OSSERVAZIONI GENERALI

I. IL GIUDIZIO SULLE LEGGI

... OMISSIS ...


2. Il giudizio in via principale
2.1. Considerazioni introduttive; il sopravvenire del nuovo Titolo V
2.2. L'impugnativa di "leggi statutarie" delle regioni speciali
2.3. La "scissione dei ricorsi"
2.4. I soggetti ricorrenti
2.5. L'intervento dei terzi nel giudizio principale
2.6. La genericità e la sufficienza del ricorso
2.7. L'impugnazione di un'intera legge
2.8. La determinazione dell'oggetto del ricorso nella delibera del Consiglio dei ministri
2.9. Il parametro del giudizio
2.10. La "parità delle armi" tra Stato e regioni dopo la riforma del Titolo V
2.11. Il permanere del peculiare meccanismo di impugnazione delle leggi regionali siciliane
2.12. Le ordinanze di cessazione della materia del contendere e di estinzione del giudizio
2.13. Altri tipi di decisione nel giudizio principale


II. GLI ALTRI GIUDIZI

1. Il conflitto di attribuzioni tra Stato e regioni

1.1. Considerazioni introduttive
1.2. Il profilo soggettivo
1.3. Il profilo oggettivo: l'atto lesivo
1.4. La definizione del giudizio

... OMISSIS ...

III. IL CONTENUTO DELLE DECISIONI

... OMISSIS ...

4. La riforma del Titolo V
4.1. Considerazioni introduttive
4.2. L'autonomia statutaria
4.3. Gli organi della regione
4.4. La potestà legislativa regionale
   4.4.1. La possibilità per lo Stato di attrarre competenze legislative al di fuori dell'art.117, comma 2, in nome del principio di sussidiarietà
   4.4.2 Rapporti tra legge statale e legge regionale
   4.4.3. La definizione delle materie: aspetti generali
   4.4.4. La definizione delle materie: l'art.117, comma 2
   4.4.5. La potestà legislativa concorrente (art.117, comma 3)
   4.4.6. La potestà legislativa regionale residuale (art.117, comma 4)
   4.4.7. Le competenze delle regioni a statuto speciale (art.10 legge cost. 3/2001)
   4.4.8. Diritto comunitario e competenze regionali
   4.4.9. Regolamenti governativi e competenze regionali (art.117, comma 6)
   4.4.10. Il potere estero (art.117, comma 9)
   4.4.11. Le funzioni amministrative
   4.4.12. L'autonomia finanziaria
   4.4.13. Il potere sostitutivo
   4.4.14. Le modifiche territoriali





Osservazioni generali
 
Nel corso del 2003 la Corte ha tenuto 39 adunanze, distribuite in 17 udienze pubbliche e 22 camere di consiglio. Ha emesso nel complesso 382 decisioni, 134 sentenze e 248 ordinanze (che rappresentano, rispettivamente, il 35% e il 65% del totale), definendo 609 giudizi.
La Corte ha operato nella sua composizione completa, costituita da 15 giudici.
In un solo caso (sentenza 116) si riscontra la mancata coincidenza tra giudice relatore e giudice redattore della pronuncia.
Le decisioni hanno riguardato per il 65,18% giudizi in via incidentale, per il 14,92% giudizi in via principale, per il 6,02% conflitti tra Stato e regioni, per l’11,51% conflitti tra poteri dello Stato, per l’1,57% giudizi di ammissibilità del referendum abrogativo. Tre ordinanze sono di correzione di errori materiali.
Lo spazio assunto dal giudizio principale risulta più evidente considerando esclusivamente il numero delle sentenze. Infatti, su un totale di 134 sentenze, il 40,29% è emesso nel giudizio incidentale, il 35,92% nel giudizio principale, il 13,43% nei conflitti tra Stato e regioni, il 5,22% nei conflitti tra poteri dello Stato, il 4,47% nel giudizio sull’ammissibilità del referendum abrogativo.
Comparando questi dati con quelli degli ultimi anni risulta che, in un contesto caratterizzato dalla diminuzione del numero totale delle pronunce (erano state 471 nel 1999, 592 nel 2000, 447 nel 2001, 535 nel 2002), il rapporto tra ordinanze e sentenze, pur rimanendo in linea con la tendenza, presente fin dalla metà degli anni ’90, alla progressiva riduzione del numero delle sentenze (nel triennio 1999-2001 le sentenze hanno costituito il 31,85% del totale delle decisioni, mentre nel 2002 sono state il 25,23%), vede una netta ripresa della percentuale delle sentenze, che non pare imputabile al giudizio incidentale (nel cui ambito le sentenze rappresentano nel 2003 il 21,68%, a fronte di una media del triennio 1999-2001 del 24,37% e del 20% nel 2002).
L’incremento percentuale delle sentenze si collega essenzialmente alla riduzione del peso del giudizio incidentale, e alla crescita di  quello degli “altri giudizi”, nel cui ambito la quasi totalità delle pronunce è rappresentata da sentenze.
Anche qui, può aiutare una comparazione diacronica.
Le pronunce emesse nel giudizio incidentale, limitandosi a considerare i dati successivi al periodo del c.d. “smaltimento dell’arretrato” (seconda metà degli anni ’80), hanno oscillato, nel periodo 1987-2001, tra il 76,84% (nel 1988) e il 90,04% (nel 1987), rappresentando mediamente oltre i 4/5 di tutte le decisioni della Corte (l’84,29% nel 2002). Nel giudizio principale, la percentuale media è stata del 7,17%, con oscillazioni che vanno dal 2,76% del 1998 all’11,14% del 1988, mentre nel 2002 ci si è attestati sul 5,6%. Quanto ai conflitti Stato-regioni, anche qui, a fronte di una media di circa il 5% si sono registrate notevoli oscillazioni, dal 2,19% del 2000 all’11,06% del 1988 (il 2,24% nel 2002). Circa i conflitti tra poteri, la media di tutto il periodo è intorno al 6%, ma si registra una crescita pressoché costante (8% nel triennio 1999-2001, 7,28% nel 2002). Le percentuali riguardanti le pronunce sull’ammissibilità del referendum abrogativo sono meno facilmente inquadrabili in tendenze della giustizia costituzionale, dipendendo da vicende politiche, ciascuna delle quali presenta caratteri a sé.
L’attività della Corte nel corso del 2003 è stata quindi dedicata, per larga parte, al contenzioso Stato-regioni (cui si riferisce quasi il 50% delle sentenze, se si sommano i dati del giudizio principale e del conflitto tra enti). Tra le due grandi funzioni che caratterizzano gli organi della giustizia costituzionale (e che ne hanno connotato, storicamente, l’origine), ovvero quella di arbitraggio della ripartizione delle competenze e quella di difesa costituzionale delle libertà, prevale, forse per la prima volta nella storia della Corte costituzionale italiana, la funzione arbitrale.
Il merito delle decisioni rispecchia pienamente il grande rilievo, anche qualitativo, assunto dal giudizio sui rapporti tra Stato e regioni.
Infatti, come si vedrà, le pronunce relative ai “diritti e doveri dei cittadini”, che sono prevalentemente, anche se non esclusivamente, conseguenza del giudizio incidentale, tendono a collocarsi nella linea di sviluppo di giurisprudenza sperimentata e consolidata.
È il campo dei rapporti Stato-regioni quello in cui si possono rintracciare le maggiori novità. La riforma del Titolo V, realizzata con la legge costituzionale 3/2001, ha messo la Corte di fronte a norme costituzionali “nuove di zecca”, chiamandola a una complessa opera di interpretazione, nell’ambito della quale un ausilio limitato ha fornito la precedente giurisprudenza.
 Nel corso del 2002 la maggior parte delle decisioni in questo settore aveva riguardato ricorsi promossi nella vigenza del vecchio Titolo V, o problemi di diritto intertemporale, collegati al sopravvenire del nuovo parametro costituzionale, in assenza, tra l’altro, di disposizioni transitorie. E invece nel 2003 che si affronta decisamente  il merito delle questioni. Definendo il riparto delle competenze, peraltro, la Corte è in molti casi chiamata ad affrontare problematiche relative a diritti fondamentali: basti pensare al tema della tutela della salute, alla disciplina delle comunicazioni, alla tutela dell’ambiente, alla determinazione dei livelli essenziali dei diritti civili e sociali. D’altra parte, non è questo un fenomeno sorprendente, in quanto le più antiche esperienze di giustizia costituzionale (a partire da quella degli Stati Uniti) testimoniano che dietro controversie che si configurano formalmente come  conflitti di competenza, spesso si celano questioni relative alla garanzia dei diritti.
Quanto alle questioni pervenute alla Corte nel corso del 2003, si tratta di ben 1196 ordinanze che promuovono giudizi incidentali, di 98 ricorsi in via principale, di 15 ricorsi che promuovono conflitti tra enti, di 22 ricorsi che promuovono conflitti tra poteri dello Stato (cui vanno aggiunti 26 ricorsi ancora da delibare in sede di giudizio di ammissibilità) e di un giudizio di ammissibilità di referendum abrogativo. Un esame delle ordinanze di rimessione mostra, peraltro, che la maggior parte (ben il 56,35%, pari a 674 ordinanze) pone questioni relative alla nuova disciplina dell’immigrazione, spesso identiche. Il 13,55% delle questioni, inoltre, riguarda il processo penale e il 5,43% il nuovo codice della strada. Volendo, su tale base, allungare uno sguardo prospettico sul 2004, pertanto, pare di poter affermare che anche nell’anno in corso la maggior parte dell’attività della Corte sarà dedicata alla definizione dei rapporti Stato-regioni, in piena continuità con quanto avvenuto nel 2003.

