Avvertenza: lo studio che segue è tratto dal Terzo rapporto annuale sullo stato del regionalismo in Italia, a cura dell'ISSiRFA.


SOMMARIO:
1. Considerazioni generali.
2. Attività consultiva.
2.1. Dati Quantitativi.
2.2. In tema di procedimento di approvazione degli statuti regionali.
2.3. Tutela della concorrenza e perequazione finanziaria in materia agroalimentare.
2.4. Potestà regolamentare dello Stato in tema di tutela della concorrenza.
2.5. In tema di finanziamento delle funzioni amministrative degli enti locali e coordinamento (urgente) della finanza pubblica.
2.6. Fondamento costituzionale della potestà regolamentare del Governo, definizione della materia immigrazione e coordinamento Stato- Regioni.
2.7. In tema di autonomia statutaria comunale e di elettorato, attivo e passivo, nelle circoscrizioni comunali dei cittadini stranieri residenti.
3. Attività giurisdizionale.
3.1. Sulla titolarità della potestà regolamentare delle Regioni.
3.2. Natura e regime giuridico della potestà regolamentare dell’ente comunale (segue).
3.3. Considerazioni generali sulla natura giuridica ed i limiti di intervento della potestà regolamentare del Comune; in particolare l’interpretazione dell’art. 8 della legge 22 febbraio 2001, n. 36 (in tema di disciplina delle installazioni di telecomunicazione e radiotelevisive, produttive di inquinamento elettromagnetico).
3.4. Sull’autonomia normativa degli enti locali nonché sui rapporti istituzionali tra Consiglio e Giunta municipale (con specifico riferimento alle variazioni e dismissioni di quote di partecipazioni non determinanti ai fini del controllo delle società partecipate).
3.5. Circa la legittimità costituzionale dell’approvazione del piano sanitario attraverso provvedimento legislativo regionale.
3.6 Il principio di leale collaborazione in materia di produzione, trasporto e distribuzione nazionale di energia ed in relazione al progetto preliminare del “Ponte sullo stretto di Messina”.
3.7. Sui livelli essenziali di assistenza sanitaria (LEA).
3.8. Sull’inammissibilità dell’impugnativa da parte dell’ente comunale di atti compiuti in via sostitutiva dal commissario straordinario di nomina Regionale.
3.9. In tema di potere sostitutivo regionale.
NOTE




1. Considerazioni generali

Il contributo reso dai giudici amministrativi, sia in sede giurisdizionale sia in sede consultiva, alla interpretazione ed applicazione della riforma del Titolo V della Costituzione anche per l’anno 2004 si segnala, sotto molteplici profili, per interesse e rilevanza.
Invero se insostituibile, come unanimemente riconosciuto dalla dottrina, è stato l’apporto della Corte costituzionale nella sistemazione interpretativa dei contenuti della riforma recata dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, nondimeno non va trascurato il ruolo svolto dai tribunali amministrativi e, in primo luogo, dal Consiglio di Stato sia nella veste di organo della giurisdizione amministrativa sia in quella di autorevole consulente nei confronti dell’attività normativa del governo e non solo.
Unitamente al giudice delle leggi, infatti, il Consiglio di Stato ha partecipato attivamente a quell’intensa e laboriosa attività di integrazione pretoria, resasi necessaria dalle lacune e dalle incongruenze emergenti dal riformato Titolo V della Costituzione.
Prima ancora di soffermarsi, seppur sinteticamente, sulle singole quaestiones, una prima considerazione di carattere generale scaturisce proprio dal raffronto tra le giurisprudenze dei due collegi, le quali mostrano una generale sintonia nell’inquadramento e nella risoluzione degli aspetti più controversi del novellato testo costituzionale.
Il Consiglio di Stato, infatti, opera un frequente rinvio alle decisioni della Corte costituzionale con maggiore spessore sistemico mostrando, peraltro, di condividerne gli esiti interpretativi e ricostruttivi (1).
Si realizza per tale via – è da ritenere - un fruttuoso dialogo a distanza tra i due collegi giudicanti il quale non può non giovare alla stabilità e certezza degli orientamenti interpretativi.
Detta sintonia, peraltro, trova conferma e vigore nella sostanziale convergenza che è dato registrare, in linea generale, all’interno del Consiglio di Stato, tra sezioni consultive e giurisdizionali.


2. Attività consultiva

La specificità e rilevanza dell’attività consultiva del Consiglio di Stato relativamente al processo di adeguamento ordinamentale al riformato titolo V della Costituzione trova, peraltro, conferma nella stessa legislazione statale.
Basti in proposito pensare all’art. 2, comma 3, della legge 5 giugno 2003, n. 131, il quale prevede, tra l’altro, l’acquisizione del parere del Consiglio di Stato sugli schemi dei decreti legislativi diretti alla individuazione delle funzioni fondamentali di cui all’art. 117, comma secondo, lett. p) Cost., ovvero, più in generale, alla legge n. 229 del 2003, la quale, nel disciplinare l’attività di semplificazione e riassetto normativo di settore tramite decreti legislativi di codificazione, prevede che gli stessi siano sottoposti al previo ed obbligatorio parere del Consiglio di Stato (2).
Le nuove e rilevanti attribuzioni istituzionali, proprio sul terreno delle politiche di semplificazione e di riassetto normativo, sono destinate a far assumere al Consiglio di Stato un ruolo del tutto peculiare e ciò, con tutta evidenza, anche nei riguardi delle Regioni e della generalità delle autonomie territoriali.
Come, del resto, ben evidenziato nell’approfondito parere del Consiglio di Stato, Adunanza Generale n. 2 del 25 ottobre 2004, appare evidente il disegno del legislatore di “utilizzare quale organo ausiliario dell’attività di regolazione, sia secondaria sia di riordino e riassetto, il Consiglio di Stato” e, ancora, “la posizione di terzietà e di garanzia del Consiglio di Stato conferisce al suo parere sugli schemi di atti normativi un ruolo peculiare che lo colloca al termine del processo di redazione degli atti normativi” (3).
Più in generale, dall’attività consultiva emerge con evidenza l’attenzione istituzionale dell’organo a rilevare i punti di criticità della normazione statale al fine di far rispettare le regole costituzionali sul riparto delle competenze tra Stato e Regioni.
Né sono mancate ulteriori e puntuali conferme, provenienti proprio dal mondo delle autonomie, circa l’importanza del ruolo istituzionale e la riconosciuta autorevolezza del Consiglio di Stato quale organo indipendente e neutrale di consulenza tecnico-giuridica.
Nel corso dell’anno 2004, infatti, anche le Regioni non hanno esitato a rivolgersi ai giudici di Palazzo Spada al fine di ottenere qualificati ed autorevoli pareri in ordine, ad esempio, alla soluzione di questioni interpretative riguardanti il procedimento statutario delineato dall’art. 123 Cost. (meglio definito nella legislazione regionale di attuazione) e conseguenti all’emanazione di sentenze del giudice delle leggi dichiarative dell’illegittimità costituzionale di talune norme delle delibere statutarie già approvate (4).
Del resto la circostanza che le Regioni e le altre autonomie territoriali possano avvalersi della consulenza facoltativa del Consiglio di Stato rappresenta, di certo, un valido supporto per il migliore esercizio delle competenze istituzionali da parte dei diversi soggetti costituenti l’ordinamento repubblicano complessivamente inteso (5).
La riforma del Titolo V, dunque, ha posto le condizioni per una importante rivalutazione del ruolo consultivo del Consiglio di Stato, conferendo ad esso una posizione di inedita centralità nello snodo dei rapporti inter-istituzionali come pure sul terreno dell’attività normativa. E’ questa, peraltro, circostanza della quale i giudici di Palazzo Spada mostrano di avere piena consapevolezza: “la riforma del Titolo V, con il decisivo incremento della funzione normativa delle Regioni, è idoneo a porre il Consiglio di Stato in una posizione di centralità e quindi di equidistanza per lo svolgimento di una funzione neutrale di garanzia dell’ordinamento e di composizione, su un piano tecnico, di normativa eventualmente discendente da fonti diverse ma concorrenti nella disciplina di una stessa materia” e ancora “il parere del Consiglio di Stato[…] non è soggettivamente limitato alla richiesta di soli organi di governo e non è oggettivamente limitato alla sola materia riguardante l’attività di amministrazione attiva, ma si estende a tutte le questioni giuridiche – ivi comprese, ovviamente, quelle che involgono l’interpretazione di norme costituzionali e della disciplina comunitaria - anche con riferimento ai procedimenti di carattere normativo” (6).
Non deve sorprendere, allora, come sempre più di frequente l’attività, tanto contenziosa quanto consultiva, del Consiglio di Stato finisca per assumere i contorni di una sorta di sindacato diffuso di costituzionalità, particolarmente attento ad orientare l’attività normativa (soprattutto) del Governo verso approdi costituzionalmente corretti e, comunque, a far valere criteri di interpretazione adeguatrice (7).


