 2003, nonché 37 e 241 del 2004), infatti, il giudice delle leggi ha osservato che l’attuazione del disegno costituzionale “richiede […] come necessaria premessa l’intervento del legislatore statale, il quale, al fine di coordinare l’insieme della finanza pubblica, dovrà non solo fissare i principi cui i legislatori regionali dovranno attenersi, ma anche determinare le grandi linee dell’intero sistema tributario, e definire gli spazi e i limiti entro i quali potrà esplicarsi la potestà impositiva, rispettivamente, di Stato, Regioni ed enti locali”, nonché una disciplina transitoria che consenta l’ordinato passaggio dall’attuale sistema a finanza regionale (e locale) “derivata” al nuovo sistema. In tale ottica, dunque, “non si danno ancora tributi […] che possano definirsi a pieno titolo “propri” delle Regioni o degli enti locali […], nel senso che essi siano frutto di una loro autonoma potestà impositiva”, posto che “anche i tributi di cui già oggi la legge dello Stato destina il gettito, in tutto o in parte, agli enti autonomi, e per i quali la stessa legge riconosce già spazi limitati di autonomia agli enti quanto alla loro disciplina […] sono istituiti dalla legge statale e in essa trovano la loro disciplina, salvo che per i soli aspetti espressamente rimessi all’autonomia degli enti territoriali” (87).
Sulla base di tale orientamento l’Avvocatura dello Stato, argomentando che le Regioni non sono legittimate ad intervenire sulla disciplina delle tasse disposte con legge statale, sia pure destinate alle Regioni stesse, se non nei limiti di quanto stabilito dalla legislazione statale di riferimento, ha impugnato: l’art. 6 della legge della Regione Lazio n. 2/2004, che prevede l’esenzione dal pagamento della tassa automobilistica regionale ed il diritto al rimborso in caso di perdita del possesso del veicolo annotata nel pubblico registro automobilistico; l’art. 1, comma 1, lett. j) ed n), della legge della Regione Lombardia n. 5/2004, che dispone l’estensione della caratteristica di storicità, ai fini dell’esenzione dal pagamento delle tasse automobilistiche, anche ai veicoli iscritti a club, registri e associazioni di settore riconosciuti dalla Regione Lombardia e l’elevazione a 16 euro dell’importo della tassa per il rilascio della concessione di caccia e pesca; l’art. 1, comma 19, della legge della Regione Molise n. 15/2004, ai sensi del quale il cacciatore di altre Regioni, per essere ammesso a praticare la caccia nel territorio di una Provincia della Regione Molise, è tenuto al pagamento di una “quota” determinata dalla Provincia interessata in un importo compreso tra quello della tassa di concessione governativa ed il triplo della stessa; infine, l’art. 1 della legge della Regione Molise n. 18/2004, nella parte in cui prevede un nuovo e maggiore ammontare del tributo per il deposito in discarica di rifiuti con decorrenza dal 1° gennaio 2005 e determina l’ammontare dell’imposta per i rifiuti nei settori minerario, estrattivo, edilizio, lapideo e metallurgico.

2.1.12. Il potere sostitutivo del Governo ed il principio di leale collaborazione (art. 120, secondo comma, Cost.)

Il dodicesimo gruppo di ricorsi comprende due atti introduttivi (i nn. 48 e 56, entrambi già esaminati sotto altri profili) fondati sull’art. 120, secondo comma, Cost. e, dunque, sulla previsione di poteri sostitutivi del Governo nei confronti degli organi delle Regioni, delle Province, delle Città metropolitane e dei Comuni, per la cui disciplina la Costituzione rinvia ad una legge che garantisca il rispetto dei principi di sussidiarietà e leale collaborazione. Anzitutto, il ricorso n. 56 ha censurato l’art. 3, comma 5, della legge della Regione Emilia-Romagna n. 5/2004, anche per la violazione dell’art. 120 Cost., poiché esso, prevedendo che la Regione eserciti i poteri sostitutivi nei confronti degli enti locali inadempienti secondo le modalità previste dalla disciplina regionale vigente, non determinerebbe in alcun modo il tipo di potere sostitutivo attribuito alla Regione. Nella sentenza n. 300 del 2005 la Corte costituzionale ha ritenuto del tutto in conferente l’indicazione quale parametro dell’art. 120 Cost., posto che tale norma riguarda espressamente il potere sostitutivo statale.
Il ricorso n. 48, che ha impugnato l’art. 1 della legge abruzzese n. 4/2004 sui poteri sostitutivi del Difensore civico regionale nei confronti degli atti obbligatori degli enti locali, ha censurato il richiamo, ivi contenuto, all’art. 136 del Testo unico sugli enti locali (d.lgs. n. 267/2000) quale fonte dei poteri attribuiti al difensore civico, ritenuto non più operante nel quadro normativo ed organizzativo sorto per effetto della riforma del Titolo V della Costituzione. Secondo l’Avvocatura dello Stato, infatti, per tale via si avrebbe una lacuna nell’ambito della disciplina delineata dal legislatore regionale tale da mettere in dubbio anche il rispetto del principio della leale collaborazione posto a fondamento della potestà sostitutiva fra organi di rilevanza costituzionale, ai sensi dell’art. 120, secondo comma, Cost. e, in ultima analisi, la congruità delle garanzie procedimentali costituenti una delle condizioni di legittimità della legislazione in materia. Come già visto, nella sentenza n. 167 del 2005 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma abruzzese, ritenendo peraltro assorbita la censura testé esaminata.

2.1.13. I limiti al potere statutario delle Regioni (artt. 121, 122, 123 e 126 Cost.)

L’ultimo gruppo di ricorsi è composto dai nn. 105 e 106, che – come visto – hanno ad oggetto diverse disposizioni degli statuti delle Regioni, rispettivamente, Liguria ed Abruzzo. In particolare, il ricorso n. 105 aveva censurato anche l’art. 14, comma 2, dello statuto ligure, che, attribuendo alla legge regionale la funzione di assicurare la rappresentanza nel Consiglio regionale di tutti i territori provinciali proporzionalmente alla popolazione residente e le pari opportunità per uomini e donne nell’accesso alle cariche elettive, avrebbe violato la riserva di legge regionale stabilita dall’art. 122, primo comma, Cost. in materia elettorale.
Il medesimo ricorso aveva censurato anche l’art. 20, comma 2, lett. b), dello statuto ligure, il quale disponeva che il Presidente del Consiglio regionale “accerta il verificarsi dei presupposti di scioglimento del Consiglio nei casi indicati dall’art. 126, comma 3, della Costituzione e dallo statuto, e promuove il conseguente decreto del Presidente della Repubblica”, anche per violazione dei commi primo e terzo dell’art. 126 Cost. Secondo la difesa erariale, infatti, la disposizione statutaria, avrebbe violato anzitutto il disposto di cui al primo comma dell’art. 126, disponendo l’intervento provvedimentale del Capo dello Stato al di là delle ipotesi di scioglimento previste dalla citata norma costituzionale (atti contrari alla Costituzione, gravi violazioni di legge, ragioni di sicurezza nazionale). Essa, inoltre, sarebbe stata lesiva della norma di cui al terzo comma dell’art. 126, posto che lo statuto, una volta scelto il sistema istituzionale di cui all’ultimo comma dell’art. 122 Cost. (Presidente della Giunta eletto a suffragio universale e diretto), non avrebbe potuto prevedere cause di scioglimento automatiche ed ulteriori rispetto a quelle considerate dal parametro costituzionale invocato (mozione di sfiducia, rimozione, impedimento permanente, etc.).
La violazione del terzo comma dell’art. 126 Cost. era stata dedotta anche con riferimento all’art. 39 dello statuto ligure, il quale, dopo aver previsto che il Presidente della Giunta regionale presenta al Consiglio regionale il programma di governo, stabiliva che la mancata approvazione del medesimo a maggioranza assoluta dei suoi componenti determinasse la decadenza del Presidente della Giunta e lo scioglimento del Consiglio. Secondo il Governo, infatti, tale disposizione prevedeva una causa di scioglimento automatico del Consiglio regionale non considerata dalla Costituzione. Inoltre, la norma de qua è stata ritenuta non coerente con la scelta statutaria del sistema istituzionale di cui all’art. 122, quinto comma, Cost. (Presidente della Giunta eletto a suffragio universale e diretto), in quanto, prevedendo la preventiva approvazione del programma di governo da parte della maggioranza assoluta dei componenti del Consiglio regionale, avrebbe irragionevolmente e contraddittoriamente instaurato un rapporto tra Presidente e Consiglio regionale diverso da quello che dovrebbe discendere dall’investitura popolare diretta del primo, sottoponendolo ad un’ulteriore investitura di secondo grado.
Ed identiche erano state le censure mosse all’art. 40, comma 1, dello statuto ligure, che disponeva l’obbligo per il Presidente della Giunta di presentare, trascorsi due anni dall’insediamento, una relazione sullo stato di attuazione del programma e la decadenza del Presidente della Giunta, nonché lo scioglimento del Consiglio regionale, nel caso di voto negativo del Consiglio sulla medesima, espresso a maggioranza assoluta dei suoi componenti.
Ancora, la violazione dell’art. 126, terzo comma, Cost., nella parte in cui dispone che l’impedimento permanente del Presidente della Giunta regionale determina le dimissioni della Giunta e lo scioglimento del Consiglio, era stata configurata in relazione all’art. 41, comma 2, dello statuto ligure, per il quale “il vice presidente sostituisce il Presidente in caso di assenza o di impedimento”. Secondo il Governo, infatti, la norma statutaria, non precisando che l’impedimento de quo doveva essere meramente temporaneo, avrebbe determinato una non consentita surrogazione del vice Presidente al Presidente nel caso di impedimento permanente del secondo.
Infine, il ricorso n. 105 aveva impugnato l’art. 43, comma 2, dello statuto ligure, che, richiedendo la sottoscrizione di almeno un quarto dei componenti del Consiglio regionale per la presentazione della mozione di sfiducia nei confronti del Presidente della Regione, contrastava palesemente con il disposto del comma secondo dell’art. 126, per il quale la predetta mozione deve essere sottoscritta almeno da un quinto dei componenti del Consiglio regionale.
Come più volte ricordato, con l’ordinanza n. 353 del 2005 la Corte costituzionale ha dichiarato estinto il giudizio in esame per l’intervenuta rinuncia del Governo al ricorso, determinata dalla modifica dello statuto nelle parti censurate.
Il ricorso n. 106, riguardante lo statuto della Regione Abruzzo, ne ha censurato anzitutto l’art. 45, comma 3, ai sensi del quale “il Presidente della Giunta, nel caso in cui il Consiglio sfiduci uno o più assessori, provvede alla loro sostituzione”. Secondo la difesa erariale, tale disposizione, vincolando giuridicamente il Presidente ad adeguarsi alla volontà espressa dal Consiglio, non sarebbe coerente con la scelta statutaria (art. 43, comma 2) del sistema istituzionale di cui all’art. 122, quinto comma, Cost. (Presidente della Giunta eletto a suffragio universale e diretto), che implica – ai sensi della medesima disposizione costituzionale – lo speciale potere di nomina e di revoca della Giunta regionale.
Il Governo ha poi impugnato l’art. 46, comma 2, dello statuto abruzzese, il quale dispone, analogamente a quanto prevedeva l’art. 40, comma 1, dello statuto ligure, che il voto contrario del Consiglio regionale al programma presentato dal Presidente della Giunta nella prima seduta del Consiglio determina la decadenza automatica del Presidente e della Giunta. Ed analoga non poteva che essere anche la censura del Governo: violazione dell’art. 126, terzo comma, Cost., perché la norma abruzzese stabilirebbe una causa di scioglimento automatico del Consiglio non considerata dalla Costituzione, e dell’art. 122, quinto comma, Cost., per l’irragionevole e contraddittorio indebolimento della posizione del Presidente (nei confronti del Consiglio) che la medesima comporterebbe.
Ancora, l’art. 47, comma 2, dello statuto abruzzese, prevedendo che “l’approvazione della mozione di sfiducia nei confronti del Presidente della Giunta comporta la decadenza della Giunta e lo scioglimento del Consiglio”, sarebbe lesiva dell’art. 126, terzo comma, Cost., ai sensi del quale l’approvazione della mozione di sfiducia comporterebbe le dimissioni della Giunta e non la sua automatica decadenza. In altri termini, la norma statutaria abruzzese limiterebbe, rispetto alle previsioni costituzionali, i poteri dell’esecutivo regionale cui compete, anche in caso di dimissioni, una valutazione sui tempi delle medesime e, quindi, dello scioglimento del Consiglio regionale, con la conseguente possibilità di porre in essere nel frattempo gli atti ritenuti necessari ed indifferibili.
Il Governo ha altresì impugnato l’art. 79, comma 2, lett. c), dello statuto abruzzese, per il quale se il Collegio regionale per le garanzie statutarie, organo di consulenza della Regione, esprime pareri e rende valutazioni, tra l’altro, sui rilievi di compatibilità delle deliberazioni legislative con lo statuto, sollevati da un quarto dei consiglieri regionali, il Consiglio regionale può deliberare in senso contrario ai pareri e alle valutazioni del Collegio con motivata decisione. Ora, secondo l’Avvocatura dello Stato, per effetto di tale disposizione statutaria un organo burocratico amministrativo, estraneo al Consiglio regionale e privo di legittimazione democratica può essere coinvolto nel procedimento legislativo con illegittima interferenza sui poteri legislativi del Consiglio regionale ex art. 121, secondo comma, Cost. e/o sui poteri di promulgazione del Presidente della Giunta ex art. 121, quarto comma, Cost.
Infine, il ricorso in esame ha censurato l’art. 86 dello statuto abruzzese riguardante la disciplina della pubblicazione dello statuto regionale. Ai sensi della norma in parola, lo statuto, dopo la seconda deliberazione, è pubblicato nel BUR per la decorrenza del termine di trenta giorni per l’eventuale impugnazione davanti alla Corte costituzionale (pubblicazione notiziale); qualora sia proposta l’impugnazione, essa sospende la pubblicazione nel BUR e, dopo la sentenza della Corte costituzionale, lo statuto è riesaminato dal Consiglio regionale limitatamente alle disposizioni dichiarate illegittime per le deliberazioni consequenziali, nonché pubblicato nel BUR; qualora l’impugnazione non venga proposta nel termine dei trenta giorni (od il ricorso venga respinto), lo statuto è nuovamente pubblicato per la decorrenza del termine di tre mesi per la presentazione della richiesta di referendum (altra pubblicazione notiziale); decorso tale termine senza che sia richiesto il referendum (od approvato lo statuto nel referendum con la maggioranza dei voti validi) lo statuto è promulgato e pubblicato (pubblicazione necessaria) (commi 1, 2, 3 e 4).
L’Avvocatura dello Stato ha censurato tali disposizioni sostanzialmente sotto due profili. Anzitutto, qualora esse fossero interpretate nel senso che, per effetto dell’impugnativa alla Corte costituzionale, il termine per proporre il ricorso è sospeso, così che il ricorso sulle modifiche apportate allo statuto dopo l’eventuale sentenza di illegittimità può essere proposto solo nel termine che residua dalla sospensione determinata dalla precedente impugnativa, esse comprimerebbero illegittimamente il termine di trenta giorni che l’art. 123, secondo comma, Cost. prevede per la promozione del controllo preventivo di legittimità, fino al punto di vanificarlo nell’ipotesi in cui la prima impugnativa sia stata (legittimamente) proposta nell’ultimo dei trenta giorni utili.
In ogni caso, l’Avvocatura ha ritenuto non in armonia con la Costituzione la dissociazione degli effetti della pubblicazione notiziale dello Statuto all’interno della sua unitaria funzione di provocare l’apertura dei termini previsti dai commi secondo e terzo dall’art. 123.

2.2. I ricorsi delle Regioni e delle Province autonome: ordinati per oggetto

I 32 ricorsi per questione di legittimità costituzionale delle Regioni e delle Province autonome possono essere ordinati in 16 gruppi sulla base delle leggi statali impugnate. Va peraltro premesso che, poiché in alcuni casi le disposizioni di queste ultime censurate dalle Regioni in relazione al nuovo Titolo V sono state molto numerose, si è ritenuto opportuno selezionare le questioni di costituzionalità (qualitativamente e quantitativamente) più rilevanti e procedere ad una sintesi delle argomentazioni (comuni) che nei vari ricorsi sono state utilizzate per le singole questioni (in particolare, si fa riferimento alle impugnazioni di norme contenute nei d.lgs. n. 28 e 124 del 2004).

2.2.1. Il decreto legge 29 agosto 2003, n. 239 (“Disposizioni urgenti per la sicurezza e lo sviluppo del sistema elettrico nazionale e per il recupero di potenza di energia elettrica. Delega al Governo in materia di rimunerazione della capacità produttiva di energia elettrica e di espropriazione per pubblica utilità”), convertito dalla legge n. 290/2003

Il primo gruppo di atti introduttivi comprende i ricorsi n. 1 della Regione Toscana e 2 della Provincia autonoma di Trento (88), riguardanti il decreto legge 29 agosto 2003, n. 239 (“Disposizioni urgenti per la sicurezza e lo sviluppo del sistema elettrico nazionale e per il recupero di potenza di energia elettrica. Delega al Governo in materia di rimunerazione della capacità produttiva di energia elettrica e di espropriazione per pubblica utilità”), poi convertito, con modificazioni, dalla legge n. 290/2003. In particolare, oggetto di censura sono stati: l’art. 1, commi 1 e 3, che attribuisce al Ministro delle attività produttive il potere di autorizzare l’esercizio temporaneo di singole centrali termoelettriche di potenza superiore a 300 MW anche in deroga ai normali valori limite per le emissioni in atmosfera e per gli scarichi termici; l’art. 1-ter, comma 2, che attribuisce al Ministro delle attività produttive il potere di emanare gli indirizzi per lo sviluppo delle reti nazionali di trasporto di energia elettrica e di gas naturale e di approvare i relativi piani di sviluppo predisposti annualmente dai gestori delle reti di trasporto; e, infine, l’art. 1-sexies, commi 1-6 e 8, che disciplina il procedimento unico di autorizzazione, da parte di autorità statali, alla costruzione e all’esercizio degli elettrodotti, degli oleodotti, dei gasdotti, facenti parte delle reti nazionali di trasporto dell’energia, e degli impianti termici di energia elettrica di potenza superiore a 300 MW termici, attribuendo alle Regioni competenza autorizzatoria solo per le reti di carattere nazionale e prevedendo in tal caso l’esercizio di poteri sostitutivi statali per l’ipotesi di mancata intesa tra Regioni sull’autorizzazione di opere che ricadono nei territori di più Regioni (89).
Tali disposizioni violerebbero anzitutto l’art. 117, terzo comma, Cost., che attribuisce alle Regioni potestà legislativa concorrente non solo nelle materie del “governo del territorio” e della “tutela della salute”, ma anche in quella della “produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia”, limitando l’intervento dello Stato alla sola posizione dei principi fondamentali. La configurazione di poteri regolamentari statali nelle materie de quibus, inoltre, lederebbe la previsione di cui all’art. 117, sesto comma, Cost., che li ammette solo nelle materie di esclusiva competenza statale. Ancora, le disposizioni statali in parola sarebbero in contrasto anche con l’art. 118 Cost., poiché nelle materie di legislazione regionale (concorrente o residuale) spetta alle Regioni allocare le funzioni amministrative secondo i criteri ivi indicati. Infine, la norma sui poteri sostitutivi dello Stato sarebbe contraria all’art. 120, secondo comma, Cost., che limita l’esercizio di poteri surrogatori ad ipotesi tipiche, non suscettibili di estensione tramite legge ordinaria.
Peraltro, in entrambi i ricorsi è stata considerata la (denegata) ipotesi in cui le norme statali vengano intese quale espressione dell’avocazione allo Stato di funzioni amministrative sulla base del principio di sussidierietà, così come ricostruito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 303 del 2003: ebbene, anche in tale prospettiva lo Stato avrebbe comunque leso il principio di leale collaborazione, attesa l’assenza di quelle attività concertative e di coordinamento orizzontale (le intese) che, secondo l’insegnamento del giudice delle leggi, legittimano l’effetto ascendente della sussidiarietà.

2.2.2. Il decreto legislativo 16 ottobre 2003, n. 288 (“Riordino della disciplina degli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, a norma dell’articolo 42, comma 1, della legge 16 gennaio 2003, n. 3”)

Il secondo gruppo di ricorsi ne comprende in realtà uno solo, il n. 3 della Regione Emilia-Romagna (90), che ha impugnato molteplici disposizioni del decreto legislativo 16 ottobre 2003, n. 288, dedicato al “Riordino della disciplina degli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, a norma dell’articolo 42, comma 1, della legge 16 gennaio 2003, n. 3” (91). In particolare, la Regione ha censurato: l’art. 2, che attribuisce al Ministro della salute il potere di trasformare in fondazioni gli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (IRCCS) e al predetto Ministro e a quello dell’economia e delle finanze il potere di vigilanza sulle fondazioni IRCCS (comma 1), disciplina gli enti fondatori ed i possibili soggetti partecipanti alle fondazioni (comma 2) e regola la successione delle fondazioni nei rapporti attivi e passivi degli IRCCS (comma 3); l’art. 3, che rinvia alla normativa civilistica per la disciplina del regime giuridico delle fondazioni (comma 1), regola la composizione e la nomina del consiglio di amministrazione (comma 2), nonché la nomina del presidente della Fondazione (comma 3), e, infine, determina gli indirizzi per l’autonomia statutaria e per la nomina del direttore generale e del direttore scientifico (comma 4), nonché la cessazione dei commissari straordinari (comma 6); l’art. 4, che disciplina i compiti e la composizione del collegio sindacale; l’art. 5, che rimette la disciplina delle modalità di organizzazione, di gestione e di funzionamento degli IRCCS non trasformati ad una intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni ed al Ministro della salute la nomina del direttore scientifico degli stessi; l’art. 8, comma 5, che prevede la stipulazione di accordi e convenzioni o la costituzione o partecipazione a consorzi, società di persone o capitali con soggetti pubblici e privati al fine di trasferire i risultati della ricerca in ambito industriale; l’art. 10, comma 1, ultima frase, che attribuisce al Ministero della salute, nella ripartizione dei fondi previsti per il finanziamento delle fondazioni e degli istituti non trasformati (art. 12, comma 2, d.lgs. n. 502/1992), la possibilità di riservare apposite quote per il finanziamento di progetti gestiti mediante organizzazione a rete; l’art. 11, comma 1, seconda frase, che regola il rapporto di lavoro del personale delle fondazioni; l’art. 14, che disciplina il procedimento di riconoscimento delle fondazioni, attribuendone la competenza al Ministero della salute; l’art. 15, commi 1 e 2, che attribuisce al Ministro della salute la verifica periodica del possesso dei requisiti necessari per il riconoscimento delle fondazioni, il potere di scioglimento dei consigli di amministrazione di tali fondazioni e degli organi degli IRCCS non trasformati, nonché il potere di nomina del commissario straordinario; l’art. 16, che disciplina la costituzione, da parte del Ministro della salute, di comitati paritetici di vigilanza sulle fondazioni; l’art. 17, comma 2, che regola la devoluzione del patrimonio delle fondazioni in caso di estinzione; infine, l’art. 19, il quale prevede che la richiesta di conferma del carattere scientifico degli IRCCS esistenti deve essere sottoposta al Ministero della salute e alla Regione competente.
Secondo la ricorrente, tale disciplina lederebbe le competenze legislative, regolamentari ed amministrative delle Regioni sancite dagli artt. 117, terzo e sesto comma e 118, primo e secondo comma, Cost., in quanto il settore degli IRCCS sarebbe riconducibile in parte alla materia (di competenza concorrente) della “tutela della salute”, in parte a quella (sempre di competenza concorrente) della “ricerca scientifica e tecnologica”, in cui lo Stato, diversamente da quanto fatto nel caso di specie, deve limitarsi a porre i principi fondamentali della materia, senza sottrarre alle Regioni la possibilità di un esercizio coerente delle loro competenze legislative e condizionare l’esercizio delle funzioni regolamentari ed amministrative loro spettanti. La Regione ha altresì eccepito la violazione dell’art. 117, quarto comma, Cost., atteso che molti aspetti della disciplina de qua inciderebbero nella materia (residuale) dell’ordinamento degli enti regionali, che sarebbe del tutto interdetta ad interventi normativi statali. D’altra parte, secondo la Regione, non sarebbe neanche possibile per lo Stato invocare la vocazione dinamica del principio di sussidiarietà e, quindi, l’attrazione a livello statale di funzioni amministrative regionali (e delle relative funzioni legislative), data l’assoluta mancanza nel caso di specie di una “istanza di esercizio unitario” che “trascende anche l’ambito regionale” (Corte cost., sent. n. 303/2003, punto 2.1. del Considerato in diritto). Infine, la norma che attribuisce al Ministro della salute la facoltà di riservare apposite quote per il finanziamento di progetti gestiti mediante organizzazione a rete violerebbe anche l’art. 119 Cost., poiché interferirebbe con l’autonomia finanziaria della Regioni nelle materie di legislazione concorrente.
La Corte costituzionale ha definito il ricorso in parola con la sentenza n. 270 del 2005, accogliendo solo in parte le eccezioni di incostituzionalità formulate dalla Regione Emilia-Romagna avverso il d.lgs. n. 288 del 2003. Infatti, la Consulta non ha ritenuto fondate le questioni relative a: gli artt. 2, commi 2 e 3, art. 11, espressione di principi fondamentali delle materie “tutela della salute” e “ricerca scientifica”, posto che “la previsione di una nuova tipologia di persona giuridica, la Fondazione IRCCS di diritto pubblico, esige necessariamente una disciplina uniforme della sua fondamentale caratterizzazione organizzativa, pur nel riconoscimento di una sua autonoma potestà statutaria, così come l’eventuale permanenza di alcuni IRCCS che non si possano trasformare in Fondazioni richiede che ad essi si dia comunque un sicuro assetto organizzativo, di cui finora non disponevano a causa delle loro complesse e tormentate evoluzioni normative”(92); gli art. 2, commi 1, e 16, commi 3 e 4, poiché il potere di vigilanza riconosciuto al Ministro dell’economia ed i controlli sugli organi degli IRCCS rispondono alle esigenze di carattere unitario di cui all’art. 118, primo comma, Cost.; l’art. 3, comma 1, da interpretare nel senso che esso legittima l’applicazione della normativa civilistica sulle persone giuridiche soltanto in assenza di una esplicita disciplina statale o regionale e purché sia compatibile con quanto stabilito dal d.lgs. n. 288/2003; l’art. 3, commi 4, 5, e 6, l’art. 4, commi 1, 2, 4, 5 e 6, l’art. 5, l’art. 14, l’art. 15, commi 1 e 2, l’art. 17, comma 2, l’art. 19, attesa “la compatibilità costituzionale, ai sensi dell’art. 118 Cost., di un ruolo significativo riconosciuto al Ministro della salute nei processi di gestione di questa legge, al fine di garantire una adeguata uniformità e la tutela di alcuni interessi unitari esistenti, seppure a condizione che parallelamente siano configurati significativi istituti di partecipazione delle Regioni interessate” (93), come accade – per l’appunto – nel caso di specie; l’art. 5, comma 1, posto che l’intesa rappresenta semplicemente una modalità di determinazione, condivisa fra Stato e Regioni ed uniforme sull’intero territorio nazionale, di quali debbano essere le caratteristiche comuni degli IRCCS non trasformati, che non preclude alle Regioni di esercitare il proprio potere legislativo anche in questo settore; l’art. 8, comma 5, in quanto, un regime giuridico del personale uniforme per l’intera categoria delle fondazioni IRCCS è pienamente compatibile con il riparto di competenze definito negli artt. 117 e 118 Cost.; infine, l’art. 10, atteso che il potere ivi attribuito al Ministro della salute rappresenta uno degli strumenti per far valere le esigenze di carattere unitario ai sensi dell’art. 118, primo comma, Cost.
La Corte ha invece dichiarato l’illegittimità costituzionale di altre disposizioni del d.lgs. n. 288 del 2003: in particolare, l’art. 3, comma 2, limitatamente alle parole “dei quali tre designati dal Ministro della salute, tre dal Presidente della Regione e uno dal Comune in cui insiste la sede prevalente di attività clinica e di ricerca, se si tratta di Comune con più di diecimila abitanti, ovvero dalla Conferenza dei Sindaci, qualora il Comune abbia dimensione demografica inferiore”; l’art. 3, comma 3, limitatamente alle parole “nominati dal Ministro della salute e dal Presidente della Regione competente”; l’art. 4, comma 3, limitatamente alle parole “di cui due designati dalla Regione, uno designato dal Ministro dell’economia e delle finanze, uno dal Ministro della salute e uno dall’organismo di rappresentanza delle autonomie locali. In casi di strutture nelle quali insiste la prevalenza del corso formativo della Facoltà di medicina e chirurgia ai sensi dell’art. 13, comma 1, il membro designato dalle autonomie locali viene sostituito da un membro designato dal Rettore dell’Università”. Ad avviso del giudice delle leggi, infatti, tali disposizioni “appaiono ingiustificatamente dettagliate e quindi invasive, ad un tempo, sia dell’area di autonomia statutaria riconosciuta alle Fondazioni, che dell’ambito lasciato all’eventuale esercizio della potestà legislativa regionale. Al tempo stesso, queste disposizioni sono incostituzionali nella parte in cui […] pretendono di riservare, mediante obblighi legislativi, alcune designazioni ministeriali in ordinari organi di gestione o di controllo di enti pubblici che non appartengono più all’area degli enti statali” (94). Nella medesima prospettiva la Corte ha dichiarato incostituzionale anche i commi 1 e 2 dell’art. 16 che, prevedendo un vero e proprio controllo amministrativo di tipo preventivo sugli atti degli IRCCS, affidato ad organi statali (i Comitati periferici di vigilanza), non risultano coerenti con il riconoscimento degli istituti in parola quali “enti autonomi, dotati di propri statuti ed organi di controllo interni, ed operanti nell’ambito della legislazione regionale di tipo concorrente” (95).