2. Il giudizio in via principale
 
2.1. Considerazioni introduttive. Il sopravvenire del nuovo Titolo V
 
Nel corso del 2003 la Corte ha emesso 57 decisioni nell’ambito di giudizi in via principale: 48 sentenze e 9 ordinanze. Con queste ultime (in due casi pronunciate a seguito di camera di consiglio: ordinanze 339 e 357) si dichiara estinto il ricorso per rinuncia (ordinanze 67, 230, 281, 342, 357, 382) o cessata la materia del contendere (per mutamento del quadro normativo: ordinanze 15 e 292; per promulgazione parziale con omissione delle norme impugnate di una legge siciliana: ordinanza 339; peraltro, la cessazione della materia del contendere, per i due medesimi motivi è dichiarata in altri casi con sentenza: sentenze 334 e 351).
32 decisioni sono pronunciate su ricorsi statali, 25 a seguito di ricorsi regionali. Si conferma, con una decisa accentuazione, un trend crescente già verificatosi negli anni precedenti, che assume maggiore rilievo se si passa dal valore assoluto a quello percentuale, raggiungendo, con il 14,92% sul totale delle pronunce dell’anno, la cifra più alta mai toccata (si pensi che, ad esempio, nel triennio 1993-1995, era stato toccato il livello massimo con il 9,3%; nel 2002, la percentuale era stata del 5,6%).
16 decisioni riguardano questioni sollevate nella vigenza del vecchio Titolo V, 12 su ricorso regionale e 4 su ricorso statale. In quest’ultimo caso, si tratta di ricorsi del Commissario dello Stato avverso leggi regionali siciliane, gli unici che non siano divenuti improcedibili in conseguenza della modifica dell’art. 127 (la improcedibilità dei ricorsi governativi, nel caso delle regioni ordinarie, era stata affermata dalla sentenza 17/2002, cui hanno fatto seguito altre decisioni, relative alle singole regioni speciali). Le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalle regioni nella vigenza del vecchio Titolo V sono risolte, secondo una giurisprudenza ormai costante a partire dalla sentenza 376/2002, “alla stregua delle previgenti disposizioni costituzionali invocate come parametri” (così le sentenze 28, 37, 91, 92, 93, 96, 103,186, 197, 221, 308, 334). “La Corte infatti, in assenza di nuove impugnazioni, non ha motivo per porsi il problema della compatibilità di quella norma con il sistema cui ha dato vita la riforma, mentre è comunque salva la possibilità che la nuova disciplina sia fatta valere dallo Stato o dalle Regioni mediante nuovi atti di esercizio o di tutela delle rispettive attribuzioni” (sentenza 28).
Qualora, poi, le norme statali impugnate non abbiano prodotto effetti, si dichiara la inammissibilità per sopravvenuta carenza di interesse, in nome del principio di continuità. A partire dalla citata sentenza 376/2002, infatti, la Corte ha espressamente escluso la sopravvenuta illegittimità costituzionale delle norme preesistenti alla riforma, affermando che esse restano in vigore fino a quando non vengono sostituite da nuove norme, dettate dall’autorità competente nel nuovo sistema (così sentenze 196 e 197).
Un caso particolare è quello di un decreto-legge emesso e impugnato nel contesto del precedente sistema di riparto delle competenze, cui si è sostituita, dopo l’entrata in vigore del nuovo Titolo V, una legge di conversione non impugnata. La questione è dichiarata inammissibile, poiché le norme del decreto-legge non hanno trovato applicazione: in assenza si qualsiasi effetto lesivo nei confronti delle regioni si determina una carenza di interesse sopravvenuta. Non si è ritenuto possibile trasferire la questione alle norme della legge di conversione, in quanto ciò  sarebbe dovuto avvenire in riferimento a parametri nuovi: si sarebbe trattato, così, di una “questione diversa rispetto a quella originariamente sollevata, che avrebbe pertanto dovuto essere promossa nei termini di cui al nuovo art. 127” (sentenza 228).
 
2.2.L’impugnativa di “leggi statutarie” delle regioni speciali
 
Nel periodo in esame, la Corte è stata chiamata a giudicare (sentenza 49) la legittimità costituzionale di una legge statutaria della regione Valle d’Aosta. Si tratta di un ricorso di tipo preventivo, previsto da questo come dagli altri statuti speciali a seguito della legge cost. 2/1999, non dissimile da quello di cui all’art. 123 Cost., in riferimento agli statuti delle regioni ordinarie. Nel caso di specie, successivamente alla proposizione del ricorso la legge impugnata, decorso il termine per la richiesta di referendum, è stata promulgata e pubblicata. Con la conseguenza che il giudizio della Corte si è trasformato da preventivo in successivo.
 
2.3.  La “scissione dei ricorsi”
 
Una novità processuale riscontrabile nell’anno è costituita dalla “scissione dei ricorsi”: all’interno di un unico ricorso si individuano questioni relative a materie omogenee, da essere decise con separate decisioni. “Il ricorso, uno nella forma, è plurimo nel contenuto. Esigenze di omogeneità e univocità della decisione inducono a distinguere le materie e a procedere, quindi, alla decisione separata di ciascuna questione o gruppo di questioni”(sentenza 201). In questi casi, il dispositivo della pronuncia si presenta preceduto dalla formula “riservata ogni decisione sulla questione ecc.” (così sentenze 201, 300, 313, 361, 362, 363, 370, 376, 377, 378; v. anche la sentenza 331, che definisce l’ultima delle questioni sollevate dal ricorso già oggetto delle sentenze 201 e 313).
 
2.4. I soggetti ricorrenti
 
Quanto ai soggetti legittimati a proporre ricorso in via principale, la Corte ribadisce, anche dopo la riforma del Titolo V, che tra essi non sono compresi gli enti locali (nella specie il comune). L’art. 127, infatti, affida, “con formulazione dal tenore inequivoco”, la titolarità del potere di impugnazione di leggi statali alla regione, “né è sufficiente l'argomento sistematico invocato dal ricorrente per estendere tale potere in via interpretativa ai diversi enti territoriali” (il ricorrente comune di Vercelli aveva sostenuto che “la revisione del Titolo V della Parte II della Costituzione ha attribuito direttamente ai comuni potestà amministrative e normative che dovrebbero poter essere difese nel giudizio di legittimità costituzionale in via di azione e nel giudizio per conflitto di attribuzione”: sentenza 303).
 
2.5. L’intervento dei terzi nel giudizio principale
 
Inammissibile è stato dichiarato, conformemente a una giurisprudenza costante, l’intervento in giudizio di soggetti terzi interessati alla decisione. In un caso, la motivazione si limita a rilevare il carattere tardivo dell’intervento (sentenza 226), mentre negli altri, indipendentemente dalla eventuale tardività, si ribadisce che “nei giudizi di legittimità costituzionale promossi in via principale non è prevista la possibilità di intervento di soggetti diversi dal titolare delle competenze legislative in contestazione o con queste comunque connesse” (così sentenza 49; v. anche sentenze 226, 303, 307, 315 e 338).
 
2.6. La genericità e la sufficienza del ricorso
 
Riguardo ai caratteri del ricorso, viene ribadito che questo deve identificare esattamente la questione nei suoi termini normativi, quanto ad oggetto, parametro, motivazione delle censure, determinandosi in caso contrario la inammissibilità (sentenze 213, 222, 242, 303): alla Corte spetta l’unico compito di “giudicare sulle questioni così come sono sollevate, un compito che non comprende quello di determinarne l'oggetto e i limiti” (sentenza 313).  E ammissibile altresì la questione promossa sulla base di interpretazioni prospettate dal ricorrente come possibili: “a differenza di quanto accade per il giudizio in via incidentale - il giudizio in via principale (soggetto a termini di decadenza, in quanto processo di parti, svolto a garanzia di posizioni soggettive dell'ente ricorrente) può concernere questioni sollevate sulla base di interpretazioni prospettate dal ricorrente come possibili. Il principio vale soprattutto nei casi in cui su una legge non si siano ancora formate prassi interpretative in grado di modellare o restringere il raggio delle sue astratte potenzialità applicative, e le interpretazioni addotte dal ricorrente non siano implausibili e irragionevolmente scollegate dalle disposizioni impugnate così da far ritenere le questioni del tutto astratte o pretestuose” (sentenza 228).
 
2.7. L’impugnazione di un’intera legge
 
L’impugnazione di una intera legge, se solitamente è inammissibile per genericità delle censure (sentenza 94), è invece ammissibile quando la legge ha un contenuto specifico ed omogeneo (sentenza 359).
 
  
2.8. La determinazione dell’oggetto del ricorso nella delibera del Consiglio dei ministri
 
L'oggetto dell'impugnazione deve essere definito dal ricorso in conformità alla decisione governativa, con la conseguenza che sono inammissibili le questioni sollevate nei confronti di disposizioni che il governo (sulla base di quanto risulta dal verbale del consiglio dei ministri e, ove da questo richiamata, della relazione del ministro per gli affari regionali) non ha deliberato di impugnare (sentenze 315 e 338).
 
2.9. Il parametro del giudizio
 
La Corte ha ritenuto, conformemente alla propria precedente giurisprudenza, che il parametro possa essere costituito anche da una direttiva comunitaria. Infatti,“nei giudizi di impugnazione deve essere tenuto fermo l'orientamento già espresso da questa Corte…, secondo il quale il valore costituzionale della certezza e della chiarezza normativa deve fare aggio su ogni altra considerazione soprattutto quando una esplicita clausola legislativa di salvaguardia del diritto comunitario renda, come nella specie, manifestamente insussistente il denunciato contrasto” (sentenza 303).
 