2.1 Dati quantitativi

Nell’attività consultiva del Consiglio di Stato resa nel corso del 2004 si è ulteriormente consolidata la tendenza, emersa nel 2002 successivamente confermata nel 2003 (8), alla riduzione dei pareri obbligatori in materia regolamentare.
Tale fenomeno, come ben noto, rappresenta una diretta conseguenza della riduzione dell’area di intervento della potestà regolamentare statale la quale è stata ridefinita dall’art. 117, comma 6, Cost., e limitata alle sole materie di potestà statale esclusiva.
In termini quantitativi si è, dunque, registrata una contrazione nelle richieste del parere obbligatorio del Consiglio di Stato su schemi di regolamenti statali, essendo questi passati dai 149 del 2002 ai 131 del 2003 e, più di recente, ai 103 del 2004 (9).


2.2 In tema di procedimento di approvazione degli statuti regionali

Anche le Regioni, come anticipato, si sono rivolte al Consiglio di Stato al fine di ottenere un parere relativo alla procedura di approvazione dello statuto regionale.
In particolare la Giunta regionale dell’Umbria aveva posto il problema se il termine di tre mesi previsto dall’art. 123, terzo comma, Cost. ai fini della proposta del referendum popolare dovesse ritenersi interrotto ovvero sospeso a seguito della sentenza n. 378 del 2004 con la quale la Corte costituzionale aveva dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 66, commi 1, 2 e 3, per violazione della riserva di legge regionale prevista dall’art. 122 Cost.
Con il parere n. 12054 del 2004, reso dalla sezione prima in data 12 gennaio 2005, il Consiglio di Stato, anche alla luce della disciplina legislativa regionale sul procedimento referendario (10), giunge alla conclusione che “dalla modificazione anche soltanto parziale delle legge statutaria consegue la necessità di riprendere ex novo il procedimento referendario, con la conseguente necessità che il predetto termine di tre mesi decorra nuovamente sin dall’inizio, senza possibilità di utilizzazione o valorizzazione del periodo in precedenza decorso e degli atti già compiuti”.
Detto parere, in altri termini, finisce per sconfessare l’interpretazione, fatta propria dalla Presidenza della giunta Regionale, in virtù della quale sarebbe stato possibile applicare nel computo dei termini previsti per la promulgazione della delibera statutaria l’istituto della sospensione; i giudici di Palazzo Spada, al contrario, ritengono che “il rispetto delle esigenze di cui all’art. 123 Cost., terzo comma, può essere garantito solo da una disciplina del referendum che assicuri integralmente il termine di tre mesi per l’esercizio del diritto pubblico soggettivo di richiedere il referendum popolare ogni volta che, a seguito dell’intervento della Corte, il testo della delibera statutaria risulti comunque modificata, anche soltanto mediante l’eliminazione di una disposizione”.
La medesima sezione del Consiglio di Stato con parere n. 12036, emesso nella stessa giornata del precedente, risponde negli stessi termini all’analogo quesito posto dalla Regione Emilia-Romagna.
Con sentenza n. 379 del 2004 la Corte costituzionale, infatti, aveva dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art.45, secondo comma, della delibera statutaria regionale nella parte in cui, disciplinando il regime di incompatibilità fra le cariche di assessore e di consigliere regionale, aveva violato la riserva di legge regionale trattandosi, appunto, di materia affidata dall’art. 122 della Cost. alla legge regionale.
Avendo la pronuncia di incostituzionalità lasciato sostanzialmente inalterato il testo delle delibera statutaria, la Regione Emilia Romagna chiede al Consiglio di Stato se dalla data di pubblicazione di quest’ultima debba necessariamente decorrere un nuovo termine di tre mesi per la richiesta del referendum di cui all’art. 123, terzo comma, Cost.
Con il parere n. 12036 del 2004 il Consiglio di Stato, nel ritenere necessario il decorso ab initio del termine di cui all’art. 123, terzo comma, Cost, ribadisce che “la dichiarazione di illegittimità costituzionale di parte del testo approvato dal Consiglio Regionale ne compromette irreparabilmente la identità, interrompe la linearità e la intrinseca coerenza del procedimento e ne determina la definitiva interruzione, in quanto il testo normativo residuo non corrisponde a quello espresso dall’organo rappresentativo con le modalità prescritte dall’art. 123 della Costituzione”.

2.3 Tutela della concorrenza e perequazione finanziaria in materia agroalimentare

Chiamata ad esprimere il proprio parere su uno schema di regolamento interministeriale recante la disciplina degli aiuti per favorire l’accesso al mercato dei capitali delle imprese agricole ed agroalimentari, il Consiglio di Stato nel parere del 19 aprile 2004, n. 6849 ha modo di occuparsi dell’intricato sistema delle relazioni intercorrenti tra le politiche statali di sostegno del mercato in materia rientrante nella potestà esclusiva regionale (quale quella della filiera agroalimentare), la tutela della concorrenza, la garanzia dei livelli essenziali civili e sociali, i principi di autonomia impositiva e finanziaria nonché le esigenze di perequazione finanziaria.
Facendo propria l’impostazione offerta dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 14 del 2004 in tema di compatibilità costituzionale delle forme di sostegno economico statale in ambiti materiali ricompresi nell’autonomia legislativa regionale, i giudici amministrativi finiscono con il ritenere costituzionalmente ammissibile la norma primaria (11) che supporta l’esercizio del potere regolamentare oggetto del richiesto parere; strumenti dal tratto marcatamente centralistico come la regolazione diretta e l’istituzione di fondi economici nazionali, è il ragionamento dei giudici di Palazzo Spada, infatti, trovano giustificazione nella necessità di coordinamento degli interventi al fine di evitare la duplicazione e la sovrapposizione di misure con effetti finali di dispersione di risorse pubbliche in ambiti non connotati da valenza locale che chiamano in gioco, quindi, responsabilità fiscali e politiche dello Stato: “la perequazione, come tutte le altre competenze esclusive statali, in senso sia statico che dinamico, come la tutela macroeconomica della concorrenza va correlata, sempre dinamicamente, al profilo dei livelli essenziali civili e sociali, la cui determinazione è un prius per fornire la base finanziaria ed il perimetro delle materie nelle quali il legislatore statale può assumere funzioni di regolazione diretta, primaria e secondaria”; ne consegue, stando all’avviso del suindicato parere, che “appare necessaria a monte un incisiva azione di coordinamento, promossa dal Governo nazionale ed effettivamente concertata con le regioni e gli enti locali”.


2.4 Potestà regolamentare dello Stato in tema di tutela della concorrenza.

Nel parere espresso dalla sezione consultiva degli atti normativi n. 429 del 2004 vengono svolte talune considerazioni in tema di potestà regolamentare dello Stato in materie di non stretta pertinenza statale le quali mostrano di condividere la ricostruzione in proposito avanzata dalla giurisprudenza costituzionale (12).
Lo schema di regolamento oggetto del suindicato parere riguardava le norme per la messa in servizio e utilizzazione delle attrezzature a pressione di cui al decreto legislativo 25 febbraio 2000, n. 93 sul quale la medesima sezione del Consiglio di Stato con la pronuncia interlocutoria del 9 febbraio 2004 aveva già invitato l’amministrazione riferente (13) a precisare a quale delle materie indicate nell’art. 117, secondo comma, Cost. fosse riconducibile la normativa in questione. Nel rispondere ai dubbi sollevati dall’organo consultivo l’amministrazione riferente sostiene la riconducibilità delle norme recate dal regolamento alla tutela della concorrenza di cui all’art. 117, comma 2, lettera e) Cost.
Tale prospettazione viene condivisa dal Consiglio di Stato in considerazione del fatto che, in effetti, il decreto legislativo 25 febbraio 2000, n. 93, nel dare attuazione ad una direttiva comunitaria protesa all’armonizzazione delle discipline vigenti nei diversi Paesi aderenti all’Unione Europea, evidenzia le esigenze di libera circolazione delle apparecchiature a pressione e l’adeguata tutela della leale concorrenza tra gli operatori del settore; ne deriva che “tenuto in special modo delle esigenze di unitarietà della normativa in materia, può ammettersi, dunque, la competenza legislativa esclusiva dello Stato e, conseguentemente, può ritenersi corretto, nella specie, l’esercizio del potere regolamentare da parte delle autorità ministeriali”.


