(Traduzione italiana a cura di Maurizio Rossi)

La sedicesima revisione della Costituzione del 1958 non rischia di passare inosservata o di lasciare indifferenti. Adottata con legge costituzionale n. 276 del 28 marzo 2003, essa sembrava in effetti non soltanto un’iniziativa politica rilevante che caratterizzava l’inizio del secondo mandato presidenziale di Jacques Chirac, ma anche, e soprattutto, una svolta nella disciplina delle istituzioni politiche e amministrative della Vª Repubblica. Se si ricorda che il sistema costituzionale fondato dal generale De Gaulle si basava sulla riaffermazione dell’unità dello Stato e il ristabilimento della sua autorità, non si potrà fare a meno di rilevare il cammino percorso in 45 anni, a volte sotto l’impulso della corrente centrista e girondina della nuova maggioranza presidenziale e sotto l’influenza, non dissimulata, delle idee dominanti nell’Europa comunitaria. Due serie di osservazioni preliminari permetteranno di dare un giudizio sulla riforma intrapresa.

1° Il contesto della riforma
Secondo la fraseologia in voga, il programma realizzato da M. Raffarin si presenta come il secondo atto di décentralisation. Infatti l’origine di questa politica è indiscutibilmente fissata con il primo atto la cui paternità è attribuita a Gaston Defferre, ministro degli Interni all’inizio del primo settennato di François Mitterand, che, già da venti anni, aveva segnato profondamente l’economia del nostro sistema politico-amministrativo (1982-1983).
La grande differenza tra i due atti consiste nel fatto che il primo si era sviluppato a diritto costituzionale costante – senza dunque che fosse stato necessario modificare la norma fondamentale – cosa che d’altronde all’epoca sarebbe stata particolarmente delicata, tanto restavano forti le opposizioni al principio stesso di décentralisation. Meglio, la legislazione dell’epoca aveva dato corpo a un vecchio principio costituzionale risalente al 1946, secondo il quale il Presidente dell’assemblea eletta di ogni collettività territoriale, doveva essere l’Esecutivo naturale delle sue deliberazioni. Tale principio era comunque rimasto lettera morta – trattandosi in ogni caso del prefetto nei confronti del dipartimento – in mancanza del testo d’applicazione. Al contrario, il secondo atto di decentramento inaugurato nel 2003 ha avuto bisogno di una profonda riforma del quadro costituzionale relativo all’organizzazione e al funzionamento delle collettività territoriali.
Senza dubbio non tutte le disposizioni introdotte ultimamente hanno la stessa importanza.
Alcune si limitano a consolidare delle situazioni già acquisite in diritto positivo, sia in via legislativa che in via giurisprudenziale. Quale consacrazione costituzionale di soluzioni che derivano dal diritto legislativo, si può citare l'omogeneità semantica che si è venuta compiendo riguardo all'aggettivo qualificativo preceduto dal sostantivo "collettività"; nel testo originario della Costituzione il problema delle collettività «locali» o «territoriali» era indifferente, mentre ormai è il secondo termine che si impone in tutto il corpo della Costituzione.
Nella stessa prospettiva è degno di nota il fatto che l’esistenza delle regioni, da una parte, dei gruppi di collettività territoriali, dall’altra, si veda formalmente inserita nel corpus costituzionale mentre nel precedente sistema di diritto positivo lo statuto di questi enti era di semplice competenza della legge. Allo stesso modo deve essere sottolineato il fatto che è stato elevato al rango costituzionale il principio, già posto dalla legge del 2 marzo 1982, secondo il quale è vietata ogni azione di tutela di una collettività territoriale nei confronti di un’altra. Infine, si trova regolata, una volta per tutte, la spinosa questione del potere regolamentare delle autorità locali che aveva suscitato un ampio dibattito dottrinale negli anni ’80. La devoluzione di un tale potere è precisamente stabilita dalla revisione costituzionale, ovviamente il potere regolamentare delle autorità locali resta necessariamente condizionato e subordinato al potere regolamentare generale che appartiene al Primo ministro.
Ma altre disposizioni introdotte nel testo costituzionale, oltrepassando il significato simbolico, assumono la portata di vere e considerevoli innovazioni. Per comprendere la ragion d’essere di questi cambiamenti bisogna tornare sulle condizioni nelle quali si è svolto il primo atto di décentralisation. Dopo un promettente avvio, l’iniziativa dei poteri pubblici si era rapidamente scontrata con l’ostacolo giuridico rappresentato da due principi della nostra architettura costituzionale: quello dell’indivisibilità della Repubblica e quello dell’unità dello Stato.
Lo slancio decentralizzatore si era infranto contro il rigore della giurisprudenza del Consiglio costituzionale che faceva prevalere una stretta interpretazione di questi principi e ostacolava le novità troppo avanzate. Senza commentare il corso di questa giurisprudenza, due episodi recenti meritano di essere ricordati. Questi mostrano perfettamente l’esaurimento della dinamica decentralizzatrice iniziata negli anni ’80. Il primo riguarda la disciplina dello statuto della Nuova Caledonia, l’ordinamento della quale, da venti anni, è stato oggetto di molteplici modifiche. Dunque nel 1998 ha potuto essere raggiunto un accordo politico, tra il Governo francese e le principali formazioni di questo lontano territorio, che promuoveva il principio originale di una sovranità condivisa e l’introduzione di una cittadinanza locale. Nessuno dubita che questo accordo, trasportato sul piano legislativo, avrebbe subito la censura del Consiglio Costituzionale. Infatti per avallarlo in termini giuridici, si è ritenuta necessaria una revisione costituzionale speciale, che ha dato vita ad un nuovo titolo 13 della Costituzione dedicato in via particolare a questo vecchio territorio d’oltre mare.
Il secondo esempio riguarda la Corsica, la cui organizzazione istituzionale sollecita da più di dieci anni l’immaginazione parlamentare. Molto di recente un nuovo progetto di statuto, avviato dal Governo Jospin, che mirava - a titolo sperimentale e sotto il controllo del Parlamento – a conferire all’assemblea territoriale un potere di adattamento delle leggi in ambiti precisi e limitati, si è scontrato con l’intransigenza del Consiglio Costituzionale secondo il quale il potere legislativo appartiene esclusivamente al Parlamento nazionale. Il secondo atto di décentralisation esigeva proprio una riforma sostanziale del nostro quadro costituzionale.