2.2.3. La legge 24 dicembre 2003, n. 350 (legge finanziaria 2004)

Il terzo gruppo di ricorsi comprende i ricorsi n. 30 della Regione Lazio (96), 31 della Regione Marche (97) e 33 della Regione Emilia-Romagna (98), aventi ad oggetto la legge 24 dicembre 2003, n. 350 (“Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2004). In particolare, si tratterà prevalentemente di questioni di costituzionalità sollevate dalla Regione Emilia-Romagna, posto che la Regione Lazio ha impugnato un’unica disposizione della legge finanziaria 2004, mentre le questioni sollevate dalla Regione Marche sono già state definite dalla Corte costituzionale nel corso del 2004 con un’unica eccezione.

2.2.3.1. Art. 2, comma 38

Il ricorso n. 33 ha censurato, tra gli altri, l’art. 2, comma 38, della legge n. 350 del 2003, il quale prevede, allo scopo di promuovere la diffusione della cultura italiana e di sostenere lo sviluppo delle attività di ricerca e studio, un’autorizzazione alla spesa di 100.000 euro per l’anno 2004, da destinare prioritariamente all’erogazione di contributi a favore degli istituti di cultura (di cui alla legge n. 534 del 1996) per la costruzione della propria sede principale, attribuendo ad un d.P.C.m la competenza a dettare le relative disposizioni di attuazione. Secondo la difesa regionale, tale disposizione violerebbe sia l’art. 117, terzo e sesto comma, sia l’art. 119 Cost.: infatti, da un lato, l’intervento finanziario de quo sarebbe riconducibile alle materie della “valorizzazione dei beni culturali” e della “ricerca scientifica”, entrambe di competenza concorrente, nelle quali la potestà legislativa e regolamentare spetta alle Regioni e non allo Stato, cui è riservata soltanto la determinazione dei legge dei principi fondamentali (nella quale non potrebbe rientrare la destinazione di somme); dall’altro, nel nuovo quadro costituzionale allo Stato non spetterebbe erogare speciali risorse per contributi a favore degli istituti di cultura, ma soltanto il finanziamento integrale delle funzioni regionali, nell’esercizio delle quali, poi, dovrebbero essere le Regioni a disciplinare la materia – e, in particolare, gli eventuali contributi agli istituti stessi – nel quadro dei principi fondamentali stabiliti dalla legislazione dello Stato.
Con la sentenza n. 160 del 2005 la Corte costituzionale ha accolto la questione in esame, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 38, della l. n. 350/2003. Richiamando la propria giurisprudenza, la Consulta ha ribadito che “non sono consentiti finanziamenti a destinazione vincolata disposti con legge statale in materie la cui disciplina spetti alle Regioni perché non rientranti in ipotesi di competenza esclusiva dello Stato (cfr. sentenze n. 370 del 2003, n. 16 del 2004, n. 51 del 2005)”. E la costruzione della sede principale di un istituto di cultura rientra certamente nella competenza legislativa concorrente, data la sua strumentalità rispetto alla materia dell’“organizzazione di attività culturali” di cui all’art. 117, terzo comma, Cost.

2.2.3.2. Art. 2, comma 70

La Regione Emilia-Romagna ha censurato anche l’art. 2, comma 70, della l. n. 350/2003, in quanto, disponendo l’abrogazione dei commi 6, 9, 11 e 24 dell’art. 32 del decreto legge n. 269 del 2003 (“Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici”), convertito in legge, con modificazioni, dalla legge n. 326 del 2003, determinerebbe il venir meno delle risorse da destinare alle Regioni per interventi di riqualificazione dei nuclei interessati da fenomeni di abusivismo e per la attivazione di un programma nazionale di interventi di riqualificazione delle aree degradate. La disposizione impugnata, dunque, si porrebbe in contrasto non solo con l’art. 117 Cost., secondo comma, lett. s), Cost., in quanto costituirebbe un vulnus all’obiettivo che la Costituzione assegna al legislatore statale in ordine alla tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, ma anche con l’art. 119 Cost., in quanto lederebbe le attribuzioni regionali e l’autonomia finanziaria delle Regioni, che resterebbero prive delle risorse necessarie per un corretto recupero delle opere abusive condonate.
Nella sentenza n. 71 del 2005 la Corte costituzionale ha dichiarato la questione in esame inammissibile per sopravvenuta carenza di interesse posto a sostegno del ricorso della Regione Emilia-Romagna. La Consulta ha infatti osservato che, a seguito della sentenza n. 196 del 2004, che ha ricondotto la disciplina del condono edilizio – per la parte non inerente ai profili penalistici – alla materia “governo del territorio” di cui all’art. 117, terzo comma, Cost., alle Regioni è stato riconosciuto “il potere di modulare l’ampiezza del condono edilizio in relazione alla quantità e alla tipologia degli abusi sanabili, ferma restando la spettanza al legislatore statale della potestà di individuare la portata massima del condono edilizio straordinario, attraverso la definizione sia delle opere abusive non suscettibili di sanatoria, sia del limite temporale massimo di realizzazione delle opere condonabili, sia delle volumetrie massime sanabili”. Ecco che allora la Regione ricorrente “non potrebbe più, allo stato attuale, lamentare la mancata assegnazione, da parte dello Stato, delle risorse necessarie alla riqualificazione urbanistica, dal momento che rientra espressamente nel potere delle Regioni determinare – entro limiti fissati dalla legge statale – tipologie ed entità degli abusi condonabili”. Infatti, tale potere, congiuntamente alla facoltà, attribuita alle Regioni dall’art. 32 del decreto legge n. 269 del 2003, di incrementare sia la misura dell’oblazione, sia la misura degli oneri di concessione, al fine di fronteggiare i maggiori costi che le amministrazioni comunali devono affrontare per la realizzazione delle opere di urbanizzazione, e, in generale, per gli interventi di riqualificazione delle aree interessate dagli abusi edilizi, “consente alla Regione di valutare le conseguenze del condono sulle finanze regionali e locali e determinare, anche in ragione delle risorse necessarie agli eventuali interventi di riqualificazione, l’ampiezza della sanatoria” (99).


2.2.3.3. Art. 3, comma 32

La Regione Emilia-Romagna ha sollevato questione di legittimità costituzionale anche dell’art. 3, comma 32, della legge n. 350/2003, che ribadisce le misure di “razionalizzazione” della spesa sanitaria introdotte dall’art. 52, comma 4, della legge n. 289 del 2002 (legge finanziaria 2003), già oggetto di impugnazione da parte della medesima Regione (ric. n. 25/2003), continuando ad alterare l’assetto dei rapporti tra lo Stato e le Regioni consensualmente stabilito come metodo di razionalizzazione della spesa sanitaria (Accordi 8 agosto 2001 e 22 novembre 2001). Secondo la Regione, infatti, il predetto art. 52, comma 4, avrebbe modificato gli adempimenti posti a carico delle Regioni, imponendo ad esse l’obbligo di attuare, senza maggiori oneri a carico del bilancio dello Stato, iniziative dirette a favorire lo svolgimento, presso gli ospedali pubblici, degli accertamenti diagnostici in maniera continuativa, con l’obiettivo finale della copertura del servizio nei sette giorni della settimana, e di prevedere la decadenza automatica dei direttori generali nell’ipotesi di mancato raggiungimento dell’equilibrio economico delle aziende sanitarie e ospedaliere, nonché delle aziende ospedaliere autonome.
La ricorrente ha pertanto ribadito le censure sollevate nel ricorso n. 25 del 2003 nei confronti del predetto art. 52, comma 4, rilevando in particolare che l’imposizione alle Regioni del compito di rafforzare i servizi diagnostici senza maggiori oneri a carico dello Stato, non potrebbe prospettarsi come parte della definizione dei livelli essenziali di assistenza, essendo incompatibile con il quadro costituzionale in cui si inseriscono le garanzie dell’autonomia finanziaria regionale che lo Stato imponga alle Regioni l’esercizio di funzioni senza finanziarle (artt. 117 e 119 Cost.), mentre l’obbligo per le Regioni di introdurre norme che comportano la decadenza automatica dei direttori generali non potrebbe essere considerato un principio fondamentale della materia, posta la sua natura di condizione per l’accesso ad integrazioni finanziarie e non di norma inderogabile (art. 117, terzo comma, Cost.).
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 36 del 2005 (che ha definito anche le questioni sollevate dal ricorso n. 25 del 2003), ha dichiarato infondata l’eccezione di incostituzionalità in esame. Infatti, secondo il giudice delle leggi, la previsione statale concernente le iniziative regionali dirette a favorire lo svolgimento continuativo degli accertamenti diagnostici “non impone affatto obblighi lesivi della competenza legislativa regionale, ma costituisce […] la prefissione di un principio in termini di risultato, che lascia alla discrezionalità delle Regioni la scelta delle misure organizzative più appropriate per la realizzazione degli scopi indicati” (100). D’altra parte, la norma sulla decadenza automatica dei direttori generali nell’ipotesi di mancato raggiungimento dell’equilibrio economico “non può essere considerata, per il suo tenore letterale, come impositiva di un obbligo cogente, che elimini in materia ogni spazio di autonomia legislativa ed organizzativa regionale”, ma “deve essere letta come recante un principio che “sollecita” le Regioni a configurare, per le ipotesi di mancato conseguimento dell’equilibrio economico delle aziende sanitarie, un’apposita disciplina relativa all’irrogazione della misura della decadenza dei rispettivi direttori generali” (101).

2.2.3.4. Art. 3, comma 43

La Regione Emilia-Romagna ha dedotto anche l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 43, della l. n. 350/2003, ai sensi del quale il Ministro degli affari esteri, con proprio decreto, emana disposizioni per razionalizzare i flussi di regolazione finanziaria e per semplificare le procedure relative alla gestione delle attività di cooperazione internazionale, con particolare riferimento alle procedure amministrative relative alle organizzazioni non governative. Infatti, tale disposizione, qualora fosse intesa in modo da comprendere anche le attività di cooperazione internazionale svolte dalle Regioni, lederebbe la competenza legislativa e regolamentare regionale in materia di “rapporti internazionali […] delle Regioni” di cui all’art. 117, terzo e sesto comma, Cost., nonché l’autonomia finanziaria loro riconosciuta dall’art. 119 Cost.

2.2.3.5. Art. 3, comma 75

Anche l’art. 3, comma 75, della legge finanziaria per il 2004 è stata censurata perché ritenuta lesiva dell’autonomia legislativa e finanziaria della Regione: infatti, prevedendo che tutte le pubbliche amministrazioni (Regioni ed enti locali inclusi) possano rimborsare al proprio personale (ad eccezione dei dirigenti di prima fascia) che si reca in missione presso (o per conto) delle istituzioni dell’Unione europea le spese di viaggio aereo soltanto per la classe economica, la norma censurata non porrebbe un principio fondamentale in materia di coordinamento della finanza pubblica, ma una minutissima norma di dettaglio.

2.2.3.6. Art. 3, commi 76, 77 e 82

I commi 76, 77 e 82 dell’art. 3 della medesima legge, recano norme in tema di convenzioni stipulate dal Ministro del lavoro direttamente con i Comuni per lo svolgimento di attività socialmente utili e per l’attuazione di misure volte all’impiego e alla stabilizzazione occupazionale dei soggetti utilizzati in tali attività. In particolare, il comma 76 autorizza il Ministro del lavoro a prorogare per il 2004, rifinanziandole, le convenzioni già stipulate con i Comuni, anche in deroga alla normativa vigente relativa ai lavori socialmente utili, per lo svolgimento di attività di questo tipo e per l’attuazione di misure di politica attiva del lavoro in favore dei soggetti in esse utilizzati; il comma 77 completa questa disciplina, prorogando al 31 dicembre 2004 il termine previsto dalla legislazione previgente come limite temporale entro il quale i costi dei lavori socialmente utili erano, in tutto o in parte, a carico del Fondo per l’occupazione; infine, il comma 82 autorizza il Ministero a stipulare nel 2004 direttamente con i Comuni nuove convenzioni (e contestualmente le finanzia) per lo svolgimento di attività socialmente utili e per l’attuazione di misure di politica attiva del lavoro riferite a lavoratori impegnati in tali attività.
Secondo la Regione Emilia-Romagna, le predette disposizioni violerebbero, anzitutto, gli artt. 117, terzo comma, e 118 Cost. (nonché i principi fissati dalla Corte costituzionale nella sent. n. 303 del 2003), in quanto – nella materia della “tutela del lavoro”, attribuita alla competenza concorrente dello Stato e delle Regioni –, invece di fissare principi fondamentali della materia, attribuiscono al Ministero del lavoro la funzione amministrativa di prorogare le vecchie convenzioni e di stipularne di nuove, in difetto di esigenze unitarie e senza alcuna intesa con le Regioni.
Inoltre, secondo la ricorrente, posto che la gestione della politica attiva del lavoro rientra nella competenza legislativa regionale, lo Stato dovrebbe limitarsi a finanziare “integralmente” le funzioni regionali (art. 119, quarto comma, Cost.) invece di impegnare direttamente risorse per esercitare compiti ad esso non spettanti.
La Corte costituzionale ha definito la questione in esame con la sentenza n. 219 del 2005, limitando la dichiarazione di illegittimità costituzionale ai commi 76 e 82 dell’art. 3 della l. n. 350/2003. Infatti, secondo il giudice delle leggi, atteso che la disciplina dei lavori socialmente utili si colloca all’incrocio di varie competenze legislative, di cui ai commi secondo (“previdenza sociale”), terzo (“tutela […] del lavoro”) e quarto (politiche sociali e “formazione professionale”) dell’art. 117 Cost. e che per le ipotesi di “concorrenza di competenze” la Costituzione non prevede espressamente un criterio di composizione delle interferenze, nei casi in cui – come in quello di specie – non possa ravvisarsi la sicura prevalenza di un complesso normativo rispetto ad altri tale da rendere dominante la relativa competenza legislativa “si deve ricorrere al canone della leale collaborazione, che impone alla legge statale di predisporre adeguati strumenti di coinvolgimento delle Regioni, a salvaguardia delle loro competenze (sentenza n. 50 del 2005)” (102). Su tali basi la Corte ha statuito l’illegittimità costituzionale dei commi 76 e 82 dell’art. 3 della legge n. 350 del 2003 nella parte in cui non prevedono alcuno strumento idoneo a garantire una leale collaborazione fra Stato e Regioni.

2.2.3.7. Art. 3, comma 92

La Regione Emilia-Romagna ha poi censurato l’art. 3, comma 92, della l. n. 350/2003, ai sensi del quale, per l’attuazione del piano programmatico di interventi finanziari di cui all’articolo 1, comma 3, della legge n. 53 del 2003 (che per esso prevede l’approvazione del Consiglio dei ministri, previa intesa con la Conferenza unificata Stato-Regioni-autonomie locali, su proposta del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca), è autorizzata, a decorrere dall’anno 2004, la spesa complessiva di 90 milioni di euro per interventi di sviluppo delle tecnologie multimediali, di orientamento contro la dispersione scolastica e per assicurare il diritto-dovere di istruzione e formazione, per lo sviluppo dell’istruzione e formazione tecnica superiore e per l’educazione degli adulti, nonché per l’istituzione del Servizio nazionale di valutazione del sistema di istruzione. Secondo la ricorrente, tale disposizione, pur in mancanza dell’approvazione del predetto piano programmatico che presuppone il raggiungimento di un intesa in Conferenza unificata, finanzierebbe specifici interventi interferenti con le attribuzioni regionali (nelle quali ricadrebbero, ad esempio, gli interventi di orientamento contro la dispersione scolastica e per assicurare la realizzazione del diritto-dovere di istruzione e formazione, nonché gli interventi per lo sviluppo dell’istruzione e formazione tecnica superiore e per l’educazione degli adulti).
Per tale via, dunque, la norma censurata sarebbe illegittima, in quanto, “anziché assegnare i relativi fondi alle Regioni nel quadro delle regole di cui all’art. 119 Cost., finanzierebbe interventi settoriali diretti – ed oltretutto unilateralmente decisi – in materia di competenza concorrente” (103), vietati dal nuovo Titolo V secondo la giurisprudenza consolidata della Corte costituzionale (cfr. sentt. n. 370/2003, 16/2004, 49/2004).
Nella sentenza n. 231 del 2005 la Corte costituzionale ha però dichiarato infondata la questione in esame. Ad avviso della Consulta, infatti, la norma censurata deve essere letta in armonia con il principio costituzionale della leale collaborazione: posto che essa richiama espressamente il piano programmatico di cui all’art. 1, comma 3, della legge n. 53 del 2003 e quindi anche le modalità della sua approvazione, “l’autorizzazione alla spesa, oggetto della censura, è pur sempre subordinata, per quanto concerne la sua concreta attuazione, all’approvazione del piano, a sua volta condizionata all’intesa con la Conferenza” (104).

2.2.3.8. Art. 3, commi 108-115

La Regione Emilia-Romagna ha altresì impugnato le disposizioni della legge finanziaria per il 2004 che disciplinano interventi finanziari per l’attuazione di programmi finalizzati alla costruzione ed al recupero di unità immobiliari nei Comuni ad alta densità abitativa, destinate ad essere locate con contratti a canone speciale (commi 108-115 dell’art. 3). Infatti, posto che l’edilizia residenziale pubblica rientra nella materia concorrente del “governo del territorio”, la ricorrente ha eccepito l’illegittimità costituzionale delle disposizioni di dettaglio (commi 112-115) con cui sono state introdotte norme puntuali sulla stipula di convenzioni tra il Comune e le imprese di costruzione, sui requisiti di reddito, sulla dimensione massima degli alloggi, sulla durata dei contratti di locazione e loro rinnovi.
Inoltre, la difesa regionale ha censurato l’istituzione del Fondo per l’edilizia a canone speciale (commi 108-110) per violazione dei principi di autonomia finanziaria delle Regioni sanciti dall’art. 119 Cost., così come interpretati dalla giurisprudenza costituzionale. Infatti, secondo la Regione, posto che “il nuovo art. 119 della Costituzione, prevede espressamente, al quarto comma, che le funzioni pubbliche regionali e locali debbano essere integralmente finanziate tramite i proventi delle entrate proprie e la compartecipazione al gettito dei tributi erariali riferibili al territorio dell’ente interessato, di cui al secondo comma, nonché con quote del fondo perequativo senza vincoli di destinazione, di cui al terzo comma”, per cui “per il finanziamento delle normali funzioni di Regioni ed enti locali, lo Stato può erogare solo fondi senza vincoli specifici di destinazione” (sent. n. 370/2003), dopo la riforma costituzionale del Titolo V lo Stato non potrebbe più istituire, in materie di competenza regionale, fondi speciali gestiti da organi riferibili allo Stato stesso, anziché trasferire i finanziamenti, senza vincolo di destinazione, alle Regioni e agli enti locali.
Un ulteriore profilo di illegittimità della normativa de qua, per violazione dell’art. 117, sesto comma, Cost., è ravvisato nella disposizione (comma 111) che attribuisce al Ministro delle infrastrutture poteri di tipo regolamentare di elevata discrezionalità e rilevanza politica per la determinazione delle agevolazioni fiscali che possono essere concesse a favore degli investimenti (lett. a)), e della misura in cui i redditi derivanti dalla locazione concorrono a determinare la base imponibile dei percettori (lett. b)).

2.2.3.9. Art. 4, commi 1-6

I commi da 1 a 6 dell’art. 4 della l. n. 350/2003 recano la previsione di contributi agli utenti che acquistino o noleggino un apparecchio “decoder” per fruire dei servizi televisivi in tecnica digitale terrestre e per il collegamento “a banda larga” ad internet. Secondo la Regione Emilia-Romagna, le predette provvidenze economiche – nonostante la rubrica dell’art. 4 (“Finanziamenti agli investimenti”) possa far pensare a misure di intervento diretto sul mercato che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 14 del 2004, ha riconosciuto di competenza statale – si inquadrerebbero piuttosto nella materia del “sostegno all’innovazione tecnologica”, essendone beneficiari i soggetti comuni e non le imprese. In tale materia, tuttavia, spetterebbe allo Stato la sola legislazione di principio, essendo rimessa alle Regioni la disciplina concreta degli interventi e la loro erogazione; né sussisterebbe l’esigenza di una gestione unitaria in sede nazionale di tali contributi, stante la loro esiguità.
A conclusioni analoghe dovrebbe del resto pervenirsi anche se si volessero ricondurre gli interventi di cui si tratta alla materia dell’“ordinamento della comunicazione”, essendo anche questa una materia nella quale lo Stato, così come ribadito dalla Consulta nella sentenza n. 324 del 2003, dispone di competenza limitata alla legislazione di principio preordinata alla cura di esigenze unitarie.
Ricollocate, quindi, nell’ambito della potestà legislativa concorrente, le disposizioni impugnate sarebbero illegittime sotto tre diversi profili: perché contengono disposizioni di dettaglio; perché dispongono finanziamenti diretti senza alcun coinvolgimento delle Regioni; e perché, infine, attribuiscono al Ministro delle comunicazioni, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, l’esercizio di poteri regolamentari in ordine alla definizione dei criteri e delle modalità di attribuzione dei contributi.
Con la sentenza n. 151 del 2005 la Corte costituzionale ha rigettato la questione di costituzionalità in esame. Infatti, posto che la finalità delle norme impugnate è quella di favorire la diffusione della tecnica digitale terrestre di trasmissione televisiva, quale strumento di attuazione del principio del pluralismo informativo esterno, le disposizioni impugnate attingono pluralità di materie e di interessi (tutela della concorrenza, sviluppo tecnologico, tutela del pluralismo dell’informazione), appartenenti alla competenza legislativa esclusiva o concorrente, senza che alcuna tra esse possa dirsi prevalente così da attrarre l’intera disciplina. Pertanto, “[…] l’assunzione diretta di una funzione amministrativa da parte dello Stato, nella forma dell’erogazione di un contributo economico in favore degli utenti, previa adozione di un regolamento che stabilisca criteri e modalità di attribuzione di tale contributo, appare nella specie giustificata – alla stregua del principio di sussidiarietà sancito dall’art. 118, primo comma, della Costituzione – da una evidente esigenza di esercizio unitario della funzione stessa, non potendo un siffatto intervento a sostegno del pluralismo informativo non essere uniforme sull’intero territorio nazionale” (105).

2.2.3.10. Art. 4, commi 18 e 19

La Regione Emilia-Romagna ha proposto questione di legittimità costituzionale anche dei commi 18 e 19 dell’art. 4 della l. n. 350/2003. Infatti, secondo la difesa regionale, tali disposizioni, nel prevedere una gestione accentrata di risorse destinate al finanziamento di contratti di programma nei settori dell’agricoltura e della pesca, violerebbero gli articoli 117, 118 e 119 della Costituzione, in quanto intervengono nelle materie di competenza regionale residuale dell’agricoltura e della pesca, non realizzano il finanziamento integrale delle funzioni ordinarie delle Regioni e, ove pure fosse ravvisabile l’esercizio di una competenza sussidiaria da parte dello Stato nella previsione e gestione del fondo, non prevedono la necessaria intesa delle Regioni interessate ai fini dell’approvazione dei contratti di programma.
D’altra parte, la Regione richiama la sentenza n. 14 del 2004, anch’essa in materia di programmazione negoziata in agricoltura, con cui la Corte costituzionale ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 67 della legge n. 448 del 2001 (legge finanziaria 2002) in relazione ai medesimi parametri invocati nel ricorso in parola. Ebbene, la difesa regionale precisa che tale sentenza ha ricondotto la disciplina dell’art. 67, comma 1, alle funzioni legislative statali di cui alla lett. e) dell’art. 117, secondo comma, Cost., e segnatamente alla tutela della concorrenza, nel presupposto che i previsti contratti di programma e patti territoriali si riferiscono all’intero territorio nazionale, laddove i commi 18 e 19 dell’art. 4 della legge finanziaria per il 2004 non fanno alcun riferimento ad un essenziale “rilievo nazionale” delle iniziative in esame.
La Consulta, nella sentenza n. 134 del 2005, ha confermato il precedente orientamento, atteso che le disposizioni impugnate ripropongono la medesima disciplina sostanziale già favorevolmente scrutinata dalla sentenza n. 14/2004. Del resto – ha osservato la Corte – “la dimensione macroeconomica dell’intervento previsto dalla nuova disciplina è assicurata, come nel caso dell’art. 67 della legge n. 448 del 2001, […] dal ricorso ai contratti di programma, i quali, come è noto, hanno la funzione, insieme ad altri strumenti che rientrano nella più lata nozione di programmazione negoziata, di stimolare la crescita economica e rafforzare la concorrenza sul piano nazionale.