2.5 In tema di finanziamento delle funzioni amministrative degli enti locali e coordinamento (urgente) della finanza pubblica.

In altre circostanze il Consiglio di Stato non ha mancato di manifestare perplessità in ordine alla perdurante coerenza con il riformato quadro costituzionale della potestà regolamentare dello Stato in ambiti materiali non agevolmente riconducibili ad alcuna delle materie di pertinenza statale.
In particolare in occasione del parere n. 9345 (14) espresso dalla sezione consultiva per gli atti normativi in data 30 agosto 2004 nei riguardi dello schema di regolamento del Ministero dell’interno – avente oggetto l’integrazione e modifica di un precedente regolamento (15) recante la disciplina della ripartizione dei contributi spettanti ai comuni istituiti a seguito di procedure di fusioni, alle unioni di comuni ed alle comunità montane svolgenti l’esercizio associato di funzioni comunali – il Consiglio di Stato, alla luce delle indicazioni emergenti dalla giurisprudenza costituzionale (16), non esita ad esprimere riserve sulla titolarità del potere regolamentare dello Stato in materie nelle quali lo stesso risulta sprovvisto di poteri d’intervento. Ancora più in dettaglio, dopo aver analiticamente escluso la riconducibilità della disciplina regolamentare ad alcuna delle materie di potestà esclusiva dello Stato, i giudici amministrativi rilevano come l’intervento statale trovi “con difficoltà una collocazione normativa coerente nel nuovo contesto segnato da un riparto di competenze legislative e soprattutto regolamentari assai più netto e preciso” e ancora che la distribuzione di “fondi già stanziati nel bilancio dello Stato e funzionali ad una obiettiva esigenza di promozione e stimolo di una più razionale organizzazione dei servizi nei comuni di piccole dimensioni, non appare di per se una ragione giuridica sufficiente a sorreggere l’esercizio di un potere di regolazione che non sembra più intestato allo Stato ma direttamente alle Regioni”.
A tutto voler concedere, si argomenta ancora nel suddetto parere, la disciplina de quo sarebbe riconducibile al coordinamento della finanza pubblica la quale, tuttavia, in quanto materia di competenza concorrente, salvo che per i principi fondamentali, resta affidata alla potestà sia legislativa sia regolamentare delle Regioni.
Il Consiglio di Stato, dunque, dopo aver invitato il governo “a prendere atto che tutte le volte che si tratta di trasferire dal bilancio dello Stato fondi che attengono a competenze non più intestate esclusivamente allo Stato, è necessario individuare moduli e metodi nuovi, coerenti con il mutato contesto costituzionale”, pur non senza riserve (17), tenendo conto delle urgenti esigenze di una gestione ordinata di una fase transitoria (e con effetti finanziari limitati alla utilizzazione delle risorse già stanziate) finisce per avallare le scelte recate dallo schema di regolamento sottoposto al suo esame non senza richiamare la necessità di rispettare il principio costituzionale di leale collaborazione.

2.6 Fondamento costituzionale della potestà regolamentare del Governo, definizione della materia immigrazione e coordinamento Stato- Regioni.

Considerazioni di particolare interesse sono svolte nell’articolato parere della sezione consultiva del Consiglio di Stato n. 3075 del 17 maggio 2004 in materia di immigrazione.
Il Ministero dell’Interno aveva sottoposto all’attenzione del Consiglio di Stato, per il prescritto parere, il regolamento recante modifiche ed integrazioni al d.P.R. 31 agosto 1999, n. 394, resosi necessario in seguito alle modifiche legislative in materia di immigrazione introdotte dalla legge n. 189 del 2002.
Il suindicato parere acquista particolare significato e pregnanza alla luce dei dubbi di legittimità costituzionali che la Conferenza Unificata (18) aveva avuto modo di esprimere sul medesimo schema di regolamento in ordine sia alla sussistenza del potere regolamentare dello Stato in materia di pertinenza regionale sia circa il rispetto dell’art. 118, comma terzo, Cost. laddove prevede in materia di immigrazione forme di coordinamento tra Stato e Regioni.
Il parere del Consiglio di Stato risulta di particolare interesse sia per il contributo interpretativo offerto alla definizione della materia immigrazione di cui all’art 117, comma secondo, lett. b), Cost. sia per le considerazioni relative alle speciali forme di coordinamento pretese in detta materia dall’art. 118, comma terzo, Cost.
In ordine al primo aspetto i giudici amministrativi ritengono che quella dell’immigrazione sia da considerarsi come una materia in senso stretto il cui ambito, in altri termini, può essere definito in relazione al suo specifico contenuto; detta materia, stando all’avviso del parere espresso, “ricomprende, in linea di massima, il complesso delle misure atte a definire, da un lato, le condizioni per l’ingresso nel territorio nazionale, per la loro permanenza, per la loro espulsione, dall’altro il sistema dei diritti degli stranieri immigrati, le loro opportunità, i sistemi di integrazione sociale, previdenza, assistenza, ovvero la condizione giuridica dei cittadini non appartenenti all’Unione Europea”.
Il Consiglio di Stato, dunque, esclude che quella dell’immigrazione sia assimilabile ad una materia trasversale, come tale idonea a configurare un valore costituzionalmente protetto suscettibile di abilitare il legislatore statale a dettare norme anche in materie connesse (19) benchè essa risulti connessa ad altre materie, anch’esse di competenza esclusiva dello Stato, come quelle relative al diritto di asilo ed alla condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea (art. 117, comma primo, lett a) Cost.), all’ordine pubblico e sicurezza (art. 117, comma primo, lett. h), Cost.) ed, infine, alla cittadinanza, stato civile ed anagrafi (art. 117, comma primo, lett. i), Cost).
La materia dell’immigrazione, dunque, pur non configurandosi propriamente come trasversale, è idonea a proiettarsi “su ambiti materiali che normalmente vengono considerati di competenza regionale, sino a ricomprenderli all’interno della materia di competenza esclusiva dello Stato, in ragione della prevalenza dei profili ad essa inerenti”; da ciò consegue, per restare al suindicato parere espresso dalla sezione consultiva, che “occorre, allora, rilevare in concreto la sussistenza di un potere regolamentare dello Stato nelle norme dello schema che incrociano competenze proprie delle Regioni, evidenziandone la connessione assorbente con le materie di competenza esclusiva statale […] richiedendo se del caso un ulteriore sostegno motivazionale e soprattutto risolvendo, comunque, i problemi di coordinamento con le Regioni sul versante delle funzioni amministrative”.
Da rilevare come la capacità di assorbimento da parte della materia dell’immigrazione di sfere di competenza regionale a fini di regolamentazione organica viene giudicata di particolare evidenza e distinta dalla attrazione in via sussidiaria delle competenze regionali da parte dello Stato, così come ammesso dalla Corte costituzionale a partire dalla sentenza n. 303 del 2003 (20), essendo la materia assorbente ricompresa nella potestà normativa (legislativa e regolamentare) esclusiva dello Stato.
Tale circostanza, tuttavia, non esclude la necessità di risolvere con modalità concertative il potenziale conflitto tra competenze normative statali e regionali e, ancor di più, in ragione della speciale attenzione che l’art. 118, comma terzo, Cost. riserva alla collaborazione tra Stato e Regioni in materia di immigrazione: “quando l’esercizio del potere statale – ancorché esclusivo – impinge in modo significativo sulla competenza regionale, il criterio procedurale dell’accordo e quello amministrativo del coordinamento diventano in qualche modo regole che si impongono o per una necessità riguardante la garanzia dei diversi soggetti istituzionali […] ovvero per la ragionevolezza delle scelte connesse con l’azione amministrativa”.
E veniamo, così, al secondo aspetto messo in evidenza nel parere relativo all’art. 118, comma terzo Cost., il quale, pure, riveste grande interesse.
Confutando l’impostazione fatta propria dal Ministero riferente al fine di respingere i rilievi avanzati dalla Conferenza Unificata, il Consiglio di Stato non ritiene che le forme di collaborazione, non essendo state previste in sede legislativa, non possano trovare opportuna collocazione nella disciplina regolamentare.
Anche a tal proposito torna utile come termine di raffronto la concezione ascendente della sussidiarietà la quale, come noto, implica l’osservanza di precise modalità procedimentali e consensuali al fine di pervenire all’ampliamento in senso verticale della potestà legislativa statale. Viceversa in materia di immigrazione non si pone, a rigore, un problema di ampliamento in senso verticale dell’intervento legislativo dello Stato vantando quest’ultimo in tale ambito una piena potestà legislativa e regolamentare.
Tuttavia, osserva la sezione consultiva del Consiglio di Stato, “le forme di coordinamento fra Stato e Regioni richieste dall’art. 118, terzo comma, Cost. sembrano costituire – più che un contenuto essenziale della legislazione di settore - […] un elemento sicuramente opportuno per il funzionamento in concreto di un sistema regolato dalla potestà normativa esclusiva dello Stato ma, in parte, incidente su materia regionale”. Ne consegue che “tale elemento di sistema potrebbe, quindi, trovare ingresso con norma regolamentare che nelle materie di competenza esclusiva resta affidato allo Stato” nel rispetto, tuttavia, della condizione posta dall’art. 118, comma terzo, Cost., vale a dire della previa disciplina legislativa statale delle forme di coordinamento. A tal fine sarebbe sufficiente che il regolamento, come suggerisce il Consiglio di Stato, faccia riferimento alle forme tipiche già disciplinate in leggi dello Stato come, ad esempio, gli accordi di cui all’art. 4 del d.lgs.n 281 del 1997.
In ordine, poi, alla scelta circa la specifica forma di coordinamento da adottare la sezione consultiva del Consiglio di Stato, in difetto di una specifica previsione dell’accordo contenuto in fonti di rango legislativo, all’intesa ritiene preferibile il tentativo di accordo tra Stato e Regioni, seppure in via necessaria e non facoltativa.