2° La genesi della revisione
Il progetto di legge costituzionale relativo all’organizzazione decentralizzata della Repubblica è stato oggetto di un procedimento di adozione relativamente rapido. Presentato all’inizio del mese di ottobre del 2002, è stato votato nel mese di dicembre e ratificato nel marzo del 2003. Eppure la sua deliberazione non è stata così agevole come questo stretto calendario potrebbe lasciar supporre. Certo, le grandi formazioni politiche erano largamente favorevoli all’idea di un rilancio del processo di décentralisation, le cui vie, d’altronde, erano state ampiamente esplorate nel quadro della precedente legislatura. Ma il normale gioco del dibattito democratico, così come le forti riserve espresse dal Consiglio di Stato, chiamato a dare il suo parere, a titolo consultivo, sul progetto discusso, hanno particolarmente complicato il compito del Governo. Le reticenze nei confronti del progetto hanno naturalmente superato le differenze di parte. Sarebbe eccessivo sostenere che il suo esame ha riacceso la querelle tra Giacobini e Girondini; tuttavia nei differenti gruppi politici si sono trovate voci dissenzienti per contestare, sia il principio, sia le modalità tecniche del progetto presentato. Il ruolo dei parlamentari di sinistra era quello di difendere il principio dell’uguaglianza repubblicana tradizionalmente inteso e probabilmente rimesso in discussione dalla riforma; ma sono anche stati espressi dei punti divergenti all’interno della maggioranza parlamentare divisa tra la destra sovranista e la corrente di centro considerata federalista ed europeista. Così sono state pronunciate parole aspre, soprattutto da parte del Presidente dell’Assemblea nazionale – Jean-Louis Debré- che denunciavano «la tentazione di passare, da un giacobinismo esacerbato, ad un integralismo decentralizzatore» e sottolineavano che «la décentralisation non deve essere una grande svendita che ridurrebbe la Repubblica in frantumi». Queste argomentazioni sono state riprese, all’interno del Governo, dal Ministro del Lavoro M. François Fillon il quale temeva che si passasse «da un giacobinismo soffocante ad un girondinismo stravagante». Ad un certo punto del dibattito, alcuni credettero persino di cogliere una divergente valutazione tra il Presidente della Repubblica – il quale dichiarava che «questa riforma impiegherà parecchio tempo a dare i suoi frutti perché essa non parla direttamente ai francesi» - e il Primo ministro il quale sottolineava che «la décentralisation è una riforma che non è fatta per gli esperti o gli specialisti ma per i cittadini».
Fatto sta che la tensione crebbe di grado quando il Consiglio di Stato fece conoscere il suo parere sul testo, complessivamente sfavorevole, criticando vari punti chiave del progetto, come il diritto alla sperimentazione delle collettività territoriali, la possibilità di referenda locali e lo spazio riconosciuto alla décentralisation in rapporto agli acquis républicains, rappresentati dal principio di uguaglianza e dall’indivisibilità della Repubblica. I poteri pubblici non concedevano molto credito a questo parere, ma la legge votata da ciascuna delle due camere del Parlamento non fu sottomessa a referendum, contrariamente all’impegno iniziale del Presidente della Repubblica; essa fu ratificata dal Congresso secondo una delle modalità previste dall’articolo 89 della Costituzione. Il dibattito ha conosciuto il suo epilogo giuridico davanti al Consiglio Costituzionale il quale, secondo una giurisprudenza ben consolidata, non ha potuto che declinare la sua competenza, trattandosi di una legge votata dall’organo di rappresentanza nazionale, con la maggioranza richiesta dei tre quinti dei voti espressi, che mirava in maniera precisa a revisionare la norma fondamentale.

Si capirà bene la portata e la posta in gioco di questo secondo atto di décentralisation iniziando dalla definizione di Jacques Chirac secondo il quale si tratta «di aprire una via nuova tra lo statualismo giacobino e un federalismo contrario alla nostra storia come alla nostra esigenza di uguaglianza». In effetti il progetto adottato non compie una scelta tra le differenti prospettive istituzionali classicamente conosciute. Se sicuramente si è ricercato un approfondimento del processo di décentralisation, tuttavia non si tratta di trasformare la natura dello Stato. La Francia non sceglie il federalismo né la forma dello Stato regionale, cara ai nostri vicini mediterranei. Essa intraprende una via inedita che oscilla:
- sul piano dei principi, tra décentralisation e sussidiarietà
- sul piano delle tecniche, tra l’uniformità e la diversità.