2.2.3.11. Art. 4, commi 29 e 30

Il comma 29 dell’art. della l. n. 350/2003 è stato censurato dalla Regione Emilia-Romagna in quanto, recependo con un rinvio “fisso” la ripartizione di competenze fra Stato e Regioni operata dal decreto del Ministero delle politiche agricole e forestali 25 maggio 2000 (“Adozione del VI Piano nazionale triennale della pesca e dell’acquacoltura 2000-2002”), nel contesto del vecchio Titolo V della Costituzione, che attribuiva alla competenza regionale solo la “pesca nelle acque interne”, non sarebbe coerente con il nuovo quadro costituzionale, nell’ambito del quale (salvi i titoli di intervento di cui all’art. 117, secondo comma, Cost.) lo Stato può svolgere e regolare funzioni amministrative nelle materie di competenza regionale (come la pesca, nonché la ricerca e l’educazione alimentare) solo qualora ciò sia reso necessario dal principio di sussidiarietà. Ebbene, secondo la difesa regionale, la norma censurata, limitandosi a recepire in modo tralaticio la ripartizione operata dal predetto decreto, non avrebbe affatto compiuto le valutazioni rese necessarie dagli artt. 117 e 118 Cost., attribuendo allo Stato competenze rientranti in materie regionali, in assenza di esigenze unitarie. Peraltro, la norma de qua sarebbe comunque illegittima, anche qualora fossero ravvisate esigenze unitarie a sostegno delle competenze statali, per la mancata previsione dell’intesa con le Regioni interessate.
Analoga la censura mossa dalla Regione Emilia-Romagna al comma 30 dell’art. 4, che attribuisce esclusivamente al Ministro delle politiche agricole e forestali il compito di approvare il Piano nazionale della pesca e dell’acquacoltura per l’anno 2004: secondo la Regione, anche ammettendo che per l’approvazione del Piano nazionale possa essere giustificata la competenza statale, la norma risulterebbe comunque illegittima per la mancata previsione dell’intesa con le Regioni interessate.


2.2.3.12. Art. 4, commi 61 e 63

La Regione Emilia-Romagna ha impugnato l’art. 4, commi 61 e 63, della legge n. 350/2003, che istituisce presso il Ministero delle attività produttive un apposito fondo per il sostegno di una campagna promozionale straordinaria a favore del “made in Italy”, anche attraverso la regolamentazione dell’indicazione di origine o l’istituzione di un apposito marchio a tutela delle merci integralmente prodotte sul territorio italiano o assimilate ai sensi della normativa europea in materia di origine, nonché per il potenziamento delle attività di supporto formativo e scientifico particolarmente rivolte alla diffusione del “made in Italy” nei mercati mediterranei, dell’Europa continentale e orientale, a cura di apposita sezione della Scuola superiore dell’economia e delle finanze, prevedendo altresì che le modalità di regolamentazione delle indicazioni di origine e di istituzione ed uso del marchio sia disciplinata da un regolamento governativo, su proposta del Ministro delle attività produttive, di concerto con i Ministri dell’economia e delle finanze, degli affari esteri e delle politiche agricole e forestali e per politiche comunitarie.
Secondo la ricorrente, infatti, l’azione promozionale e regolativa del Ministero delle attività produttive non potrebbe essere configurata quale misura a “tutela della concorrenza” nell’accezione dinamica accolta dalla sentenza della Corte costituzionale n. 14 del 2004, per la quale il titolo di competenza legislativa esclusiva dello Stato, individuato nell’art. 117, secondo comma, lett. e), Cost., legittima l’adozione, da parte del legislatore statale, di “strumenti di politica economica che attengono allo sviluppo dell’intero Paese” e interventi di rilevanza macroeconomica “finalizzati ad equilibrare il volume di risorse finanziarie inserite nel circuito economico”. Infatti, essa, per le sue dimensioni, non si collocherebbe in una dimensione macroeconomica, né apparirebbe idonea, quanto ad accessibilità a tutti gli operatori ed impatto complessivo, ad incidere sull’equilibrio economico generale, trattandosi piuttosto di una misure che, sulla base del “criterio della prevalenza” indicato dalla Consulta nella sentenza n. 370 del 2003, rientrerebbe nella materia del “commercio con l’estero”, che l’art. 117, terzo comma, Cost. riserva alla potestà legislativa concorrente. Pertanto, anche a voler riconoscere l’opportunità che l’indicazione di origine e l’istituzione di marchi connotativi dei prodotti di qualità italiani siano regolati con criteri omogenei su tutto il territorio nazionale, le norme censurate sarebbero comunque lesive delle attribuzioni regionali sotto almeno due profili.
Invero, la previsione che le modalità di regolamentazione delle indicazioni di origine e di istituzione ed uso del marchio “made in Italy”, siano disciplinate con regolamento governativo violerebbe, anzitutto, l’art. 117, sesto comma, Cost. nella parte in cui circoscrive la potestà regolamentare dello Stato alle materie enumerate nell’art. 117, secondo comma, Cost. e, in secondo luogo, il principio di leale collaborazione che per consolidata giurisprudenza costituzionale (sentt. n. 303/2003 e 6/2004), comporta la “necessaria previsione di idonee forme di intesa e collaborazione tra il livello statale ed i livelli regionali” ogniqualvolta lo Stato agisca in materie ad esso non riservate a tutela di esigenze unitarie.
Del pari lesiva delle attribuzioni regionali sarebbe, ad opinione della ricorrente, la previsione che affida alla Scuola superiore dell’economia e delle finanze – soggetto posto alle dirette dipendenze del Ministero delle attività produttive – l’attività di supporto formativo e scientifico per la diffusione del “made in Italy”, tenuto conto che la “formazione professionale” è tra le materie che l’art. 117, terzo comma, Cost. espressamente riserva alla competenza residuale delle Regioni, mentre, ove si volesse ritenere che tale attività sia meramente strumentale rispetto a quella, principale, di promozione straordinaria a favore del “made in Italy”, ne risulterebbe ribadita la violazione della competenza regionale in materia di “commercio con l’estero”. Analogamente, sarebbe lesa anche la competenza concorrente delle Regioni nelle materie della “ricerca scientifica e tecnologica” e del “sostegno all’innovazione per i settori produttivi”.
La sentenza della Corte costituzionale n. 175 del 2005 ha rigettato la questione in esame, riconducendo la disciplina censurata alla materia, di esclusiva competenza statale, della “tutela della concorrenza”, concepita in quella accezione dinamica che comprende tutte le “misure pubbliche volte a ridurre squilibri, a favorire le condizioni di un sufficiente sviluppo del mercato o ad instaurare assetti concorrenziali” (v. sent. n. 14 del 2004). La Corte ha altresì riconosciuto il carattere ragionevole e proporzionato di un intervento statale nell’economia volto a promuovere lo sviluppo del mercato nazionale attraverso una campagna che diffonda, con il marchio “made in Italy”, un’immagine dei prodotti italiani associata all’idea di una loro particolare qualità. Su queste basi il giudice delle leggi ha dunque escluso l’interferenza con la materia concorrente del “commercio con l’estero”, in quanto “la circostanza che un intervento di pertinenza dello Stato […] abbia in futuro ricadute (anche) su un settore dell’economia soggetto alla potestà legislativa concorrente non comporta interferenze tra materie” (106), e la violazione dei limiti della competenza regolamentare dello Stato.
Per quanto riguarda poi la censura relativa ai compiti attribuiti alla Scuola superiore dell’economia e delle finanze, secondo la Consulta, la riconduzione della disciplina in esame alla materia di cui all’art. 117, secondo comma, lett. e), Cost., e la circostanza che l’attività istituzionale della Scuola ha come principale destinatario il «personale dell’amministrazione dell’economia e delle finanze, nonché, su richiesta delle agenzie fiscali e degli altri enti che operano nel settore della fiscalità e dell’economia, il personale di questi ultimi» (art. 1, comma 2, d.m. 28 settembre 2000, n. 301) rendono “evidente come ad un organismo statale, quale è la Scuola superiore dell’economia e delle finanze, non possa inibirsi di curare autonomamente l’attività di “supporto formativo e scientifico” prevista dalla norma de qua” (107).

2.2.3.13. Art. 4, commi 82 e 83

L’art. 4, commi 82 e 83, della legge finanziaria per il 2004 prevede, al fine di agevolare i processi di internazionalizzazione ed i programmi di penetrazione commerciale promossi dalle imprese artigiane, l’incremento delle disponibilità del fondo per il concorso nel pagamento degli interessi sulle operazioni di credito a favore delle imprese artigiane (di cui all’art. 37 della legge n. 949 del 1952) (comma 82), secondo modalità, condizioni e forme tecniche da definire con decreto del Ministro delle attività produttive, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze (comma 83). La Regione Emilia-Romagna ha denunciato l’illegittimità costituzionale delle predette disposizioni, poiché esse, contemplando la gestione e la regolazione statale di un finanziamento finalizzato al sostegno delle imprese in materia regionale, violerebbero gli artt. 117, 118 e 119 Cost. Infatti, secondo la difesa regionale, mentre le Regioni avrebbero competenza legislativa piena (artigianato) o, al massimo, concorrente (commercio con l’estero) nella materia disciplinata dalle norme censurate, lo Stato non avrebbe alcun titolo competenziale, neppure per sostenere i processi di internazionalizzazione ed i programmi di penetrazione commerciale delle imprese artigiane, posto che il finanziamento statale non avrebbe alcuna rilevanza “macroeconomica”, riguardando programmi elaborati dalle singole imprese al fine di una loro maggiore “internazionalizzazione”. D’altra parte, non sussisterebbe neanche una esigenza unitaria tale da giustificare l’intervento in esame.
La Regione ha prospettato anche una questione subordinata, per il caso in cui si ritenesse legittimo l’intervento di incremento del fondo per il suo carattere macroeconomico, e quindi per la sussistenza della competenza statale in materia di tutela della concorrenza. I commi 82 e 83 dell’art. 4 sarebbero comunque illegittimi per la mancata previsione di meccanismi di coordinamento con le Regioni, posto che esse incidono su una materia regionale. Tale conclusione, secondo la ricorrente, varrebbe a maggior ragione ove si ritenesse insussistente il carattere macroeconomico, ma esistente un’ipotetica esigenza unitaria, tale da giustificare la gestione centrale del finanziamento.
Nella sentenza n. 162 del 2005 la Corte costituzionale ha accolto solo parzialmente la questione in esame. Anzitutto, la Corte ha precisato che l’ambito materiale nel quale interviene la disposizione denunciata è l’artigianato, implicitamente demandato dal nuovo art. 117 Cost. alla potestà legislativa residuale delle Regioni. Ciò però non comporta l’incostituzionalità dell’art. 4, comma 82, della legge n. 350 del 2003, che non istituisce un nuovo fondo a destinazione vincolata, ma si limita ad incrementare le disponibilità di un fondo preesistente alla modifica del Titolo V, Parte II, della Costituzione, in vista del raggiungimento di finalità ad esso già proprie (cfr., in particolare, l’art. 21, comma 7, della l. n. 57/2001, che ha assegnato al fondo per il concorso nel pagamento degli interessi sulle operazioni di credito a favore delle imprese artigiane una nuova finalità: il sostegno all’internazionalizzazione).
Pertanto, secondo il giudice delle leggi, il denunciato comma 82 dell’art. 4 della l. n. 350/2003 “si giustifica, in via transitoria e fino all’attuazione del nuovo modello delineato dall’art. 119 della Costituzione, in conseguenza del principio di continuità dell’ordinamento […], attesa l’esigenza di non far mancare finanziamenti ad un settore rilevante e strategico dell’economia nazionale, quello dell’impresa artigiana, al quale la Costituzione (art. 45) guarda con particolare favore” (108).
La Consulta ha però accolto le censure con riferimento al comma 83 dell’art. 4, nella parte in cui la ricorrente ha lamentato la mancanza di forme di raccordo e di leale collaborazione con le Regioni. Se infatti il principio di continuità giustifica, ancora in via provvisoria, l’attribuzione al Ministro delle attività produttive della potestà di definire, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, modalità, condizioni e forme tecniche delle attività ammesse al sostegno finanziario, la competenza legislativa residuale delle Regioni in materia di artigianato esige forme di cooperazione e di incisivo coinvolgimento delle medesime. Sulla base di questa premessa, dunque, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 83, l. n. 350/2003, nella parte in cui, in contrasto con il principio di leale collaborazione, non prevede che il decreto del Ministro delle attività produttive sia emanato previa intesa con la Conferenza Stato-Regioni.

2.2.3.14. Art. 4, commi 106-111

La Regione Emilia-Romagna ha impugnato anche l’art. 4, commi da 106 a 111, l. n. 350/2003. Secondo la ricorrente, la normativa censurata – che istituisce e disciplina un Fondo rotativo nazionale affidato alla gestione della società Sviluppo Italia “per effettuare interventi temporanei di potenziamento del capitale di imprese medio-grandi che presentino nuovi programmi di sviluppo, anche attraverso la sottoscrizione di quote di minoranza di fondi immobiliari chiusi che investono in esse” – non troverebbe alcun fondamento nelle competenze legislative statali individuate nell’art. 117 Cost. In particolare, la Regione ha motivato l’inapplicabilità al caso in oggetto della giurisprudenza della Corte costituzionale in tema di tutela della concorrenza di cui all’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., poiché la relativa modestia delle risorse previste escluderebbe che esso possa essere configurato tra gli “strumenti di politica economica che attengono allo sviluppo dell’intero Paese”, “finalizzati ad equilibrare il volume di risorse finanziarie inserite nel circuito economico” e giustificati per la loro “rilevanza macroeconomica” (v. sent. n. 14/2004).
Inoltre, le disposizioni impugnate, nella parte in cui regolano “le modalità di gestione delle misure previste”, sarebbero contrastanti con i precetti costituzionali a causa del loro carattere spiccatamente “centralistico”, in quanto pretermetterebbero totalmente le Regioni. Infatti, – in relazione alla programmazione degli interventi – risulterebbe lesiva del principio di leale collaborazione l’attribuzione al CIPE del compito di fissare, senza alcun concorso delle Regioni, i criteri generali di valutazione e la durata massima di essi.
Dal punto di vista della gestione degli interventi, del resto, sarebbe ingiustificata e lesiva delle attribuzioni riconosciute alla Regione dall’art. 117 Cost. – in quanto non ragionevole, congrua e proporzionata – la concentrazione della gestione degli interventi in Sviluppo Italia s.p.a.: sia il riparto di competenze che il principio di sussidiarietà, infatti, richiederebbero – a giudizio della ricorrente – che le funzioni di gestione ed attuazione degli interventi siano affidate alla Regione, la quale vi dovrebbe provvedere attraverso i propri strumenti di intervento.
Tale questione è stata definita dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 242 del 2005, che ha configurato le disposizioni statali impugnate come un’ipotesi di “chiamata in sussidiarietà” di funzioni amministrative regionali. Ebbene, posto che – come la stessa Corte ha più volte ribadito – il meccanismo dinamico della sussidiarietà implica il necessario coinvolgimento delle Regioni (v. sent n. 303/2003), almeno per l’esercizio concreto delle funzioni amministrative allocate in capo agli organi statali (v. sent n. 6/2004), la Consulta ha osservato che “nel caso in esame, mentre non appare configurabile alcun tipo di coinvolgimento delle Regioni nell’ambito dell’attività meramente gestoria affidata a Sviluppo Italia s.p.a., il fondamentale ruolo di tipo normativo in materia riconosciuto al CIPE è senz’altro in grado di costituire la sede idonea per un coinvolgimento delle Regioni che risulti adeguato ad equilibrare le esigenze di leale collaborazione con quelle di esercizio unitario delle funzioni attratte in sussidiarietà al livello statale”. Per conseguenza, la Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittimo il comma 110 dell’art. 4 della l. n. 350/2003 nella parte in cui non prevede che i poteri del CIPE in materia di determinazione delle condizioni e delle modalità di attuazione degli interventi di gestione del Fondo rotativo nazionale per gli interventi nel capitale di rischio possano essere esercitati solo di intesa con la Conferenza Stato-Regioni.

2.2.3.15. Art. 4, comma 112-115

L’art. 4, commi 112, 113, 114 e 115, l. n. 350/2003 ha istituito un fondo speciale per l’incentivazione della partecipazione dei lavoratori nelle imprese, per sostenere programmi finalizzati alla partecipazione dei lavoratori ai risultati o alle scelte gestionali delle imprese medesime. Per la gestione del fondo è prevista l’istituzione, con decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, che provvede altresì all’individuazione dei criteri di gestione, di un Comitato composto da esperti nominati in parte dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali e in parte dalle associazioni sindacali. La Regione Emilia-Romagna ha denunciato l’illegittimità costituzionale di tale disposizione per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost. e del principio della leale collaborazione.
Secondo la ricorrente, la materia nel cui ambito ricadono gli interventi in questione sarebbe la “tutela e sicurezza del lavoro”, che l’art. 117, terzo comma, Cost. assegna alla potestà legislativa concorrente. Pertanto, l’affidamento di un fondo settoriale alla gestione statale violerebbe sia la potestà legislativa regionale – che non avrebbe ovviamente modo alcuno di esplicarsi – sia la potenziale titolarità delle funzioni amministrative in capo alla Regione stessa.
D’altra parte, la difesa regionale ha eccepito che, se pure un’eccezionale gestione unitaria fosse giustificata da interessi indivisibili (peraltro neppure menzionati), la normativa risulterebbe comunque illegittima per il mancato coinvolgimento delle Regioni, secondo le modalità richieste dal principio di leale collaborazione.
Con la (già citata) sentenza n. 231 del 2005 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che rimettono alla sola autorità statale l’istituzione del Comitato e la definizione dei criteri di gestione del Fondo (commi 113 e 114 dell’art. 4) in quanto non prevedono alcuno strumento volto a garantire la leale collaborazione tra Stato e Regioni, attribuendo peraltro alla discrezionalità del legislatore la scelta dello strumento concreto per garantire il coinvolgimento regionale. Ad avviso della Consulta, infatti, posto che i finanziamenti predisposti dalle norme impugnate attengono non solo alla materia dell’“ordinamento civile”, di legislazione esclusiva dello Stato, ma anche a quella concorrente della “tutela del lavoro”, l’esclusione delle Regioni da ogni coinvolgimento, in violazione del principio di leale collaborazione, rende illegittime, anche ai sensi dell’art. 119 Cost., nel norme de quibus.

2.2.3.16. Art. 4, comma 125

Con il ricorso n. 31 la Regione Marche ha impugnato il comma 125 dell’art. 4 della legge finanziaria per il 2004 per violazione dell’art. 117, terzo e quarto comma, Cost. Secondo la difesa regionale, infatti, tale disposizione – escludendo dal condono edilizio di cui all’art. 32 del decreto legge 30 settembre 2003, n. 269 (“Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici”), convertito, con modificazioni, dalla n. 326/2003, non solo le opere realizzate sul demanio marittimo, ma anche quelle realizzate sul demanio lacuale e fluviale, nonché sui terreni gravati da diritti di uso civico – individuerebbe le zone escluse dalla sanatoria introducendo una disciplina di dettaglio. Ciò, nella prospettazione della ricorrente, violerebbe la competenza legislativa regionale di cui all’art. 117, quarto comma, Cost., se ed in quanto la disciplina in questione fosse riferibile alla materia “edilizia”; peraltro, nel caso in cui si accogliesse l’interpretazione che riconduce l’edilizia alla materia “governo del territorio”, risulterebbe comunque violato il limite dei principi fondamentali posto alla competenza legislativa statale di cui all’art. 117, terzo comma, Cost.
Tale questione è stata dichiarata infondata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 70 del 2005, che ha ribadito l’orientamento espresso nella sentenza n, 196 del 2004: la disciplina del condono edilizio deve ritenersi riconducibile alla materia “governo del territorio” di cui all’art. 117, terzo comma, Cost., ma, dal momento che solo al legislatore statale spetta il potere di incidere sulla sanzionabilità penale, a quest’ultimo va riconosciuta la discrezionalità in materia di estinzione del reato o della pena, o di non procedibilità. In tale ottica, solo al legislatore statale può competere l’individuazione della portata massima del condono edilizio e, in particolare, la definizione delle tipologie di opere insuscettibili di sanatoria.


2.2.3.17. Art. 4, comma 157

Il ricorso n. 33 della Regione Emilia-Romagna ha impugnato anche il comma 157 dell’art. 4 l. n. 350/2003, che prevede la costituzione di un fondo presso il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti per il fine di assicurare il conseguimento di risultati di maggiore efficienza e produttività dei servizi di trasporto pubblico locale e la sua ripartizione tramite decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, sentita la Conferenza unificata Stato-Regioni-autonomie locali.
Secondo la difesa regionale, infatti, tale disciplina sarebbe costituzionalmente illegittima anzitutto per il fatto di istituire un fondo ministeriale separato e con destinazione vincolata, in materia di competenza residuale delle Regioni. A sostegno della propria doglianza la ricorrente ha richiamato la giurisprudenza costituzionale (in particolare, le sentenze n. 49 e 16 del 2004, nonché n. 370 del 2003), secondo cui – nel nuovo sistema della finanza regionale di cui all’art. 119 Cost. – per il finanziamento delle normali funzioni di Regioni ed enti locali lo Stato non potrebbe proseguire nella pratica di trasferimento diretto di risorse per scopi determinati dalla legge statale, in base a criteri stabiliti, nell’ambito della stessa legge, dall’amministrazione dello Stato.
La Regione ha inoltre formulato specifica censura avverso la previsione secondo la quale le modalità di riparto delle risorse contemplate nella disposizione impugnata dovrebbero essere decise con d.P.C.m., “sentita la Conferenza unificata”; tale strumento collaborativo non corrisponderebbe infatti alle ben più intense modalità di leale collaborazione che sono state indicate dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 16 del 2004, dove si richiama la necessità – per il caso in cui i trasferimenti non possano essere disposti senza vincoli di destinazione specifica – di passare attraverso il filtro dei programmi regionali, coinvolgendo dunque le Regioni interessate nei processi decisionali concernenti il riparto e la destinazione dei fondi.
La Corte costituzionale si è pronunciata sulla questione in esame con la sentenza n. 222 del 2005. Premesso che la perdurante situazione di mancata attuazione delle prescrizioni costituzionali in tema di garanzia dell’autonomia finanziaria di entrata e di spesa delle Regioni e degli enti locali giustifica, al momento, i meccanismi di finanziamento statale del trasporto pubblico locale attualmente in vigore (quello in esame, così come quello – analogo – contenuto nella disciplina di riferimento di cui all’art. 20 d.lgs. n. 422/1997), la Corte ha osservato che “proprio perché tale finanziamento interviene in un ambito di competenza regionale, la necessità di assicurare il rispetto delle attribuzioni costituzionalmente riconosciute alle Regioni impone di prevedere che queste ultime siano pienamente coinvolte nei processi decisionali concernenti il riparto dei fondi […]” e, dunque, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 157, l. n. 350/2003 nella parte in cui dispone che la dotazione del fondo venga ripartita “con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, sentita la Conferenza unificata”, anziché stabilire che tale decreto sia adottato previa intesa con la Conferenza stessa (come peraltro previsto anche dal menzionato art. 20 d.lgs. n. 422/1997).

2.2.3.18. Art. 4, comma 167

Come accennato, il ricorso n. 30 della Regione Lazio ha impugnato un’unica disposizione della l. n. 350/2003, l’art. 4, comma 167, il quale prevede che al fine di “potenziare la ricerca biomedica in Italia ed in particolare nelle aree territoriali di cui all’obiettivo 2, è assegnato all’Università campus bio-medico (CBM), di cui all’articolo 19 del decreto del Presidente della Repubblica 28 ottobre 1991, […] l’importo di 20 milioni di euro per l’anno 2004 e di 30 milioni di euro per l’anno 2005 per la realizzazione di un policlinico universitario”. Secondo la difesa regionale, tale disposizione sarebbe anzitutto lesiva della potestà legislativa concorrente della Regione in materia di “ricerca scientifica e tecnologica”, sub specie “ricerca biomendica”, atteso che il legislatore non si sarebbe limitato alla posizione di un principio fondamentale della materia, ma avrebbe dettato un precetto puntuale e mirato, concretizzante una palese violazione della sfera di autonomia regionale garantita dalla Costituzione.
D’altra parte, la norma statale si sarebbe posta anche in contrasto con i principi elaborati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 303 del 2003 con riferimento alla vocazione dinamica della sussidiarietà, che consente – a determinate condizioni – l’attrazione a livello statale delle funzioni amministrative (e delle relative funzioni legislative) regionali. Ebbene, secondo la ricorrente, in primo luogo, essa non prevederebbe alcuna forma di coinvolgimento della Regione sul cui territorio sono destinati a prodursi gli effetti giuridici dell’intervento statale; in secondo luogo, l’intervento dello Stato sarebbe motivato in modo del tutto generico e non sarebbe fondato su una reale ed effettiva esigenza di tutela di un interesse unitario della Repubblica non suscettibile di localizzazione a livello regionale; infine, la norma statale non rispetterebbe i parametri di proporzionalità e ragionevolezza, in quanto la realizzazione di un policlinico universitario da parte dell’Università “Campus Biomedico” di Roma potrebbe concretamente alterare e vanificare la complessa attività di programmazione delineata dalla Regione Lazio in materia sanitaria e di tutela della salute e in materia di diritto allo studio.
Peraltro, posto che il Presidente del Consiglio dei ministri non si è costituito in giudizio e che in data 24 novembre 2004 la Regione Lazio ha depositato atto di rinuncia al ricorso, con l’ordinanza n. 6 del 2005 la Corte costituzionale ha dichiarato estinto il processo introdotto dall’atto in parola.

2.2.3.19. Art. 4, commi 209-211

Il ricorso n. 33 della Regione Emilia-Romagna ha poi impugnato i commi 209, 210 e 211 dell’art. 4 l. n. 350/2003, che prevedono contributi concessi dal Ministero dei trasporti e della navigazione alle imprese amatoriali che effettuino investimenti per il rinnovo e l’ammodernamento della flotta o per i contratti di costruzione e trasformazione navale concernenti unità navali a scafo metallico o con materiali a tecnologia avanzata, attribuendo al predetto Ministero il potere di disciplinare le condizioni ed i criteri per la concessione dei contributi.
Secondo la Regione, tali disposizioni configurerebbero un intervento diretto dello Stato in materia di competenza regionale (residuale o, al massimo, concorrente, qualora l’intervento in questione fosse ricondotto al “sostegno all’innovazione per i settori produttivi”), per il quale non sarebbe neanche possibile invocare il carattere macroeconomico. Si tratterebbe infatti di contributi concessi a singoli armatori con lo scopo non di accrescere la competitività complessiva del sistema, ma quello di incentivare una modalità di trasporto rispetto alle altre e di sostenere l’occupazione nel settore (“[…] assicurare lo sviluppo del trasporto marittimo, in particolare del trasporto di merci e di quello a breve e medio raggio, e la tutela degli interessi occupazionali del settore”). In tale prospettiva, dunque, le norme impugnate risulterebbero in contrasto con gli articoli 117, 118 e 119 Cost., dovendo lo Stato finanziare “integralmente” le funzioni regionali e spettando alle Regioni legiferare sulle proprie politiche di sostegno e svolgere le relative funzioni (regolamentari ed amministrative).
La Regione ha prospettato anche una questione subordinata, per il caso in cui si ritenessero legittime le previsioni de quibus per la loro rilevanza macroeconomica, e quindi per la sussistenza della competenza statale in materia di “tutela della concorrenza”. Esse, interferendo con ambiti di materia di competenza regionale, sarebbero comunque illegittime per la mancata previsione di meccanismi di concertazione e di intesa con le Regioni. Tale conclusione, secondo la ricorrente, varrebbe a maggior ragione ove si ritenesse esistente un’ipotetica esigenza unitaria, tale da giustificare la gestione centrale dei finanziamenti in parola.
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 77 del 2005, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme impugnate. Infatti, dopo aver ricordato che in attesa della completa attuazione della riforma costituzionale con riguardo all’autonomia finanziaria delle Regioni l’art. 119 Cost. pone sin d’ora al legislatore statale precisi limiti in tema di finanziamenti in materie di competenza legislativa regionale (divieto di prevedere finanziamenti a destinazione vincolata o a soggetti privati), la Consulta ha escluso che le disposizioni in parola possano essere ricondotte ad alcuna competenza legislativa esclusiva dello Stato e, in particolare, a quella in tema di “tutela della concorrenza”, intesa in senso dinamico: esse, invero, non hanno portata macroeconomica, poiché non incidono sull’equilibrio economico generale, ma mirano piuttosto “ad incentivare, con misure di carattere straordinario e transitorio, non tutto il sistema armatoriale ma taluni investimenti effettuati dalle imprese marittime” (109).