2.10. La “parità delle armi” tra Stato e regioni dopo la riforma del Titolo V
 
Un problema molto dibattuto dopo la riforma del Titolo V è stato quello della “parità delle armi” tra Stato e regioni nel giudizio principale, sotto il profilo dei vizi denunciabili.
Per quanto riguarda l’interesse a ricorrere delle regioni, la Corte ha avuto occasione di ribadire, riferendosi ad una questione sollevata nella vigenza del vecchio Titolo V, che la violazione dell’art. 97 Cost., sotto il profilo della valutazione di efficienza ed economicità, da parte di una legge statale, è “estranea all’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale promuovibile dalla regione”(sentenza 96). Riguardo, poi, ad una questione sollevata, per eccesso di delega, in riferimento al nuovo titolo V, la Corte ha confermato la propria precedente giurisprudenza, secondo la quale “nel giudizio promosso in via principale il vizio di eccesso di delega può essere addotto solo quando la violazione denunciata sia potenzialmente idonea a determinare una vulnerazione delle attribuzioni costituzionali delle regioni o province autonome ricorrenti” (sentenza 303).
Quanto alla questione se, ai sensi del nuovo art. 127, lo Stato possa dedurre come parametro violato qualsiasi norma costituzionale, ovvero solo quelle concernenti il riparto delle competenze legislative, la Corte, dopo un primo cenno contenuto nella sentenza 94, esprime una posizione netta con la sentenza 274 (richiamata successivamente dalla sentenza 312, nella quale lo Stato invoca a parametro, legittimamente secondo la Corte, l’art. 21 Cost.).
Per affermare che, “pur dopo la riforma, lo Stato può impugnare in via principale una legge regionale deducendo la violazione di qualsiasi parametro costituzionale”, la Corte, oltre al dato letterale, richiama quello sistematico, rilevando che, nel nuovo assetto costituzionale scaturito dalla riforma, allo Stato è “pur sempre riservata, nell'ordinamento generale della Repubblica, una posizione peculiare desumibile non solo dalla proclamazione di principio di cui all'art. 5 della Costituzione, ma anche dalla ripetuta evocazione di un'istanza unitaria, manifestata dal richiamo al rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, come limiti di tutte le potestà legislative (art. 117, comma 1) e dal riconoscimento dell'esigenza di tutelare l'unità giuridica ed economica dell'ordinamento stesso (art. 120, comma 2). E tale istanza postula necessariamente che nel sistema esista un soggetto – lo Stato, appunto – avente il compito di assicurarne il pieno soddisfacimento. Lo stesso art. 114 della Costituzione non comporta affatto una totale equiparazione fra gli enti in esso indicati, che dispongono di poteri profondamente diversi tra loro: basti considerare che solo allo Stato spetta il potere di revisione costituzionale e che i comuni, le città metropolitane e le province (diverse da quelle autonome) non hanno potestà legislativa.”
 
2.11. Il permanere del peculiare meccanismo di impugnazione delle leggi regionali siciliane
 
Dopo la riforma del Titolo V, era stata messa in dubbio la permanente efficacia del meccanismo di impugnazione delle leggi siciliane previsto dall’art. 28 dello statuto speciale: ritenendo che il nuovo procedimento dell’art. 127 garantisca alla Sicilia un maggior margine di autonomia, l’art. 10 della legge costituzionale 3/2001 avrebbe imposto di dichiarare improcedibili i ricorsi proposti prima dell’entrata in vigore del nuovo Titolo V contro le leggi siciliane, così come già avvenuto riguardo ad altre regioni speciali nel corso del 2002 (ordinanze 65 e 377/2002, sentenze 408 e 533/2002).
La Corte, tuttavia, ha ritenuto non essere possibile valutare se il nuovo art. 127 configuri un “forma di autonomia più ampia” rispetto al sistema siciliano: “si tratta di sistemi essenzialmente diversi, che non si prestano a essere graduati alla stregua del criterio di prevalenza”. La conclusione è che il sistema di impugnativa delle leggi siciliane disciplinato dallo Statuto speciale, unico tra quelli previsti dagli statuti speciali, resta tuttora applicabile, salva una sempre possibile modifica statutaria (sentenza 314).
 
  
2.12. Le ordinanze di cessazione della materia del contendere e di estinzione del giudizio
 
Le ordinanze di cessazione della materia del contendere e di estinzione del giudizio lasciano trasparire un fenomeno nuovo nei rapporti Stato-regioni, già segnalato dalla dottrina: scomparso il rinvio governativo a seguito della modifica dell’art. 127, quella che è stata definita come “contrattazione di legittimità” tra Stato e regioni tende ad avviarsi dopo il ricorso statale, e spesso conduce alla approvazione di una nuova disciplina regionale, questa volta non impugnata dallo Stato poiché “contrattata” con reciproca soddisfazione. In questo senso possono  essere lette le ordinanze 15 e 292, di cessazione della materia del contendere, e le ordinanze di estinzione di giudizi su leggi regionali promossi dal governo (67, 281, 342, 357).  I due casi di estinzione di un giudizio promosso da una regione hanno una diversa spiegazione: nella ordinanza 230 si dà atto di una intervenuta intesa tra la regione e il governo, che giustifica la rinuncia al ricorso, mentre la rinuncia al ricorso della regione Umbria, di cui si prende atto nella ordinanza 382, non porta ragioni.
 
2.13. Altri tipi di decisione nel giudizio principale
 
Tra le decisioni non di merito, si possono altresì richiamare: una declaratoria di inammissibilità per aberratio (sentenza 372); una sentenza di cessazione della materia del contendere per abrogazione della norma impugnata, con espressa previsione di inefficacia di tutti gli atti applicativi adottati (sentenza 362).
Meritano poi di essere citate due pronunce interpretative di rigetto, che giungono ad una interpretazione adeguatrice delle norme impugnate, nel senso che esse non si applicano alle province autonome ricorrenti, sulla base di una clausola di salvezza delle loro competenze, che viene valorizzata dalla Corte “indipendentemente dalla lettera della norma e dalla sua collocazione” (sentenze 91 e 228; altre pronunce interpretative di rigetto sono le sentenze 303, 312, 370, 376).
Nel 2003 si rinviene, nel giudizio principale, un’unica dichiarazione di illegittimità costituzionale consequenziale di cui all’art. 27 della legge 87/1953: l’incostituzionalità è estesa ad altra disposizione contenuta nella legge impugnata, che “si pone in inscindibile nesso” con quella annullata (sentenza 338).
In due occasioni è stato chiesto alla Corte di sollevare di fronte a se stessa questione di legittimità costituzionale. In un caso si trattava di istanza della regione resistente relativa alla legge statale invocata dal governo quale parametro interposto; la Corte ha ritenuto la questione manifestamente infondata sulla base di proprie precedenti decisioni (sentenza 226). In una seconda occasione, la provincia autonoma ricorrente ha chiesto alla Corte di sollevare questione di legittimità costituzionale sulle norme della legge 87/1953 che precludono l’applicazione al giudizio principale dell’istituto dell’errore scusabile. La Corte ha escluso la non manifesta infondatezza di una questione di legittimità relativa proprio a “quelle norme legislative che, regolando il processo costituzionale, sono intese a conferire ad esso il massimo di certezza e ad assicurare alle parti il corretto svolgimento del giudizio” (sentenza 303).


II. Gli altri giudizi

1. Il conflitto di attribuzioni tra Stato e regioni
 
1.1. Considerazioni introduttive
 
Nel corso del 2003, 23 sono le pronunce che risolvono conflitti intersoggettivi (pari al 6,02% dell’attività della Corte, contro il 2,24% dell’anno precedente), tutte adottate a seguito di udienza pubblica. Si tratta di 18 sentenze e di 5 ordinanze, due di manifesta inammissibilità (ordinanze 30 e 79) per inidoneità dell’atto oggetto del conflitto, due di cessazione della materia del contendere (ordinanze 53 e 168), una di estinzione del processo per rinuncia (ordinanza 24). Soltanto una decisione è conseguenza di un ricorso statale, mentre ben 22 derivano da ricorsi delle regioni e delle province autonome, a conferma di una tendenza ormai radicata. L’unico ricorso statale (deciso con sentenza 13) concerne l’esercizio del c.d. “potere estero”. Tra le decisioni relative a ricorsi regionali, 3 hanno ad oggetto sentenze (sentenze 29, 276, 326), le altre riguardano atti amministrativi o regolamenti.
Aspetto caratterizzante le pronunce sui conflitti dell’anno 2003 (soltanto 8 decisioni affrontano il merito della controversia) è il tentativo della Corte di salvaguardare il “tono costituzionale” del conflitto, tenendo netta la linea di frontiera che lo separa dagli “ordinari rimedi giurisdizionali” (su questo, ampiamente, la sentenza 95).
La maggior parte delle pronunce (17) risolvono conflitti promossi prima della legge costituzionale 3/2001, e utilizzano quindi a parametro disposizioni contenute nel vecchio Titolo V. Soltanto in un caso il sopravvenire del nuovo parametro determina conseguenze sul giudizio: la sentenza 329 dichiara inammissibili per sopravvenuta carenza di interesse alcuni conflitti regionali sorti a seguito di un decreto del presidente del consiglio in materia di tutela della salute poiché: a) sulla base dell’art.117, comma 6, lo Stato non ha più il potere di emanare questo tipo di atto; b) l’atto medesimo non ha avuto alcuna attuazione; c) le regioni possono sostituire la disciplina dettata dall’atto impugnato. Questo, peraltro, in forza del principio di continuità, mantiene la propria vigenza nell’ordinamento, pur assumendo carattere cedevole.
La Corte ribadisce la inapplicabilità dell’istituto dell’acquiescenza ai giudizi per conflitto, trattandosi di istituto incompatibile con la indisponibilità delle competenze di cui si controverte (sentenze 39 e 95).
 
1.2. Il profilo soggettivo
 
Quanto ai soggetti ricorrenti, la Corte riafferma che gli enti locali (nella specie, i comuni) non possono proporre conflitto di attribuzione, neppure dopo la riforma del Titolo V, in quanto “nessun elemento letterale o sistematico consente…di superare la limitazione soggettiva che si ricava dagli art. 134 della Costituzione e 39, terzo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87” (sentenza 303).
 