TRA DÉCENTRALISATION E SUSSIDIARIETA’
Fino all’attuale revisione lo statuto costituzionale delle collettività territoriali era caratterizzato da quello che noi chiamiamo «principio di libera amministrazione»: formula magica ma poco esplicita, se non fosse che il riferimento all’amministrazione escludeva chiaramente la loro azione dal campo e dalla gestione degli affari politici. Enunciato dagli articoli 34 e 72 della Costituzione, questo principio non era stato meglio esplicitato dalla legislazione successiva; al più la dottrina faceva osservare che esso non doveva essere confuso con la nozione di «décentralisation». Infatti la décentralisation si riferisce strettamente ai rapporti tra lo Stato e gli enti territoriali, mentre la libera amministrazione comprende anche le relazioni che si stabiliscono tra le stesse collettività territoriali; tanto che lo stesso termine décentralisation non era presente in Costituzione. In mancanza di altre indicazioni, spettò dunque alla giurisprudenza determinare il senso e la portata del principio di libera amministrazione. Ma, come è stato detto, il Consiglio costituzionale ha dato prova, a tal riguardo, di grande prudenza se non addirittura di eccessivo ritegno. Senza pretendere di dare una definizione precisa o un contenuto concreto al principio, esso si è accontentato di delimitare uno spazio, all’interno del quale diverse soluzioni sono possibili e ugualmente conformi a Costituzione. Per fare ciò il Consiglio costituzionale ha escluso due soluzioni estreme:
- quella dell’autonomia locale (o self-government) perché, in nome del carattere unitario dello Stato, si ritiene che la gestione degli affari locali non rivesta carattere politico. Il prefetto inoltre deve poter esercitare un controllo di legalità sugli atti delle autorità decentralizzate, investendo, all’occorrenza, il giudice amministrativo.
- quella della gestione centralizzata degli affari locali, stabilendo che «ogni collettività deve disporre di un consiglio eletto, dotato di funzioni effettive», che le elezioni locali devono svolgersi secondo una «periodicità ragionevole» e che le autorità decentralizzate devono disporre di una certa libertà di decisione per il reclutamento dei funzionari territoriali.
Ma, in conclusione, il contenuto giuridico del principio di libera amministrazione rimaneva relativamente povero, tanto che il Consiglio costituzionale non era mai stato chiamato a risolvere eventuali conflitti di competenze tra lo Stato e le collettività territoriali. Dunque non sorprende il fatto che nel 2003 il costituente abbia dato al principio un contenuto più sostanziale; la sorpresa viene piuttosto dal fatto che esso abbia deciso di inserire nel corpus costituzionale le due nozioni di «décentralisation» e «sussidiarietà». Questa imprevista associazione non fa che aprire delle prospettive estremamente aleatorie.

A Un’associazione imprevista
Praticamente sconosciuta nell’ordinamento giuridico nazionale, la sussidiarietà vi ha fatto un ingresso degno di nota, con la revisione costituzionale del 2003; e il paradosso della situazione consiste nell’irruzione concomitante della nozione di décentralisation che rientra in una logica giuridica differente. Come giungere a conciliare dei principi che rientrano nel campo di problematiche istituzionali opposte?

1° Il contrasto dei principi
Décentralisation e sussidiarietà dipendono da forme istituzionali a priori incompatibili: quella dello Stato unitario da una parte, quella del federalismo dall’altra.
La décentralisation poggia su un postulato e suppone una pratica politica volontarista. Il postulato – di solito implicito – consiste nella considerazione che la gestione degli affari pubblici è certamente di competenza dello Stato. Quale incarnazione giuridica della nazione, lo Stato esercita un dominio su tutte le sue componenti e, per far ciò, detiene la totalità delle competenze di cui regola l’esercizio secondo la sua convenienza. Bisogna partire da questa premessa per capire le diverse nozioni di deconcentramento e di décentralisation. Certo, l’una e l’altra implicano un trasferimento di competenze; ma nel primo caso questo trasferimento opera a vantaggio delle autorità designate (come il prefetto) o degli uffici (i rappresentanti locali dei principali ministeri), che agiscono in nome e per conto dello Stato, mentre, nel secondo caso, la devoluzione delle competenze avviene a vantaggio delle collettività territoriali, le quali, si ricorda, sono amministrate attraverso consigli democraticamente eletti. Tuttavia il trasferimento di competenze resta sempre prerogativa dello Stato; è allo Stato che spetta la decisione sovrana sulla natura e sul livello di esercizio delle competenze pubbliche. E’ in questo senso che si può affermare che la décentralisation è un caso di volontarismo politico.
La sussidiarietà fa riferimento ad una filosofia politica e sociale diametralmente opposta e si adatta a pratiche istituzionali diverse. Si tratta di conciliare libertà individuale, giustizia sociale ed efficienza in un’ottica sprovvista di a priori. Dunque, applicato all’organizzazione delle pubbliche istituzioni, il principio non accorda alcun privilegio né particolare favore allo Stato. L’intervento di quest’ultimo non è di certo escluso dalla gestione degli affari sociali ma non è considerato come primario o decisivo, tanto che – ed è questa la dimensione federalista del principio – gli enti territoriali, che lo costituiscono, spesso preesistono alla sua formazione; essi dunque hanno dei diritti da far valere, che sono anteriori se non superiori a quelli dell’autorità statale. Il principio di sussidiarietà permette, in questo contesto, di armonizzare l’azione degli enti federati e dello Stato federale. Ciò avviene in maniera dinamica, perché l’articolazione del principio permette degli aggiustamenti puntuali e periodici generalmente regolati, al di là del testo costituzionale, attraverso gli interventi della giurisprudenza. Però il costituente francese è riuscito nell’impresa di mantenere l’ambiguità, facendo riferimento ad entrambi i termini nella revisione operata.