2.2.3.20. Art. 4, commi 215-217

Il ricorso n. 33 ha poi denunciato l’illegittimità costituzionale dei commi 215, 216 e 217 dell’art. 4 l. n. 350/2003, con i quali, anzitutto, si è prevista l’istituzione, nello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze, di un apposito fondo al fine di sostenere le attività dei distretti industriali della nautica da diporto (comma 215); in secondo luogo, si stabilisce che il fondo è “destinato all’assegnazione di contributi, per l’abbattimento degli oneri concessori, a favore delle imprese o dei consorzi di imprese operanti nei distretti industriali dedicati alla nautica da diporto, che insistono in aree del demanio fluviale e che ospitano in approdo almeno cinquecento posti barca” (comma 216); infine, si è rimessa ad un decreto del Ministro dell’economia e delle finanze la individuazione delle predette aree e la definizione delle modalità di assegnazione dei contributi (comma 217).
Secondo la ricorrente, l’intervento finanziario in questione non potrebbe configurarsi quale misura a “tutela della concorrenza”, secondo l’accezione dinamica accolta nella sentenza n. 14 del 2004 della Corte costituzionale. Infatti, le disposizioni impugnate non avrebbero alcuna rilevanza macroeconomica: l’esiguità dello stanziamento disposto e la limitazione della destinazione dei contributi a favore di imprese operanti nei soli distretti industriali dedicati alla nautica da diporto che presentino due requisiti molto selettivi (l’insistenza in aree del demanio fluviale e la disponibilità di almeno cinquecento posti barca) dimostrerebbero che l’intervento non rientra affatto in quelle “specifiche misure di rilevante entità”, accessibili “a tutti gli operatori”, e di “impatto complessivo”, atte “ad incidere sull’equilibrio economico generale”, secondo i criteri enunciati nella medesima sentenza n. 14 del 2004.
Tanto premesso, secondo la Regione Emilia-Romagna, l’intervento in questione, da un lato, violerebbe il parametro costituzionale dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., il quale pone la “tutela della concorrenza” come limite non solo della competenza legislativa regionale, ma anche della potestà legislativa dello Stato, nel senso – evidenziato in dottrina – che il legislatore statale è vincolato a trattare la concorrenza come un valore o un bene o un fine da promuovere astenendosi dalle politiche che indebitamente escludono o limitano la concorrenza ed è sottoposto allo scrutinio di costituzionalità sotto il profilo della proporzionalità tra gli interventi predisposti e gli obiettivi attesi. Ebbene, in tale prospettiva le norme impugnate mancherebbero di quella “congruità dello strumento utilizzato rispetto al fine di rendere attivi i fattori determinanti dell’equilibrio economico generale” richiesta dalla sentenza n. 14 del 2004.
Peraltro, qualora pure si ritenesse la disciplina impugnata conforme al canone di proporzionalità, essa, in quanto interferente con la politica di sostegno al turismo di cui sono responsabili le Regioni, risulterebbe nondimeno illegittima, poiché interventi finanziari speciali dello Stato in materie di competenza regionale (vuoi residuale, vuoi concorrente) non potrebbero attuarsi senza un coinvolgimento “forte” delle Regioni (come è stato riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale nelle sentt. n. 370 del 2003, nonché n. 16 e 49 del 2004).
Nella sentenza n. 107 del 2005 la Corte costituzionale ha accolto la questione proposta, ritenendo le norme censurate non riconducibili, per la peculiarità dei requisiti richiesti ai beneficiari e l’esiguità delle somme stanziate, alla materia della “tutela della concorrenza” o alla facoltà, riconosciuta allo Stato dall’art. 119, comma quinto, Cost., di destinare risorse al fine di promuovere lo sviluppo economico.

2.2.3.21. Art. 4, comma 246

L’ultima questione riguardante la legge finanziaria per il 2004 verte sul comma 246 dell’art. 4, ai sensi del quale le fondazioni IRCCS e gli IRCCS non trasformati in fondazioni, al fine di ripianare i debiti pregressi fino al 31 ottobre 2003, possono procedere alla alienazione del proprio patrimonio, secondo modalità di attuazione autorizzate con decreto del Ministero della salute, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze.
Tale disciplina, secondo la ricorrente, violerebbe gli articoli 117, terzo comma, e 118 Cost. Gli IRCCS, infatti, sarebbero enti che rientrano ormai nell’orbita regionale, in quanto operanti in ambiti di legislazione concorrente, mentre la disposizione, concretizzando una pura scelta di gestione economica, non potrebbe in alcun modo essere considerata un principio fondamentale della materia, con la conseguenza che ogni decisione volta a consentire o vietare l’alienazione del patrimonio di tali enti dovrebbe spettare alle Regioni. La norma censurata, inoltre, contrasterebbe con l’art. 117, sesto comma, Cost., in quanto affiderebbe al Ministro un potere regolamentare in ambiti di potestà legislativa concorrente.
La sentenza n. 270 del 2005, di cui si è già trattato a proposito delle censure mosse al d.lgs. n. 288 del 2003, ha dichiarato infondata la questione in esame. Infatti, secondo la Corte costituzionale, da un lato, la disposizione impugnata può certamente essere qualificata quale principio fondamentale in ordine alla gestione del patrimonio degli IRCCS, dall’altro, il potere ministeriale circa le modalità di attuazione delle operazioni di alienazione si configura come potere amministrativo di autorizzazione da esercitare nei confronti del singolo ente, fondato sull’esigenza di una vigilanza uniforme sulle (nuove) fondazioni IRCCS, e non come potere normativo in deroga al riparto delle competenze regolamentari di cui all’art. 117, sesto comma, Cost.

2.2.4. Il decreto legge 14 novembre 2003, n. 314 (“Disposizioni urgenti per la raccolta, lo smaltimento e lo stoccaggio, in condizioni di massima sicurezza, dei rifiuti radioattivi”), convertito dalla legge n. 368/2003

Il quarto gruppo di ricorsi comprende, in realtà, soltanto il n. 40 (110), con cui la Regione Basilicata ha impugnato il decreto legge 14 novembre 2003, n. 314 (“Disposizioni urgenti per la raccolta, lo smaltimento e lo stoccaggio, in condizioni di massima sicurezza dei rifiuti radioattivi”), nel testo risultante dopo l’approvazione della legge di conversione n. 368/2003. Esso, a differenza del testo originario del decreto, non individua più nel territorio del Comune di Scanzano Jonico, in Provincia di Matera, il sito per la realizzazione del Deposito nazionale dei rifiuti radioattivi. Si limita invece a prevedere che la sistemazione in sicurezza dei rifiuti radioattivi, degli elementi di combustibile irraggiati e dei materiali nucleari, ivi inclusi quelli rivenienti dalla disattivazione delle centrali elettronucleari e degli impianti di ricerca e di fabbricazione del combustibile, sia effettuata presso il Deposito nazionale, riservato ai soli rifiuti di III categoria, che costituisce “opera di difesa militare di proprietà dello Stato”; e che il sito sia individuato entro un anno dal Commissario straordinario nominato ai sensi dell’art. 2, sentita l’apposita Commissione tecnico-scientifica, e previa intesa in sede di Conferenza unificata Stato-Regioni-autonomie locali, ovvero, in mancanza del raggiungimento dell’intesa entro il termine stabilito, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri previa deliberazione del Consiglio dei ministri (art. 1, comma 1). La realizzazione del Deposito è affidata alla società gestione impianti nucleari (SOGIN s.p.a.: art. 1, comma 2), utilizzando le procedure speciali previste per le opere c.d. “strategiche” dalla legge n. 443 del 2001 e dal d.lgs. n. 190 del 2002 (art. 1, comma 3). La “validazione” del sito è effettuata dal Consiglio dei ministri, sulla base degli studi effettuati dalla apposita Commissione tecnico-scientifica, previo parere dell’Agenzia per la protezione dell’ambiente e per i servizi tecnici, del Consiglio nazionale delle ricerche e dall’Ente per le nuove tecnologie, l’energia e l’ambiente (art. 1, comma 4-bis).
L’art. 2 prevede la nomina da parte del Presidente del Consiglio dei ministri di un Commissario straordinario, il quale provvede “in deroga alla normativa vigente” agli adempimenti relativi alla realizzazione del Deposito, fra cui l’approvazione dei progetti (comma 1, lettera f), ed è autorizzato ad adottare, con speciali modalità e poteri, anche sostitutivi, tutti i provvedimenti e gli atti di qualsiasi natura necessari alla progettazione, all’istruttoria, all’affidamento e alla realizzazione del Deposito nazionale, fatte salve le sole competenze del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio in materia di valutazione di impatto ambientale e le competenze dell’Agenzia per la protezione dell’ambiente e per i servizi tecnici-APAT (comma 2).
Il decreto disciplina poi l’allocazione dei rifiuti radioattivi (art. 3) e la determinazione di misure compensative in favore degli enti territoriali interessati e di misure d’informazione sulla gestione in sicurezza dei rifiuti radioattivi (art. 4).
Con riguardo all’intero testo normativo del decreto legge n. 314, così come convertito, la ricorrente ha eccepito la violazione (non solo dell’art. 77, secondo comma, Cost. per l’insussistenza dei presupposti della decretazione d’urgenza, ma anche) dell’art. 117, terzo comma, Cost. per lesione delle competenze legislative della Regione in materia di tutela della salute, protezione civile e governo del territorio, in quanto la disciplina adottata produrrebbe effetti vincolanti e irreversibili, e non si limiterebbe, come sarebbe stato doveroso, a fissare principi sulla cui base le Regioni potessano dettare una ulteriore normativa.
La Regione Basilicata ha inoltre denunciato la violazione dei principi costituzionali di “sussidiarietà, ragionevolezza, leale collaborazione e previa intesa tra Stato e Regioni”, affermati nella sentenza della Corte costituzionale n. 303 del 2003. Infatti, secondo la ricorrente, pur avendo lo Stato competenza legislativa esclusiva in materia di tutela dell’ambiente, le funzioni amministrative dovrebbero essere svolte dagli enti territoriali ogni volta che l’ente sia coinvolto da iniziative riguardanti il suo territorio o la sua popolazione. Pertanto, lo Stato, al fine di assumere funzioni amministrative che appartengono naturaliter agli enti territoriali, dovrebbe preliminarmente esaurire una fase interlocutoria di intesa, coinvolgente tutte le Regioni, per procedere alla individuazione del territorio ove ubicare il deposito, e successivamente, per la realizzazione dell’opera, la Regione il cui territorio fosse stato individuato come area utile per collocarvi l’opera stessa. Solo a seguito di un infruttuoso tentativo di intesa sarebbe consentito allo Stato di avocare a sé le funzioni amministrative in questione. Nella normativa impugnata, invece, non vi sarebbe traccia dell’esaurimento di tale fase interlocutoria e, inoltre, l’intervento sostitutivo dell’esecutivo statale non sarebbe previsto come successivo ad un espresso atto di diniego proveniente dall’ente regionale interessato.
Con la (già citata) sentenza n. 62 del 2005 la Corte costituzionale ha accolto solo parzialmente le censure formulate dalla ricorrente. Infatti, il giudice delle leggi, dopo aver precisato che lo Stato, nell’esercizio della competenza legislativa esclusiva di cui all’art. 117, secondo comma, lett. s), Cost. (sub specie “tutela dell’ambiente”) ed in base ai criteri generali dettati dall’art. 118, primo comma, Cost. (sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza), può ben attribuire ad organi statali funzioni amministrative il cui esercizio sia necessario per realizzare interventi di rilievo nazionale (localizzazione e realizzazione di un unico impianto destinato a consentire lo smaltimento dei rifiuti radioattivi esistenti o prodotti sul territorio nazionale), ha osservato che “quando gli interventi individuati come necessari e realizzati dallo Stato, in vista di interessi unitari di tutela ambientale, concernono l’uso del territorio, […] intreccio, da un lato, con la competenza regionale concorrente in materia di governo del territorio, oltre che con altre competenze regionali, dall’altro lato, con gli interessi delle popolazioni insediate nei rispettivi territori, impone che siano adottate modalità di attuazione degli interventi medesimi che coinvolgano, attraverso opportune forme di collaborazione, le Regioni sul cui territorio gli interventi sono destinati a realizzarsi (cfr. sentenza n. 303 del 2003)”. Su queste basi la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle disposizioni relative ai procedimenti di “validazione” del sito (specifica localizzazione e realizzazione dell’impianto) e di approvazione dei progetti (rispettivamente, art. 1, comma 4-bis, e art. 2, comma 1, lett. f) del decreto impugnato), nella parte in cui non prevedono una forma di partecipazione della Regione interessata.

2.2.5. La legge 9 gennaio 2004, n. 4 (“Disposizioni per favorire l’accesso dei soggetti disabili agli strumenti informatici”)

Anche il quinto gruppo di ricorsi è costituito soltanto da un atto introduttivo, il n. 42 della Provincia autonoma di Trento (111), avente ad oggetto gli artt. 7, comma 2, e 10 della legge 9 gennaio 2004, n. 4 (recante “Disposizioni per favorire l’accesso dei soggetti disabili agli strumenti informatici”). Ai nostri fini rileva, in particolare, la censura mossa dalla Provincia alla seconda delle disposizioni citate, che prevede l’emanazione, previa intesa con la Conferenza unificata Stato-Regioni-autonomie locali di un regolamento di attuazione della predetta legge. Secondo la difesa provinciale, posto che la legge statale de qua riguarda materie che per lo statuto speciale appartengono alla potestà legislativa primaria della Provincia (assistenza sociale, ordinamento degli uffici provinciali, istruzione e formazione professionale), anche il relativo regolamento di attuazione finirebbe per invadere illegittimamente le predette competenze provinciali. Infatti, l’adozione di regolamenti statali in materie di competenza regionale sarebbe escluso (non solo dall’art. 17, comma 1, lett. b), della legge n. 400 del 1988 e dall’art. 2 dello statuto, ma anche) dall’art. 117, sesto comma, della Costituzione, disposizione quest’ultima applicabile alle autonomie speciali ai sensi dell’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001 (per il quale le disposizioni di riforma del Titolo V Cost. si applicano alle autonomie speciali solo “per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite”).
E la Corte costituzionale, nella sentenza n. 145 del 2005, ha convenuto con la censura provinciale, osservando che “ai sensi dell’art. 117, sesto comma, della Costituzione, applicabile anche alla Provincia in quanto attributivo di una più ampia forma di autonomia, la potestà regolamentare dello Stato non può essere esercitata riguardo a materie che appartengono […] alla competenza legislativa della Provincia autonoma di Trento”.


2.2.6. Il decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 28 (“Riforma della disciplina in materia di attività cinematografiche, a norma dell’art. 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137”)

2.2.6.1. Art. 1, comma 4

Il sesto gruppo di ricorsi comprende due atti: i nn. 45 della Regione Emilia-Romagna e 46 della Regione Toscana (112), riguardanti numerosi articoli del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 28 (“Riforma della disciplina in materia di attività cinematografiche, a norma dell’art. 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137”). Anzitutto, le Regioni hanno impugnato, per violazione degli artt. 117 e 118 Cost., il comma 4 dell’art. 1 del decreto, che disciplina i compiti del Ministero per i beni e le attività culturali in materia di attività cinematografica (“[…] a) promuove e coordina le iniziative aventi per scopo lo sviluppo ed il miglioramento della produzione cinematografica e la diffusione dei film nazionali in Italia ed all’estero, d’intesa con il Ministero degli affari esteri; b) accerta e dichiara la nazionalità italiana del film; c) promuove e cura i rapporti concernenti gli scambi cinematografici con l’estero e quelli per la coproduzione e codistribuzione dei film, anche attraverso intese o accordi internazionali di reciprocità, d’intesa con il Ministero degli affari esteri; d) esercita la vigilanza, nei casi previsti dalla legge, sugli organismi di settore ed effettua l’attività di monitoraggio sull’utilizzo delle risorse erogate a titolo di finanziamenti e contributi ai sensi del presente decreto”).
Tale disciplina, ad avviso delle ricorrenti, risulterebbe lesiva delle prerogative costituzionali delle Regioni sancite dagli artt. 117 e 118 Cost. Infatti, le attività disciplinate dall’art. 1, comma 4, sarebbero da ricondurre in parte alla competenza legislativa piena delle Regioni (in relazione allo sviluppo ed al miglioramento della produzione cinematografica o allo spettacolo da intendere quali materie autonome), e in parte a quella concorrente, in relazione ai profili afferenti la materia “commercio con l’estero”. Peraltro, anche a voler riconoscere la competenza statale in materia di “promozione e organizzazione di attività culturali” e di “sostegno all’innovazione per i settori produttivi”, l’attribuzione ad organi statali di funzioni amministrative invaderebbe comunque la competenza regionale nell’allocazione delle funzioni amministrative in materie di competenza concorrente. Del resto, nel caso di specie non si ravviserebbero neanche quelle esigenze unitarie che – così come affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 303 del 2003 – possono giustificare l’attrazione al centro di funzioni amministrative regionali, fatta salva in tal caso la necessità dello strumento dell’intesa.
Con la sentenza n. 285 del 2005 la Corte costituzionale ha dichiarato infondata la questione in esame. La Consulta ha infatti ribadito l’orientamento già espresso nella sentenza n. 255 del 2004, per il quale se è vero che le attività di sostegno degli spettacoli – tra i quali rientrano le attività cinematografiche – sono riconducibili alla materia “promozione ed organizzazione di attività culturali” affidata alla legislazione concorrente di Stato e Regioni, è anche vero che il livello di governo regionale – e, a maggior ragione, quello infraregionale – appaiono “strutturalmente inadeguati a soddisfare, da soli, lo svolgimento di tutte le tipiche e complesse attività di disciplina e sostegno del settore cinematografico […] in quanto tali attività – diversamente opinando – risulterebbero esposte al rischio di eccessivi condizionamenti localistici nella loro gestione, a fronte, invece, della necessità di sostenere anche iniziative di grande rilevanza culturale prescindendo da questi ultimi” (113). In tale prospettiva appare dunque giustificato “un intervento dello Stato che si svolga […], là dove necessario, mediante la avocazione in sussidiarietà sia di funzioni amministrative che non possano essere adeguatamente svolte ai livelli inferiori, sia della relativa potestà normativa per l’organizzazione e la disciplina di tali funzioni” (114) (ferma restando la necessità che in tal caso l’esercizio concreto delle funzioni amministrative sia plasmato sul modello della concertazione necessaria e paritaria fra Stato e Regioni).

2.2.6.2. Art. 3

L’art. 3 del decreto legislativo n. 28 del 2004 ha predisposto un complesso sistema di classificazione delle imprese cinematografiche, iscritte in appositi elenchi informatici tenuti presso il Ministero pei beni e le attività culturali, funzionale alla determinazione del finanziamento ammissibile, differenziata sulla base di parametri stabiliti con decreto ministeriale. Secondo le ricorrenti, tale disposizione introdurrebbe un sistema accentrato di finanziamento, incompatibile sia con l’art. 117, terzo, quarto e sesto comma, Cost., che – come già detto – imputerebbero il cinema ad ambiti materiali di competenza regionale, sia con l’art. 118 Cost., in quanto non sarebbe giustificabile in nome della sussidiarietà l’attrazione a livello statale della competenza a gestire tutti i finanziamenti per le imprese cinematografiche. D’altra parte, la norma de qua sarebbe contraria anche all’autonomia finanziaria delle Regioni di cui all’art. 119 Cost., posto che nelle materie di competenza regionale, spetterebbe alle Regioni valutare gli interventi di sostegno da compiere con le risorse messe a disposizione dallo Stato, che deve provvedere a finanziare «integralmente» le funzioni loro attribuite (art. 119, comma 4).
Peraltro, la sentenza n. 285/2005, sulla base delle premesse già ricordate, si è limitata a dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 3 nella parte in cui non dispone che il decreto ministeriale ivi previsto sia “adottato d’intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano”.

2.2.6.3. Art. 4

L’art. 4 del d.lgs. n. 28/2004 ha disciplinato l’istituzione (presso il Ministero pei beni e le attività culturali), la composizione e le funzioni della Consulta territoriale per le attività cinematografiche, organo di tredici membri, di cui tre di designati dalla Conferenza Stato-Regioni, che ha la funzione, tra le altre, di predisporre il programma triennale di interventi che deve essere approvato dal Ministro pei beni e le attività culturali (comma 3). Ebbene, secondo le difese regionali, la previsione di un organismo, istituito presso il Ministero, finalizzato ad esercitare compiti gestionali attinenti il cinema ovvero a fornire consulenza al Ministero per detti compiti sarebbe contrario al riparto di competenze sancito dagli artt. 117 e 118 Cost., per il quale lo Stato non dovrebbe esercitare funzioni di gestione con riferimento alle attività cinematografiche, ma dovrebbe tutt’al più – ove la materia fosse ricondotta nell’ambito della potestà concorrente – dettare i principi fondamentali alle Regioni deputate a disciplinare la materia e, quindi, anche i rapporti con i terzi interessati.
Peraltro, le ricorrenti hanno posto anche una questione subordinata, poiché, nell’ipotesi in cui fosse ravvisata una legittimazione statale ad intervenire in nome dei principi di cui all’art. 118 Cost., resterebbe comunque incostituzionale il comma 3 della norma contestata, per il quale la Consulta predispone ed il Ministro approva il programma triennale degli interventi (comma 3): infatti, attesa l’interferenza del contenuto del programma con le competenze regionali inerenti all’attività cinematografica, essa sarebbe comunque illegittima laddove non prevede l’intesa tra Stato e Regioni per l’elaborazione e l’approvazione del programma.
E la Corte costituzionale nella predetta sentenza ha accolto la questione subordinata, limitandosi a dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 3, nella parte in cui non prevede che l’approvazione ministeriale del programma triennale avvenga “d’intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano”.

2.2.6.4. Art. 8

Analoga censura è stata formulata dalle ricorrenti anche con riferimento all’art. 8 del d.lgs. n. 28/2004, che disciplina l’istituzione (presso il Ministero pei beni e le attività culturali), la composizione e le funzioni della Commissione per la cinematografia, articolata in due sottocommissioni, titolare di rilevanti funzioni in tema di riconoscimento dell’interesse culturale dei film, di promozione cinematografica e individuazione dei film d’essai. Secondo i ricorsi in parola, sarebbe incompatibile con il riparto di competenze di cui agli artt. 117 e 118 Cost. l’accentramento in un organo statale delle predette funzioni, peraltro non giustificabile neppure in applicazione dei principi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione di cui all’art. 118 Cost.: nulla infatti impedirebbe che lo Stato si limiti a dettare i principi fondamentali alle Regioni, per garantire le esigenze di uniformità di disciplina eventualmente ravvisate nell’attività in oggetto, e poi consenta alle Regioni di adottare le proprie normative di disciplina delle funzioni amministrative. Peraltro, qualora fossero ravvisati i presupposti per l’attrazione in sussidiarietà di funzioni amministrative inerenti alla materia in questione, la norma sarebbe parimenti incostituzionale perché le Regioni dovrebbero essere adeguatamente rappresentate nella Commissione, i cui membri sono tutti di nomina ministeriale (comma 3).
Le Regioni hanno inoltre censurato, per violazione dell’art. 117, sesto comma, Cost., la previsione che attribuisce ad un decreto ministeriale la competenza a disciplinare gli indicatori del criterio della qualità dell’apporto artistico del regista e dello sceneggiatore e la valutazione del trattamento della sceneggiatura, nonché la composizione e le modalità di funzionamento delle sottocommissioni (comma 4).
La Corte costituzionale ha accolto parzialmente solo le ultime due censure, limitandosi a dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, comma 3, nella parte in cui non prevede che la scelta ministeriale dei membri delle sottocommissioni avvenga “sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano”, e dell’art. 8, comma 4, nella parte in cui non prevede che il decreto ministeriale sia “adottato d’intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano”, limitatamente alla disciplina concernente gli indicatori del criterio della qualità dell’apporto artistico del regista e dello sceneggiatore e la valutazione del trattamento della sceneggiatura.

2.2.6.5. Artt. 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 19

Gli art. da 9 a 17 e l’art. 19 del d.lgs. n. 28/2004 contengono una serie di disposizioni di carattere finanziario, che istituiscono e disciplinano contributi e agevolazioni concessi per la produzione, la promozione, la distribuzione, l’esercizio delle attività cinematografiche, per i registi e per gli autori del soggetto e della sceneggiatura. Le Regioni Emilia-Romagna e Toscana hanno sollevato la questione di costituzionalità delle predette disposizioni, anzitutto, in relazione agli artt. 117, 118 e 119 Cost.. Secondo i nuovi principi in materia di autonomia finanziaria delle Regioni, infatti, i fondi per il finanziamento delle attività cinematografiche – in quanto, come detto, rientranti nella competenza legislativa regionale – dovrebbero essere ripartiti tra le Regioni affinché queste provvedano poi a disciplinare ed erogare i finanziamenti agli operatori del settore. La stessa Corte costituzionale, del resto, ha rilevato la contrarietà, rispetto alla disciplina costituzionale, di quelle norme che in materie regionali prevedono fondi gestiti direttamente dallo Stato, ritenuti lesivi dell’autonomia finanziaria sia di entrata che di spesa delle Regioni e atti a mantenere allo Stato poteri discrezionali nella materia (sentt. n. 370/2003, nonché 16 e 49/2004).
Le disposizioni impugnate contrasterebbero anche con l’art. 117, sesto comma, Cost. laddove demandano (artt. 9, comma 3, 10, comma 4, 12, comma 4 e 5, 17 comma 4, 19, comma 2 e 5) ad un futuro decreto ministeriale il compito di stabilire le modalità ed i criteri di ripartizione dei previsti finanziamenti.
La sentenza n. 285/2005 si è peraltro limitata ad annullare, delle disposizioni de quibus, quelle che attribuiscono poteri normativi o programmatori soltanto ad organi statali (artt. 9, comma 3, 10, comma 4, 12, commi 4 e 5, 13, comma 9, 17, comma 4, 19, comma 2, 19, comma 3, 19, comma 5) nella parte in cui non prevedono adeguate forme di collaborazione tra Stato e Regioni (intese o pareri).