2.7 In tema di autonomia statutaria comunale e di elettorato, attivo e passivo, nelle circoscrizioni comunali dei cittadini stranieri residenti.

Di particolare rilievo, poi, il parere n. 8007 espresso dal Consiglio di Stato, Sez. II, in data 28 luglio 2004 il quale si occupa di autonomia statutaria comunale in relazione ad un tema di grande rilevanza giuridica oltre ché di interesse politico ed istituzionale come quello del diritto di voto, attivo e passivo, degli stranieri extracomunitari residenti nelle circoscrizioni comunali.
E’ questa stata occasione nella quale ad invocare la consulenza giuridico amministrativa (ma in verità anche costituzionale) del Consiglio di Stato è stata una Regione dopo che il Ministero dell’interno con propria nota aveva espresso il proprio avviso contrario.
Più in dettaglio, il parere del supremo collegio amministrativo era stato sollecitato dalla Regione Emilia Romagna, in relazione all’art. 50 dello statuto comunale di Forlì il quale prevedeva l’estensione dell’elettorato nelle circoscrizioni agli stranieri residenti.
Sulla scorta dell’interpretazione sistematica delle norme costituzionali (artt. 48, 51,114 e 117 Cost.) nonché di quelle legislative ordinarie (artt. 8 e 17 del T.U.E.L.) disciplinatrici della materia la Regione Emilia-Romagna ed il comune di Forlì ritengono che non vi siano ostacoli di sorta all’inserimento nello statuto comunale di disposizioni normative volte a riconoscere l’elettorato, attivo e passivo, nelle circoscrizioni comunali dei cittadini extracomunitari residenti in Italia.
Il Consiglio di Stato, pur non senza cautele e suggerimenti indirizzati al Comune interessato, disattende la contraria opinione espressa dal Ministero dell’Interno e finisce, così, per esprimere parere positivo affermando che “l’attribuzione agli stranieri residenti del diritto di elettorato attivo e passivo ai fini della costituzione dei consigli circoscrizionali di cui all’art. 17 Tu 267/00, […] sia de plano consentita dalle disposizioni di legge ordinaria […] e non trovi ostacolo insormontabile nelle norme e nei principi che disciplinano la materia”.
Il collegio amministrativo perviene a detta conclusione, da un lato, ridimensionando e sdrammatizzando la portata politica e giuridico-istituzionale del riconoscimento dell’elettorato (attivo e passivo) ai cittadini stranieri negli organi delle circoscrizioni comunali e, dall’altro, sottolineando che l’ampliamento delle forme di partecipazione dei non cittadini alla vita locale e di quartiere resta scelta affidata all’autonomia comunale.
L’ illegittimità della norma statutaria oggetto del richiesto parere viene esclusa in ragione dei poteri esclusivamente consultivi,partecipativi e propositivi assegnati alle circoscrizioni comunali con esclusione, quindi, “di qualsiasi funzione politica e di governo ovvero di funzioni che implichino scelte di fondo sulla valutazione e comparazione degli interessi delle varie componenti della collettività di quartiere o di frazione che nella circoscrizione si identifica”; del resto “non si vede – si legge ancora il parere - quale vulnus ai principi costituzionali sanciti dai ricordati articoli 48 e 51, possa costituire la disposizione statutaria in esame del Comune di Forlì, dato che lo straniero elettore a livello circoscrizionale non è chiamato a determinare le scelte di fondo dell’ente, né tanto meno a dare vita ad una maggioranza di governo, ma soltanto a far valere le proprie esigenze in forma partecipativa e consultiva in materia di servizi di base, ferma restando nella competenza del Consiglio comunale e degli altri organi di governo la funzione di indirizzo e di controllo politico amministrativo”.
Il Consiglio di Stato aggiunge, peraltro, che se i principi costituzionali in materia di diritti politici non paiono di ostacolo ad un simile riconoscimento, le norme legislative ordinarie, oltre ad affidare una simile scelta all’autonomia statutaria e regolamentare dei singoli comuni, paiono orientate proprio in tale direzione (21).
L’interpretazione combinata degli artt. 8 e 17 TUEL, stando all’avviso dei giudici amministrativi, infatti, lascia intendere che “il termine popolazione raccordato con il principio di partecipazione […] implica chiaramente nella sua omnicomprensività, che di essa fanno parte tutti i residenti, cittadini e non, ivi compresi cioè gli stranieri che, per ragioni di lavoro, vivono stabilmente nel territorio comunale e sono quindi pienamente legittimati, al pari dei cittadini, a far valere di fronte alle istituzioni le proprie particolari esigenze connesse con il loro radicamento nel territorio”.
Non meno interessanti paiono, poi, le considerazioni che il parere svolge sul terreno delle fonti del diritto e sulla loro competenza a disciplinare detta materia.
Dopo aver escluso che il legislatore statale possa vantare una qualche riserva di disciplina ai sensi dell’art. 117, comma secondo, lett. p) - il quale, come noto - riguarda la legislazione elettorale, gli organi di governo e le funzioni fondamentali degli enti locali – le modalità di composizione degli organi circoscrizionali nonché l’individuazione dei soggetti destinatari della capacità elettorale vengono assegnate alla competenza ed autonomia statutaria comunale di cui all’art. 114 Cost.; la quale “autonomia – sono parole del Consiglio di Stato - ha come parametro diretto soltanto le norme costituzionali ai sensi dell’art. 114” (22).


3. Attività giurisdizionale

Non meno interessante e ricca di spunti appare la giurisprudenza contenziosa dei giudici amministrativi in tema di diritto regionale la quale investe pressoché tutti gli aspetti del riformato Titolo V: dalla definizione e/o delimitazione delle materie di spettanza regionale al sistema delle fonti del diritto regionale, dai criteri di allocazione delle funzioni amministrative alle relazioni interorganiche degli enti locali.
Nella giurisprudenza contenziosa, in via generale, si registra l’aumento del contenzioso promosso dagli enti locali a tutela delle proprie accresciute attribuzioni istituzionali; ciò dimostra, da un lato, l’assenza di validi strumenti di prevenzione e risoluzione di conflitti istituzionali tanto più necessari in un quadro costituzionale delle competenze alquanto indefinito e controverso e, dall’altro, che la giustizia amministrativa (ancor più di quella costituzionale) rappresenta la sede naturale per (tentare di) far valere le ragioni delle autonomie territoriali (specie di quelle infra-regionali).
Né si tralasci la circostanza che l’avvenuta sottrazione della potestà regolamentare nelle materie di potestà concorrente e residuale al controllo obbligatorio del Consiglio di Stato, comporta naturalmente un aumento del contenzioso in ordine alla legittimità-conformità della normativa secondaria alle fonti sovra-ordinate.