1.3. Il profilo oggettivo: l’atto lesivo
 
Riguardo all’atto che dà luogo al conflitto, è affermata la idoneità dei regolamenti di delegificazione, che non possono essere impugnati in via principale (sentenza 302), mentre la Corte ribadisce che i conflitti tra enti non possono riguardare atti legislativi (sentenza 303).
Numerose sono le pronunce di inammissibilità (o di manifesta inammissibilità) per inidoneità dell’atto ad essere lesivo della sfera di competenza costituzionale: è questo il caso di “istruzioni ministeriali” relative ad una fase interna e provvisoria  del procedimento (sentenza 97), di istruzioni sulle modalità di versamento dei tributi che non incidono sulla loro ripartizione tra Stato e regione siciliana (ordinanze 30 e 79), di un atto meramente esecutivo di una precedente legge non impugnata (sentenza 113), di un atto che non preclude un successivo esercizio delle competenze che la ricorrente rivendica (sentenza 265, nella quale si precisa la mancanza dell’interesse a ricorrere), di una nota della ragioneria generale dello Stato, che costituisce “all’evidenza esercizio di normale attività interpretativa da parte di organi istituzionalmente chiamati a svolgerla” (sentenza 95). Inammissibile è anche il conflitto volto a rivendicare funzioni “invocando la titolarità del bene cui ineriscono” (nel caso, il demanio marittimo, sentenza 150), ed è ribadita la inammissibilità del conflitto che si traduca in una vindicatio rei (sentenza 95). Nel caso di conflitto su atti giurisdizionali, la Corte riafferma la inammissibilità di conflitti volti non a contestare la riconducibilità dell’atto alla funzione giurisdizionale, ma, semplicemente, errores in iudicando (sentenze 29, 276 e 326).
 
1.4. La definizione del giudizio
 
La cessazione della materia del contendere è stata dichiarata in tre casi: per rinuncia al ricorso accettata dalla controparte (sentenza 265), a seguito di concorde valutazione delle parti, condivisa dalla Corte (ordinanza 53), perché l’atto impugnato è stato annullato dal TAR con sentenza passata in giudicato (ordinanza 168).
Due di queste decisioni (ordinanze 53 e 168) mostrano i rischi di sovrapposizione del conflitto tra enti con il giudizio amministrativo: in entrambi i casi, infatti l’atto oggetto del conflitto era stato impugnato anche di fronte al giudice amministrativo.
Inammissibile, per sopravenuta carenza di interesse, a seguito di una nuova legge statale che riconosce alla regione ricorrente le competenze rivendicate, è dichiarato il ricorso oggetto della sentenza 114.
Viene infine ribadita l’estensione alla provincia di Bolzano delle decisioni pronunciate a seguito di ricorso della provincia di Trento (sentenza 267).
 


III. Il contenuto delle decisioni


4. La riforma del Titolo V
 
4.1. Considerazioni introduttive
 
Per il secondo anno, la Corte è stata chiamata a confrontarsi con i problemi interpretativi aperti dalla riforma del Titolo V. Ormai definite, nella giurisprudenza del 2002, gran parte delle questioni di diritto intertemporale, essa ha potuto concentrarsi sul contenuto della riforma e sulla nuova ripartizione dei poteri tra centro e periferia che essa delinea. A metà 2003, poi, è entrata in vigore la legge statale di attuazione (legge 131/2003), i contenuti della quale hanno trovato spazio, come argomento ad adiuvandum, in alcune sentenze: nella sentenza 314, circa il permanere del sistema di impugnativa delle leggi siciliane previsto dallo Statuto speciale; nella sentenza 329, sulla scomparsa della funzione statale di indirizzo e coordinamento; nella sentenza 242, in materia di potere estero. Peraltro, come la Corte ricorda con la sentenza 370, continua a mancare qualsiasi norma di attuazione dell’art. 119 Cost., con gravi conseguenze sull’assetto dei poteri riformato.
 
4.2. L’autonomia statutaria
 
Per quanto attiene alla nuova autonomia statutaria regionale, affermazioni di rilievo (che fanno seguito a quelle contenute nella sentenza 304/2002 e precedono quelle della sentenza 2/2004) si rintracciano nella sentenza 313, nella quale la Corte affronta la questione, assai dibattuta in dottrina, della possibilità, a seguito della modifica dell’art. 121, comma 2,  di attribuire alla giunta la potestà regolamentare con legge, senza modificare lo statuto vigente (che, rispecchiando il vecchio contenuto della norma costituzionale, continuava ad attribuire la potestà medesima al consiglio). La Corte, sostenendo che la scelta in ordine all’organo cui attribuire la potestà regolamentare non è predefinita dalla Costituzione, ma è rimessa allo statuto, afferma, a difesa dell’autonomia statutaria, che “l'autonomia è la regola; i limiti sono l'eccezione. L'espressione ‘in armonia con la Costituzione’, che compare nel primo comma dell'art. 123 della Costituzione, non consente perciò un eccesso di costruttivismo interpretativo, come quello di cui fa mostra la difesa della Regione Lombardia, quando argomenta da una presunta forma di governo regionale, implicitamente stabilita dagli articoli 121 e 123 della Costituzione, la spettanza del potere regolamentare alla Giunta regionale: un modo di ragionare che, oltre al rischio di sovrapporre modelli concettuali alle regole particolari, comporta anche quello di comprimere indebitamente la potestà statutaria di tutte le regioni ad autonomia ordinaria, tramite non controllabili inferenze e deduzioni da concetti generali, assunti a priori” (nello stesso senso, sentenza 324).
Inoltre, la Corte ha individuato una linea di ripartizione di competenza tra la legge regionale e lo statuto, parlando di una “riserva di statuto” in tema di prorogatio: “la disciplina della eventuale prorogatio degli organi elettivi regionali dopo la loro scadenza o scioglimento o dimissioni, e degli eventuali limiti dell'attività degli organi prorogati, [è] oggi fondamentalmente di competenza dello statuto della Regione, ai sensi del nuovo articolo 123, come parte della disciplina della forma di governo regionale: così come è la Costituzione (art. 61, secondo comma; art. 77, secondo comma) che regola la prorogatio delle Camere parlamentari”. Peraltro gli statuti, “nel disciplinare la materia, dovranno essere in armonia con i precetti e con i principi tutti ricavabili dalla Costituzione, ai sensi dell'art. 123, primo comma, della Costituzione” (sentenza 196).
 
4.3. Gli organi della regione
 
Riguardo agli organi della regione, oltre al tema della distribuzione della potestà regolamentare tra giunta e consiglio, la Corte affronta quello, cui si è appena fatto cenno, della prorogatio, affermando che essa è possibile, se lo statuto la prevede, per ogni caso di scioglimento del consiglio, con l’eccezione “dello scioglimento o rimozione ‘sanzionatori’, prevista dall'art. 126, primo comma, della Costituzione. In questo caso, trattandosi di un intervento repressivo statale (non più previsto per la semplice impossibilità di funzionamento, come accadeva nel vecchio testo dell'art. 126 Cost., ma solo a seguito di violazioni della Costituzione o delle leggi, o per ragioni di sicurezza nazionale), è logico che le conseguenze, anche in ordine all'esercizio delle funzioni fino all'elezione dei nuovi organi, siano disciplinate dalla legge statale, cui si deve ritenere che l'art. 126, primo comma, della Costituzione implicitamente rinvii, nonostante l'avvenuta soppressione del vecchio art. 126, quinto comma: non potendosi supporre che resti nella disponibilità della Regione disporre la proroga dei poteri di organi sciolti o dimessi a seguito di gravi illeciti, o la cui permanenza in carica rappresenti un pericolo per la sicurezza nazionale” (ancora sentenza 196).
Circa la competenza legislativa regionale a determinare i casi di incompatibilità dei consiglieri (art. 122, comma 1), si è dichiarata incostituzionale la legge lombarda che prevedeva l'incompatibilità della carica di consigliere regionale esclusivamente con riguardo alle cariche di sindaco e assessore di comuni capoluogo di provincia e di comuni con popolazione superiore a 100.000 abitanti, ritenendola in contrasto con il principio consistente “nell'esistenza di ragioni che ostano all'unione nella stessa persona delle cariche di sindaco o assessore comunale e di consigliere regionale e nella necessità conseguente che la legge predisponga cause di incompatibilità idonee a evitare le ripercussioni che da tale unione possano derivare sulla distinzione degli ambiti politico-amministrativi delle istituzioni locali e, in ultima istanza, sull'efficienza e sull'imparzialità delle funzioni, secondo quella che è la ratio delle incompatibilità, riconducibile ai principi indicati in generale nell'art. 97, primo comma, della Costituzione”. Perciò, “il co-esercizio delle cariche in questione è, a quei fini, in linea di massima, da escludere… Ma ciò non esclude scelte diverse nello svolgimento del medesimo principio, con riferimento specifico all'articolazione degli enti locali nella Regione, naturalmente entro il limite della discrezionalità, oltrepassato il quale il rispetto del principio, pur apparentemente assicurato, risulterebbe sostanzialmente compromesso” (sentenza 201).
La Corte sottolinea altresì, nell’ambito di un giudizio in via incidentale, la differenza che sussiste, quanto a status e funzioni, tra i consiglieri regionali e quelli degli enti locali, sia poiché solo i primi esercitano poteri legislativi, sia per il diverso trattamento loro riservato dalla legge statale (ancora vigente, in nome del principio di continuità, anche per i consiglieri regionali, fino all’intervento della legge regionale) (ordinanza 223).
Quanto alla convalida degli eletti da parte dei consigli regionali, la Corte ha confermato, anche dopo la riforma del Titolo V, la precedente giurisprudenza, secondo la quale “non sussiste alcuna norma o principio costituzionale da cui possa ricavarsi l'attribuzione ai consigli regionali, anche di regioni a statuto speciale, del giudizio definitivo sui titoli di ammissione dei loro componenti e sulle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità, così da sottrarre tale materia alla sfera della giurisdizione…Le norme legislative e dei regolamenti interni le quali parlano di un ‘giudizio definitivo’ delle assemblee elettive regionali sulla verifica dei poteri e sulle contestazioni e i reclami elettorali vanno intese, conformemente alla Costituzione, come riferite alla fase ‘amministrativa’ del contenzioso elettorale, e non escludono la successiva eventuale fase giurisdizionale, non potendo le norme regionali disciplinare la giurisdizione né escluderla…Non vale, in contrario, richiamare la modificazione profonda della posizione e delle funzioni delle regioni e dei consigli regionali, intervenuta da ultimo con la riforma del titolo V, Parte seconda, della Costituzione ad opera della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3; né indicare quanto ci può essere di superato in talune delle argomentazioni [un tempo] impiegate dalla Corte per sottolineare le differenze fra la posizione delle camere parlamentari e quella dei consigli regionali. Infatti la conclusione che qui si tiene ferma non si radica in una ipotetica differenza di ‘natura’ o di funzioni fra assemblee elettive nazionali e regionali – espressione entrambe della sovranità popolare (cfr. sentenza n. 106 del 2002) – che precluda di per sé l'estensione alle seconde di norme e principi validi per le prime: ma deriva, più semplicemente e decisivamente, dal principio secondo il quale la tutela giurisdizionale è a tutti garantita (art. 24 Costituzione) ed è affidata agli organi previsti dagli artt. 101 e seguenti della Costituzione…Sottrarre alla giurisdizione, per riservare esclusivamente alla assemblea degli eletti, della quale fanno parte soggetti portatori di interessi anche individuali coinvolti, il giudizio sulle cause di ineleggibilità e di incompatibilità, significherebbe negare il ‘diritto al giudice’, e ad un giudice indipendente e imparziale...A fronte di questo diritto, il cui nucleo essenziale costituisce un ‘principio supremo’ dell'ordinamento costituzionale…, non può invocarsi, a fondamento della deroga prospettata, l'articolo 66 della Costituzione, che attribuisce alle camere il giudizio sui titoli di ammissione dei propri membri, in conformità ad una tradizione che affonda le sue radici nell'esigenza, propria dei più antichi sistemi rappresentativi, di difendere l'autonomia della rappresentanza elettiva. La forza derogatoria che a tale norma venga attribuita non potrebbe estendersi al di là della specifica situazione regolata, e non è quindi invocabile per costruire un'anacronistica esenzione dei consigli regionali dalla giurisdizione” (sentenza 29).
  