2.2.6.6. Art. 22, commi 1 e 5

Infine, le ricorrenti hanno impugnato i commi 1 e 5 dell’art. 22 del d.lgs. n. 28/2004. La prima disposizione affida alle Regioni la disciplina delle modalità di autorizzazione alla realizzazione, trasformazione ed adattamento di immobili da destinare a sale e arene cinematografiche, nonché alla ristrutturazione o all’ampliamento di sale e arene già in attività, secondo i principi fondamentali indicati dalla norma stessa. Ebbene, secondo le ricorrenti, lo Stato non avrebbe potuto dettare principi fondamentali in una materia di competenza legislativa primaria delle Regioni, individuata nella regolazione della presenza dei cinema sul territorio o nel commercio. Infatti, ancorché l’oggetto della disposizione sembrerebbe attenere ad una potestà riconducibile alla materia edilizia e, quindi, a quella concorrente del “governo del territorio”, tuttavia i principi fissati, ai quali si dovrebbe attenere la futura legislazione regionale, intenderebbero invece razionalizzare la distribuzione delle strutture cinematografiche.
Il comma 5 accentra a livello statale il rilascio dell’autorizzazione all’apertura di multisale con un numero di posti superiori a 1800, disponendo che detta autorizzazione sia rilasciata dal Direttore generale competente. Le ricorrenti hanno osservato che tale disciplina si colloca nella materia del commercio, di piena competenza regionale ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost., trattandosi di provvedimento autorizzatorio che ha riguardo unicamente ai profili commerciali dell’attività, e non anche a quelli costruttivi o localizzativi connessi al profilo edilizio della disciplina dell’immobile nel quale detta attività si svolge. Pertanto, la previsione di funzioni amministrative statali in materia di competenza legislativa piena regionale violerebbe gli artt. 117 e 118 Cost. Ed alla stessa conclusione dovrebbe giungersi qualora la disciplina impugnata fosse ricondotta alla materia concorrente del “governo del territorio”, sub specie edilizia, posto che, per un verso, non sarebbero individuabili esigenze unitarie tali da legittimare l’intervento del legislatore statale nell’allocazione delle funzioni amministrative, per altro verso, la disposizione censurata sarebbe comunque incostituzionale sotto il profilo della mancata previsione di un’intesa con le Regioni.
La Corte costituzionale ha accolto solo la seconda delle due questioni proposte. Secondo il giudice delle leggi, infatti, posta l’afferenza della disciplina impugnata alla materia del “governo del territorio”, di cui all’art. 117, terzo comma, Cost., risulta evidente la mancanza di esigenze unitarie tali da far ritenere inadeguato il livello regionale di governo allo svolgimento della funzione amministrativa in questione. In tale prospettiva, dunque, la Corte ha ritenuto ingiustificata l’attrazione di tale funzione in favore di organi amministrativi dello Stato operata dalla disposizione censurata.

2.2.7. Il decreto legislativo 19 febbraio 2004, n. 59 (“Definizione delle norme generali relative alla scuola dell’infanzia ed al primo ciclo dell’istruzione, a norma dell’articolo 1 della legge 28 marzo 2003, n. 53”)

2.2.7.1. Art. 7, commi 1, 2, primo periodo, e 4, primo periodo, e art. 10, commi 1, 2, primo periodo, e 4, primo periodo

Il settimo gruppo di ricorsi comprende i nn. 51 della Regione Emilia-Romagna e 52 della Regione Friuli-Venezia Giulia (115), che hanno entrambi censurato diverse disposizioni del decreto legislativo 19 febbraio 2004, n. 59, recante la “Definizione delle norme generali relative alla scuola dell’infanzia ed al primo ciclo dell’istruzione, a norma dell’articolo 1 della legge 28 marzo 2003, n. 53”. Anzitutto, le predette Regioni hanno impugnato, per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., sub specie “istruzione”, le norme che stabiliscono per la scuola primaria e secondaria l’orario delle lezioni, ivi compreso il tempo dedicato alla mensa ed al dopo mensa, in misura fissa (rispettivamente, art. 7, commi 1, 2, primo periodo, e 4, primo periodo, e art. 10, commi 1, 2, primo periodo, e 4, primo periodo). Ad avviso della ricorrente, la previsione di un orario annuale rigido non potrebbe rientrare né tra le norme generali (di cui alla lett. n) dell’art. 117, secondo comma, Cost.) né tra i principi fondamentali in materia di istruzione. Si tratterebbe dunque di una previsione di dettaglio, lesiva della competenza regionale concorrente.
La Corte costituzionale, nella sentenza n. 279 del 2005, ha peraltro dichiarato infondata tale questione. Infatti, le norme impugnate non devono essere “interpretate nel senso di considerare gli orari annuali ivi stabiliti come fissi ed assolutamente immodificabili […]”, tali da non consentire alle Regioni nemmeno di aumentare – a proprie spese – la quota oraria a loro risevata, ma “vanno […] intese come espressive di livelli minimi di monte-ore di insegnamento validi per l’intero territorio nazionale, ferma restando la possibilità per ciascuna Regione (e per le singole istituzioni scolastiche) di incrementare, senza oneri per lo Stato, le quote di rispettiva competenza” (116).

2.2.7.2. Art. 7, comma 4, secondo periodo, e art. 10, comma 4, secondo periodo

Anche l’art. 7, comma 4, secondo periodo, e l’art. 10, comma 4, secondo periodo, sarebbero disposizioni di dettaglio in materia di competenza concorrente, come tali lesive dell’art. 117, comma terzo, della Costituzione, in quanto (rispettivamente, per la scuola primaria e per quella secondaria) prevedono che le istituzioni scolastiche stipulino, per far fronte alle attività educative opzionali, contratti di prestazione d’opera con esperti esterni in possesso di titoli definiti con decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, di concerto con il Ministro per la funzione pubblica. Peraltro, se anche la definizione dei titoli richiesti agli esperti può considerarsi funzione sorretta da esigenze unitarie, essa, in quanto attinente a materia regionale, dovrebbe comunque essere svolta – secondo i principi fissati dalla sentenza n. 303 del 2003 – previa intesa con la Conferenza unificata Stato-Regioni, configurandosi in difetto una lesione del principio di leale collaborazione.
Nelle sentenza citata la Corte costituzionale ha dichiarato infondata anche tale questione, posto che “la scelta della tipologia contrattuale da utilizzare per gli incarichi di insegnamento facoltativo da affidare agli esperti e l’individuazione dei titoli richiesti ai medesimi esperti sono funzioni sorrette da evidenti esigenze di unitarietà di disciplina sull’intero territorio nazionale, cosicché le disposizioni impugnate vanno senz’altro qualificate come norme generali sull’istruzione, in quanto tali appartenenti alla competenza esclusiva dello Stato” (117).

2.2.7.3. Art. 7, commi 5, secondo periodo, e 6, e art. 10, comma 5, secondo periodo

Anche l’art. 7, commi 5, secondo periodo, e 6, e l’art. 10, comma 5, secondo periodo, che (rispettivamente, per la scuola primaria e secondaria) istituiscono la figura obbligatoria dell’insegnante cosiddetta tutor e ne regolano puntualmente i compiti e finanche la quantità minima di ore d’insegnamento, sarebbero norme di dettaglio, dovendosi escludere che l’istituzione di una simile figura di docente costituisca un principio fondamentale in materia di istruzione.
La Consulta ha respinto anche la questione in parola, posto che “la definizione dei compiti e dell’impegno orario del personale docente, dipendente dallo Stato, rientra […] sicuramente nella competenza statale esclusiva di cui all’art. 117, comma secondo, lett. g), Cost., trattandosi di materia attinente al rapporto di lavoro del personale statale” (118).

2.2.7.4. Art. 12, comma 1, ultimo periodo, e art. 13, comma 1, secondo periodo.

Entrambe le ricorrenti hanno poi impugnato gli artt. 12 e 13, per le parti relative alla “modulazione” della anticipazione dell’età minima per l’iscrizione alla scuola dell’infanzia e primaria. In particolare, l’art. 12 regola l’accesso alla medesima scuola dell’infanzia nella fase transitoria di sperimentazione, prevista dalla legge delega, avente inizio con l’anno scolastico 2003-2004 e destinata a proseguire fino all’anno 2006, prevedendo la possibilità di una graduale anticipazione dell’età minima per l’iscrizione fino a giungere al limite temporale ivi indicato. L’ultimo periodo del primo comma affida al Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca il compito di modulare le anticipazioni, “sentita l’Associazione nazionale dei comuni d’Italia (ANCI)”. Analogamente dispone il secondo periodo del comma 1 del successivo art. 13, con riferimento alla scuola primaria.
Secondo le difese regionali, se si conviene che la sperimentazione non è una funzione da svolgere necessariamente in forma centralizzata ed anzi deve tenere conto, secondo lo stesso legislatore statale, delle peculiari situazioni locali – come testimonierebbe il previsto coinvolgimento dell’ANCI – dovrebbe allora concludersi che la relativa disciplina rientra nell’ambito della competenza regionale, come è del resto coerente con la natura di materia concorrente propria dell’istruzione. In subordine, qualora si dovesse ravvisare un’esigenza di disciplina unitaria a fondamento della competenza attribuita al Ministro, le norme impugnate sarebbero pur sempre illegittime per violazione del principio di leale collaborazione, in quanto non prevedono alcuna forma di partecipazione delle Regioni nella fase decisionale.
La Corte costituzionale, dopo avere rigettato la questione formulata in via primaria, atteso che “la fissazione del limite di età per l’iscrizione alla scuola dell’infanzia (come a qualsiasi altra scuola) è una funzione sorretta da evidenti esigenze unitarie, rappresentando l’omogeneità anagrafica condizione minima di uniformità in materia scolastica, ha però accolto la questione subordinata, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 12, comma 1, ultimo periodo, nella parte in cui dispone che il decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca in tema di anticipazione dell’età di accesso alla scuola dell’infanzia sia adottato “sentita l’Associazione nazionale dei comuni d’Italia (ANCI)” invece che sentita la Conferenza unificata Stato-Regioni-autonomie locali, considerato che, in materia di istruzione, il naturale interlocutore dello Stato è essenzialmente la Regione, in quanto gli altri enti locali sono privi di competenza legislativa.
La Corte ha altresì dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 13, comma 1, secondo periodo, nella parte in cui non prevede che il decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca in tema di anticipazione dell’età di accesso alla scuola primaria sia adottato sentita la Conferenza unificata Stato-Regioni-autonomie locali, data l’inesistenza di alcuna ragionevole giustificazione per limitare alla sola scuola dell’infanzia la partecipazione delle Regioni ai processi decisionali in tema di anticipazione delle iscrizioni.

2.2.7.5. Art. 12, comma 2, e art. 13, comma 3

Gli artt. 12, comma 2, e 13, comma 3, dettano disposizioni transitorie, relativamente all’assetto pedagogico, didattico ed organizzativo della scuola dell’infanzia, della scuola primaria e della scuola secondaria di secondo grado, fino all’emanazione del regolamento governativo previsto dall’art. 7, comma 1, della legge n. 53 del 2003, cui è affidata l’“individuazione del nucleo essenziale dei piani di studio scolastici per la quota nazionale relativamente agli obiettivi specifici di apprendimento, alle discipline e alle attività costituenti la quota nazionale dei piani di studio, agli orari, ai limiti di flessibilità interni nell’organizzazione delle discipline” (lett. a)), la “determinazione delle modalità di valutazione dei crediti scolastici” (lett. b)) e la “definizione degli standard minimi formativi, richiesti per la spendibilità nazionale dei titoli professionali conseguiti all’esito dei percorsi formativi, nonché per i passaggi dal percorsi formativi ai percorsi scolastici” (lett. c)).
Dette norme sarebbero, secondo le Regioni ricorrenti, lesive dell’art. 117, comma sesto, Cost., in quanto reiterano la previsione di emanazione di un regolamento statale il cui oggetto – quale indicato dal citato art. 7, comma 1, della legge n. 53/2003 – non sarebbe interamente riconducibile alle norme generali sull’istruzione ma ricadrebbe, almeno in parte, in materia di legislazione concorrente, nella quale non è consentito allo Stato fare ricorso allo strumento regolamentare. Subordinatamente, le medesime norme dovrebbero ritenersi illegittime, per violazione del principio di leale collaborazione, in quanto il citato art. 7, comma 1, prevede l’intesa con la Conferenza unificata Stato-Regioni-autonomie locali solo per quanto riguarda le materie indicate alla lett. c), ma non anche per quelle di cui alla lett. a) ed alla lett. b). E tanto la disciplina degli orari, di cui alla lettera a), quanto quella relativa alle modalità di valutazione dei crediti scolastici, di cui alla lettera b), pur se in ipotesi ricondotte alla competenza statale esclusiva di cui all’art. 117, comma secondo, lett. n), Cost., interferirebbero comunque con la gestione del servizio scolastico, di competenza regionale, così da richiedere l’adozione di meccanismi collaborativi.
La Corte costituzionale ha dichiarato infondata tale questione, atteso che i regolamenti di cui all’art. 7, comma 1, della l. n. 53/2003, riguardano la determinazione di livelli essenziali della prestazione statale in materia di assetto pedagogico, didattico e organizzativo e sono perciò riconducibili alla competenza statale esclusiva di cui all’art. 117, comma secondo, lett. m), Cost. Pertanto, le norme impugnate, che a tali regolamenti fanno riferimento, non ledono alcuna competenza regionale né contrastano con il principio di leale collaborazione.

2.2.7.6. Art. 15, comma 1, secondo periodo

L’ultima questione sollevata da entrambe le Regioni riguarda l’art. 15, comma 1, secondo periodo, che, al fine di realizzare determinate attività educative, affida la possibilità di attivare incrementi di posti per le attività di tempo pieno e di tempo prolungato nell’ambito dell’organico del personale docente, al decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, di cui all’art. 22, comma 2, della legge n. 448 del 2001, per il quale il Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca provvede con proprio decreto, emanato di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, previo parere delle Commissioni parlamentari competenti, alla determinazione della consistenza complessiva degli organici del personale docente ed alla sua ripartizione su base regionale.
Secondo le Regioni, tale disposizione violerebbe sia l’art. 117, terzo comma, Cost., che il principio di leale collaborazione. Infatti, posta la competenza regionale in materia di gestione ed organizzazione del servizio dell’istruzione pubblica, anche le funzioni riguardanti l’organico dovrebbero essere oggetto di trasferimento, insieme alle necessarie risorse, nel quadro di una progressiva attuazione dell’art. 119 della Costituzione. Peraltro, pur tenuto conto della necessaria gradualità che siffatto trasferimento di funzioni comporta, non sarebbe comunque compatibile con il nuovo assetto costituzionale una norma – come quella impugnata – che nega qualsiasi significativo coinvolgimento delle Regioni in tema di organico del personale docente.
Il giudice delle leggi ha parzialmente accolto la questione in esame, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’articolo 15, comma 1, nella parte in cui non prevede che il decreto ex art. 22, comma 2, l. n. 448/2001, in tema di incremento di posti per le attività di tempo pieno e di tempo prolungato, sia adottato dal Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, sentita la Conferenza unificata Stato-Regioni-autonomie locali. Ad avviso della Corte, infatti, l’incremento, nell’ambito dell’organico del personale docente statale, dei posti attivati per le attività di tempo pieno e di tempo prolungato attiene ad aspetti dell’organizzazione scolastica che intersecano le competenze regionali relative alle attività educative previste dal decreto legislativo. Il rispetto del principio di leale collaborazione impone pertanto che nell’adozione delle relative scelte vengano coinvolte anche le Regioni, quanto meno nella forma della consultazione dei competenti organi statali con la Conferenza unificata Stato-Regioni-autonomie locali.

2.2.8. La legge 26 maggio 2004, n. 138 (“Conversione, con modificazioni, del decreto-legge 29 marzo 2004, n. 81, recante interventi urgenti per fronteggiare situazioni di pericolo per la salute pubblica”)

L’ottavo gruppo di atti introduttivi comprende unicamente il ricorso n. 74 della Regione Toscana (119), che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2-septies, comma 1, della legge 26 maggio 2004, n. 138 (“Conversione, con modificazioni, del decreto-legge 29 marzo 2004, n. 81, recante interventi urgenti per fronteggiare situazioni di pericolo per la salute pubblica”), nella parte in cui dispone che la non esclusività del rapporto di lavoro dei dirigenti del ruolo sanitario non preclude la direzione di strutture semplici e complesse all’interno delle Aziende sanitarie ed ospedaliere. Ad avviso della ricorrente, infatti, tale disposizione, non potendo essere ricondotta alla lett. g) dell’art. 117, secondo comma, Cost. (“ordinamento ed organizzazione […] degli enti pubblici nazionali”), rientrerebbe nella competenza legislativa residuale delle Regioni ex art. 117, quarto comma, Cost., attesa la sua afferenza all’ordinamento ed alla organizzazione degli enti regionali (aziende sanitarie ed ospedaliere incluse). D’altra parte, la norma impugnata lederebbe anche la competenza legislativa concorrente delle Regioni in materia di “tutela della salute”, visto che l’affidamento della responsabilità delle strutture delle aziende sanitarie ed ospedaliere ha rilevanti ricadute sul funzionamento dei servizi sanitari. La medesima norma non potrebbe neanche essere giustificata sulla base della vocazione dinamica della sussidiarietà (art. 118, primo comma, Cost.), posto che in tal caso non vi è un’allocazione della funzione amministrativa a livello statale, ma una disciplina statale di funzioni regionali, e in ogni caso sarebbe violato il principio di leale collaborazione per la mancata previsione dell’intesa con la Regione interessata.
La Regione ha censurato la norma anche sotto un altro profilo: posto che essa, al contrario dell’originario decreto legge, non è stata sottoposta al parere della Conferenza Stato-Regioni, sarebbero stati violati gli artt. 5, 117 e 118 Cost., sotto il profilo delle lesione del principio di leale collaborazione tra Stato e Regioni, anche in relazione all’art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 281 del 1997, ai sensi del quale “[…] la Conferenza Stato-Regioni è obbligatoriamente sentita in ordine agli schemi di disegni di legge e di decreto legislativo o di regolamento del Governo nelle materie di competenza delle Regioni o delle Province autonome […]”.

2.2.9. Il decreto legislativo 29 marzo 2004, n. 99 (“Disposizioni in materia di soggetti e attività, integrità aziendale e semplificazione amministrativa in agricoltura, a norma dell’art. 1, comma 2, lettere d), f), g), l), ee) della legge 7 marzo 2003, n. 38”).

2.2.9.1. Artt. 13, comma 4

Il nono gruppo di ricorsi è composto solo dal n. 61 (120), con cui la Regione Toscana ha impugnato diverse disposizioni del decreto legislativo 29 marzo 2004, n. 99 (recante “Disposizioni in materia di soggetti e attività, integrità aziendale e semplificazione amministrativa in agricoltura […] ). Una prima censura ha riguardato l’artt. 13, comma 4, del decreto legislativo in parola, i quale dispone che l’Agenzia per le erogazioni in agricoltura (AGEA) assicura attraverso i servizi del Sistema informativo agricolo nazionale (SIAN), la realizzazione dell’Anagrafe delle aziende agricole, del fascicolo aziendale elettronico e della carta dell’agricoltore e del pescatore. Secondo la Regione Toscana, tale disposizione, non fondandosi su alcuno dei titoli che legittimano l’intervento statale, si porrebbe in contrasto con le attribuzioni regionali in materia di agricoltura, che – come affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 12 del 2004 – costituisce una materia riservata alla competenza residuale delle Regioni, ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost.
D’altra parte, la disposizione non troverebbe fondamento costituzionale neppure nell’art. 118 Cost., non essendovi motivi che giustifichino l’allocazione in capo allo Stato delle funzioni suddette in applicazione del principio di sussidiarietà. Peraltro, anche in tale ipotesi, la norma resterebbe illegittima per l’assenza di ogni previsione di intesa con le Regioni, che invece sarebbe imprescindibile in considerazione dell’interferenza con le funzioni regionali in materia di agricoltura, secondo quanto enunciato dalla Consulta nella sentenza n. 303 del 2003.

2.2.9.2. Artt. 14, comma 6

Un’altra disposizione oggetto di censura è stata l’art. 14, comma 6, d.lgs. n. 99 del 2004, che introduce la regola del silenzio assenso per tutti i procedimenti che l’impresa agricola può attivare, purché la relativa istanza sia presentata tramite i Centri autorizzati di assistenza agricola (CAA). Tale disposizione, dettando una disciplina che si applica anche a procedimenti di competenza regionale (autorizzazioni all’esercizio di attività agrituristiche, autorizzazioni fitosanitarie e autorizzazioni edilizie in zone agricole), violerebbe i criteri di riparto di competenze di cui all’art. 117 Cost., posto che i procedimenti in materia di agricoltura non rientrano nelle attribuzioni statali. D’altra parte, essa non troverebbe fondamento costituzionale neppure nell’art. 118 Cost. e, quindi, nei principi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione ivi richiamati. Secondo l’insegnamento della Corte costituzionale (sentenza n. 303/2003) la legge statale è legittimata ad intervenire in materie di competenza regionale nei casi in cui, in applicazione dell’art. 118, primo comma, Cost., allo Stato sia attribuita la titolarità di una funzione amministrativa. Nel caso in esame, però, la titolarità della funzione amministrativa non verrebbe allocata a livello statale, atteso che l’impugnata disposizione fissa il termine per il formarsi del silenzio assenso per i procedimenti gestiti da tutte le amministrazioni, Regioni incluse.
In ogni caso le disposizioni de quibus sarebbero incostituzionali per violazione dell’art. 118 Cost., poichè non prevedono l’intesa con la Regione che sarebbe invece imprescindibile a fronte dell’interferenza della disciplina in ambiti materiali di competenza regionale (sentenza n. 303/2003 cit.).

2.2.9.3. Artt. 17, comma 1

L’art. 17, comma 1, d.lgs. n. 99/2004 attribuisce alla società per azione “Buonitalia”, partecipata dal Ministero delle politiche agricole e forestali e strumento operativo del Ministero stesso per l’attuazione delle politiche promozionali di competenza nazionale, l’erogazione di servizi alle imprese del settore agroalimentare per favorire l’internazionalizzazione dei prodotti italiani. Secondo la Regione Toscana, tale disposizione presenterebbe due profili di illegittimità costituzionale.
Anzitutto, essa appartiene ad un Capo del provvedimento (“Tutela del patrimonio agroalimentare”) totalmente mancante nel testo sottoposto all’esame della Conferenza Stato-Regioni per l’espressione del parere. Ebbene, ciò avrebbe determinato la violazione degli artt. 5, 117 e 118 Cost., sotto il profilo delle lesione del principio di leale collaborazione tra Stato e Regioni, anche in relazione all’art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 281 del 1997, ai sensi del quale “[…] la Conferenza Stato-Regioni è obbligatoriamente sentita in ordine agli schemi di disegni di legge e di decreto legislativo o di regolamento del Governo nelle materie di competenza delle Regioni o delle Province autonome […]”.
D’altra parte, l’art. 17, comma 1, sarebbe incostituzionale anche perché non sussisterebbe nell’art. 117 Cost. un titolo che legittimi lo Stato a disciplinare la promozione dei prodotti del sistema agroalimentare italiano. Peraltro, anche qualora si ravvisasse una competenza statale in applicazione dei criteri di sussidiarietà di cui all’art. 118 Cost., la norma resterebbe illegittima, perchè non é prevista alcuna intesa con la Regione, secondo i principi di cui alla sentenza n. 303/2003 della Corte costituzionale, ma anzi è creato un sistema che esclude totalmente le Regioni per accentrare le competenze in capo alla società Buonitalia.

2.2.9.4. Art. 18, comma 2 e 4

I commi 2 e 4 dell’art. 18 del d.lgs. n. 99/2004 attribuiscono, rispettivamente, all’Agenzia per i controlli e le azioni comunitarie (Agecontrol) s.p.a. e all’Ispettorato centrale repressione frodi la potestà di irrogare sanzioni. Tali disposizioni presenterebbero, anzitutto, il vizio (gia preso in esame) di far parte di un Capo del provvedimento non sottoposto all’esame della Conferenza Stato-Regioni.
In secondo luogo, esse sarebbero illegittime per violazione delle attribuzioni regionali di cui all’art. 117 Cost. Secondo la giurisprudenza costituzionale, infatti, la competenza sanzionatoria amministrativa non costituisce una materia a sé, ma accede alle materie sostanziali (sentt. n. 85/1996, 361/2003, 12/2004): in tale prospettiva, dunque, allo Stato non dovrebbe essere consentito di intervenire con norme che attribuiscono direttamente ad organi centrali la competenza sanzionatoria per illeciti amministrativi attinenti a materie regionali. Peraltro, le norme in parola sarebbero incostituzionali anche per la violazione dell’art. 118 Cost., in quanto l’allocazione delle funzioni amministrative in oggetto in capo ad un organismo statale non troverebbe giustificazione nei principi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione.

2.2.10. Il decreto legislativo 1° aprile 2004, n. 111 (“Norme di attuazione dello statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia concernenti il trasferimento di funzioni in materia di viabilità e trasporti”)

Anche il decimo gruppo di ricorsi è in realtà composto di un solo atto introduttivo, il n. 66 della Regione Veneto (121), avente ad oggetto l’art. 9, comma 7, del decreto legislativo 1° aprile 2004, n. 111 (“Norme di attuazione dello statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia concernenti il trasferimento di funzioni in materia di viabilità e trasporti”), ai sensi del quale “dei servizi di trasporto ferroviario interregionale tra le Regioni Friuli-Venezia Giulia e Veneto sono attribuiti alla Regione Friuli-Venezia Giulia quelli individuati sulla base di un’intesa tra il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e le citate Regioni, che tenga conto della prevalenza dei viaggiatori per chilometro sulle origini/destinazioni esclusivamente dell’utenza ferroviaria interregionale, ovvero dell’esistenza di coincidenze nel nodo di Mestre-Venezia con ulteriori treni di lunga percorrenza, per il collegamento della Regione Friuli-Venezia Giulia con il resto del territorio nazionale. Fino alla definizione della citata intesa i servizi interregionali continuano ad essere disciplinati dal contratto di servizio nazionale”.
Tra i parametri costituzionali invocati dalla Regione rilevano ai nostri fini gli artt. 5, 114 e 117, Cost. e l’art. 118 Cost. Quanto ai primi, la difesa regionale ha eccepito la lesione dell’autonomia legislativa regionale, in quanto, con riferimento alla materia dei trasporti, sarebbe riservata alla potestà legislativa concorrente dello Stato la sola disciplina delle “grandi reti”, mentre la norma impugnata, vincolando le Regioni interessate a seguire due criteri per regolamentare le linee ferroviarie interregionali – ovverosia, in alternativa, la prevalenza dei viaggiatori per chilometro sulle origini/destinazioni esclusivamente dell'utenza ferroviaria interregionale, ovvero l'esistenza di coincidenze nel nodo di Mestre-Venezia con ulteriori treni di lunga percorrenza – si sarebbe ingerita nel merito di scelte di dettaglio riservate alla potestà legislativa regionale.
Per quanto concerne l’art. 118 Cost., la Regione ha lamentato la violazione del principio di sussidiarietà e adeguatezza, in quanto i contenuti della norma impugnata sarebbero stati concertati – nel quadro del particolare iter procedimentale disciplinato dall’art. 65 dello statuto della Regione Friuli-Venezia Giulia – tra quest’ultima e lo Stato, senza coinvolgere in alcun modo la Regione Veneto, quando invece i pubblici poteri dovrebbero essere esercitati ad un livello il più prossimo possibile ai cittadini, ammettendosi l’intervento dei livelli superiori di governo nei soli casi di inerzia da parte di quelli inferiori.
La Corte costituzionale ha definito il ricorso in parola con la sentenza n. 344 del 2005, che lo ha dichiarato inammissibile in quanto notificato al Presidente del Consiglio dei ministri oltre il termine di sessanta giorni previsto dall’art. 127 Cost. per l’impugnativa in via principale.