3.1 Sulla titolarità della potestà regolamentare delle Regioni

Alcune pronunce si segnalano in relazione al controverso riparto della potestà regolamentare della Regione (a seguito della modifica dell’art. 121, comma secondo, Cost. operata della legge costituzionale n. 1 del 1999) il cui diverso esito pare dipendere, piuttosto che da una differente interpretazione delle norme di riferimento, dalla diversità delle previsioni statutarie regionali in tema di affidamento della potestà normativa da parte del Consiglio a favore della Giunta Regionale
Con la sentenza n. 354 del 2004 il Tar Campania-Salerno, sez. I annulla un regolamento regionale (23) adottato dalla Giunta Regionale risolvendo così a sfavore di quest’ultima la controversia circa la titolarità della potestà regolamentare regionale originata dalla suindicata modifica costituzionale. Nel risolvere l’insorta controversia il T.a.r. Campania, aderisce convintamente all’opzione ermeneutica fatta propria dalla Corte costituzionale circa l’interpretazione del riformato art. 121 Cost. (24), riportando testualmente numerosi stralci della parte motiva tanto della sentenza n. 313 del 2003 quanto dell’ordinanza n. 87 del 2002.
La soppressione nel nuovo testo dell’art. 121 Cost. dell’originaria attribuzione della potestà regolamentare al Consiglio regionale – secondo i giudici amministrativi campani - non ha comportato l’automatico riconoscimento della stessa alla Giunta regionale ma solo l’eliminazione della relativa riserva di competenza, consentendo così all’autonomia statutaria delle singole Regioni di optare per una diversa scelta organizzativa.
Essendo, dunque, l’individuazione dell’organo titolare della potestà regolamentare affidata alle scelte statutarie regionali, in carenza di nuove e diverse previsioni statutarie - si dipana così il ragionamento del Tar - Campania – deve considerarsi ancora vigente la vecchia previsione statutaria (25) di cui all’art. 19 che affidava al consiglio regionale l’esercizio del potere regolamentare.
Ne consegue, fatalmente, che “il regolamento impugnato, esorbitando dalle attribuzioni dell’organo esecutivo, deve stimarsi illegittimo e come tale va annullato”.
Del tutto diverso l’esito del ricorso promosso avverso un regolamento adottato dalla Giunta regionale piemontese e definito con sentenza del Tar-Piemonte, sez. II,n. 1272 del 2004 (26).
In quest’ultimo caso i giudici amministrativi, pur richiamandosi alla medesima interpretazione del giudice di costituzionalità, addivengono al rigetto del ricorso ritenendo non viziato l’esercizio del potere regolamentare da parte dell’esecutivo regionale.
La soluzione che consente di salvare dalla pronuncia di annullamento l’atto regolamentare adottato dalla Giunta regionale del Piemonte (27) nonché di dichiarare la non fondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata nei riguardi della legge regionale n. 10 del 2003 viene individuata in una disposizione normativa statutaria, in particolare nell’art. 39, comma quarto, dello Statuto regionale che consente ai giudici amministrativi di affermare che: “lo statuto regionale piemontese contiene […] l’art. 39, comma quarto, che senza alcuna eccezione consente al legislatore regionale di affidare alla Giunta ogni altra attribuzione che non sia prevista, in via generale, dalla Costituzione; e tale disposizione è perfettamente conforme all’attuale tenore dell’art. 121, comma 2, della Carta, come modificato dalla legge costituzionale 22 dicembre 1999, n. 1 ed anche dall’art. 123 della Carta, atteso che nessuna di tali norme contiene alcuna riserva di regolamento a favore dell’organo consiliare”.
Il diverso orientamento emerso in proposito nella giurisprudenza costituzionale è giudicato inconferente in quanto riguarderebbe “l’opposta soluzione in cui lo statuto regionale non contenga una norma di tenore analogo al citato art. 39, comma quarto, dello Statuto piemontese”.


3.2 Natura e regime giuridico della potestà regolamentare dell’ente comunale (segue).

La sentenza n. 6317 del 2004 emessa dalla sezione V del Consiglio di Stato si occupa del fondamento costituzionale della potestà regolamentare dei comuni; nel respingere le censure di illegittimità mosse da un privato nei confronti di un regolamento comunale adottato in assenza di un espresso fondamento legislativo, i giudici amministrativi affermano che “la potestà regolamentare degli enti locali (sia pure nei limiti dettati dall’ordinamento) può spaziare oltre le materie contemplate espressamente” e ciò in considerazione di un triplice ordine di motivi che si compendiano nella caratterizzazione degli enti locali come enti a fini generali; nel fatto che il potere regolamentare è espressione del potere di auto-organizzazione dell’ente ed, infine, nel carattere puramente esemplificativo delle materie indicate nell’art. 7 del d.lgs. n. 267 del 2000 che disciplina in via generale il potere regolamentare degli enti comunali.


3.3 Considerazioni generali sulla natura giuridica ed i limiti di intervento della potestà regolamentare del Comune; in particolare l’interpretazione dell’art. 8 della legge 22 febbraio 2001, n. 36 (in tema di disciplina delle installazioni di telecomunicazione e radiotelevisive, produttive di inquinamento elettromagnetico).

Diverse pronunce di Tribunali amministrativi rese in materia di installazioni di impianti di telefonia e di telecomunicazione si segnalano per il contributo interpretativo in ordine ala natura giuridica della potestà regolamentare dell’ente comunale e, in dettaglio, di quella prevista dall’art 8 della legge 22 febbraio 2001.
Numerose controversie amministrative sono state originate dalla legge 22 febbraio 2001, n.6 (legge quadro sulla protezione dalle esposizioni a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici) la quale all’art. 8, comma sesto, affida ai Comuni il potere di adottare un regolamento per assicurare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e minimizzare l’esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici.
Inutile dire che molti comuni, sensibili al tema della protezione della salute delle popolazioni locali, si siano serviti della potestà regolamentare loro riconosciuta per dettare limiti e condizioni per l’installazione degli impianti di telecomunicazione più restrittivi rispetto a quanto previsto dalla legislazione statale e regionale invocando le disposizioni costituzionali in tema di rafforzamento dello statuto giuridico dell’autonomia degli enti comunali ( artt.114 e 118 Cost.).
In via generale la giurisprudenza amministrativa si è mostrata contraria ad ammettere che la riforma del Titolo V, parte II, Cost. abbia rafforzato la potestà regolamentare degli enti locali sino a renderla capace di disporre in deroga nei confronti tanto della legislazione statale tanto di quella regionale; i giudici amministrativi hanno ritenuto che i regolamenti comunali debbano tener conto delle esigenze unitarie nel quadro del riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni e che gli stessi, dunque, non possano che vantare una portata attuativa ed integrativa delle norme legislative preesistenti.
La delicatezza e complessità del tema deriva dall’intreccio e dalla sovrapposizione delle competenze, considerato che la scelta dei siti destinati alla installazione degli impianti prevede la partecipazione dell’ente comunale mentre la disciplina complessiva della materia coinvolge profili oltre ché di tutela della salute, anche di tutela dell’ambiente e di governo del territorio e, dunque, materie, come noto, affidate rispettivamente alla potestà legislativa esclusiva statale ed a quella concorrente.
Non a caso, in effetti, il Tar Lazio, sez. II Bis, con la sentenza n. 5186 del 2004 ha posto l’attenzione su un’interpretazione sia della legge quadro sia della prevista potestà regolamentare comunale compatibile con il complesso riparto delle competenze in materia; tale riparto, stando alla sentenza suindicata, implica che “il regolamento, rimesso in via esclusiva all’autorità comunale non incida sui limiti di esposizione fissati dallo Stato a tutela del bene costituzionalmente protetto della salute, né sulla rete di distribuzione dell’energia, oggetto di legislazione concorrente, né sulla pianificazione urbanistica affidata in via generale – a livello di P.R.G.- alla predisposizione di un atto complesso, emanato dai Comuni con l’approvazione della Regione”; ne deriva, dunque, che “la regolamentazione comunale può dunque fissare parametri di specificazione attuativa, in rapporto sia alla concreta ubicazione degli impianti, sia alle relative caratteristiche tecniche, ma nell’ambito delle localizzazioni già possibili a livello di PRG […] senza derogare ai limiti di esposizione, ai livelli di attenzione ed agli obiettivi di qualità fatti propri sia dallo Stato che dalla Regione, per quanto di rispettiva competenza”.
Orientamento del tutto analogo emerge dalle sentenze del Tar Piemonte, Sez. I, n. 228 del 2004 e del Tar Puglia –Bari, sez. II, n. 1644 del 2004 rese in fattispecie simili alla precedente.
La prima sentenza, in via generale, nega “ la sussistenza in Costituzione di una potestà regolamentare comunale di carattere generale, e per certi aspetti insensibile all’esistenza di leggi che regolano la materia” per affermare, subito dopo, che “in tale contesto non può ravvisarsi un distinto potere regolamentare del Comune a disciplinare autonomamente un fenomeno rilevante per la salute dell’uomo, con l’attribuzione di potestà urbanistiche che la legge non riconosce”.
Nella seconda sentenza invece si legge “che la mera fissazione di limiti di esposizione ai campi elettromagnetici diversi da quelli stabiliti dallo Stato non rientra nell’ambito delle competenze attribuite ai Comuni dal citato art. 8” e, ancora, “l’attribuzione ai Comuni di un potere regolamentare volto a minimizzare l’esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici deve essere esercitato nel rispetto del quadro normativo di riferimento”.