2° Il duplice riferimento testuale
Oramai il riferimento alle due nozioni figura in titoli diversi del testo costituzionale; ma il loro inserimento ha suscitato aspre controversie. Bisognava citare espressamente la nozione di décentralisation in Costituzione, dal momento che, come si è detto, il principio di libera amministrazione, che la comprende e la supera, vi figura già? E nel caso affermativo, dove collocare questo riferimento? La volontà del Governo di inserire tale nozione nell’articolo 1 del testo ha suscitato una grave polemica. In effetti alcuni hanno potuto osservare che una tale iniziativa era inopportuna perché la décentralisation attiene all’organizzazione amministrativa dello Stato; essa dunque non è un valore normativo dello stesso rango «dell’uguaglianza» o «dell’indivisibilità della Repubblica» che sono già presenti nel primo articolo della legge fondamentale. Ma precisamente i fautori della riforma intendevano bilanciare il famoso principio di indivisibilità con le esigenze di décentralisation e dunque il progetto è stato adottato tale e quale; ciò che rende ormai molto singolare la formulazione di questo articolo. In esso infatti si legge: «La Francia è una Repubblica indivisibile, laica, democratica e sociale…La sua organizzazione è decentralizzata (décentralisée)» tanto che:
- non si sa esattamente quale sia l’oggetto della décentralisation: la Francia, la Repubblica o lo Stato?
- spetterà tanto al giudice costituzionale che al Consiglio di Stato operare la necessaria conciliazione tra l’imperativo dell’indivisibilità e le necessità di décentralisation.
Nelle loro future valutazioni, le autorità pubbliche dovranno tener conto anche del principio di sussidiarietà, che fa un ingresso, surrettizio ma molto concreto, nel corpus costituzionale. A dire il vero la sussidiarietà non era completamente assente dal nostro ordinamento giuridico prima del 2003; ma i riferimenti a tale nozione non erano molto significativi. Se ne era fatto uso nella Charte de la déconcentration del 1992 – che dunque non interessava altro che le funzioni dello Stato – e in una legge del 1999 sullo sviluppo sostenibile. Quest’ultima tuttavia mirava, nell’ottica comunitaria, ad articolare la politica regionale europea e la politica francese di pianificazione del territorio senza comportare precise conseguenze sul piano delle competenze e sull’azione degli enti infra-statuali. L’improvvisa promozione a livello costituzionale della sussidiarietà ha dunque provocato sorpresa e dibattito. Quest’ultimo certamente è rimasto confinato nell’ambito degli specialisti ma ha dato luogo ad uno scontro ai più alti vertici dello Stato. Mentre il Primo ministro insisteva per l’inserimento della sussidiarietà, il Presidente della Repubblica manifestava delle riserve non equivoche nei confronti di una tale iniziativa. Si è dovuto scendere ad un compromesso: formalmente la nozione di sussidiarietà non sarebbe apparsa nel testo ma ad essa si sarebbe fatto riferimento da un punto di vista materiale. Questo ci è valso la curiosa formula che figura all’articolo 72 (co. 2) della Costituzione: «Le collettività territoriali hanno vocazione (vocation) a prendere decisioni per l’insieme delle competenze che possono essere realizzate al loro livello». La formula è sufficientemente sibillina per lasciar spazio a molteplici applicazioni.

B Prospettive aleatorie
La revisione costituzionale schiude larghe prospettive che sarebbe prematuro racchiudere in un pronostico perentorio. Ma non è proibito sottolineare le incertezze che la circondano e che riguardano, allo stesso tempo, la vaghezza del principio di sussidiarietà e i rischi derivanti dal conflitto con il principio della décentralisation.