2.2.11. Il decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124 (“Razionalizzazione delle funzioni ispettive in materia di previdenza sociale e di lavoro, a norma dell’articolo 8, della legge 14 febbraio 2003, n. 30”)

2.2.11.1. Art. 1, comma 1, primo periodo, art. 6, comma 1

L’undicesimo gruppo di ricorsi è composto dai nn. 68 della Regione Emilia-Romagna e 69 della Provincia autonoma di Trento (122), entrambi vertenti su numerose disposizioni del decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124 (“Razionalizzazione delle funzioni ispettive in materia di previdenza sociale e di lavoro, a norma dell’articolo 8, della legge 14 febbraio 2003, n. 30”). Anzitutto, le Regioni ne hanno censurato gli artt. 1, comma 1, primo periodo, e 6, comma 1, che attribuiscono al Ministero del lavoro e delle politiche sociali la titolarità ed il coordinamento delle iniziative di contrasto del lavoro sommerso e irregolare, di vigilanza in materia di rapporti di lavoro e dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale […]”, e, in particolare, al personale ispettivo in servizio presso le direzioni regionali e provinciali del lavoro le funzioni di vigilanza in materia di lavoro e di legislazione sociale.
Secondo le ricorrenti, tali disposizioni, confermando la competenza amministrativa del Ministero del lavoro nella materia della vigilanza sul lavoro, violerebbero gli artt. 117, terzo comma, e 118, primo e secondo comma, che impongono allo Stato di limitarsi alla determinazione dei principi fondamentali della materia “tutela del lavoro”, lasciando alle Regioni spazio per la disciplina di dettaglio e, soprattutto, per l’esercizio della potestà di allocazione delle funzioni amministrative a propri organi o al giusto livello di amministrazione locale, secondo il principio di sussidiarietà.
D’altra parte, la giurisprudenza della Corte costituzionale ha precisato che nelle materie di competenza regionale concorrente o residuale lo Stato può autoassegnarsi e regolare funzioni amministrative solo in presenza di effettive esigenze di esercizio unitario e nel rispetto dei principi di proporzionalità e leale collaborazione (v. sentt. n. 303/2003 e 6/2004). Ebbene, secondo le ricorrenti, tali esigenze di esercizio unitario implicherebbero che la “chiamata in sussidiarietà” possa avvenire solo in favore di organi statali centrali, posto che se una funzione amministrativa in materia regionale può essere svolta a livello periferico ciò significa che un’esigenza di esercizio unitario non sussiste e che spetta alle Regioni individuare il livello istituzionale adeguato ai sensi dell’art. 118, secondo comma, Cost.

2.2.11.2. Art. 6, comma 3, primo periodo

Ai sensi dell’art. 6, comma 3, del decreto legislativo n. 124 del 2004, “le funzioni ispettive in materia di previdenza ed assistenza sociale sono svolte anche dal personale di vigilanza dell’INPS, dell’INAIL, dell’ENPALS e degli altri enti per i quali sussiste la contribuzione obbligatoria, nell’ambito dell’attività di verifica del rispetto degli obblighi previdenziali e contributivi”. La norma, dunque, presuppone che le funzioni ispettive in materia di previdenza sociale siano svolte dagli organi periferici statali e da quelli degli enti previdenziali. Ebbene, ad avviso delle ricorrenti, nonostante in questo caso la materia “vigilata” appartenga alla competenza statale (la “previdenza sociale” di cui alla lett. o) dell’art. 117, secondo comma, Cost.), essa si porrebbe comunque in contrasto con l’art. 118, primo comma, Cost. Atteso che il principio di sussidiarietà di cui alla disposizione costituzionale opera anche in relazione alle materie statali, la connessione esistente tra lavoro e previdenza dovrebbe risolversi, sul piano amministrativo, con l’unificazione delle funzioni in capo alle strutture degli enti autonomi, restando allo Stato e agli enti parastatali le funzioni unitarie.

2.2.11.3. Art. 2, art. 3, commi da 1 a 4, art. 4, art. 5, commi da 1 a 3, e art. 7

Gli artt. 2, 3, commi da 1 a 4, 4 e 5, commi da 1 a 3, del d.lgs. n. 124/2004 assegnano funzioni di coordinamento a strutture statali di vario tipo, mentre l’art. 7 indica i vari compiti del personale ispettivo. Secondo i ricorsi in parola, la legittimità di tali norme sarebbe collegata a quella degli artt. 1 e 6: se queste disposizioni sono – come le Regioni ritengono – illegittime, anche le norme che disciplinano il coordinamento o lo svolgimento concreto delle funzioni oggetto degli artt. 1 e 6 risultano affette da illegittimità “derivata”.

2.2.11.4. Art. 8

L’art. 8 del d.lgs. n. 124/2004 attribuisce agli organi periferici del Ministero del lavoro e degli enti previdenziali il potere di organizzare attività di prevenzione e promozione, presso i datori di lavoro, finalizzata al rispetto della normativa lavorativa e previdenziale (commi 1, 2 e 5), e di proporre a enti e datori di lavoro e associazioni, attività di informazione ed aggiornamento, da svolgersi mediante stipula di convenzione definita con decreto ministeriale (comma 3). Ad avviso delle ricorrenti, i commi 1, 2 e 5, violerebbero gli artt. 117, terzo comma, e 118, primo e secondo comma, Cost., atteso che assegnano funzioni amministrative ad organi statali o parastatali nella materia (concorrente) della “tutela del lavoro”. Il comma 3 atterrebbe, invece, alla materia della “formazione professionale”, che rientra nella competenza residuale delle Regioni ex art. 117, quarto comma, Cost., ed in ogni caso sarebbe illegittimo per violazione del principio di leale collaborazione nella parte in cui non prevede alcun coinvolgimento regionale nella definizione dello schema di convenzione.
Le Regioni hanno altresì impugnato il comma 4 dell’art. 8, ai sensi del quale “la direzione provinciale del lavoro […], sulla base di direttive del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, fornisce i criteri volti a uniformare l’azione dei vari soggetti abilitati alla certificazione dei rapporti di lavoro […]”. Anche tale norma rientrerebbe nella materia “tutela del lavoro”, per cui, attribuendo funzioni amministrative ad organi statali periferici, violerebbe gli artt. 117, terzo comma, e 118, primo e secondo comma, Cost. Secondo le ricorrenti, inoltre, non sarebbe giustificato neanche il potere ministeriale di direttiva, posto che dopo la riforma del Titolo V non è più ammessa la funzione di indirizzo e coordinamento. In ogni caso, la previsione delle direttive ministeriali sarebbe lesiva del principio di leale collaborazione, atteso il mancato coinvolgimento delle Regioni nella loro elaborazione.

2.2.11.5. Art. 10, commi 1, ultimo periodo, 3 e 4

L’art. 10, comma 1, del d.lgs. n. 124/2004 prevede l’istituzione, presso il Ministero del lavoro, di una banca dati telematica per la raccolta delle informazioni concernenti i datori di lavoro ispezionati, nonché informazioni o approfondimenti sulle dinamiche del mercato del lavoro e su tutte le materie oggetto di aggiornamento e di formazione permanente del personale ispettivo. In particolare, l’ultima frase del comma 1 dispone che con successivo decreto ministeriale verranno definite le modalità di attuazione e di funzionamento della predetta banca dati. Ebbene, ad avviso delle ricorrenti, tale disposizione violerebbe il principio di leale collaborazione, atteso che non prevede un’intesa in Conferenza Stato-Regioni sul d.m. che disciplinerà la banca dati.
Ancora, le Regioni hanno impugnato il comma 3, che attribuisce funzioni amministrative particolari alle direzioni regionali del lavoro, per violazione degli artt. 117, terzo comma, e 118, primo e secondo comma, Cost., nonché il comma 4, che attribuisce al Ministro del lavoro l’adozione, con decreto, del “modello unificato di verbale di rilevazione degli illeciti ad uso degli organi di vigilanza in materia di lavoro e di previdenza e assistenza obbligatoria […]”. Anche quest’ultima disposizione sarebbe illegittima per violazione della competenza regionale in materia di vigilanza sul lavoro e, comunque, per la mancata previsione di un’intesa in Conferenza Stato-Regioni sulla definizione del modello unificato di verbale.

2.2.11.6. Art. 11, commi 1, 4, secondo periodo, 5 e 6, art. 12, commi 1, 2, primo periodo, 3 e 4, art. 14, comma 2, primo periodo, art. 15, comma 1, primo periodo, art. 16, commi 1 e 2, art. 17, commi 1 e 2, e art. 18

Le ricorrenti hanno infine censurato una serie di disposizioni del d.lgs. n. 124/2004, eccependone un’illegittimità “derivata”, che “seguirebbe” quella delle norme che mantengono agli organi statali periferici la competenza in materia di vigilanza.
I commi 1 e 6 dell’art 11 attribuiscono competenza in materia di conciliazione amministrativa ad un funzionario della direzione provinciale del lavoro. Il comma 4, secondo periodo, dispone che, al fine di verificare l’avvenuto versamento dei contributi previdenziali e assicurativi a seguito della conciliazione, le direzioni provinciali del lavoro trasmettono agli enti previdenziali interessati la relativa documentazione. Il comma 5 aggiunge che, nella ipotesi di mancato accordo ovvero di assenza di una o di entrambe le parti convocate, la direzione provinciale del lavoro dà seguito agli accertamenti ispettivi.
L’art. 12, commi 1, 2, primo periodo, 3 e 4, assegna funzioni amministrative (diffida e tentativo di conciliazione, ricorsi) ad organi periferici dello Stato (Direzione provinciale del lavoro, Comitato regionale per i rapporti di lavoro).
L’art. 14 stabilisce che “le disposizioni impartite dal personale ispettivo in materia di lavoro e di legislazione sociale, nell’ambito dell’applicazione delle norme per cui sia attribuito dalle singole disposizioni di legge un apprezzamento discrezionale, sono esecutive” (comma 1), e che “contro le disposizioni di cui al comma 1 é ammesso ricorso […] al direttore della direzione provinciale del lavoro” (comma 2).
Analogamente, l’art. 15, comma 1, primo periodo, conferma le competenze di vigilanza della Direzione provinciale del lavoro, disciplinando il potere del personale ispettivo nelle ipotesi di violazioni di carattere penale.
Ancora, i commi 1 e 2 dell’art. 16 disciplinano il ricorso amministrativo avanti alle Direzioni regionali del lavoro, contro le ordinanze delle Direzioni provinciali.
L’art. 17 disciplina composizione e funzioni del Comitato regionale per i rapporti di lavoro.
L’art. 18 si occupa della formazione del personale ispettivo, statale e parastatale.

2.2.12. Il decreto legge 28 maggio 2004, n. 136 (“Disposizioni urgenti per garantire la funzionalità di taluni settori della pubblica amministrazione”), convertito dalla legge n. 186/2004

Passando al dodicesimo gruppo di atti introduttivi, occorre ricordare che con i ricorsi n. 71 della Regione Campania (123), 73 della Regione Toscana (124) e 79 della Regione Friuli-Venezia Giulia (125) è stato impugnato l’art. 6 del decreto legge 28 maggio 2004, n. 136, contenente “Disposizioni urgenti per garantire la funzionalità di taluni settori della pubblica amministrazione”. La norma in parola modifica il procedimento di nomina del Presidente dell’Autorità portuale, previsto dall’art. 8 della legge 28 gennaio 1994, n. 84, prevedendo che, qualora entro trenta giorni non si sia raggiunta l’intesa con la Regione interessata, il Ministro dei trasporti e della navigazione può chiedere al Presidente del Consiglio dei ministri di sottoporre la questione al Consiglio dei ministri, che provvede con deliberazione motivata.
Secondo le ricorrenti, tale disposizione si porrebbe in contrasto con gli artt. 5, 117 e 118, Cost., poiché, introducendo una procedura di intesa puramente formale e fittizia, lederebbe le competenze costituzionalmente attribuite alle Regioni. Infatti, posto che la regolamentazione dell’autorità portuale (il cui organo fondamentale è il Presidente) interferisce con le materie di competenza (concorrente o residuale) regionale del governo del territorio, porti civili, grandi reti di trasporto e di navigazione, commercio con l’estero, turismo ed industria alberghiera, nonché lavori pubblici, le Regioni hanno lamentato che il procedimento introdotto dalla norma impugnata per il raggiungimento della prescritta intesa non sarebbe conforme ai principi enunciati dalla giurisprudenza costituzionale in materia di leale collaborazione, ovvero: a) svolgimento di reiterate trattative per il superamento delle divergenze; b) impossibilità di declassare l’attività di codeterminazione connessa all’intesa in una mera attività consultiva non vincolante (v., in particolare, la sentenza n. 27 del 2004). La disciplina censurata, infatti, pone un termine “secco”, decorso il quale la procedura può essere unilateralmente definita dallo Stato.
Peraltro, l’art. 6 del decreto legge n. 136 del 2004 è stato impugnato anche nella versione risultante dalla conversione del decreto con la legge n. 186 del 2004, per la quale “[…] qualora entro trenta giorni non si raggiunga l’intesa con la Regione interessata, il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti indica il prescelto nell’ambito di una terna formulata a tale fine dal Presidente della Giunta regionale […]”; “ove il Presidente della Giunta regionale non provveda all’indicazione della terna entro trenta giorni dalla richiesta allo scopo indirizzatagli dal Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, questi chiede al Presidente del Consiglio dei Ministri di sottoporre la questione al Consiglio dei ministri, che provvede con deliberazione motivata”. Il ricorso n. 92 (126) della Regione Friuli-Venezia Giulia, pur riconoscendo che la nuova formulazione della norma restituisce un ruolo rilevante alla Regione interessata, ha eccepito che esso risulterebbe comunque lesivo degli artt. 117 e 118, Cost. nella parte in cui mantiene in capo al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti il potere di nomina del Presidente dell’autorità portuale, anziché attribuirlo alla Regione, d’intesa con il Ministro.
Il medesimo ricorso ha altresì censurato l’art. 1, comma 2, della legge n. 186 del 2004, di conversione del decreto legge n. 136, che fa salvi gli effetti degli atti compiuti ai sensi del precedente testo dell’art. 6 del decreto: secondo la Regione, infatti, una norma di sanatoria che fa salvi gli effetti di una norma incostituzionale risulterebbe affetta dai medesimi vizi di quest’ultima.

2.2.13. I decreti legislativi 26 maggio 2004 n. 153 (“Attuazione della legge 7 marzo 2003, n. 38 in materia di pesca marittima”) e 154 (“Modernizzazione del settore della pesca e dell’acquacoltura, a norma dell’art. 1, comma 2, della legge 7 marzo 2003, n. 38”)

Il tredicesimo gruppo di ricorsi è costituito dai nn. 86 e 87 della Regione Toscana (127), vertenti, rispettivamente, sul decreto legislativo 26 maggio 2004, n. 154, intitolato “Modernizzazione del settore della pesca e dell’acquacoltura, a norma dell’art. 1, comma 2, della legge 7 marzo 2003, n. 38”, e sul decreto legislativo 26 maggio 2004, n. 153, recante l’“Attuazione della legge 7 marzo 2003, n. 38 in materia di pesca marittima”. La Regione, oltre a formulare censure puntuali riguardanti singole disposizioni dei predetti decreti legislativi, ha lamentato l’incostituzionalità dei medesimi nel loro complesso. Secondo la ricorrente, infatti, essi disciplinano ambiti materiali – la pesca e l’acquacoltura, nonché la pesca marittima – che, non rientrando né nella competenza legislativa esclusiva dello Stato (art. 117, secondo comma, Cost.), né in quella concorrente (art. 117, terzo comma, Cost.), dovrebbero radicare la competenza legislativa residuale delle Regioni.
D’altra parte, ad avviso della ricorrente, se è vero che le materie disciplinate dai due decreti impugnati possono avere interferenze con la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema (art. 117, secondo comma, lett. s), Cost.) e, in parte, con la tutela della concorrenza sui mercati, ciò non può determinare – come sarebbe avvenuto nel caso in esame – una totale espropriazione delle Regioni nella disciplina della materia, posto che, secondo la giurisprudenza costituzionale, la tutela dell’ambiente è un valore costituzionale per la tutela del quale possono attivarsi competenze diverse, anche regionali (sentenze n. 407/2002, 96/2003, 259/2004).
Ancora, le norme impugnate non potrebbero trovare giustificazione neanche nella vocazione dinamica della sussidiarietà (art. 118, Cost.), posto che esse disciplinano materie regionali prescindendo da effettive esigenze di sussidiarietà per l’esercizio delle funzioni amministrative. In ogni caso, secondo la Regione, esse sarebbero illegittime per l’assoluta mancanza di adeguate forme di intesa con le Regioni.

2.2.14. Il decreto legge 12 luglio 2004, n. 168 (“Interventi urgenti per il contenimento della spesa pubblica”), convertito dalla legge n. 191/2004

2.2.14.1. Art. 1, comma 4

Il quattordicesimo gruppo di ricorsi include i nn. 89 e 93 della Regione Campania (128), 91 della Regione Toscana, 94 della Regione Valle d’Aosta e 96 della Regione Marche (129), tutti vertenti sulle disposizioni del decreto legge 12 luglio 2004, n. 168, recante “Interventi urgenti per il contenimento della spesa pubblica”, e della relativa legge di conversione (legge n. 191 del 2004). In particolare, il comma 4 dell’art. 1 del decreto legge n. 168 del 2004 è stato impugnato (solo) dalla Regione Valle d’Aosta, in quanto, imponendo alle amministrazioni pubbliche la scelta obbligata tra la stipula delle convenzioni CONSIP e l’assunzione dei parametri di prezzo-qualità in esse convenuti come limiti massimi per l’acquisto di beni e servizi ed una dettagliata disciplina riguardante anche l’organizzazione dei controlli interni, violerebbe (non solo le competenze statutarie, ma anche) la potestà legislativa residuale della Regione (art. 117, quarto comma, Cost.) in materia di appalti pubblici di servizi e forniture, non riservata alla competenza legislativa dello Stato. D’altra parte, la disciplina impugnata non potrebbe neanche ritenersi giustificata da esigenze di coordinamento della finanza pubblica, posto che l’art. 117, terzo comma, Cost. rimette al legislatore regionale la materia, consentendo a quello statale la sola determinazione dei principi fondamentali.


2.2.14.2. Art. 1, commi 5, 9, 10 e 11

I commi 5, 9, 10 e 11 dell’art. 1 del decreto legge n. 168 del 2004, estendendo la sfera di controllo della Corte dei conti sugli atti della Regione e degli enti locali, eccederebbero dalle attribuzioni che la Costituzione riconosce allo Stato, limitate alla legislazione elettorale, agli organi di governo ed alle funzioni fondamentali in materia di enti locali (lett. p) dell’art. 117, secondo comma, Cost.). Il sistema dei controlli sugli enti territoriali, pertanto, sarebbe estraneo alla competenza statale, rientrando nella potestà legislativa delle Regioni e in quella regolamentare degli enti locali.
Peraltro, il combinato disposto dei commi da 9 a 11 dell’art. 1 del d.l. n. 168/2004 è stato impugnato anche sotto un altro profilo. Infatti, nella parte in cui esso non si limita ad individuare criteri direttivi o limiti massimi di spesa, ma specifica ed elenca le spese che gli enti territoriali devono contenere nell’ambito di previste percentuali, finirebbe per limitare la sfera di autonomia finanziaria di bilancio e di spesa degli enti territoriali (art. 119 Cost.) e per incidere sulle scelte organizzative e sulla funzionalità dei medesimi (artt. 117 Cost.). D’altra parte, la mancanza assoluta di un’intesa con le Regioni sulle disposizioni impugnate configurerebbero comunque una violazione del principio di leale collaborazione.

2.2.14.3. Art. 3, comma 1

L’art. 3, comma 1, d.l. n. 168/2004, va ad integrare l’art. 3 della legge n. 350 del 2003 (legge finanziaria 2004) nella parte in cui (comma 18) elenca gli investimenti per i quali è ammissibile l’indebitamento ai sensi dell’art. 119, sesto comma, secondo periodo, Cost., introducendo una limitata deroga alle ipotesi di indebitamento ammissibili. Ebbene, secondo le ricorrenti, tale disposizione sarebbe costituzionalmente illegittima sia sotto il profilo sostanziale che sotto quello procedurale: infatti, da un lato, sarebbe lesiva dell’autonomia finanziaria regionale (art. 119 Cost.) l’individuazione discrezionale, da parte dello Stato, di concetti costituzionali (“indebitamento”, “spese di investimento”), peraltro al di fuori di una globale attuazione del nuovo modello di autonomia finanziaria e comunque in violazione del limite dei principi fondamentali della materia “armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario” (art. 117, terzo comma, Cost.), dall’altro, la norma censurata, in quanto posta in essere senza alcuna partecipazione degli enti locali e in quanto non contenente alcuna previsione di coinvolgimento dei medesimi, sarebbe anche contraria al principio di leale collaborazione.

2.2.15. La legge 23 agosto 2004, n. 239 (“Riordino del settore energetico, nonché delega al Governo per il riassetto delle disposizioni vigenti in materia di energia”)

2.2.15.1. Art. 1, commi 2, lett. c), 4, lett. f), 56, 57, 58 e 84

Il quindicesimo gruppo di ricorsi include i nn. 107 della Regione Toscana (130) e 109 della Provincia autonoma di Trento (131), riguardanti diverse disposizioni della legge 23 agosto 2004, n. 239, intitolata “Riordino del settore energetico, nonché delega al Governo per il riassetto delle disposizioni vigenti in materia di energia”. Peraltro, si tratterà prevalentemente di questioni sollevate dalla Regione Toscana, posto che la predetta Provincia autonoma si è limitata ad impugnare solo due disposizioni (i commi 24 e 26 dell’art. 1). In particolare, sono apparse lesive degli artt. 117 e 118, Cost. le norme contenute nell’art. 1, comma 2, lett. c), della legge n. 239 del 2004, ai sensi del quale le attività di distribuzione di energia elettrica e gas naturale a rete, di esplorazione, coltivazione, stoccaggio sotterraneo di idrocarburi, nonché di trasmissione e dispacciamento di energia elettrica sono attribuite in concessione secondo le disposizioni di legge. Ebbene, secondo la Regione Toscana, posto che l’art. 117, terzo comma, Cost. include tra le materie di legislazione concorrente soltanto la “distribuzione nazionale dell’energia”, la distribuzione locale dell’energia, che neppure è menzionata tra le competenze legislative esclusive dello Stato (art. 117, secondo comma, Cost.), rientrerebbe nella competenza legislativa residuale delle Regioni (art. 117, quarto comma, Cost.) e, dunque, spetterebbe a queste ultime (e non allo Stato) decidere come debba essere esercitata la relativa attività, funzionale all’erogazione di un servizio pubblico.
Gli stessi parametri costituzionali sono stati invocati per l’art. 1, comma 4, lett. f), ai sensi del quale solo per gli impianti alimentati da fonti rinnovabili non possono essere previste misure di riequilibrio territoriale. Tale disposizione è stata ritenuta lesiva delle competenze regionali in materia di “governo del territorio”, stante l’incidenza che anche gli impianti alimentati da fonti rinnovabili possono avere sul territorio.
Analogamente sono stati impugnati i commi 56, 57 e 58 del comma 1, i quali prevedono, rispettivamente, l’elenco delle attività di lavorazione e di stoccaggio di oli minerali soggette ad un regime autorizzatorio, la disciplina delle autorizzazioni, rilasciate dalle Regioni sulla base degli indirizzi e degli obiettivi generali di politica energetica, e le attività liberamente effettuate dall’operatore. Secondo la ricorrente, le attività di lavorazione e stoccaggio di oli minerali non sarebbero ricomprese nell’ambito della “produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia”, con la conseguenza che esse ricadrebbero in ambiti materiali di competenza regionale, ai sensi dell’art. 117, quarto comma Cost. Peraltro, ove pure si ritenesse che le attività in oggetto fossero ascrivibili alla competenza concorrente, le norme de quibus sarebbero comunque incostituzionali, perché non si limitano a dettare i principi fondamentali della materia.
La violazione degli artt. 117 e 118 Cost. è stata infine invocata per censurare il comma 84 dell’art. 1, che disciplina in dettaglio il contributo compensativo per il mancato uso del territorio dovuto alla Regione e agli enti locali da parte dei titolari di concessioni di coltivazione di idrocarburi in terraferma. Secondo la ricorrente, tale disposizione sarebbe illegittima poiché interviene con una disciplina di dettaglio (e non con la posizione di principi fondamentali) in ambiti materiali riservati alla potestà legislativa concorrente, sia in riferimento alla produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, sia in relazione al governo del territorio.

2.2.15.2. Art. 1, comma 4, lett. c)

La violazione degli artt. 117, 118 e 119 Cost. è stata invocata per censurare l’art. 1, comma 4, lett. c), l. n. 239/2004, che impone allo Stato ed alle Regioni, preposti ad assicurare i livelli essenziali delle prestazioni concernenti l’energia, di garantire l’assenza di oneri di qualsiasi specie che abbiano effetti economici anche indiretti fuori dall’ambito territoriale delle autorità che li prevedono. Secondo la difesa regionale, l’indeterminatezza della categoria “effetto economico indiretto” potrebbe fortemente limitare non solo le competenze legislative ed amministrative delle Regioni in materia di energia, ma anche l’autonomia di entrata e di spesa delle medesime.