3.4 Sull’autonomia normativa degli enti locali nonché sui rapporti istituzionali tra Consiglio e Giunta municipale (con specifico riferimento alle variazioni e dismissioni di quote di partecipazioni non determinanti ai fini del controllo delle società partecipate).

Di particolare interesse risultano essere le articolate ed approfondite considerazioni contenute nella sentenza Tar Lombardia-Milano, sez. III, n. 1622 del 2004 e riguardanti, in particolare, l’evoluzione subita dall’autonomia normativa dell’ente comunale a seguito della riforma del Titolo V, parte seconda, della Costituzione oltreché il complessivo sistema delle relazioni intercorrenti tra Giunta e Consiglio municipale con speciale riguardo al tema delle variazioni e dismissioni di quote di partecipazioni non determinanti ai fini del controllo delle società partecipate.
Alcuni membri del consiglio comunale di Milano si erano rivolti al giudice amministrativo per chiedere l’annullamento di una delibera consiliare con la quale erano state apportate alcune modifiche allo Statuto comunale per mezzo delle quali si devolvevano, in particolare, alla Giunta comunale le determinazioni circa le variazioni o dismissioni di quote di partecipazione non determinanti ai fini del controllo delle società di capitali non operanti nel settore sei servizi pubblici nonché delle società partecipate che gestiscono servizi pubblici.
I Giudici amministrativi accogliendo le censure mosse dai ricorrenti pervengono all’annullamento della delibera consiliare sulla scorta di talune argomentazioni che riguardano, da un lato, la potestà statutaria comunale dall’altro i rapporti interorganici tra Giunta e Consiglio comunale.
In ordine al primo profilo, disattendendo le argomentazioni addotte a difesa della delibera consiliare, la sentenza suindicata non ritiene che, in seguito alla riforma del titolo V, l’autonomia statutaria degli enti locali sia stata esaltata a tal punto da rinvenirne il fondamento direttamente in Costituzione con la conseguenza, dunque, che la potestà statutaria stessa possa legittimamente derogare alle leggi ordinarie dello Stato.
Ben diversamente il Tar Lombardia, richiamando i principi di tassatività e legalità in tema di fonti normative, sostiene la natura secondaria della potestà statutaria e, dunque, la necessità di una copertura legislativa delle stessa, anche in ragione della previsione di cui all’art. 4 delle legge n. 131 del 2003 il quale, appunto, richiama la fonte statutaria al rispetto della legge statale nelle materie indicate dall’art. 117, secondo comma, lett. p) Cost.
Ne consegue, pertanto, che nella “disciplina delle competenze degli organi di governo e dello svolgimento delle funzioni locali, la riforma ha confermato un esteso ambito di intervento della legge statale […]; da qui la necessità che i contenuti degli Statuti comunali, i quali per i profili qui considerati conservano la loro natura di fonti secondarie, siano conformi alla disciplina legislativa in materia di organi di governo e di funzioni fondamentali”.
Viene, in tal modo, ribadita la riserva di legge statale in ordine al riparto delle competenze tra Consiglio e Giunta municipale la quale si traduce “in vincoli legislativi posti a presidio del principio democratico, il quale esige che le scelte sugli argomenti, che secondo il disegno del legislatore rivestono rilevanza primaria per gli interessi della collettività insediata nel territorio comunale, scaturiscano dal confronto tra tutte le componenti rappresentative degli interessi medesimi”.
In orine al secondo profilo i giudici amministrativi osservano che proprio alla luce delle considerazioni che precedono “il sistema di riparto di competenza tra Giunta e Consiglio è retto dal principio secondo cui l’organo elettivo è chiamato ad esprimere gli indirizzi politici ed amministrativi di rilievo generale, che si traducono negli atti fondamentali tassativamente indicati all’art. 42 del testo unico” e, ancora, “che la definizione degli atti fondamentali riservati alla competenza del consiglio comunale sia stata compiuta direttamente dalla legge e non possa formare oggetto di interventi manipolativi mediante atti di natura amministrativa”.


3.5 Circa la legittimità costituzionale dell’approvazione del piano sanitario attraverso provvedimento legislativo regionale.

Con la sentenza n. 6730 del Consiglio di Stato, IV sezione, del 19 ottobre 2004 vengono svolte approfondite ed ampie considerazioni in ordine alla ammissibilità costituzionale di leggi provvedimento (nella specie regionali) ed al tipo di atto (amministrativo o legislativo) con cui approvare il piano sanitario regionale.
Nel respingere il ricorso in appello proposto avverso la sentenza del T.a.r. Puglia, sez. I, del 5 marzo 2003, n. 1079 il Consiglio di Stato si allinea alla giurisprudenza costituzionale relativa alla non contrarietà a Costituzione di leggi provvedimento, tanto statali quanto regionali, sostenendo che “i diritti di difesa del cittadino in caso di sopravvenuta approvazione con legge di un atto amministrativo lesivo dei suoi interessi, non vengono sacrificati, ma si trasferiscono secondo il regime di controllo proprio del provvedimento normativo medio tempore intervenuto, dalla giurisdizione amministrativa alla giustizia costituzionale”. Più in dettaglio veniva contestato alla Regione Puglia di aver provveduto all’approvazione con atto legislativo del piano sanitario regionale, già oggetto di impugnativa giurisdizionale, al solo fine di escludere il sindacato del giudice amministrativo e, quindi, l’eventualità di una decisione giurisdizionale di annullamento.
Il Consiglio di Stato non accogliendo detta censura afferma che la circostanza che “la legificazione degli atti generali già impugnati dall’appellante abbia, di fatto, impedito la decisione, nel merito, del ricorso proposto non vale, di per sé, ad integrare la fattispecie di un abuso di potere legislativo, quando, come nel caso di specie, l’intervento legislativo si rivela indirizzato al conseguimento di un fine politico di primaria importanza per la corretta amministrazione della Regione”.
Nella suindicata pronuncia viene, dunque, esclusa la violazione da parte del legislatore regionale sia dei principi fondamentali della legislazione statale in materia di sanità sia delle regole che presiedono al corretto uso della funzione legislativa regionale di cui all’art. 117 Cost.
Secondo la ricostruzione del giudice amministrativo, infatti, non incorre in un abuso di potere legislativo la Regione che decide di approvare il piano sanitario regionale con provvedimento avente un regime di validità superiore a quello con cui è stato adottato l’omologo atto di pianificazione nazionale; né in tal caso ricorre la violazione di alcun principio fondamentale in quanto la scelta della Regione Puglia di approvare il piano sanitario con legge, “ non solo non risulta lesiva di alcuna sfera di competenza legislativa o amministrativa riservata allo Stato dall’art. 117 della Costituzione, ma non risulta neanche difforme dall’art. 1 del d.lgs. n. 502/1999, che in nessun luogo impone l’uso dell’atto amministrativo per l’adozione del provvedimento programmatorio in questione”.



3.6 Il principio di leale collaborazione in materia di produzione, trasporto e distribuzione nazionale di energia ed in relazione al progetto preliminare del “Ponte sullo stretto di Messina”.