4.4. La potestà legislativa regionale
 
4.4.1. La possibilità per lo Stato di attrarre competenze legislative al di fuori dell’art. 117, comma 2, in nome del principio di sussidiarietà
 
Sicuramente, la pronuncia più commentata dell’anno in materia regionale è stata la sentenza 303 che, tra l’altro, interviene anche sul tema della potestà legislativa, a tutela di istanze unitarie.
 “Il nuovo art.117 Cost. – si afferma – distribuisce le competenze legislative in base ad uno schema imperniato sulla enumerazione delle competenze statali; con un rovesciamento completo della previgente tecnica del riparto sono ora affidate alle Regioni, oltre alle funzioni concorrenti, le funzioni legislative residuali. In questo quadro, limitare l'attività unificante dello Stato alle sole materie espressamente attribuitegli in potestà esclusiva o alla determinazione dei principî nelle materie di potestà concorrente, come postulano le ricorrenti, significherebbe bensì circondare le competenze legislative delle Regioni di garanzie ferree, ma vorrebbe anche dire svalutare oltremisura istanze unitarie che pure in assetti costituzionali fortemente pervasi da pluralismo istituzionale giustificano, a determinate condizioni, una deroga alla normale ripartizione di competenze [basti pensare al riguardo alla legislazione concorrente dell'ordinamento costituzionale tedesco (konkurrierende Gesetzgebung) o alla clausola di supremazia nel sistema federale statunitense (Supremacy Clause)]. Anche nel nostro sistema costituzionale sono presenti congegni volti a rendere più flessibile un disegno che, in ambiti nei quali coesistono, intrecciate, attribuzioni e funzioni diverse, rischierebbe di vanificare, per l'ampia articolazione delle competenze, istanze di unificazione presenti nei più svariati contesti di vita, le quali, sul piano dei principî giuridici, trovano sostegno nella proclamazione di unità e indivisibilità della Repubblica. Un elemento di flessibilità è indubbiamente contenuto nell'art. 118, primo comma, Cost., il quale si riferisce esplicitamente alle funzioni amministrative, ma introduce per queste un meccanismo dinamico che finisce col rendere meno rigida…la stessa distribuzione delle competenze legislative, là dove prevede che le funzioni amministrative, generalmente attribuite ai Comuni, possano essere allocate ad un livello di governo diverso per assicurarne l'esercizio unitario, sulla base dei principî di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. E' del resto coerente con la matrice teorica e con il significato pratico della sussidiarietà che essa agisca come subsidium quando un livello di governo sia inadeguato alle finalità che si intenda raggiungere; ma se ne è comprovata un'attitudine ascensionale deve allora concludersi che, quando l'istanza di esercizio unitario trascende anche l'ambito regionale, la funzione amministrativa può essere esercitata dallo Stato. Ciò non può restare senza conseguenze sull'esercizio della funzione legislativa, giacché il principio di legalità, il quale impone che anche le funzioni assunte per sussidiarietà siano organizzate e regolate dalla legge, conduce logicamente ad escludere che le singole Regioni, con discipline differenziate, possano organizzare e regolare funzioni amministrative attratte a livello nazionale e ad affermare che solo la legge statale possa attendere a un compito siffatto”.
La possibilità, per lo Stato, di disciplinare, in nome delle esigenze unitarie, profili delle materie di competenza concorrente che non gli competerebbero, è tuttavia temperata dall’affermazione che “i principî di sussidiarietà e di adeguatezza convivono con il normale riparto di competenze legislative contenuto nel Titolo V e possono giustificarne una deroga solo se la valutazione dell'interesse pubblico sottostante all'assunzione di funzioni regionali da parte dello Stato sia proporzionata, non risulti affetta da irragionevolezza alla stregua di uno scrutinio stretto di costituzionalità, e sia oggetto di un accordo stipulato con la Regione interessata”. La Corte precisa che non è sufficiente una semplice evocazione dei principi di sussidiarietà e adeguatezza per “modificare a vantaggio della legge nazionale il riparto costituzionalmente stabilito, perché ciò equivarrebbe a negare la stessa rigidità della Costituzione”.
Tali principi non possono assumere “la funzione che aveva un tempo l'interesse nazionale, la cui sola allegazione non è ora sufficiente a giustificare l'esercizio da parte dello Stato di una funzione di cui non sia titolare in base all'art. 117 Cost. Nel nuovo Titolo V l'equazione elementare interesse nazionale = competenza statale, che nella prassi legislativa previgente sorreggeva l'erosione delle funzioni amministrative e delle parallele funzioni legislative delle Regioni, è divenuta priva di ogni valore deontico, giacché l'interesse nazionale non costituisce più un limite, né di legittimità, né di merito, alla competenza legislativa regionale. Ciò impone di annettere ai principî di sussidiarietà e adeguatezza una valenza squisitamente procedimentale, poiché l'esigenza di esercizio unitario che consente di attrarre, insieme alla funzione amministrativa, anche quella legislativa, può aspirare a superare il vaglio di legittimità costituzionale solo in presenza di una disciplina che prefiguri un iter in cui assumano il dovuto risalto le attività concertative e di coordinamento orizzontale, ovverosia le intese, che devono essere condotte in base al principio di lealtà” (sentenza 303; la possibilità che lo Stato possa giustificare la propria potestà legislativa sulla base di un richiamo all’interesse nazionale è esclusa anche  dalla sentenza 370).
 
4.4.2. Rapporti tra legge statale e legge regionale
 
Riguardo ai rapporti tra legge statale e legge regionale, la Corte ha affrontato il fenomeno del “recepimento” di una intera legge statale (in una materia di competenza concorrente quale quella elettorale) da parte di una legge regionale, ritenendo non potersi sostenere che tale legge violi “il limite territoriale della legge regionale e…l'art. 117, secondo e quarto comma, della Costituzione, in quanto la legge regionale non potrebbe sostituire disposizioni di una legge statale, facendo venir meno l'applicabilità delle disposizioni sostituite in tutto il territorio nazionale. In realtà la legge statale continua a spiegare l'efficacia che le è propria; la legge regionale non fa che introdurre una disciplina materialmente identica, in cui le disposizioni che vengono dettate in ‘sostituzione’ di quelle corrispondenti della legge dello Stato esplicano tale effetto sostitutivo solo con riguardo alla sfera di efficacia della legge regionale di ‘recepimento’, senza intaccare la diversa sfera di efficacia della legge statale” (sentenza 196).
È stato inoltre precisato che al legislatore regionale, in materie di competenza esclusiva dello Stato, è precluso recepire, anche solo ricognitivamente, la normativa statale. In questi casi, infatti, “il problema non è di stabilire se la legislazione regionale sia o non sia conforme a quella statale, ma, ancor prima, se sia competente a disporre il riconoscimento, indipendentemente dalla conformità o dalla difformità rispetto alla legge dello Stato” (sentenza 313).
  