2.2.15.3. Art. 1, commi 7, lett. g), h) e i), 8, lett. a), punti 3 e 7, lett. b), punto 3, 24, lett. a), 33 e 77-83

Molte delle disposizioni della l. n. 239/2004 sono state censurate per violazione degli artt. 117 e 118 Cost., nonché per violazione del principio di leale collaborazione. Anzitutto, le lett. g) ed h) dell’art. 1, comma 7, che includono tra i compiti riservati allo Stato l’identificazione delle linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale, con riferimento all’articolazione territoriale delle reti infrastrutturali energetiche dichiarate di interesse nazionale ai sensi delle leggi vigenti, nonché la programmazione di grandi reti infrastrutturali energetiche dichiarate di interesse nazionale. Secondo la ricorrente, atteso che la programmazione delle reti energetiche nazionali incide sulle competenze regionali, per l’interferenza con le attribuzioni che l’art. 117 Cost. affida alle Regioni in materia di energia ed anche per il particolare impatto che le infrastrutture energetiche hanno su tutta una serie di funzioni regionali relative al governo del territorio, alla tutela della salute, alla valorizzazione dei beni culturali ed ambientali, al turismo, il contemperamento delle competenze statali e regionali coinvolte dalla programmazione della rete energetica nazionale dovrebbe essere assicurato – in applicazione dei principi espressi dalla Corte costituzionale nelle sentenze n. 303/2003 e 6/2004 – tramite la previsione dell’intesa.
Analoga la censura formulata nei riguardi dell’art. 1, comma 7, lett. i), ai sensi del quale allo Stato spetta individuare le infrastrutture e gli insediamenti strategici, ai sensi della legge n. 443/2001 e del decreto legislativo n. 190/2002, al fine di garantire la sicurezza strategica, il contenimento dei costi dell’approvvigionamento energetico del Paese, lo sviluppo delle tecnologie innovative per la generazione di energia elettrica e l’adeguamento della strategia nazionale a quella comunitaria per le infrastrutture energetiche. Considerato che secondo l’insegnamento della Corte costituzionale la classificazione delle infrastrutture come opere interregionali, l’individuazione delle opere strategiche, la loro localizzazione e l’approvazione dei relativi progetti, ai sensi della legge n. 443/2001 e del decreto legislativo n. 190/2002, devono essere disposte d’intesa con la Regione interessata (sent. n. 303/2003), la norma impugnata, laddove non prevede tale forma di partecipazione regionale, sarebbe costituzionalmente illegittima per violazione del principio di leale collaborazione.
Anche l’art. 1, comma 8, lett. a), punto 3, che affida allo Stato l’approvazione degli indirizzi di sviluppo della rete di trasmissione nazionale, considerati i piani regionali di sviluppo del servizio elettrico, è stato impugnato per violazione del principio di leale collaborazione (e delle competenze legislative ed amministrative in materia di energia). Infatti, anche in tal caso è stato eccepito che, stante la connessione, l’intersezione e l’incidenza delle scelte programmatorie nazionali con le competenze regionali, il contemperamento delle competenze statali e regionali coinvolte dalla programmazione della rete energetica nazionale, comprendente anche lo sviluppo della rete di trasmissione nazionale, dovrebbe essere assicurato – in applicazione dei principi espressi dalla Corte costituzionale nelle sentenze n. 303/2003 e 6/2004 – tramite la previsione dell’intesa.
L’art. 1, comma 8, lett. a), punto 7, prevede che lo Stato definisca i criteri generali per le nuove concessioni di distribuzione dell’energia elettrica e per l’autorizzazione alla costruzione e all’esercizio degli impianti di generazione di energia elettrica di potenza termica superiore ai 300MW, sentita la Conferenza unificata Stato-Regioni-automie locali e tenuto conto delle linee generali dei piani energetici regionali. Ebbene, la Regione Toscana, premesso che la distribuzione locale dell’energia (e le relative concessioni) rientrano nella competenza legislativa residuale delle Regioni, mentre la distribuzione nazionale dell’energia (e le relative concessioni) in quella concorrente, ha eccepito che la norma impugnata, attribuendo allo Stato la determinazione dei criteri per le nuove concessioni di distribuzione (sia nazionale che locale) e per le autorizzazioni alla costruzione e all’esercizio degli impianti, prefigurerebbe criteri statali per lo svolgimento di funzioni amministrative attinenti a materie regionali, in contrasto con gli artt. 117 e 118 Cost., per i quali spetterebbe alle Regioni allocare e disciplinare le funzioni amministrative inerenti alle materie di legislazione regionale. Peraltro, qualora si ritenesse che il sistema costituzionale consente allo Stato di dettare criteri per l’esercizio di funzioni amministrative che devono essere disciplinate dalla legge regionale, la norma censurata sarebbe comunque illegittima per la mancata previsione dell’intesa in Conferenza Stato-Regioni sui predetti criteri.
L’art. 1, comma 8, lett. b), punto 3, affida allo Stato le determinazioni inerenti allo stoccaggio di gas naturale in giacimento. Posto che tale stoccaggio non rientra tra le materie di legislazione esclusiva statale o concorrente, la ricorrente ha osservato che spetta alle Regioni l’allocazione e la disciplina delle funzioni in parola (art. 117, quarto comma, e 118, secondo comma, Cost.). E anche qualora si ritenesse che la norma sia un’applicazione del principio di sussidiarietà, l’illegittimità costituzionale della medesima rimarrebbe per la mancata previsione dell’intesa con le Regioni.
L’art. 1, comma 24, lett. a), che affida al Ministro delle attività produttive l’emanazione di indirizzi per lo sviluppo delle reti nazionali di trasporto di energia elettrica e di gas naturale e la verifica della conformità dei piani di sviluppo predisposti dai gestori delle reti di trasporto con gli indirizzi medesimi, è stata impugnata sia dalla Provincia autonoma di Trento che dalla Regione Toscana. Anche in tal caso la violazione degli artt. 117 e 118, Cost., e del principio di leale collaborazione si fonda sull’argomentazione per la quale la programmazione della rete nazionale, inclusi gli indirizzi per lo sviluppo della rete stessa, dovrebbero essere elaborati ed approvati, per la connessione, l’intersezione e l’incidenza di queste scelte programmatorie con le competenze regionali, con il coinvolgimento regionale che, in applicazione dei principi espressi dalla Corte costituzionale nelle sentenze n. 303/2003 e 6/2004, deve essere assicurato mediante lo strumento dell’intesa.
L’art. 1, comma 33, congela le concessioni di distribuzione di energia elettrica in essere, prevedendo che il Ministro delle attività produttive possa proporre modifiche delle clausole contenute nelle relative convezioni. La Regione Toscana, ribadito che se la distribuzione nazionale dell’energia è soggetta alla potestà legislativa concorrente la distribuzione locale della stessa è materia di competenza legislativa residuale delle Regioni, ha eccepito che compete alle Regioni (e non allo Stato) legiferare in merito alle concessioni di distribuzione in essere ed esercitare i poteri relativi ai rapporti in essere con le imprese di distribuzione. In ogni caso la disposizione in parola sarebbe illegittima per la mancata previsione dell’intesa con la Regione interessata, ritenuta indispensabile a causa della rilevante interferenza che le concessioni elettriche hanno con le competenze regionali.
La violazione degli artt. 117 e 118 Cost. e del principio di leale collaborazione è stata infine invocata per censurare i commi 77, 78, 79, 80, 81, 82, 83 dell’art. 1, nella parte in cui, disciplinando il procedimento di rilascio del permesso di ricerca e della concessione di coltivazione degli idrocarburi in terraferma, non prevede espressamente che l’uno e l’altra siano rilasciati d’intesa con la Regione interessata. Secondo la ricorrente, infatti, posto che i provvedimenti in esame hanno effetto di variante urbanistica e sostituiscono tutti gli atti del procedimento previsti dalle norme vigenti (compresi quindi quelli sul vincolo idrogeologico e paesaggistico), si tratterebbe di atti che interferiscono, oltre che con la materia dell’energia, anche con il governo del territorio. Pertanto, secondo quanto enunciato dalla Corte costituzionale nelle sentenze n. 303/2003 e 6/2004, il rilascio del permesso di ricerca e della concessione di coltivazione degli idrocarburi in terraferma, che lo Stato – in applicazione del principio di sussidiarietà – ha trattenuto a sé per esigenze unitarie, dovrebbe essere esercitato d’intesa con la Regione interessata.

2.2.15.4. Art. 1, comma 26

L’art. 1, comma 26, della l. n. 239/2004 è stato impugnato dalla Regione Toscana e dalla Provincia autonoma di Trento nella parte in cui prevede che se non è raggiunta l’intesa con la Regione interessata sull’autorizzazione per la costruzione e l’esercizio di elettrodotti facenti parte della rete nazionale di trasporto dell’energia elettrica, lo Stato agisce in via sostitutiva ai sensi dell’art. 120 Cost., con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro delle attività produttive, previo concerto con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio. Tale disposizione, infatti, violerebbe gli artt. 117, 118, 120 Cost., nonché il principio di leale collaborazione. In particolare, essa, prevedendo il ricorso dello Stato al potere sostitutivo in tutti i casi in cui non sia stata raggiunta l’intesa con la Regione sull’autorizzazione, pretenderebbe di legittimare il potere sostitutivo statale in assenza dei presupposti costituzionali di cui all’art. 120 Cost., che lo ammette solo in presenza di emergenze istituzionali di particolare gravità.
Inoltre, la norma censurata, declassando l’intesa da “forte” a “debole”, la trasformerebbe in uno strumento non idoneo a garantire il rispetto del principio della leale collaborazione, essenziale in tutti i casi in cui vi sia interferenza tra competenze statali e regionali. Del resto, le ricorrenti richiamano in proposito l’orientamento, espresso dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 6 del 2004 proprio in riferimento alla materia dell’energia ed al procedimento di autorizzazione in esame, per il quale, stante l’impatto che una struttura produttiva come l’impianto energetico ha su molteplici funzioni regionali (governo del territorio, tutela della salute, turismo, valorizzazione dei beni culturali ed ambientali), l’intesa deve essere considerata in senso forte, nel senso che il suo mancato raggiungimento costituisce ostacolo insuperabile alla conclusione del procedimento.

2.2.15.5. Art. 1, comma 121

L’ultima questione di legittimità sollevata con riferimento alla l. n. 239/2004 riguarda il comma 121 dell’art. 1, che delega il Governo ad adottare uno o più testi unici per il riassetto delle disposizioni in materia di energia. Ebbene, secondo la Regione Toscana, tale delega sarebbe incompatibile con la distribuzione costituzionale delle competenze legislative nella materia dell’energia, in cui lo Stato dovrebbe limitarsi a determinare i principi fondamentali relativi alla produzione, al trasporto ed alla distribuzione nazionale dell’energia (art. 117, terzo comma, Cost.): pertanto, l’esercizio della delega sarebbe costituzionalmente legittimo nei soli limiti dei testi unici meramente ricognitivi.

2.2.16. Il decreto legislativo 6 ottobre 2004, n. 251 (“Disposizioni correttive del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, in materia di occupazione e mercato del lavoro”)

Il sedicesimo gruppo di ricorsi include l’unico atto che ha impugnato il decreto legislativo 6 ottobre 2004, n. 251, recante “Disposizioni correttive del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, in materia di occupazione e mercato del lavoro”. Infatti, solo la Regione Marche, con il ricorso n. 112 (132), ha sollevato la questione di legittimità costituzionale di alcuni articoli del decreto correttivo del decreto legislativo n. 276 del 2003, anch’esso impugnato innanzi alla Corte costituzionale dalle Regioni Marche, Toscana ed Emilia-Romagna, nonché dalla Provincia autonoma di Trento (133). La Regione Marche ha ritenuto che le modifiche apportate al d.lgs. n. 276/2003 (dagli artt. 2, 11, 12, 13, 14, 16 e 17 del decreto in parola), invece di rimuovere i precetti ritenuti illegittimi, ne confermerebbero la portata, risultando in tal modo anch’esse lesive delle competenze regionali. In particolare, esse perpetuerebbero una disciplina di dettaglio in grado di impedire il libero ed autonomo esercizio delle funzioni legislative regionali in materia di tutela e sicurezza del lavoro, di competenza legislativa concorrente (art. 117, terzo comma, Cost.), e in materia di formazione e istruzione professionale, di competenza legislativa regionale esclusiva (art. 117, quarto comma, Cost.).
Inoltre, le norma impugnate condizionerebbero in modo assorbente il potere regolamentare e l’esercizio delle funzioni amministrative da parte della ricorrente, in violazione degli artt. 117, sesto comma, e 118, Cost., che riservano alle Regioni la funzione regolamentare ed amministrativa nelle materie di loro competenza legislativa.


3. Profili “qualitativi” del contenzioso per i conflitti di attribuzione

3.1. I ricorsi dello Stato

Come accennato, dei 14 ricorsi per conflitti intersoggettivi fondati sulle nuove disposizioni del Titolo V soltanto due sono stati proposti dal Presidente del Consiglio dei ministri per lo Stato, mentre ben 12 sono dovuti all’iniziativa delle Regioni o Province autonome.
I due ricorsi dello Stato, i nn. 7 (134) e 8 (135), hanno invocato il parametro della lett. s) dell’art. 117, secondo comma, Cost. (tutela dell’ambiente e dell’ecosistema) per contestare la competenza delle Regioni (rispettivamente, Sardegna e Campania) a modificare il calendario venatorio. In particolare, lo Stato ha impugnato i provvedimenti regionali con i quali si è consentito il prelievo venatorio di talune specie di volatili, in deroga al divieto di caccia (nei periodi, rispettivamente, 21-29 febbraio 2004, 21 febbraio-21 marzo 2004).
I motivi di illegittimità costituzionale addotti dallo Stato sono stati di due ordini: da un lato, i provvedimenti regionali di deroga sarebbero stati emanati senza l’acquisizione del parere dell’Istituto nazionale per la fauna selvatica (INFS), prescritta come necessaria in via generale dall’art. 9 della direttiva CE/79/409 e, in via specifica, dall’art. 19-bis della legge 11 febbraio 1997 n. 157; dall’altro, l’ampliamento del periodo di prelievo venatorio a dopo il 31 gennaio violerebbe di per sé l’art. 18 della legge n. 157 del 1992, che fissa tale data a tutela dei cicli migratori e di rientro ai luoghi di nidificazione della fauna selvatica.

3.2. I ricorsi delle Regioni e delle Province autonome: ordinati per parametro

3.2.1. L’art. 117 Cost.

I dodici ricorsi per conflitto di attribuzione delle Regioni e delle Province autonome possono essere classificati in otto gruppi, tenendo conto del parametro costituzionale invocato.
Due ricorsi, i nn. 5 della Provincia autonoma di Trento (136) e 6 della Provincia autonoma di Bolzano (137), hanno invocato, tra l’altro, l’art. 117 Cost. e, in particolare, il sesto comma, che limita la competenza regolamentare dello Stato alle materie di competenza legislativa esclusiva di cui all’art. 117, secondo comma, Cost. Entrambe le Province autonome, infatti, hanno impugnato la disciplina sulla prevenzione dei pericoli di valanghe relativi agli impianti funiviari di cui al decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti 5 dicembre 2003, n. 392, che sostituisce l’art. 7, comma 6, lett. b), n. 4, del d.m. 4 agosto 1998, n. 400 (“Norme per le funicolari aeree e terrestri in servizio pubblico destinati al trasporto di persone”), in quanto riguardante una materia, quella della sicurezza degli impianti funiviari, che lo Statuto speciale della Regione Trentino-Alto Adige demanda alla competenza piena delle due Province autonome. Ebbene, secondo le ricorrenti, l’illegittimità di una disciplina statale regolamentare in materia regionale (e provinciale), da tempo affermata dalla Corte costituzionale (sentt. n. 465 del 1991 e 408 del 1998), sarebbe stata “codificata” dall’art. 117, sesto comma, Cost., applicabile alle autonomie speciali ex art. 10 l.cost. n. 3/2001.

3.2.2. Gli artt. 117 e 118 Cost.

Tre ricorsi, i nn. 2 della Regione Valle d’Aosta (138), 16 della Provincia autonoma di Trento (139) e 21 della Regione Friuli-Venezia Giulia (140), sono fondati, prevalentemente, sugli artt. 117 e 118 Cost. In particolare, con il ricorso n. 2 la Regione Valle d’Aosta ha impugnato la disciplina dei criteri e delle modalità di concessione dei finanziamenti per la realizzazione di progetti sperimentali nel campo della disabilità (legge n. 104 del 1992) contenuta nella direttiva del Ministro del lavoro e delle politiche sociali 23 settembre 2003. Secondo la difesa regionale, infatti, posto che l’adozione del nomen “direttiva ministeriale” (invece di quello di “decreto ministeriale”, così come richiesto dalla dall’art. 41-ter della l. n. 104/1992) non fa venir meno il carattere regolamentare del provvedimento censurato, esso sarebbe illegittimo, per violazione dell’art. 117, sesto comma, Cost., in quanto vertente su di una materia, l’assistenza e beneficenza pubblica, che lo statuto speciale riserva alla competenza concorrente della ricorrente. In subordine, il provvedimento sarebbe comunque illegittimo in quanto adottato senza la preventiva intesa in Conferenza unificata Stato-Regioni-autonomie locali, pur prevista dalla l. n. 104/1992, con conseguente violazione del principio di leale collaborazione e, per l’effetto, delle competenze costituzionalmente garantite della Regione. La difesa regionale ha peraltro aggiunto che la sostituzione del livello di governo regionale con uno meno vicino agli interessi oggetto dell’intervento vulnererebbe anche il principio di sussidiarietà (art. 118, primo comma, Cost.), che costituisce il principio costituzionale informatore del rapporto tra i diversi livelli territoriali di governo.
Il ricorso n. 16 della Provincia autonoma di Trento ha censurato il decreto del Ministro della salute 31 maggio 2004, il quale definisce i requisiti che devono possedere le società scientifiche e le associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie che svolgono attività formative. In particolare, la difesa provinciale, premesso che con la riforma del Titolo V della Costituzione, per effetto della clausola della maggiore autonomia (art. 10 l.cost. n. 3/2001), le competenze statutarie in materia di sanità (concorrente – ad eccezione dei profili organizzativi riconducibili alla competenza legislativa residuale) e di formazione professionale (primaria) non incontrano più i limiti delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali (Corte cost., sent. n. 274/2003) e dell’interesse nazionale (Corte cost., sent. n. 303/2003), ha eccepito l’illegittimità del decreto, atto sostanzialmente regolamentare, sotto vari profili. Anzitutto, il decreto sarebbe stato emanato in carenza di potere, in quanto esso, prevedendo due istituti differenti (il “riconoscimento” e l’“accreditamento”) laddove l’art. 16-ter del d.lgs. n. 502/1992 (norma assunta a fondamento del provvedimento) ne prevede uno soltanto l’“accreditamento”, non avrebbe adeguata base legislativa e, per tale via, lederebbe le competenze costituzionali della provincia. In subordine, l’art. 16-ter cit. non avrebbe alcun titolo per vincolare la potestà legislativa primaria della Provincia in materia di formazione professionale. In via ulteriormente subordinata, l’art. 16-ter cit. sarebbe stato abrogato dall’art. 117, sesto comma, Cost.
In secondo luogo, il decreto, indirizzando norme immediatamente applicabili alle società scientifiche operanti nella Provincia di Trento, avrebbe violato l’art. 117, sesto comma, Cost. (oltre che l’art. 2 del d.lgs. n. 266/1992, per il quale lo Stato può intervenire nelle materie provinciali solo con legge e solo facendo sorgere, eventualmente, un obbligo di adeguamento).
In terzo luogo, il decreto sarebbe stato emanato in violazione del principio di leale collaborazione per il mancato coinvolgimento delle Regioni nell’iter approvativo almeno nella forma del parere obbligatorio di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 281/1997 (“la Conferenza Stato-Regioni è obbligatoriamente sentita in ordine agli schemi di disegni di legge e di decreto legislativo o di regolamento del Governo nelle materie di competenza delle Regioni o delle Province autonome di Trento e Bolzano).
Infine, il decreto sarebbe illegittimo per violazione dell’art. 118 Cost. nelle parti in cui attribuisce ad organi statali funzioni amministrative che non richiedono un esercizio unitario quale, ad esempio, il riconoscimento da parte del Ministro delle società scientifiche in applicazione dei requisiti prefissati. Peraltro, qualora si ritenesse sussistente un’esigenza di esercizio unitario, il decreto impugnato sarebbe comunque illegittimo poiché la “chiamata in sussidiarietà” di funzioni amministrative richiede una legge statale e deve essere compensata con la previsione di procedimenti di esercizio delle stesse concertati con le Regioni (Corte cost., sentt. n. 303/2003 e 6/2004).
Il ricorso n. 21 della Regione Friuli-Venezia Giulia riguarda la stessa vicenda che ha dato origine ai (già esaminati) ricorsi per questione di legittimità costituzionale n. 79 e 92 della medesima Regione (vertenti sull’art. 6 del decreto legge n. 136 del 2004 nel testo, rispettivamente, precedente e successivo alla conversione del decreto) e n. 78 del Governo (avente ad oggetto l’art. 9, commi 2 e 3, della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia n. 17 del 2004). In particolare, con il ricorso per conflitto di attribuzione in esame la Regione Friuli-Venezia Giulia ha chiesto l’annullamento della delibera del 3 giugno 2004 del Consiglio dei ministri, con cui il Governo – applicando l’art. 6 del decreto n. 136/2004 precedente alla conversione dello stesso – ha autorizzato il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti a procedere alla nomina del Presidente dell’Autorità portuale di Trieste, ed il decreto ministeriale del 15 luglio 2004 contenente la predetta nomina, per violazione, tra l’altro, degli artt. 117 e 118 Cost. (in relazione all’art. 10 l.cost. n. 3/2001).
La Regione, pur ritenendo che alla nomina del Presidente dell’Autorità portuale di Trieste debba applicarsi la disciplina regionale (art. 9 l. 136/2004: nomina da parte del Presidente della Regione previa intesa con il Ministro delle infrastrutture su di una persona scelta nell’ambito di una terna di esperti indicata dagli enti locali), si è preoccupata, anzitutto, di contestare la legittimità degli atti impugnati nell’ipotesi in cui si dovesse ritenere applicabile la normativa nazionale (art. 6 d.l. n. 136/2004 ante conversione: nomina da parte del Ministro dei trasporti previa intesa con il Presidente della Regione interessata su di una persona scelta nell’ambito di una terna di esperti indicata dagli enti locali; nel caso di mancata intesa, il Ministro sottopone la questione al Consiglio dei ministri). Secondo la difesa regionale, in tale (denegata) ipotesi gli atti impugnati sarebbero affetti, in via derivata, dai vizi già denunciati nel ricorso n. 79, ovvero la violazione degli 117 e 118, Cost., posto che con l’introduzione di una procedura di intesa puramente formale e fittizia verrebbero lese le competenze costituzionalmente garantite della Regione (nelle materie governo del territorio, porti civili, grandi reti di trasporto e di navigazione, commercio con l’estero, turismo ed industria alberghiera, nonché lavori pubblici).
D’altra parte, la Regione Friuli-Venezia Giulia ha eccepito anche l’autonoma illegittimità degli atti impugnati sotto molteplici profili, tra cui: violazione del principio fondamentale di cui all’art. 6 d.l. n. 136/2004, nel testo precedente la conversione in legge, posto che la nomina ministeriale sarebbe avvenuta sulla base di una designazione unica (e non di una terna di nominativi) da parte degli enti locali; inapplicabilità dell’art. 6 del d.l. n. 136/2004 nella parte in cui esso è derogato dalla disciplina regionale di dettaglio (art. 9, commi 2 e 3, l.r. n. 17/ 2004), ai sensi della quale spetta al Presidente della Regione Friuli-Venezia Giulia la nomina del Presidente dell’Autorità portuale di Trieste, d’intesa con il Ministro delle infrastrutture (e non viceversa).

3.2.3. Gli artt. 117 e 119 Cost.

Il terzo gruppo di ricorsi per conflitto di attribuzione comprende due atti, i nn. 15 della Regione Valle d’Aosta (141) e 22 della Regione Campania (142), che hanno invocato gli artt. 117 e 119 Cost. In particolare, il primo ricorso ha impugnato il decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti del 24 giugno 2004, concernente l’acquisizione dei dati necessari all’erogazione dei fondi destinati al rinnovo del contratto degli autoferrotranviari, emanato ai sensi dell’art. 23 del decreto legge n. 355 del 2003, convertito dalla legge n. 47 del 2004. Quest’ultima disposizione finanzia il rinnovo contrattuale per il settore del trasporto pubblico locale, prevedendo, da un lato, che i relativi trasferimenti erariali sono effettuati con le procedure e le modalità stabilite con decreto del Ministro delle infrastrutture, sentita la Conferenza unificata, e, dall’altro, che al relativo onere economico si provvede con un aumento delle accise sulle benzine.
Ebbene, la ricorrente, posto che la predetta norma deve essere intesa nel senso che le risorse indicate quale mezzo di copertura finanziaria non includono la quota (di 9/10) del gettito delle accise riservata alla Regione Valle d’Aosta – in applicazione dello statuto speciale – dall’art. 4 della legge n. 690 del 1981, ha censurato il decreto ministeriale in parola nella parte in cui, in premessa, statuisce che per le autonomie speciali (Regione siciliana e Friuli Venezia-Giulia escluse) l’erogazione dei contributi è operata attraverso l’utilizzo del maggior gettito acquisito al loro bilancio a seguito dell’aumento dell’aliquota di accisa previsto dall’art. 23 del d.l. n. 355/2003. Pertanto, il decreto de quo, assumendo che la Regione Valle d’Aosta debba provvedere alla copertura degli adeguamenti retributivi attraverso l’utilizzo della quota di accisa sulle benzine di sua pertinenza, lederebbe, anzitutto, l’autonomia finanziaria della Regione, ad essa garantita dallo statuto speciale e dall’art. 119 Cost. (in combinato disposto con l’art. 10 l.cost. n. 3/2001). D’altra parte, quand’anche si optasse per una diversa interpretazione dell’art. 23 d.l. n. 355/2003, il decreto ministeriale conserverebbe il suo contenuto lesivo, in quanto affermativo dell’obbligo della ricorrente di erogare alle imprese contributi finanziari attraverso l’utilizzo del maggior gettito derivante dall’aumento dell’accisa in palese violazione del principio costituzionale che vieta trasferimenti erariali alle Regioni con vincolo di destinazione nelle materie di loro competenza (v., in tal senso, le sentenze della Corte costituzionale n. 370 del 2003, nonché n. 49 e 16 del 2004).
In secondo luogo, la Regione ha eccepito la lesione delle attribuzioni in materia di trasporto pubblico regionale e locale ad essa riconosciute, oltre che dallo statuto speciale, dall’art. 117, quarto comma, Cost., in relazione all’art. 10 l.cost. n. 3/2001. Sarebbero state altresì lese le attribuzioni della Regione in materia di “tutela e sicurezza del lavoro” (art. 117, terzo comma, Cost. e art. 10 l.cost. n. 3/2001), cui sarebbero riconducibili le problematiche contrattuali ed occupazionali legate al settore del trasporto pubblico locale. Il decreto impugnato, infatti, impone in via amministrativa alla Regione di disattendere illegittimamente i contratti di servizio che regolano i rapporti tra la Regione e le imprese di trasporto pubblico locale, previsti dall’art. 8 della legge regionale n. 29/1997, per i quali spetta alle imprese affidatarie (e non alla Regione) applicare a tutto il personale impiegato nell’esercizio dei servizi di trasporto pubblico i trattamenti economici e normativi previsti dal Contratto collettivo nazionale del settore.
Il ricorso 22 della Regione Campania ha impugnato il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 14 maggio 2004, contenente la determinazione delle somme da erogare a ciascuna Regione, da parte del Ministero del tesoro, del bilancio e della programmazione, a titolo perequativo (art. 10, comma 1, lett. d), l. n. 133/1999 e art. 7, comma 2, d.lgs. n. 56/2000), per violazione degli artt. 117 e 119 Cost. In particolare (e in via principale), la Regione ha argomentato l’abrogazione, per effetto dell’entrata in vigore del nuovo art. 119, terzo comma, Cost., delle norme di rango legislativo assunte a base del decreto impugnato, posto che esse prevederebbero criteri di distribuzione del fondo perequativo tra le Regioni diversi da quello contemplato dall’art. 119, terzo comma, Cost. (capacità fiscale, fabbisogno sanitario, popolazione residente e dimensione geografica nel primo caso, capacità fiscale nel secondo). Per tale via, il d.P.C.m. in parola, valutato direttamente alla luce del predetto parametro costituzionale, sarebbe illegittimo nella parte in cui non utilizza, ai fini delle operazioni di perequazione, il solo criterio della capacità fiscale individuato dall’art. 119, terzo comma, Cost.
In via subordinata, la Regione ha sollevato, qualora si dovessero ritenere non abrogate le menzionate norme legislative, questione di legittimità costituzionale delle medesime nella parte in cui prevedono criteri per la determinazione delle quote da erogare a ciascuna Regione diversi da quelli fissati dall’art. 119, terzo comma, Cost.