Non sono mancate decisioni in ordine al principio di leale collaborazione tra Stato Regioni ed enti locali, in particolare nella materia di competenza concorrente della produzione, distribuzione e trasporto di energia elettrica (28).
Oggetto della controversia definita con la sentenza del Consiglio di Stato, sez. VI, n. 3502 del 2004 era, in particolare, la legittimità dell’autorizzazione, nonché di tutti gli atti presupposti, rilasciata a favore di Energia S.p.a per la realizzazione nel territorio comunale di Termoli di un impianto di produzione di energia elettrica a ciclo combinato e delle opere connesse.
Con detta sentenza, peraltro, vengono rigettate le eccezioni di incostituzionalità avanzate nei confronti della disciplina normativa contenuta nel decreto legge n. 7 del 2002 convertito nella legge n. 55 del 2002 sulla scorta delle argomentazioni già emerse dalla recente giurisprudenza costituzionale (29).
Viene pertanto ribadito che “il principio di leale collaborazione si attua in maniera forte nei rapporti con la Regione, con cui deve necessariamente essere raggiunta un intesa ed in maniera debole con le altre amministrazioni interessate, cui deve essere consentito di partecipare al procedimento e di esprimere il proprio parere”.
Né sono mancati interessanti spunti di natura processuale, avendo gli appellanti impugnato la concessione della prevista autorizzazione in ragione della revoca da parte regionale del parere positivo espresso in sede di intesa; il Consiglio di Stato non accoglie la censura in ragione del fatto che “dopo la conclusione del procedimento la revoca di un atto endoprocedimentale non può in alcun modo essere idonea a travolgere il provvedimento finale, che quindi resta valido e pienamente efficace”.
Sempre in tema di leale collaborazione vengono svolte interessanti considerazioni dai giudici amministrativi del Tar Lazio- sez. I, n. 5117 del 2004 chiamati a giudicare la legittimità del provvedimento CIPE n. 66 del 1 agosto 2003 recante il progetto preliminare del Ponte sullo Stretto, tra l’altro, per l’asserita violazione delle modalità di partecipazione al procedimento degli enti locali interessati.
Più in dettaglio nel ricorso introduttivo viene censurato il comportamento della Regione Calabria la quale non avrebbe lasciato tempo sufficiente ai comuni interessati per esprimere il proprio parere in ordine al progetto preliminare; viene, peraltro, sollevata questione di legittimità costituzionale nei confronti dell’art. 3 del d.lgs. n. 190 del 2002 nella parte in cui degradando il parere municipale da obbligatorio a facoltativo la stessa non avrebbe tenuto conto del nuovo assetto costituzionale il quale ha notevolmente ampliato la sfera di competenza delle autonomie locali.
Il T.a.r. respinge i dubbi di legittimità costituzionale pervenendo ad una diversa interpretazione della norma legislativa secondo la quale la stessa “permette, dinanzi al contegno di inerzia degli enti locali interessati, di prescindere dall’acquisizione delle osservazioni invano loro richieste. Poiché, infatti, a tali enti è comunque normativamente assicurata – sol che essi intendano avvalersene – la possibilità di una partecipazione attiva al procedimento, ciò si presenta sufficiente al rispetto del ruolo loro riconosciuto dalla Costituzione”.


3.7 Sui livelli essenziali di assistenza sanitaria (LEA).

Con sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV, n. 398 del 2004 viene decisa una controversia riguardante la legittimità del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 29 novembre 2001 avente ad oggetto la definizione dei livelli di assistenza nella parte in cui ha escluso dalla derogabilità da parte del Servizio Sanitario nazionale diciassette prestazioni di fisiokinesiterapia.
Detta pronuncia si segnala sia per la definizione di livelli essenziali di assistenza sanitaria sia per il tipo di fonte normativa ritenuta necessariamente idonea a disciplinarli.
I giudici di Palazzo Spada, premesso che i livelli essenziali di assistenza rientrano nelle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali di cui all’art. 117, comma 2, lett. m), Cost., puntualizzano che gli stessi, non costituendo una materia in senso stretto, siano da considerare piuttosto quali “criteri per la concreta individuazione delle soglie minime di prestazione idonee a garantire, nel rispetto dei fondamentali principi di uguaglianza e solidarietà la tutela del diritto costituzionalmente garantita alla salute ex art. 32 Cost.”. Da ciò consegue, pertanto, “che solo al legislatore statale spetti la definizione dei predetti livelli essenziali di assistenza”.
Invocando il sostegno della giurisprudenza costituzionale (30) la veste legislativa, si legge nella motivazione delle sentenza, “in quanto espressione della contrapposizione dialettica tra le forze parlamentari di maggioranza e di opposizione rappresentativa di tutti i cittadini” rappresenta “l’unico strumento idoneo ad assicurare il giusto contemperamento degli interessi in gioco e a conseguire l’effettivo interesse pubblico”.
Essendo, peraltro, intervenuta nelle more del giudizio amministrativo la disposizione di cui all’art. 54 della legge 27 dicembre 2002, n. 489 (legge finanziaria per il 2003) la quale ha provveduto a legificare l’impugnato decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri non è più predicabile l’illegittimità dei livelli di assistenza in esso contenuti per non essere stati assunti nella forma legislativa (31).
Da rilevare che la medesima sezione del Consiglio di Stato con sentenza n. 3983 del 2004 ha dichiarato improcedibili i ricorsi in appello proposti contro la sentenza del Tar Lazio, sez. III, n. 10101 del 2002 (che aveva escluso l’illegittimità del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 29 novembre 2001 stante l’avvenuta legificazione dello stesso ad opera dell’art. 54 della legge finanziaria per il 2003) adducendo, tuttavia, motivazioni di segno diverso.
In quest’ultima sentenza, infatti, contrariamente a quanto affermato nella precedente sentenza n. 398 del 2004 si legge che “la definizione dei livelli essenziali di assistenza, anche se fosse stata operata a mezzo di atto solo regolamentare( e non confermata poi da fonte primaria) avrebbe potuto trovare giustificazione nella sua ricomprensione nella materia esclusiva di cui al secondo comma dell’art. 117 lett. m) Costituzione, in quanto attinente appunto alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni”; a conforto di tale conclusione si aggiunge, inoltre, che la previsione dei livelli essenziali di assistenza “non si presta per la sua particolarità tecnica e per la necessità di aggiornamento continuo, a essere disciplinata con fonte soltanto primaria”.
Appare più conferente, allora, il richiamo effettuato in questa occasione alla sentenza della Corte costituzionale n. 88 del 2003 la quale appunto nel precisare che le scelte in materia di competenza esclusiva dovessero essere effettuate nelle linee generali dallo Stato con legge, finisce per ammettere che la specificazione delle stesse possa avvenire per mezzo di fonti normative di rango non primario.
Sotto altro, ma connesso, profilo la sentenza del Consiglio di Stato n. 3983 del 2004, nel riconoscere la difficoltà di regolare interamente con atto legislativo i livelli essenziali di assistenza sanitaria alla luce della particolarità tecnica della materia nonché della continua evoluzione della scienza medica, esclude che il DPCM in questione sia soggetto all’obbligo di motivazione, trattandosi di atto a contenuto generale e di indirizzo perciò non rientrante nell’ambito di applicazione dell’art. 3, comma 2, della legge n. 241 del 1990.

3.8 Sull’inammissibilità dell’impugnativa da parte dell’ente comunale di atti compiuti in via sostitutiva dal commissario straordinario di nomina Regionale

La decisione del Consiglio di Stato, sez. IV, n. 2520 del 2004 si segnala per aspetti di carattere processuale, avendo la stessa negato la legittimazione dell’ente comunale ad impugnare decisioni adottate dal commissario straordinario nominato dalla Regione per rimediare alla mancata approvazione di atti in materia urbanistica affidati alla competenza del comune stesso.
Il commissario straordinario essendosi limitato ad esercitare, in via sostitutiva, competenze dalla legge affidate direttamente all’ente comunale deve essere considerato, secondo l’avviso del Consiglio di Stato, organo comunale seppure di natura straordinaria intrattenendo con l’organo sostituito rapporti di natura interorganica non già intersoggettiva. Da qui il difetto di legittimazione in capo al Comune ad impugnare atti che vanno considerati appartenenti alla propria sfera di competenza.