1° La vaghezza della sussidiarietà
E’ diventato banale stigmatizzare il carattere incerto e impreciso della sussidiarietà, cosa che, a priori, lascia poche speranze per la sua realizzazione in un paese che ne ignora la cultura! Tale dubbio sorge di fronte alla constatazione che la sussidiarietà non incontra ostilità di principio e sembra raccogliere il consenso delle dottrine più diverse. Una tale unanimità non può fare a meno di suscitare qualche sospetto! Infatti la sussidiarietà consente diverse interpretazioni, modera ogni suscettibilità e dà fondamento alle speranze più antagoniste. I difensori dell’accentramento così come i fautori della décentralisation pensano di rintracciarvi argomenti per sostenere la loro causa, sull’esempio del modo in cui si evolve il dibattito a livello europeo. A Maastricht ognuno si è accordato per mantenere il principio ma con finalità diverse: infatti mentre gli organismi comunitari intendono applicarlo in un senso accentratore, invece i rappresentanti degli Stati membri sperano di utilizzarlo a loro vantaggio, ma il punto di equilibrio attuale è piuttosto vicino al punto di vista comunitario. L’ambiguità fondamentale del principio di sussidiarietà consiste nel fatto che esso intende combinare due parametri: quello della prossimità e quello dell’efficienza. Le competenze devono essere esercitate al livello d’intervento più vicino ai cittadini, purchè questo sia tecnicamente il più appropriato. Privilegiando il criterio della prossimità, si deve logicamente far prevalere una interpretazione decentralizzatrice del principio; ma se l’accento è messo sul criterio dell’efficienza, ciò può portare a riconsiderare la precedente posizione ed a promuovere il significato centralizzatore della nozione. E’ sicuramente prematuro supporre in quale maniera sarà realizzata la sussidiarietà; ma qualche indizio lascia supporre che la prospettiva decentralizzatrice non sarà necessariamente privilegiata. Se, prima della legge costituzionale del 2003, sotto l’egida del Governo Jospin, era stata adottata una legge relativa à la démocratie de proximité (27 febbraio 2002), una lettura attenta delle nuove disposizioni costituzionali sembra iscriversi in un’ottica di affievolimento di quest’ultima prospettiva. Anche se nessuno dei due termini è formalmente utilizzato nella riforma, la nozione di efficienza, preferita a quella di prossimità nell’articolo 72, non esclude in definitiva un «ri-accentramento» di alcune competenze a vantaggio dello Stato.

2° I rischi della riforma
L’accentuarsi della décentralisation unitariamente all’attuazione della sussidiarietà, fa correre alla gestione dei pubblici interessi un triplice rischio.
La prima minaccia è quella di un aggrovigliamento di competenze e di una diluizione delle responsabilità, contrariamente alla volontà politica ufficialmente manifestata. Due elementi, non ancora accennati, peseranno fortemente in questo senso. Da una parte il fatto che la ripresa della décentralisation interverrà in un quadro istituzionale immutato: infatti il Presidente della Repubblica ha di colpo allontanato ogni minaccia alle strutture amministrative esistenti, dipartimenti e cantoni compresi. Dall’altra parte la permanenza di quella che comunemente è stata chiamata «clausola di competenza generale», secondo la quale una collettività territoriale può sempre intervenire in un qualunque settore della pubblica attività quando un interesse pubblico locale lo giustifica, anche se la competenza è stata conferita dalla legge ad un altro ente territoriale (CE 29 giugno 2001, Comune di Mons-en-Baroeul, AJDA 2002,p.42, nota Y. Jegouzo). Dunque la determinazione del livello appropriato di esercizio di una competenza susciterà sicuramente delle controversie e, senza nessun dubbio, un abbondante contenzioso; quanto alla verifica del criterio di efficienza – migliore gestione e vantaggi per gli amministrati – anch’essa promette serie discussioni. Rendere meno rigide le relazioni tra lo Stato e le collettività locali è una preoccupazione lodevole che tuttavia rischia di comportare ulteriori complicazioni.
Il secondo rischio, osservato nelle esperienze costituzionali di altri paesi, è che l’applicazione del principio di sussidiarietà – per quanto prevalga un approccio decentralizzatore - finisca per privilegiare una determinata categoria di collettività territoriali. Molto esplicitamente, nel caso francese, la collettività «privilegiata» dovrà essere la regione; più indizi depongono in tal senso: innanzitutto la disposizione puramente formale che ha condotto a consacrare l’esistenza delle regioni sul piano costituzionale; inoltre, e soprattutto, la supremazia (primauté) regionale dovrà logicamente risultare dalla nuova disposizione della legge fondamentale, secondo la quale «quando l’esercizio di una competenza necessita del concorso di più collettività territoriali, la legge può autorizzare una tra queste a organizzare le modalità della loro azione comune» (articolo 72 co.5). Questa norma, che tende chiaramente a mettere in scacco una precedente giurisprudenza costituzionale, dovrà permettere di designare, per l’elaborazione e l’attuazione di questa o quella politica pubblica o per la realizzazione di importanti lavori di impianto o di infrastruttura, quella che viene chiamata «collettività capofila»: quindi non si vede come, il più delle volte, questa qualità non potrà essere riconosciuta alla regione.
Infine non deve essere sottovalutato il pericolo, che non è proprio dell’esperienza francese ma che è insito in ogni politica di décentralisation, di una ricostituzione delle feudalità locali e di una balcanizzazione delle regioni. D’altronde questa preoccupazione ha giustificato, da molto tempo, l’immobilismo e l’inerzia dei poteri pubblici, anche se alla lunga è sembrata un alibi o un pretesto per non fare niente. In ogni caso conviene certamente scongiurare questo rischio con iniziative diverse da quelle dichiarate all’ordine del giorno. Qui ne saranno ricordate semplicemente due: da una parte, il rafforzamento dei poteri delle autorità decentralizzate deve accompagnarsi ad un maggior rigore nella limitazione del cumulo dei mandati, per arginare le derive sempre possibili del nepotismo e del clientelismo; dall’altra il rischio endemico di corruzione degli eletti a livello locale deve essere bilanciato attraverso il rafforzamento dei poteri, dei mezzi di azione e di coercizione di giurisdizioni finanziarie, di cui sono dotate le Camere regionali dei conti.