 
4.4.3. La definizione delle materie: aspetti generali
 
La Corte ha continuato l’opera, avviata nel 2002, di definizione delle materie indicate dall’art. 117 Cost.
Innanzitutto, essa ha utilizzato, al fine di ricondurre un determinato oggetto entro una materia, il criterio legislativo-evolutivo. Con la conseguenza che un cambiamento nella legislazione ordinaria di settore può comportare lo spostamento della collocazione di un oggetto nel riparto materiale delle competenze legislative dell’art. 117 Cost. Così, ad esempio, a seguito della evoluzione legislativa, la disciplina degli asili nido viene ricondotta entro la materia dell’istruzione e, per alcuni profili, entro quella della “tutela del lavoro” (sentenza 370); la disciplina delle fondazioni di origine bancaria è ritenuta estranea, a seguito degli sviluppi legislativi, alla materia concorrente “casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale”, per essere ricondotta invece a quella, statale, dell’ordinamento civile (sentenza 300).
Inoltre, al fine di identificare la materia cui una norma afferisce, assume rilievo la finalità perseguita: una legge regionale sugli animali esotici, per esempio,  in quanto persegue obiettivi di tutela igenico-sanitaria e di sicurezza veterinaria viene ricondotta alla materia concorrente della “tutela della salute” (sentenza 222); mentre la disposizione statale che impone anche alle regioni di riservare, nell’acquisto dei pneumatici per i loro autoveicoli, una quota di almeno il 20% ai pneumatici ricostruiti viene ricondotta alla competenza esclusiva dello Stato in materia di ambiente (sentenza 378).
In molti casi, peraltro, la Corte riconosce che, “per la loro connessione funzionale, non [è] possibile una netta separazione nell'esercizio delle competenze”: occorre allora “addivenire a forme di esercizio delle funzioni, da parte dell'ente competente, attraverso le quali siano efficacemente rappresentati tutti gli interessi e le posizioni costituzionalmente rilevanti...Vale il principio, detto della ‘leale cooperazione’, suscettibile di essere organizzato in modi diversi, per forme e intensità della pur necessaria collaborazione” (sentenza 308; riguardo al vecchio Titolo V, sentenza 96).
 
 
4.4.4. La definizione delle materie: l’art. 117, comma 2
 
Diverse decisioni contribuiscono a definire le materie di competenza statale esclusiva, elencate nel secondo comma dell’art. 117.
La riserva statale della lettera e), in materia di “tutela del risparmio e dei mercati finanziari” (che, secondo la Corte, “ riguarda in particolare la disciplina delle forme e dei modi in cui i soggetti…possono ottenere risorse finanziarie derivanti da emissione di titoli o contrazione di debiti”), consente l’attribuzione ad organi centrali di poteri di coordinamento in tema di accesso degli enti territoriali al mercato dei capitali (sentenza 376).
Non può ricondursi alla “perequazione delle risorse finanziarie” (riservata allo Stato sulla base della medesima lettera e) una norma che, come quella mirante ad attenuare le conseguenze sanzionatorie del mancato o ritardato pagamento del contributo di costruzione, al di là della sua rubrica, non ha alcuna finalità di tal tipo  (sentenza 362).
Riguardo alla “tutela della concorrenza” (di cui alla stessa lettera e), la Corte esclude che possa esservi ricondotta una norma che si limita a disciplinare il rapporto pubblicistico tra gestore di impianto di telecomunicazione ed ente pubblico cui spettano i poteri di pianificazione, autorizzazione e vigilanza (sentenza 307).
La lettera g), che si riferisce all’ “ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali”, serve a fondare la potestà legislativa statale in ordine alla norma che consente al ministero del lavoro di avvalersi di una società per azioni, a capitale interamente pubblico, per lo svolgimento di funzioni finalizzate alla promozione dell’occupazione: tale società, infatti, presenta tutti i caratteri proprie dell’ente strumentale, salvo rivestire la forma della società per azioni, ciò che non è sufficiente ad escludere la competenza statale (sentenza 363).
La riserva statale in materia di ordine pubblico e sicurezza (lettera h) preclude una disciplina regionale in materia di polizia di sicurezza (che è cosa diversa dalla polizia amministrativa locale che segue, invece, in quanto strumentale, la distribuzione delle competenze principali cui accede) (sentenza 313).
Allo stesso modo, la riserva statale in materia di giurisdizione penale (lettera l) preclude una disciplina regionale in materia di polizia giudiziaria (sentenza 313).
Quanto alla materia dell’ “ordinamento civile” (di cui alla medesima lettera l), la Corte non la ritiene invasa da una norma regionale che rimetta alla volontà dei proprietari l’imposizione di vincoli di destinazione d’uso su immobili, i cui operano “locali storici”, finalizzata alla concessione di finanziamenti regionali (sentenza 94); mentre è incostituzionale la legge regionale che disciplina il fenomeno del mobbing, prevedendo, tra l’altro, una diffida nei confronti del datore di lavoro da parte del centro anti-mobbing, diffida che configura un elemento dell’eventuale inadempimento del datore di lavoro (sentenza 359). La materia dell’ordinamento civile, poi, comprende la disciplina delle persone giuridiche di diritto privato (e, quindi, anche delle fondazioni di origine bancaria; peraltro ciò non toglie che nei loro confronti, così come verso qualunque altro soggetto dell’ “ordinamento civile” valgano anche le norme regionali in quanto incidano sulle funzioni da queste svolte: sentenza 300).
Diverse pronunce contengono interpretazione della lettera m), secondo la quale è  riservata allo Stato la “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”. La Corte, riconosciuto che si tratta di “un fondamentale strumento per garantire il mantenimento di una adeguata uniformità di trattamento sul piano dei diritti di tutti i soggetti, pur in un sistema caratterizzato da un livello di autonomia regionale e locale decisamente accresciuto”, ritiene che “la conseguente forte incidenza sull'esercizio delle funzioni nelle materie assegnate alle competenze legislative ed amministrative delle Regione e delle Province autonome impone evidentemente che queste scelte, almeno nelle loro linee generali, siano operate dallo Stato con legge, che dovrà inoltre determinare adeguate procedure e precisi atti formali per procedere alle specificazioni ed articolazioni ulteriori che si rendano necessarie nei vari settori” (sentenza 88). La invocabilità della lettera m) per ritenere estranea alla sfera regionale una normativa che consente alla regione di siglare convenzioni con enti radiotelevisivi (in quanto si inciderebbe su una materia che attiene “alla struttura democratica dello Stato”) è esclusa attraverso l’argomento (già presente nella giurisprudenza precedente alla riforma), che “l'informazione esprime non tanto una materia, quanto ‘una condizione preliminare’ per l'attuazione dei principi propri dello Stato democratico e in tale ambito qualsivoglia soggetto od organo rappresentativo investito di competenze di natura politica non può, pur nel rispetto dei limiti connessi alle proprie attribuzioni, risultare estraneo all'impiego dei mezzi di comunicazione di massa” (sentenza 312).
Alla definizione della portata della lettera p) (che riserva allo Stato “legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane”) ha contribuito la sentenza 48, secondo la quale, nel caso dell’ordinamento degli enti locali, “il nuovo testo dell'art. 117 non fa che ripercorrere, in forme nuove, le tracce del sistema costituzionale preesistente, in cui le sole Regioni a statuto speciale godevano già (in particolare dopo la riforma degli statuti recata dalla legge cost. 23 settembre 1993, n. 2) di una competenza primaria in materia di ordinamento degli enti locali del proprio territorio, mentre le Regioni ordinarie ne erano prive”. In particolare, riguardo alla legislazione elettorale, si afferma che “la configurazione degli organi di governo degli enti locali, i rapporti fra gli stessi, le modalità di formazione degli organi, e quindi anche le modalità di elezione degli organi rappresentativi, la loro durata in carica, i casi di scioglimento anticipato, sono aspetti di questa materia” (così anche sentenza 377, ove si ritiene compresa nella competenza statale una nuova disciplina delle cause di incompatibilità degli eletti a livello locale). Tale riserva preclude, poi, una normativa regionale sul riparto delle spese per elezioni regionali, provinciali, comunali, in caso di loro contemporaneità (sentenza 196). Al contrario, resta fuori dalla competenza statale, (in virtù dell’art. 122, comma 1, Cost.), la disciplina delle cause di ineleggibilità e di incompatibilità a cariche elettive regionali, derivanti dalla titolarità di cariche elettive comunali, provinciali e delle città metropolitane (sentenza 201).
Quanto alla “profilassi internazionale “ di cui alla lettera q), la Corte ha ritenuto la materia circoscritta ai profili inerenti all’importazione o esportazione di animali,  restandone quindi estranea la legge regionale che, in tema di animali esotici, si limita a disciplinare “aspetti legati alla presenza di questi ultimi all'interno del territorio regionale”  (sentenza 222).
La Corte è ritornata con varie pronunce sulla lettera s) (“tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”), già oggetto di rilevanti decisioni nell’anno precedente (sentenze 407/2002 e 536/2002), per ribadire che “la ‘tutela dell'ambiente’, più che una ‘materia’ in senso stretto, rappresenta un compito nell'esercizio del quale lo Stato conserva il potere di dettare standard di protezione uniformi validi in tutte le Regioni e non derogabili da queste; e che ciò non esclude affatto la possibilità che leggi regionali, emanate nell'esercizio della potestà concorrente di cui all'art. 117, terzo comma, della Costituzione, o di quella ‘residuale’ di cui all'art. 117, quarto comma, possano assumere fra i propri scopi anche finalità di tutela ambientale” (sentenze 222 e 307). Peraltro, è riservata allo Stato la predisposizione di standard minimi di tutela della fauna (sentenze 226, 331, 312). Quanto alla “tutela dei beni culturali” e alla sua distinzione rispetto alla  materia concorrente della “valorizzazione” dei medesimi, la definizione è desunta dalla legislazione vigente, e comprende “apposizione di vincolo, diretto e indiretto, di interesse storico o artistico e vigilanza sui beni vincolati” e tutto quanto riguarda “autorizzazioni, prescrizioni, divieti, approvazioni e altri provvedimenti, anche di natura interinale, diretti a garantire la conservazione, l'integrità e la sicurezza dei beni di interesse storico o artistico” ed “esercizio del diritto di prelazione” (sentenza 94). Sulla lettera s), si vedano anche le sentenze 311 e 378.
 