3.9 In tema di potere sostitutivo regionale.

A proposito di poteri sostitutivi in materia urbanistica e, più in generale, in tema di rapporti Regioni - enti locali merita di essere segnalata la sentenza del Tar Sicilia – Palermo, sezione II, n. 2894 del 2004.
Detta pronuncia afferma che la legislazione regionale che sanziona l’inerzia degli enti locali con la nomina di un commissario ad acta da parte della Regione non comporta l’obbligo ex lege del “Consiglio comunale di approvare sempre e comunque la proposta di delibera formulata dal commissario ad acta, anche in presenza di un nuovo strumento urbanistico in fieri”“.
Più in generale i giudici amministrativi non solo rilevano che l’art. 120 Cost. - così come riformulato dall’art. 6 della legge cost. n. 3 del 2001 – “ha sostanzialmente ridisegnato i limiti, i modi ed i presupposti per l’esercizio della funzione del controllo sostitutivo dello Stato sulle Regioni e gli altri enti locali” ma attraverso un’interpretazione sistematica ed integrata degli art. 114 e 118 Cost. mettono in evidenza le nuove attribuzioni istituzionali ed il rafforzato statuto di autonomia dell’ente comunale.
Dalla ricostruzione del nuovo quadro costituzionale consegue, per restare all’interpretazione offerta dai giudici amministrativi siciliani, che “pur non ravvisandosi nel nuovo testo del Titolo V elementi decisivi per poter escludere in toto il controllo sostitutivo delle regioni sugli organi degli enti locali, non di meno, tale forma di controllo allorché sia prevista e disciplinata da preesistenti disposizioni di legge deve essere interpretativamente adeguata ai principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza ex art. 118 Cost. nonché di leale collaborazione ex art. 120 Cost.” ed, ancora, che “le varie forme di controllo sostitutivo sui comuni presenti nella preesistente legislazione statale e/o regionale non […] possano più essere ammesse laddove, tali forme di controllo finiscano con lo svuotare totalmente i poteri propri dei Comuni”.



NOTE

(1) Particolare eco ha trovato presso le sentenze ed i pareri del Consiglio di Stato la sentenza n. 303 del 2003 della Corte costituzionale.
(2) Per una visione d’insieme circa le problematiche poste dal processo di semplificazione e codificazione normativa si rinvia all’articolato ed approfondito parere del Consiglio di Stato, Adunanza Generale n. 2 del 25 ottobre 2004 reso sullo schema di decreto legislativo recante il “Codice dei diritti di proprietà industriale”; in particolare per i passaggi riguardanti le tematiche di diritto regionale si segnalano i prr. nn 2.3 e 4.5.
(3) Cfr. Consiglio di Stato, Adunanza Generale n. 2 del 25 ottobre 2004 (pr 6.1 e 6.2).
(4) Cfr. Consiglio di Stato, sez. I, pareri 12 gennaio 2005 n. 12036 e n. 12054 del 2004; in proposito si veda anche il parere del Consiglio di Stato, sez. II, n. 8007 del 2004 infra pr. 2.7.
(5) A tal proposito non sono mancati interventi autorevoli volti a sollecitare Parlamento, Governo e Regioni ad una riflessione sul tema il quale, di certo, richiede una regolamentazione legislativa; cfr. A. DE ROBERTO, Relazione sullo stato della giustizia amministrativa dell’anno 2003, tenuta in data 26 febbraio 2004.
(6) Cfr Consiglio di Stato, I sez., parere n. 12054 del 2004 del 12 gennaio 2005.
(7) In tal senso cfr. Consiglio di Stato, Ad. del 31 gennaio 2005, n. 11996 /2004.
(8) In proposito cfr. Relazione sulla giustizia amministrativa del Presidente del Consiglio di Stato, Alberto De Roberto, 21 marzo 2003; nonché sia consentito rinviare a G. FONTANA La giurisprudenza amministrativa e l’attività consultiva del Consiglio di Stato, in AA.VV., Secondo Rapporto annuale sullo stato del regionalismo in Italia (2003), Milano, 2004, 243-244.
(9) Cfr Relazione del Presidente Alberto de Roberto sullo stato della giustizia amministrativa, Palazzo Spada - 23 febbraio 2005.
(10) V. legge Regione Umbria, 28 luglio 2004, n. 16.
(11) In particolare si tratta dell’art. 66, comma 3, della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (legge finanziaria per il 2003)
(12) Il riferimento, in particolare, è alla sent.n. 303 del 2003
(13) Si trattava di un decreto interministeriale di iniziativa del Ministero delle attività produttive.
(14) Per un commento del parere n. 9345 del 2004 cfr. M. BARBERO, Da Palazzo Spada un nuovo stop alla finanza derivata, in www.associazionedeicostituzionalisti.it (28.09.2004).
(15) Si trattava del decreto n. 318 del 2000 il quale trovava fondamento nell’art. 6 ,comma 8, della legge 3 agosto 1999, n. 265 il quale andava integrato e modificato alla luce dell’art. 1quater, comma 8, della legge n. 116 del 2003 di conversione del decreto legge n. 50 del 31 marzo 2003.
(16) Ancora una volta il Consiglio di Stato mostra di aver ben presente la giurisprudenza costituzionale sul tema facendo espresso riferimento alle sent. nn 14, 16 e, soprattutto, n. 49 del 2004.
(17) Non è irrilevante ossevare come il suddetto parere nel punto n. 6 inviti il Governo a richiamare espressamente nella propria premessa la natura urgente e transitoria della disciplina regolamentare.
(18) La Conferenza Unificata aveva espresso parere negativo sullo schema di regolamento nella seduta del 10 dicembre 2003.
(19) In tale passaggio (punto 6.5) del parere il Consiglio di Stato richiama le sentt. della Corte costituzionale nn 407 e 536 del 2002.
(20) Ancora una volta il Consiglio di Stato fa espresso riferimento alla giurisprudenza costituzionale; in particolare sulla sent. n. 303 del 2003 si veda L. RONCHETTI, La giurisprudenza costituzionale, in ISSiRFA-CNR, Secondo rapporto annuale sullo stato del regionalismo in Italia (2003), Milano, 2004, 219 e segg.
(21) Giova ricordare che l’art. 17, comma quarto, TUEL prevede che “gli organi delle circoscrizioni rappresentano le esigenze della popolazione delle circoscrizioni nell’ambito dell’unità del Comune e sono eletti nelle forme stabilite dallo Statuto e dal regolamento” mentre l’art. 8 TUEL prevede che “i comuni anche su base di quartiere o di frazione promuovono organismi di partecipazione popolare all’amministrazione locale”.
(22) Di diverso avviso la sentenza Tar Lombardia-Milano- sez. III, n. 1622 del 2004 per la quale v. infra pr. 3.4
(23) Nella specie si trattava della delibera della Giunta regionale della Campania del 22 agosto 2003, n. 2554 e del d.p.g.r. n. 626 del 22 settembre 2003 recante il nuovo regolamento per la gestione degli ambiti territoriali di caccia.
(24) L’adesione all’orientamento della Corte costituzionale è talmente convinta da spingere il Tar, non solo ad utilizzare ampi stralci della parte motiva delle suindicate pronunce, ma anche a risolvere la controversia assumendo una decisione in forma semplificata.
(25) Nella specie si tratta dell’art. 19 della legge 22 maggio 1971, n. 348 approvata ai sensi del previgente art. 123, secondo comma, Cost.
(26) In relazione a detta sentenza si segnalano, con diversità di giudizi, i commenti di S..PARISI, Forma di governo, sistema delle fonti e allocazione del potere regolamentare: proprio un sillogismo aristotelico ? e di M. BARBERO, Ancora intorno alla questione relativa alla titolarità del potere regolamentare in ambito regionale, in www.forumcostituzionale.it.
(27) Si trattava del regolamento 1 agosto 2003, n. 57-10224 di attuazione delle legge regionale 20 giugno 2003, n. 10 riguardante il contributo regionale alla libera scelta educativa per l’anno scolastico 2003-2004.
(28) E’ bene ricordare come la dottrina non abbia tardato rilevare l’anomalia dell’inserimento della materia riguardante la produzione,il trasporto e la distribuzione nazionale dell’energia tra quelle rientranti nella potestà concorrente; tra i primi A. D’ATENA, Materie legislative e tipologia delle competenze, in Quad. cost., n.1/2003, 17.
(29) Il riferimento è, in primo luogo, alla sent. n. 6 del 2004 ed anche alla n. 303 del 2003 della Corte costituzionale.
(30) Cfr. Corte costituzionale n. 88 del 2003.
(31) Diversa, in verità, è la conclusione cui è pervenuta la sentenza del Tar Lazio, n. 4690 del 2003 laddove appunto si esclude che i livelli essenziali di assistenza sanitaria debbano necessariamente ed integralmente essere regolati in via legislativa; in argomento si consentito rinviare a G. FONTANA La giurisprudenza amministrativa e l’attività consultiva del Consiglio di Stato,cit., 251.

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