II TRA UNIFORMITA’ E DIVERSITA’
Dopo la Rivoluzione del 1789 e ancor più dopo l’epoca napoleonica, la nozione di uniformità costituisce il cuore della nostra architettura istituzionale. Essa non figura in quanto tale in nessuna disposizione di diritto positivo ma la sua tradizione è solidamente ancorata nel nostro ordinamento amministrativo e sembra il corollario necessario di principi superiori che hanno valore costituzionale. E’ così che essa spontaneamente si ricollega all’unità dello Stato, all’indivisibilità della Repubblica e soprattutto al principio di uguaglianza dei cittadini nelle sue differenti manifestazioni: uguaglianza davanti alla legge, uguaglianza quanto all’accesso e al funzionamento dei servizi pubblici, uguaglianza davanti alle cariche pubbliche…Al contrario, la diversità istituzionale e il pluralismo giuridico che può derivarne sono considerati come tali da generare discriminazioni inammissibili.
Una tale concezione spiega come il Consiglio costituzionale si sia sempre mostrato estremamente riservato nei confronti delle innovazioni relative al diritto delle collettività territoriali, quando quest’ultime venivano ad allontanarsi dal sacrosanto principio dell’uniformità amministrativa. L’esempio dei dipartimenti d’oltremare è a tal riguardo significativo. A più riprese il Consiglio si è opposto ad iniziative legislative che tendevano a differenziare lo statuto dei dipartimenti d’oltremare rispetto a quello dei dipartimenti metropolitani, in quanto solo i «Territori d’oltremare» possono beneficiare di una organizzazione particolare (vecchio articolo 74 della Costituzione), mentre i dipartimenti d’oltremare, rispetto ai loro omologhi continentali, «possono soltanto essere oggetto di provvedimenti di adattamento» (vecchio articolo 73 della Costituzione).
E’ con il metro di questa tradizione che bisogna misurare l’impatto della revisione costituzionale del marzo 2003, che, tuttavia, ormai autorizza la differenziazione statutaria delle collettività territoriali e promuove la loro diversità funzionale.

A La differenziazione statutaria
Il «principio» dell’uniformità amministrativa deve essere correttamente valutato. Esso implicava, non che tutte le collettività territoriali fossero dotate del medesimo statuto, ma che ogni categoria di collettività beneficiasse dello stesso regime e della stessa organizzazione amministrativa. Ora se il principio di unità rimane sempre in relazione con quello di uguaglianza, tuttavia si ritiene che esso non imponga più l’uniformità. L’idea si è progressivamente sviluppata oltremare, prima di essere consacrata sul territorio metropolitano.

1° Il precedente dell’oltremare
Le vecchie colonie francesi, trasformate dopo il 1946 in dipartimenti (DOM) e territori (TOM) d’oltremare, disponevano tradizionalmente di uno statuto, la cui particolarità in rapporto alle collettività metropolitane era più o meno accentuata. In ogni caso questo statuto era lo stesso per tutte le collettività che appartenevano ad una medesima categoria e la sua originalità si misurava dalla distanza presa nei confronti dello statuto delle collettività di diritto comune che costituivano il modello di riferimento. Tuttavia questa problematica si è surrettiziamente invertita. Per una di quelle astuzie di cui la storia è solita, il riferimento al centro si è progressivamente attenuato e la disciplina d’oltremare è diventata un laboratorio istituzionale a cui gli enti metropolitani sono chiamati a ispirarsi…
Il fenomeno è nato con le differenziazioni che sono apparse tra i diversi territori d’oltremare. Secondo le circostanze storiche, alcuni enti – come la Mayotte (1976) e Saint Pierre et Miquelon (1985) – sono usciti dalla categoria dei TOM per diventare delle collettività sui generis, ciascuno dotato di uno statuto specifico. Il fatto si è reso possibile grazie alla disposizione presente nel testo costituzionale secondo la quale «ogni altra collettività territoriale è creata dalla legge» (art. 72 co.1); e il Consiglio costituzionale ha ammesso che una categoria poteva essere costituita anche da una sola collettività! In seguito i due principali TOM, la Polinesia da una parte e la Nuova Caledonia dall’altra, hanno conosciuto delle evoluzioni istituzionali ben diverse: la prima ha beneficiato di un autentico statuto d’autonomia all’interno della Repubblica e la seconda è diventata un «paese» a sovranità condivisa con la Francia al termine di un accordo politico per il quale è stata necessaria nel 1998 una prima revisione costituzionale.
Quindi la categoria costituzionale dei TOM è stata progressivamente svuotata della sua sostanza, ciò di cui prende atto la recente revisione costituzionale, consacrando una nuova divisione binaria che distingue:
- i dipartimenti e le regioni d’oltremare da un lato, lo statuto dei quali resterà simile a quello dei loro omologhi metropolitani
- e le «collettività d’oltremare» dall’altro, sapendo che ognuna di queste collettività sarà dotata di uno statuto proprio che garantirà una larga autonomia.