4.4.5. La potestà legislativa concorrente (art. 117, comma 3)
 
Circa la potestà legislativa concorrente, la Corte ha ribadito, secondo quanto già affermato con la sentenza 282/2002, che, la mancanza di una legge statale che determini i principi fondamentali della materia non impedisce alle regioni di esercitare i propri poteri, “in quanto i principi possono e devono essere desunti dalla preesistente legislazione statale” (sentenze 94, 196, 359). In altre parole, “occorre rivolgersi alle norme dell'ordinamento giuridico statale vigente per individuare, tra tutte, quelle che esprimano scelte fondamentali e operino così da limiti all'esercizio della competenza legislativa regionale” (sentenza 201).
Quanto alla eventualità, prospettata dalla dottrina, che dopo la riforma del Titolo V sia inammissibile, nelle materie regionali, una disciplina statale di dettaglio, sia pure cedevole, la Corte ha affermato di non poter negare “che l'inversione della tecnica di riparto delle potestà legislative e l'enumerazione tassativa delle competenze dello Stato dovrebbe portare ad escludere la possibilità di dettare norme suppletive statali in materie di legislazione concorrente, e tuttavia una simile lettura  dell'art. 117 svaluterebbe la portata precettiva dell'art. 118, comma primo, che consente l'attrazione allo Stato, per sussidiarietà e adeguatezza, delle funzioni amministrative e delle correlative funzioni legislative, come si è già avuto modo di precisare. La disciplina statale di dettaglio a carattere suppletivo determina una temporanea compressione della competenza legislativa regionale che deve ritenersi non irragionevole, finalizzata com'è ad assicurare l'immediato svolgersi di funzioni amministrative che lo Stato ha attratto per soddisfare esigenze unitarie e che non possono essere esposte al rischio della ineffettività” (sentenza 303).
Inoltre, “deve escludersi la possibilità per lo Stato di intervenire [in materia di competenza concorrente] con atti normativi di rango sublegislativo, in considerazione di quanto disposto dall'art. 117, sesto comma, della Costituzione” (sentenza 329).
Circa la individuazione dei principi, la sentenza 361, sul c.d. “fumo passivo”, afferma la natura di principi fondamentali delle disposizioni statali che prevedono varie fattispecie di illecito amministrativo al fine della tutela della salute. Il carattere di principi fondamentali, necessariamente uniformi, si ricava dalla “loro finalità di protezione di un bene, quale la salute della persona, ugualmente pregiudicato dall'esposizione al fumo passivo su tutto il territorio della Repubblica: bene che per sua natura non si presterebbe a essere protetto diversamente alla stregua di valutazioni differenziate, rimesse alla discrezionalità dei legislatori regionali. La natura di principi fondamentali delle norme in questione si comprende non appena si consideri l'impossibilità di concepire ragioni per le quali, una volta assunta la nocività per la salute dell'esposizione al fumo passivo, la rilevanza come illecito dell'attività del fumatore attivo possa variare da un luogo a un altro del territorio nazionale. Non potendosi dunque contestare al legislatore statale, in questo particolare campo di disciplina, il potere di prevedere le fattispecie da sanzionare, non può essergli disconosciuto nemmeno quello di determinare le sanzioni per il caso di violazione dei divieti e degli obblighi stabiliti. Ciò deriva dal parallelismo tra i due poteri…numerose volte riconosciuto da questa Corte…: parallelismo che comporta, in linea di principio, che la determinazione delle sanzioni sia nella disponibilità del soggetto al quale è rimessa la predeterminazione delle fattispecie da sanzionare”.
Lo stretto legame tra principi fondamentali, uguaglianza, diritti, emerge anche dalla sentenza 338, ove si afferma (riprendendo in parte la sentenza 282/2002) che “stabilire il confine fra terapie ammesse e terapie non ammesse, sulla base delle acquisizioni scientifiche e sperimentali, è determinazione che investe direttamente e necessariamente i principi fondamentali della materia, collocandosi all'incrocio fra due diritti fondamentali della persona malata: quello ad essere curato efficacemente, secondo i canoni della scienza e dell'arte medica; e quello ad essere rispettato come persona, e in particolare nella propria integrità fisica e psichica, “diritti la cui tutela non può non darsi in condizioni di fondamentale eguaglianza su tutto il territorio nazionale”.
Significativa è anche la sentenza 353, nella quale si afferma che la potestà legislativa regionale in materia di professioni sanitarie (nella specie, si trattava di pratiche terapeutiche e discipline non convenzionali - quali agopuntura, fitoterapia, omeopatia, omotossicologia e altre) deve “rispettare il principio, già vigente nella legislazione statale, secondo cui l'individuazione delle figure professionali, con i relativi profili ed ordinamenti didattici, [deve] essere riservata allo Stato”. La possibilità che i principi fondamentali comportino l’inclusione o l’esclusione di singoli settori da una materia (possibilità negata in passato dalla giurisprudenza costituzionale) è sfiorato anche dalla citata sentenza 222: una delle censure avanzate dal governo nei confronti della legge regionale sugli animali esotici riguardava, infatti, la violazione di un supposto principio fondamentale consistente nella riserva allo Stato di tale materia. La questione è stata dichiarata inammissibile dalla Corte per mancata specificazione dell’oggetto, “a prescindere…dalla impossibilità, eccepita dalla regione resistente, di qualificare come ‘principi fondamentali’ quelli racchiusi in norme statali che – prive di contenuto prescrittivo, atto ad orientare il modo di esercizio della potestà legislativa regionale – si limitino a sancire l’inclusione o l’esclusione di determinati settori nell’ambito di una materia di competenza regionale concorrente”.
Il mancato richiamo, da parte di una legge regionale, dei principi fondamentali contenuti in leggi statali non determina, di per sé, alcuna violazione di norme costituzionali. Ciò, infatti, “non implica un'automatica espansione delle competenze regionali, restando tali limiti vincolanti e dovendosi piuttosto valutare in concreto se essi non siano violati dal contenuto normativo delle disposizioni impugnate” (sentenza 327). Comunque, nell’ottica della separazione delle sfere di competenza, è preclusa alla regione la fissazione dei principi fondamentali, in caso di fenomeni, come il mobbing, non ancora disciplinati dallo Stato (sentenza 359).
È stato affrontato anche il problema della possibilità per le regioni, in materie concorrenti, di dettare una disciplina aggiuntiva, più garantista di quella statale rispetto ai valori tutelati dalle norme di principio, secondo un orientamento presente, come si rileva (sentenza 307), nel diritto comunitario. Di norma tale “aggiunta” è ammissibile (sentenza 222), ma non quando i principi statali (che, ad esempio, fissano valori-soglia per l’esposizione a onde elettromagnetiche) sono dettati non per proteggere un unico valore, ma come risultato di un bilanciamento tra molteplici interessi, riconducibili a campi materiali diversi (sentenza 307 e sentenza 331). D’altra parte, il fatto che gli standard fissati dalla regione siano più rigorosi di quelli statali non rappresenta un argomento significativo quando si tratti di questioni di costituzionalità riguardanti non il contenuto delle scelte legislative ma la spettanza delle stesse (sentenza 308).
Nelle materie di competenza concorrente, poi, è illegittima la norma che prevede che determinati standard debbano essere fissati in sede di Conferenza Stato-regioni, in quanto ciò si risolverebbe in una negazione della competenza legislativa delle singole regioni (sentenza 370).
 
 
4.4.6. La potestà legislativa regionale residuale (art. 117, comma 4)
 
Riguardo alle competenze regionali residuali del comma 4 dell’art. 117, la Corte ha rilevato che “in via generale, occorre…affermare l'impossibilità di ricondurre un determinato oggetto di disciplina normativa all'ambito di applicazione affidato alla legislazione residuale delle Regioni ai sensi del comma quarto del medesimo art. 117, per il solo fatto che tale oggetto non sia immediatamente riferibile ad una delle materie elencate nei commi secondo e terzo dell'art. 117 della Costituzione” (sentenza 370). Ad esempio, i lavori pubblici, di cui pure l’art. 117 non parla, costituiscono “ambiti di legislazione che non integrano una vera e propria materia, ma si qualificano a seconda dell'oggetto al quale afferiscono e pertanto possono essere ascritti di volta in volta a potestà legislative esclusive dello Stato ovvero a potestà legislative concorrenti” (sentenza 303). Materie innominate, come l’edilizia e l’urbanistica, sono a loro volta ricondotte dalla Corte entro la competenza concorrente del “governo del territorio” (sentenza 362). D’altra parte, nella citata sentenza sul mobbing, la Corte afferma che “in realtà l'intera legge si fonda sul presupposto – da ritenere in contrasto con l'assetto costituzionale dei rapporti Stato-Regioni – secondo cui queste ultime, in assenza di una specifica disciplina di un determinato fenomeno emergente nella vita sociale, abbiano in via provvisoria poteri illimitati di legiferare” (sentenza 359). Circa i limiti che incontra la potestà legislativa dell’art. 117, comma 4, la sentenza 274 afferma che “valgono soltanto i limiti di cui al primo comma dello stesso articolo (e, se del caso, quelli indirettamente derivanti dall'esercizio da parte dello Stato della potestà legislativa esclusiva in ‘materie’ suscettibili, per la loro configurazione, di interferire su quelle in esame)”. La sentenza 303, per parte sua, precisa che “è quindi estranea alla materia del contendere la questione se i principî di sussidiarietà e adeguatezza permettano di attrarre allo Stato anche competenze legislative residuali delle Regioni”.
 