3.2.4. Gli artt. 117 e 120 Cost.

Il ricorso n. 14 della Regione autonoma della Sardegna (143) ha sollevato il conflitto di attribuzione in relazione al decreto del Ministero delle politiche agricole e forestali del 10 giugno 2004, recante “Disciplina delle reti da posta fissa”, per violazione degli artt. 117 e 120 Cost. In particolare, la Regione premesso che, per effetto del combinato disposto degli artt. 117 Cost. e 10 l.cost. n. 3/2001, nella materia della pesca, già di competenza esclusiva della Regione ai sensi dello statuto speciale, essa non incontrerebbe più il limite delle “norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica”, ha dedotto, anzitutto, la lesione delle proprie attribuzioni legislative e regolamentari in materia di pesca. D’altra parte, secondo la ricorrente, il decreto impugnato non potrebbe neanche trovare fondamento nell’art. 117, secondo comma, lett. s) (sub specie tutela dell’ambiente e dell’ecosistema), posto che gli interventi normativi statali nella materia de qua, conformemente all’orientamento più volte ribadito dalla Corte costituzionale, non escludono “la competenza regionale alla cura di interessi funzionalmente collegati con quelli propriamente ambientali” (sent. n. 222/2003).
In secondo luogo, la Regione ha eccepito la violazione del principio di leale collaborazione, espressamente richiamato dal secondo comma dell’art. 120 Cost., per il suo mancato coinvolgimento nella fase di elaborazione del decreto.

3.2.5. Gli artt. 114, 117 e 118 Cost.

Con il ricorso n. 12 (144) la Regione Umbria ha impugnato il decreto del Vice Presidente del Consiglio dei ministri del 31 maggio 2004, recante le “Linee di indirizzo amministrativo in tema di promozione e coordinamento delle politiche, per prevenire e contrastare il diffondersi delle tossicodipendenze e delle alcooldipendenze correlate”, per violazione degli artt. 114, 117 e 118 Cost. Specificatamente, la difesa regionale ha censurato il decreto nella parte in cui affida ad organi statali, in materia di contrasto della diffusione del fenomeno della droga, compiti di indirizzo e di coordinamento, di programmazione e pianificazione, nonché di controllo sul rispetto dei piani e degli altri interventi disposti dal Governo per l’attuazione delle politiche antidroga. Tali disposizioni, infatti, sarebbero contrarie, anzitutto, al principio della pari dignità istituzionale degli enti costitutivi della Repubblica (art. 114 Cost.), che esclude la legittimità costituzionale di tutti quegli istituti che esprimono un rapporto di subordinazione delle Regioni allo Stato, quali la funzione statale di indirizzo e coordinamento e la previsione di controlli sugli atti regionali.
Inoltre, il decreto sarebbe lesivo delle funzioni normative ed amministrative (artt. 117 e 118 Cost.) che la Costituzione ha attribuito alla Regione con riferimento alla tutela della salute e dell’assistenza sociale.

3.2.6. Gli artt. 114, 117, 118 e 119 Cost.

Il ricorso n. 10 della Regione Lombardia (145) ha censurato la circolare dell’Agenzia del demanio del 23 settembre 2003, prot. 2003/35540/NOR, contenente disposizioni applicative per le alienazioni di aree appartenenti al patrimonio ed al demanio dello Stato di cui all’art. 5-bis del decreto legge n. 143 del 2003, in quanto non conforme al disposto degli artt. 114, 117, 118 e 119 Cost. In particolare, la predetta circolare, che impone agli uffici periferici dell’Agenzia del demanio un’interpretazione estensiva dei casi in cui si procede a vendere porzioni di beni statali interessate dallo sconfinamento di opere altrui, determinerebbe, anzitutto, una duplice violazione del principio di leale collaborazione, con conseguente invasione e lesione delle attribuzioni regionali connesse al governo del territorio, alla protezione civile, ai porti, alla valorizzazione dei beni culturali e ambientali (art. 117, terzo comma, Cost.), ai lavori pubblici afferenti a materie di legislazione concorrente (Corte cost., sent. n. 303/2003 e 9/2004), alla navigazione interna, al turismo, all’agricoltura e ai lavori pubblici afferenti a tali materie (art. 117, quarto comma, Cost.): da un lato, la violazione di uno specifico strumento di cooperazione (l’Accordo tra lo Stato, le Regioni e gli enti locali in materia di demanio idrico ai sensi dell’art. 86 del d.lgs. n. 112/1998, concluso in sede di Conferenza unificata il 20 giugno 2002); dall’altro, la più generale violazione del principio costituzionale invocato per l’esclusione di ogni forma di consultazione, cooperazione e raccordo con la Regione nel cui ambito territoriale si trovano le aree demaniali oggetto di alienazione diretta ai privati.
La Regione ha altresì dedotto la lesione della propria autonomia finanziaria. Ad avviso della ricorrente, infatti, il gettito derivante dai canoni di concessione sarebbe indispensabile per l’esercizio delle predette funzioni amministrative regionali, anche in applicazione del principio che impone la corrispondenza e la contestualità tra le funzioni trasferite e le risorse necessarie per esercitarle e l’idoneità delle risorse derivanti dalle fonti di cui ai primi tre commi dell’art. 119 Cost. a finanziare integralmente le funzioni pubbliche attribuite agli enti territoriali (Corte cost., sent. n. 49/2004).

3.2.7. Gli artt. 114, 117, 118 e 120 Cost.

Il ricorso n. 3 della Regione Campania (146) ha invocato gli artt. 114, 117, 118 e 120 Cost. per chiedere l’annullamento del decreto del Ministro delle attività produttive del 23 dicembre 2003, nella parte in cui nomina il componente del consiglio di amministrazione dell’Ente per le nuove tecnologie, l’energia e l’ambiente (ENEA), e della designazione effettuata dal Ministro per gli affari regionali, in qualità di Presidente della Conferenza Stato-Regioni. La Regione ha eccepito l’illegittimità costituzionale della predetta designazione in quanto effettuata senza convocare la Conferenza Stato-Regioni ed in assenza, dunque, di qualunque indicazione e valutazione da parte degli enti territoriali. In altri termini, ad avviso della ricorrente, la disposizione legislativa che disciplina il procedimento di nomina in parola (art. 6 del d.lgs. n. 257/2003) deve essere interpretata, conformemente al principio di leale collaborazione, nel senso che la designazione è stata attribuita al Presidente della Conferenza, in quanto rappresentante di tale organismo e delle istanze cui esso deve dare risposta, e non in quanto organo monocratico. D’altra parte, l’interpretazione proposta sarebbe l’unica compatibile con le competenze delle Regioni in materia di “ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi” (art. 117, terzo comma, e 118 Cost.), che esigono l’attivazione dei procedimenti di confronto e di collaborazione previsti dall’ordinamento.

3.2.8. Gli artt. 114, 117, 118, 119 e 120 Cost.

L’ultimo atto introduttivo che rileva è il ricorso n. 1 della Regione Veneto (147), vertente su di un provvedimento statale già preso in esame in quanto impugnato dalla Regione Valle d’Aosta con il ricorso n. 2: la direttiva del Ministro del lavoro e delle politiche sociali 23 settembre 2003 sulla disciplina dei criteri e delle modalità di concessione dei finanziamenti per la realizzazione di progetti sperimentali nel campo della disabilità di cui all’art. 41-ter della legge n. 104 del 1992. In effetti, l’impugnazione della Regione Veneto risulta più articolata di quella proposta dalla Regione Valle d’Aosta, soprattutto (ma non solo) per quanto riguarda i parametri costituzionali invocati. Secondo la difesa regionale, l’art. 41-ter l. n. 104/1992, posto in essere sulla base dell’originario testo dell’art. 117 Cost., che assegnava la “beneficenza pubblica” alla legislazione concorrente, dovrebbe ritenersi abrogato o affetto da illegittimità costituzionale sopravvenuta, atteso che dopo la riforma del Titolo V della Costituzione la predetta materia rientrerebbe nella competenza “esclusiva-residuale” delle Regioni di cui all’art. 117, quarto comma, Cost. Ed infatti, per l’ipotesi in cui la Corte costituzionale dovesse ritenerlo ancora vigente, la Regione ha chiesto che la Consulta sollevi davanti a sé la questione di legittimità costituzionale dell’art. 41-ter l. n. 104/1992.
In subordine, la Regione ha dedotto la lesione del principio di leale collaborazione (ricavabile dall’art. 5 Cost., ma ormai) espressamente riconosciuto dall’art. 120 Cost. e, dunque, la lesione della propria competenza legislativa, amministrativa e finanziaria di cui agli artt. 114, 117, 118 e 119 Cost., a causa del mancato coinvolgimento della Conferenza unificata Stato-Regioni-automie locali, peraltro richiesto dallo stesso art. 41-ter l. n. 104/1992. Infatti, allorché in una determinata materia venga riconosciuta alle Regioni una sfera di autonomia più ampia, con la titolarità di funzioni legislative e amministrative e la relativa responsabilità finanziaria (come accaduto nella materia della beneficenza pubblica), il loro coinvolgimento nell’adozione delle decisioni assunte dallo Stato centrale perderebbe ogni minimo tratto di opportunità politica per assumere quello della obbligatorietà istituzionale.


NOTE

(1) G. CERRACCHIO, Il contenzioso costituzionale, Capitolo V del Primo Rapporto annuale sullo stato del regionalismo in Italia (2002), a cura dell’ISSIRFA “MASSIMO SEVERO GIANNINI” – CNR, Milano, 2003, pp. 57 ss., e IDEM, Il contenzioso costituzionale, Capitolo V del Secondo Rapporto annuale sullo stato del regionalismo in Italia (2003), a cura dell’ISSIRFA “MASSIMO SEVERO GIANNINI” – CNR, Milano, 2004, pp. 97 ss.
(2) Come si è avuto modo di precisare nei precedenti lavori (cfr., rispettivamente, nt. 1, p. 57, e nt. 2, pp. 99), per riforma del Titolo V si intende non solo quella introdotta con la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (“Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione”), ma anche quella (parziale) operata con la legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1 (“Disposizioni concernenti l’elezione diretta del Presidente della Giunta regionale e l’autonomia statutaria delle Regioni”).
(3) Va peraltro tenuto presente che dal novero di tali ricorsi si è ritenuto di escludere il n. 9, proposto dalla Regione Lombardia contro la Presidenza del Consiglio dei ministri e pubblicato nella G.U., prima serie speciale, n. 31 del 2004, poiché fondato sull’art. 122, quarto comma, Cost., disposizione che non è stata investita dalla riforma del Titolo V.
(4) Tenendo conto anche dell’anno 2001, si tratta dell’ennesimo rovesciamento di tale rapporto (sia consentito rinviare, sul punto, ai precedenti Rapporti, opp. citt., rispettivamente, p. 59 e pp. 100-101), il cui andamento (almeno con riferimento agli anni 2001-‘02-‘03-‘04) sembra essere di tipo “sinusoidale”.
(5) L’aumento percentuale dei conflitti intersoggettivi fondati sul Titolo V continua il trend incrementale iniziato nel 2002 e proseguito nel 2003, mentre l’altro dato conferma quell’attivismo regionale in tema di conflitti che ha già contraddistinto gli anni 2002-‘03 (anche per questi aspetti sia consentito rinviare ai precedenti Rapporti, opp. loc. citt.).
(6) 1 settembre 2005.
(7) Il riferimento è ai ricorsi nn. 4, Presidenza del Consiglio dei ministri contro Regione Veneto (in G.U., prima serie speciale, n. 6 del 2004), definito con sent. n. 429/2004; 6, Regione Lazio contro Presidenza del Consiglio dei ministri (in G.U., prima serie speciale, n. 6 del 2004), deciso con sent. n. 196/2004; 8, Regione Marche contro Presidenza del Consiglio dei ministri (in G.U., prima serie speciale, n. 6 del 2004), definito con sent. n. 196/2004; 9, Regione Puglia contro Presidenza del Consiglio dei ministri (in G.U., prima serie speciale, n. 7 del 2004), deciso con sent. n. 286/2004; 10, Regione Toscana contro Presidenza del Consiglio dei ministri (in G.U., prima serie speciale, n. 7 del 2004), definito con le sentt. n. 196 e 272 del 2004; 11, Regione Umbria contro Presidenza del Consiglio dei ministri (in G.U., prima serie speciale, n. 7 del 2004), deciso con sent. n. 196/2004; 12, Regione Friuli-Venezia Giulia contro Presidenza del Consiglio dei ministri (in G.U., prima serie speciale, n. 7 del 2004), definito con sent. n. 196/2004; 13, Regione Emilia-Romagna contro Presidenza del Consiglio dei ministri (in G.U., prima serie speciale, n. 7 del 2004), deciso con le sentt. n. 196, 286, 287 e 423 del 2004; 14, Regione Campania contro Presidenza del Consiglio dei ministri (in G.U., prima serie speciale, n. 7 del 2004), definito con le sentt. n. 196 e 286 del 2004; 20, Presidenza del Consiglio dei ministri contro Regione Toscana (in G.U., prima serie speciale, n. 9 del 2004), deciso con sent. n. 198/2004; 24, Presidenza del Consiglio dei ministri contro Regione Friuli-Venezia Giulia (in G.U., prima serie speciale, n. 9 del 2004), definito con sent. n. 198/2004; 27, Presidenza del Consiglio dei ministri contro Regione Marche (in G.U., prima serie speciale, n. 10 del 2004), deciso con sent. n. 198/2004; 28, Regione siciliana contro Presidenza del Consiglio dei ministri (in G.U., prima serie speciale, n. 12 del 2004), definito con sent. n. 425/2004; 29, Regione autonoma della Sardegna contro Presidenza del Consiglio dei ministri (in G.U., prima serie speciale, n. 13 del 2004), deciso con sent. n. 425/2004; 32, Regione Toscana contro Presidenza del Consiglio dei ministri (in G.U., prima serie speciale, n. 16 del 2004), deciso con le sentt. n. 308, 390 e 425 del 2004; 34, Regione Umbria contro Presidenza del Consiglio dei ministri (in G.U., prima serie speciale, n. 18 del 2004), definito con sent. n. 425/2004; 35, Provincia autonoma di Trento contro Presidenza del Consiglio dei ministri (in G.U., prima serie speciale, n. 18 del 2004), deciso con sent. n. 425/2004; 36, Regione Valle d’Aosta contro Presidenza del Consiglio dei ministri (in G.U., prima serie speciale, n. 20 del 2004), definito con sent. n. 425/2004; 37, Regione Campania contro Presidenza del Consiglio dei ministri (in G.U., prima serie speciale, n. 20 del 2004), deciso con sent. n. 425/2004; 41, Presidenza del Consiglio dei ministri contro Regione Emilia-Romagna (in G.U., prima serie speciale, n. 13 del 2004), definito con sent. n. 198/2004; 49, Presidenza del Consiglio dei ministri contro Regione Umbria (in G.U., prima serie speciale, n. 24 del 2004), deciso con ord. n. 416/2004; 83, Presidenza del Consiglio dei ministri contro Regione Toscana (in G.U., prima serie speciale, n. 38 del 2004), definito con sent. n. 372/2004; 88, Presidenza del Consiglio dei ministri contro Regione Umbria (in G.U., prima serie speciale, n. 39 del 2004), deciso con sent. n. 378/2004; 90, Consigliere regionale di minoranza dell’Umbria Carlo Ripa di Meana contro Regione Umbria (in G.U., prima serie speciale, n. 40 del 2004), definito con sent. n. 378/2004; e, infine, 99, Presidenza del Consiglio dei ministri contro Regione Emilia-Romagna (in G.U., prima serie speciale, n. 42 del 2004), deciso con sent. n. 379/2004.
Va peraltro tenuto presente che il ricorso n. 31, Regione Marche contro Presidenza del Consiglio dei ministri (in G.U., prima serie speciale, n. 15 del 2004), è stato definito solo parzialmente nel corso del 2004 con le sentt. n. 390 e 425 del 2004. La medesima osservazione va fatta per il ricorso n. 33, Regione Emilia-Romagna contro Presidenza del Consiglio dei ministri (in G.U., prima serie speciale, n. 18 del 2004), che è stato definito solo parzialmente nel corso del 2004 con le sentt. n. 260, 286, 307, 308, 381, 390, 423, 424 e 425 del 2004. Pertanto, nel lavoro saranno specificatamente esaminate le questioni da essi sollevate che sono state decise nel corso del 2005 e/o sono ancora pendenti.
Le decisioni della Corte costituzionale sono reperibili on line, oltre che nel sito ufficiale (www.cortecostituzionale.it), anche nel sito Consulta on line, all’indirizzo web www.giurcost.org.
(8) Come il lettore si renderà subito conto, tale suddivisione è in realtà solo tendenziale, visto che alcuni ricorsi, a causa del loro contenuto eterogeneo, vengono fatti rientrare in più categorie.
(9) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 24 del 2004.
(10) Il riferimento è alle sentenze della Corte costituzionale n. 43 e 64 del 2004.
(11) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 27 del 2004.
(12) La Consulta ha peraltro dichiarato inammissibile la questione riguardante l’intero testo della legge regionale, perché non supportata da ragioni specificate nella deliberazione del Consiglio dei ministri, e ha limitato il giudizio alle sole disposizioni della legge regionale per le quali risultavano svolte specifiche censure nell’allegata relazione ministeriale (art. 3, comma 4, lett. d), e comma 5, ed artt. 6, 7 e 10).
(13) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 38 del 2004.
(14) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 46 del 2004.
(15) Legge della Regione siciliana 5 novembre 2004, n. 15.
(16) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 47 del 2004.
(17) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 4 del 2005.
(18) Legge della Regione siciliana 28 dicembre 2004, n. 17.
(19) Legge della Regione siciliana 28 dicembre 2004, n. 17.
(20) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 9 del 2004.
(21) Per un ricorso simile, riguardante la legge di denuclearizzazione della Regione Sardegna n. 8/2003, v. G. CERRACCHIO, Il contenzioso costituzionale, Capitolo V del Secondo Rapporto annuale sullo stato del regionalismo in Italia (2003), op. cit., p. 105.
(22) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 8 del 2004.
(23) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 10 del 2004.
(24) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 27 del 2004.
(25) Peraltro, per quanto riguarda la legge marchigiana, la Corte ha ritenuto il ricorso validamente proposto solo nei confronti dell’art. 2, posto che la generica previsione contenuta nella deliberazione del Consiglio dei ministri di impugnare la legge risultava specificata dall’allegata relazione ministeriale con riferimento esclusivo a tale articolo.
(26) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 27 del 2004.
(27) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 34 del 2004.
(28) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 42 del 2004.
(29) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 45 del 2004.
(30) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 45 del 2004.
(31) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 10 del 2004.
(32) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 3 del 2005.
(33) Così la sentenza n. 214 del 2005 al punto 2.1. del Considerato in diritto.
(34) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 39 del 2004.
Studio tratto da ISSiRFA-CNR, Terzo Rapporto annuale sullo stato del regionalismo in italia (2004)(di cui costituisce il XIII capitolo), in corso di stampa. (35) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 45 del 2004.
(36) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 37 del 2004.
(37) Pubblicati entrambi in G.U., prima serie speciale, n. 5 del 2005.
(38) Così la sentenza al punto 6 del Considerato in diritto.
(39) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 27 del 2004.
(40) Il riferimento è alle sentenze della Corte costituzionale n. 296, 297 e 311 del 2003, nonché, più in generale sul sistema finanziario e tributario degli enti territoriali, alla sentenza n. 37/2004.
(41) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 27 del 2004.
(42) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 34 del 2004.
(43) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 37 del 2004.
(44) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 47 del 2004.
(45) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 38 del 2004.
(46) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 37 del 2004.
(47) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 4 del 2004.
(48) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 46 del 2004.
(49) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 50 del 2004.
(50) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 11 del 2004.
(51) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 23 del 2004.
(52) Per la proposizione di questioni analoghe, nel corso del 2003, v. G. CERRACCHIO, Il contenzioso costituzionale, Capitolo V del Secondo Rapporto annuale sullo stato del regionalismo in Italia (2003), op. cit., pp. 109-110.
(53) Le sentenze richiamate negli atti sono le n. 3302/1985, 11468/1996 e 9447/1997.
(54) Ricorsi analoghi sono stati presentati anche nel corso del 2003: sul punto, v. G. CERRACCHIO, Il contenzioso costituzionale, Capitolo V del Secondo Rapporto annuale sullo stato del regionalismo in Italia (2003), op. cit., pp. 109 ss.
(55) Così il ricorso al punto 1) dei Motivi.
(56) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 6 del 2004.
(57) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 8 del 2004.
(58) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, ed. str., n. 1001 del 2004.
(59) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 34 del 2004.
(60) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 34 del 2004.
(61) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 38 del 2004.
(62) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 38 del 2004.
(63) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 21 del 2004.
(64) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 25 del 2004.
(65) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 11 del 2004.
(66) Così la sentenza al punto 2. del Considerato in diritto.
(67) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 44 del 2004.
(68) Nello stesso senso, infatti, cfr. le sentenze della Corte costituzionale n. 17/2004, nonchè 31 e 50 del 2005.
(69) Il riferimento è alle sentenze nn. 407 e 536 del 2002.
(70) Così la sentenza al punto 2.1. del Considerato in diritto.
(71) Il riferimento è alle ormai note sentt. n. 407/2002, 222, 303, 312 e 307 del 2003, e 259/2004.
(72) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 33 del 2004.
(73) Così la sentenza al punto 2. del Considerato in diritto.
(74) Ibidem.
(75) Ibidem.
(76) Per la proposizione di questioni analoghe, nel corso del 2003, v. G. CERRACCHIO, Il contenzioso costituzionale, Capitolo V del Secondo Rapporto annuale sullo stato del regionalismo in Italia (2003), op. cit., pp. 117-118.
(77) Così la sentenza al punto 6. del Considerato in diritto.
(78) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, ed. str., n. 1001 del 2004.
(79) V. Adunanza generale dell’11 aprile 2002, parere n. 1, riguardante lo schema di d.m. concernente l’individuazione della figura professionale e relativo profilo professionale dell’odontotecnico.
(80) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 24 del 2004.
(81) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 38 del 2004.
(82) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 29 del 2004.
(83) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 34 del 2004.
(84) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 47 del 2004.
(85) Così la sentenza al punto 2. del Considerato in diritto.
(86) Così il ricorso al punto 4.
(87) Così la sentenza n. 37 del 2004 al punto 5. del Considerato in diritto.
(88) Entrambi pubblicati in G.U., prima serie speciale, n. 6 del 2004.
(89) Occorre peraltro precisare che le censure dei due ricorsi relative al decreto legge n. 239 del 2003 non sono totalmente sovrapponibili, posto che la Regione Toscana ne ha impugnato gli artt. 1, commi 1 e 3, e 1-sexies, commi 1, 2 e 8, mentre la Provincia di Trento gli artt. 1-ter, comma 2, e 1-sexies, commi 1-6.
(90) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 6 del 2004.
(91) Per la proposizione di ricorsi del 2003, aventi ad oggetto lo stesso decreto, v. G. CERRACCHIO, Il contenzioso costituzionale, Capitolo V del Secondo Rapporto annuale sullo stato del regionalismo in Italia (2003), op. cit., pp. 172-173.
(92) Così la sentenza al punto 14. del Considerato in diritto.
(93) Così la sentenza al punto 16. del Considerato in diritto.
(94) Così la sentenza al punto 14. del Considerato in diritto.
(95) Così la sentenza al punto 17. del Considerato in diritto.
(96) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 13 del 2004.
(97) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 15 del 2004.
(98) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 18 del 2004.
(99) Così la sentenza al punto 2. del Considerato in diritto.
(100) Così la sentenza al punto 4. del Considerato in diritto.
(101) Così la sentenza al punto 5. del Considerato in diritto.
(102) Così la sentenza al punto 5. del Considerato in diritto.
(103) Così il ricorso al punto 12.
(104) Così la sentenza al punto 3. del Considerato in diritto.
(105) Così la sentenza al punto 3.1. del Considerato in diritto.
(106) Così la sentenza al punto 3.2. del Considerato in diritto.
(107) Così la sentenza al punto 4.1. del Considerato in diritto.
(108) Così la sentenza al punto 3. del Considerato in diritto.
(109) Così la sentenza al punto 4.2. del Considerato in diritto.
(110) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, ed. str., n. 1001 del 2004.
(111) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, ed. str., n. 1001 del 2004.
(112) Entrambi pubblicati in G.U., prima serie speciale, n. 23 del 2004.
(113) Così la sentenza al punto 8. del Considerato in diritto.
(114) Ibidem.
(115) Pubblicati entrambi in G.U., prima serie speciale, n. 26 del 2004.
(116) Così la sentenza al punto 4.1. del Considerato in diritto.
(117) Così la sentenza al punto 5.1. del Considerato in diritto.
(118) Così la sentenza al punto 6.1. del Considerato in diritto.
(119) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 37 del 2004.
(120) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 34 del 2004.
(121) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 35 del 2004.
(122) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 35 del 2004.
(123) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 37 del 2004.
(124) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 37 del 2004.
(125) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 38 del 2004.
(126) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 40 del 2004.
(127) Pubblicati entrambi in G.U., prima serie speciale, n. 39 del 2004.
(128) Pubblicati, il primo, in G.U., prima serie speciale, n. 40 del 2004, il secondo, in G.U., prima serie speciale, n. 42 del 2004.
(129) Pubblicati, il primo, in G.U., prima serie speciale, n. 40 del 2004, gli altri due, in G.U., prima serie speciale, n. 42 del 2004.
(130) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 47 del 2004.
(131) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 48 del 2004.
(132) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 4 del 2005.
(133) Per i quattro ricorsi del 2003 aventi ad oggetto il d.lgs. n. 276/2003, v. G. CERRACCHIO, Il contenzioso costituzionale, Capitolo V del Secondo Rapporto annuale sullo stato del regionalismo in Italia (2003), op. cit., pp. 166 ss.
(134) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 30 del 2004.
(135) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 31 del 2004.
(136) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 29 del 2004.
(137) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 30 del 2004.
(138) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 12 del 2004.
(139) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 42 del 2004.
(140) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 42 del 2004.
(141) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 42 del 2004.
(142) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 46 del 2004.
(143) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 41 del 2004.
(144) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 41 del 2004.
(145) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 33 del 2004.
(146) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 24 del 2004.
(147) Pubblicato in G.U., prima serie speciale, n. 12 del 2004.

Tabelle allegate:
1. Ricorsi dello Stato (2004) fondati sulle nuove disposizioni del Titolo V della Costituzione (totale: 64)
2. Ricorsi delle Regioni (2004) fondati sulle nuove disposizioni del Titolo V della Costituzione - Dati complessivi (totale: 58)
3. Ricorsi regionali in via principale ordinati per oggetto (totale: 46)
4. Ricorsi regionali per conflitto di attribuzione ordinati per materia (totale: 12)

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