2° L’estensione alla metropoli
Nel caso delle collettività territoriali metropolitane la differenziazione statutaria è molto meno marcata; non per questo essa non esiste e potrebbe proprio accentuarsi in un prossimo futuro. Allo stato attuale vengono in mente due esempi significativi. Il primo riguarda i grandi agglomerati, nel caso specifico le tre principali città francesi. Dal 1982, Parigi, Lione e Marsiglia dispongono di uno statuto che deroga al diritto comunale ordinario in quanto, oltre che del Consiglio municipale classico, sono dotate di consigli e sindaci di circoscrizione (arrondissements). Ma l’esempio più evidente riguarda la Corsica, lo statuto della quale è stato «sganciato» dal 1991 dal diritto comune regionale ed essa costituisce da allora – a dispetto del fallimento del recente referendum locale che doveva allargare il suo campo d’autonomia – una collettività territoriale sui generis. L’opinione secondo la quale questa differenziazione è suscettibile di ampliamento si fonda su due considerazioni. Da una parte, al momento della discussione parlamentare sulla revisione costituzionale, il Presidente della Repubblica, che si esprimeva davanti alla DATAR (Délégation à l’aménagement du territoire et à l’action régionale), invitava, nello scorso mese di febbraio 2003, «ogni territorio a trovare l’organizzazione che convenga al meglio alle sue esigenze»; d’altra parte, questo invito si è riflettuto nel testo revisionato della Costituzione che prevede che «ogni altra collettività territoriale è creata dalla legge, all’occorrenza al posto di una o più collettività» esistenti. Questa formula sibillina apre di fatto la via a possibili associazioni o fusioni di collettività territoriali, realizzate su base volontaria e non più in maniera autoritaria e centralizzata, come avvenne negli anni ’70 con il programma, subito fallito, delle fusioni dei comuni.
Le autorità decentralizzate delle grandi collettività hanno già manifestato le loro intenzioni in questo senso e le proposte fioriscono; progetti di fusione di due dipartimenti: per esempio Haut Rhin e Bas Rhin che formerebbero perciò una regione monodipartimentale, o ancora associazione della Savoie e di Haute Savoie; e lo stesso progetto di unione di diverse regioni: Auvergne e Limousin da un lato, Basse Normandie e Haute Normandie dall’altro. Sul piano costituzionale, la via è aperta per una ricomposizione territoriale di grande portata.

B La diversità funzionale
A ben osservare lo stato del diritto positivo, la diversità funzionale non è totalmente nuova nel diritto francese delle collettività territoriali. Da lunga data, per ragioni storiche, esiste un’eccezione rilevante all’idea secondo la quale tutti gli enti locali sarebbero sottomessi allo stesso regime giuridico e disporrebbero delle stesse competenze. Tale eccezione riguarda i due dipartimenti alsaziani e quello della Moselle che sono stati annessi dalla Germania dal 1870 al 1918, poi dal 1940 al 1945. A questa epoca risale un accentuato particolarismo istituzionale, poiché continua a prevalere, in questi tre dipartimenti, quello che comunemente è chiamato «diritto locale», cioè, in concreto, la legislazione tedesca allora in vigore. L’osservazione sarebbe insignificante se questo diritto locale non fosse, in certi ambiti, gravemente lesivo di alcuni principi repubblicani, come quello della laicità, per esempio.
Ma d’altronde, è vero che, fino ad oggi, ogni categoria di collettività territoriali era dotata, per volontà del legislatore nazionale, di competenze identiche che erano tenute ad esercitare senza poterne delegare l’esercizio, con l’eccezione di dispositivi che autorizzassero tali trasferimenti particolarmente nel quadro della cooperazione intercomunale. Ora è proprio questo principio che la revisione costituzionale mette in discussione, attraverso una facoltà di sperimentazione che suscita inquietudini e riserve.

1° La consacrazione della facoltà di sperimentazione
Una tale facoltà è ormai riconosciuta alle collettività territoriali al termine di un iter complesso, la genesi del quale merita di essere ricordata perché chiarisce le difficoltà di ogni politica di décentralisation. C’è stato bisogno infatti del fallimento combinato di due differenti iniziative perché la situazione si risolvesse nel quadro della revisione costituzionale.
Una proposta di legge costituzionale che mirava ad introdurre nella Costituzione un diritto alla sperimentazione per le collettività territoriali era stata adottata nel 2001, ma solo in prima lettura e dalla sola Assemblea nazionale. Parallelamente era iniziata davanti al Parlamento una discussione sul futuro statuto della Corsica, preceduta da trattative condotte con tutti i rappresentanti eletti dell’isola, adottata, all’inizio del 2002, con legge ordinaria che prevedeva, essa stessa, il ricorso alla sperimentazione. Però questa legge fu censurata dal Consiglio costituzionale perché, in certe situazioni, permetteva alle autorità decentralizzate di questa collettività di prendere provvedimenti che rientravano nella competenza della legge, in contrasto con l’articolo 34 della Costituzione che riserva l’esercizio del potere legislativo al Parlamento.
Con la nuova maggioranza politica nata dalle elezioni della primavera del 2002 e nel quadro della revisione costituzionale che si è finalmente realizzata, queste preoccupazioni si sono concretizzate. Superando il caso particolare della Corsica, pur comprendendolo, e senza fare della sperimentazione un vero diritto – come rivendicavano i più ardenti difensori della décentralisation – il Costituente ha preso in considerazione la tecnica e ha previsto la sua eventuale realizzazione. La disposizione adottata – semplicemente enunciata perché il principio dovrà essere oggetto di provvedimenti di applicazione nel quadro di una legge organica – è la seguente. Le autorità decentralizzate possono essere autorizzate, dalla legge o dal regolamento secondo i casi, a derogare, a titolo sperimentale, per un oggetto e una durata limitati, alle disposizioni che regolino l’esercizio delle loro competenze. Una tale sperimentazione è tuttavia formalmente esclusa «quando sono in causa le condizioni essenziali per l’esercizio di una liberté publique o di un diritto costituzionalmente garantito» (art. 72 della Costituzione, nuovo comma 4).

2° I pericoli
Il metodo della sperimentazione istituzionale è a priori sorprendente e la pertinenza del procedimento solleva molti interrogativi. Innanzitutto perché la sperimentazione genera insicurezza e misconosce i valori della continuità e della stabilità inerenti alla nozione di ordinamento giuridico. I testi che vi si ispirano hanno un’applicazione limitata nello spazio o nel tempo, in rottura con le esigenze di generalità e impersonalità che caratterizzano la norma classica. Lo stesso Consiglio costituzionale non ha elevato a valori supremi l’accessibilità e l’intelligibilità della regola di diritto?
Ma senza dubbio l’aspetto fondamentale delle future pratiche di sperimentazione riguarda il principio d’uguaglianza. Si sarà notato che questo principio non è accennato dalla riforma che ha promosso questa nuova facoltà a vantaggio delle collettività territoriali. Ora, indubbiamente, le varie modulazioni dell’esercizio delle competenze che possono essere devolute alle autorità decentralizzate, inevitabilmente comporteranno delle disparità di trattamento tra i cittadini secondo la loro collettività di appartenenza o di residenza.
Il trasferimento di competenze che lo Stato è disposto a concedere alle collettività territoriali e il margine di manovra che sta per accordare loro in nome della sperimentazione, si rivoltano già contro di esso. Quale sforzo lo Stato è in grado di effettuare per evitare l’aumento delle disparità, per rafforzare la solidarietà tra gli spazi economici e le loro componenti umane, al fine di garantire la coesione sociale del paese? In una parola, come realizzare la nuova alleanza della diversità e della solidarietà?

Conclusioni
E’ opportuna un’ultima considerazione a proposito dei cosiddetti meccanismi di democrazia partecipativa promossi dalla revisione costituzionale. Si conosce l’avversione del nostro sistema rappresentativo per tali meccanismi; essi fino ad oggi erano efficaci solo nel quadro, ormai superato, delle procedure di fusione dei comuni. Ora la revisione costituzionale riserva ad essi uno spazio, sotto la forma del nuovo articolo 72-1 che prevede tre distinte modalità.
Per prima cosa è stabilito un diritto di petizione a favore dei cittadini. Questi possono chiedere che venga iscritto all’ordine del giorno di un’assemblea locale l’esame di una questione che rientra nella sua competenza; ma si tratta di una semplice proposta priva di efficacia vincolante.
In seguito, le autorità territoriali possono decidere di organizzare un referendum locale concernente l’esercizio di una attribuzione che gli è stata legalmente conferita; se niente può obbligare le autorità locali a una tale consultazione, al contrario il risultato di quest’ultima ha pieno valore di decisione.
Infine il Parlamento può prendere l’iniziativa di consultare la popolazione interessata quando si tratti di dar vita a una collettività dotata di uno statuto particolare o di modificare la sua organizzazione; in questo caso, il risultato della consultazione, in teoria, non vincola il legislatore. Tuttavia è difficile immaginare che l’esito della votazione popolare non sia tenuto in nessun conto, come esempio si prenda il caso recente della Corsica. Il fallimento registrato può essere considerato come un funesto presagio?



NOTA BIBLIOGRAFICA

1° Actualité juridique Droit administratif n° 11 24 mars 2003

- O. GOHIN : La nouvelle décentralisation et la réforme de l’Etat en France
- J.F. BRISSON : Les nouvelles clefs constitutionnelles de répartition matérielle des compétences entre l’Etat et les collectivités locales
- M. VERPEAUX : Référendum local, consultations locales et Constitution
- R. HERTZOG : L’ambiguë constitutionnalisation des finances locales
- P.L. FRIER : Le pouvoir réglementaire local :force de frappe ou puissance symbolique
- J.P. THIELLAY : Les outre-mers dans la réforme de la Constitution

2° Revue du droit public et de la science politique 2003 n° 1 et 3

- J.F. BRISSON : La France est une République indivisible….Son organisation est décentralisée, p. 111
- M. DOAT : Vers une conception a-centralisée de la France, p.115
- B. FAURE : Réforme constitutionnelle et décentralisation, p. 119
- C. GESLOT : La loi constitutionnelle relative à l’organisation décentralisée de la République devant le Conseil constitutionnel, p. 795

3° Revue française de droit administratif n° 4 2003

- M. VERPEAUX : La loi constitutionnelle du 28 mars 2003 relative à l’organisation décentralisée de la République : libres propos
- P. DOLLAT : Le principe de l’indivisibilité et la loi constitutionnelle relative à l’organisation décentralisée de la République : de l’Etat unitaire à l’Etat uni
- O. GOHIN : L’outre-mer dans la réforme constitutionnelle de la décentralisation
















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