4.4.7. Le competenze delle regioni a statuto speciale (art. 10 legge cost. 3/2001)
 
La Corte è ritornata in varie occasioni sulla portata dell’art. 10 della legge costituzionale 3/2001, secondo il quale, fino all’adeguamento dei rispettivi statuti, le disposizioni della riforma si applicano alle regioni speciali “per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite”. Nella sentenza 103 (relativa a una questione sollevata prima della riforma) la Corte afferma che “le disposizioni della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 non sono destinate a prevalere sugli statuti speciali di autonomia e attualmente sono invocabili…solo per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie di quelle già attribuite e non per restringerle, da considerarsi (per la singola Provincia autonoma o Regione speciale) in modo unitario nella materia o funzione amministrativa presa in considerazione” (per un caso in cui l’art. 10 non opera, in quanto le competenze previste dagli statuti speciali sono più ampie di quelle riconosciute alle regioni ordinarie, o comunque sono equivalenti, v. sentenza 48, sull’ordinamento degli enti locali). Nella sentenza 314 la Corte, come si è già ricordato, ha ritenuto di non poter applicare l’art. 10 ai fini di valutare la perdurante attualità del sistema di impugnativa delle leggi regionali siciliane. Il problema relativo alle materie di potestà primaria delle regioni speciali, che sulla base dell’art. 117, comma 4, possono essere fatte rientrare nella potestà residuale delle regioni ordinarie, sotto il profilo della sorte dei limiti generali previsti dagli statuti speciali (già della sentenza 536/2002), è affrontato nella sentenza 274, relativa alla materia dello stato giuridico ed economico del personale regionale. La Corte ha ritenuto che la riforma abbia fatto venir meno tali limiti (nella specie, quello delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali). “Infatti, se…il vincolo di quel limite permanesse pur nel nuovo assetto costituzionale, la potestà legislativa esclusiva delle Regioni (e Province) autonome sarebbe irragionevolmente ristretta entro confini più angusti di quelli che oggi incontra la potestà legislativa ‘residuale’ delle Regioni ordinarie...onde devono escludersi ulteriori limiti derivanti da leggi statali già qualificabili come norme fondamentali di riforma economico-sociale. Pertanto – ai sensi dell'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001 – la  particolare ‘forma di autonomia’ così emergente dal nuovo art. 117 della Costituzione in favore delle Regioni ordinarie si applica anche alle Regioni a statuto speciale, come la Sardegna, ed alle Province autonome, in quanto ‘più ampia’ rispetto a quelle previste dai rispettivi statuti”. Peraltro, quando una regione speciale (o una provincia autonoma) ponga a base di un proprio ricorso le competenze, più ampie di quelle statutarie, che le deriverebbero dall’art. 117, ha l’onere di individuarle, pena l’inammissibilità della questione (sentenza 303).
 
4.4.8. Diritto comunitario e competenze regionali
 
Quanto all’incidenza del diritto comunitario sulle materie regionali, pur non essendo tale profilo venuto in rilievo in modo espresso (non è stato mai richiamato l’art. 117, comma 5, secondo il quale le regioni “nelle materie di loro competenza, partecipano alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari e provvedono all’attuazione e all’esecuzione…degli atti dell’Unione europea, nel rispetto delle norme di procedura stabilite da legge dello Stato”), va tuttavia sottolineato come le norme comunitarie compaiono varie volte nella motivazione delle decisioni, vuoi in quanto contiene principi generali idonei a giustificare la possibilità di discipline aggiuntive regionali, vuoi in quanto l’esistenza di atti comunitari relativi a un fenomeno non ancora disciplinato dallo Stato, come il mobbing, porta “ad escludere che esso, nei suoi aspetti generali e per quanto riguarda i principi fondamentali, possa essere oggetto di discipline territorialmente differenziate” (sentenza 359). Circa la possibilità di impugnare, in via principale, norme regionali per violazione del diritto comunitario, v. supra, la sentenza 303.
 
4.4.9. Regolamenti governativi e competenze regionali (art.117, comma 6)
 
Riguardo alla potestà regolamentare, la Corte ha ribadito (sentenze 22 e 302) che ai regolamenti di delegificazione è inibito disciplinare materie di competenza regionale: “lo strumento della delegificazione non può operare in presenza di fonti tra le quali non vi siano rapporti di gerarchia, ma di separazione di competenze. Solo la diretta incompatibilità delle norme regionali con sopravvenuti principî o norme fondamentali della legge statale può infatti determinare l'abrogazione delle prime”. La Corte ha precisato che “la ragione giustificativa di tale orientamento si è, se possibile, rafforzata con la nuova formulazione dell'art. 117, sesto comma, Cost., secondo il quale la potestà regolamentare è dello Stato, salva delega alle Regioni, nelle materie di legislazione esclusiva, mentre in ogni altra materia è delle Regioni”. In un riparto così rigidamente strutturato, alla fonte secondaria statale è inibita in radice la possibilità di vincolare l'esercizio della potestà legislativa regionale o di incidere su disposizioni regionali preesistenti (sentenza 22); e neppure “i principî di sussidiarietà e adeguatezza possono conferire ai regolamenti statali una capacità che è estranea al loro valore, quella cioè di modificare gli ordinamenti regionali a livello primario” (sentenza 303, nonché  sentenza 329).
 
4.4.10. Il potere estero (art. 117, comma 9)
 
La Corte ha avuto occasione di pronunciarsi anche sul potere estero delle regioni, disciplinato dall’art.117, comma 9, Cost., secondo il quale “nelle materie di sua competenza la regione può concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali interni ad altro Stato, nei casi e con le forme disciplinati da leggi dello Stato”. Essa ha ritenuto che tale disposizione non sia stata violata dalla legge del Friuli-Venezia Giulia che attribuisce al presidente della regione la competenza a stipulare intese con l’Austria e la Slovenia in materia di difesa del suolo. La legge regionale impugnata, secondo la Corte, “si limita soltanto ad attribuire la competenza in materia al Presidente della Regione, senza in alcun modo incidere sui limiti costituzionali”. La sentenza ha anche affermato che la regione non deve attendere la legge statale di attuazione (che tra l’altro, sopravvenuta nelle more del giudizio, nulla dice sul punto) per stabilire qual è l’organo regionale competente a stipulare l’intesa (sentenza 242).
  
 
4.4.11. Le funzioni amministrative
 
Quanto alla distribuzione delle funzioni amministrative, di cui all’art. 118 Cost., la Corte ha individuato nel secondo comma un riserva di legge per la loro allocazione e distribuzione tra i diversi livelli di governo, riserva che non può ritenersi soddisfatta da una legge regionale che si limita ad autorizzare l’esercizio, in via “suppletiva”, del potere regolamentare, senza delimitarlo o indirizzarlo in acun modo (sentenza 324).
Riguardo al principio di sussidiarietà, la già più volte richiamata sentenza 303 afferma che la funzione che l’art. 118 assegna a tale principio “si discosta in parte da quella già conosciuta nel nostro diritto di fonte legale. Enunciato nella legge 15 marzo 1997, n. 59 come criterio ispiratore della distribuzione legale delle funzioni amministrative fra lo Stato e gli altri enti territoriali e quindi già operante nella sua dimensione meramente statica, come fondamento di un ordine prestabilito di competenze, quel principio, con la sua incorporazione nel testo della Costituzione, ha visto mutare il proprio significato. Accanto alla primitiva dimensione statica, che si fa evidente nella tendenziale attribuzione della generalità delle funzioni amministrative ai Comuni, è resa, infatti, attiva una vocazione dinamica della sussidiarietà, che consente ad essa di operare non più come ratio ispiratrice e fondamento di un ordine di attribuzioni stabilite e predeterminate, ma come fattore di flessibilità di quell'ordine in vista del soddisfacimento di esigenze unitarie”.
Quanto alla sussidiarietà c.d. “orizzontale”, cui si riferisce l’art. 118, comma 4, Cost., la Corte ha affermato che le persone giuridiche private che, come le fondazioni di origine bancaria, operano in tale campo, appartengono alla sfera dei “soggetti dell’organizzazione delle libertà  sociali” e non delle funzioni pubbliche, sfuggendo quindi alla disciplina regionale (sentenza 300).
In sostanziale continuità con la giurisprudenza relativa al vecchio Titolo V è stata ribadita la centralità del principio di leale collaborazione. Di conseguenza, un decreto ministeriale in materia di competenza concorrente, adottato senza il parere della Conferenza Stato-regioni, previsto dalla legge, è stato ritenuto viziato, indipendentemente dal problema della perdurante utilizzabilità, dopo la riforma, della legge su cui il decreto stesso si fondava: è infatti violato, direttamente, il principio di leale collaborazione (sentenza 88).
Circa la dibattuta questione della sorte della funzione di indirizzo e coordinamento dopo la riforma del Titolo V, la Corte ha affermato che “è da escludere la permanenza in capo allo Stato del potere di emanare atti di indirizzo e coordinamento in relazione alla materia de qua, anche alla luce di quanto espressamente disposto dall'art. 8, comma 6, della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioniper l'adeguamento dell'ordinamentodella Repubblicaalla legge costituzionale 18 ottobre 2001,n. 3), il quale stabilisce che ‘nelle materie di cui all'art. 117, terzo e quarto comma, della Costituzione, non possono essere adottati gli atti di indirizzo e di coordinamento di cui all'art. 8 della legge 15 marzo 1997, n. 59, e all'art. 4 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112’” (sentenza 329).
 
4.4.12. L’autonomia finanziaria
 
Circa l’autonomia finanziaria prevista dall’art. 119, la Corte si è pronunciata sulla nozione di “tributi propri” della regione, di cui al comma 2. Secondo la Corte, entro tale categoria rientrano i “soli tributi istituiti dalle regioni con propria legge, nel rispetto dei principi del coordinamento con il sistema tributario statale”. Pertanto, una imposta come l’IRAP, istituita con legge statale, rispetto alla quale “alle regioni a statuto ordinario, destinatarie del tributo, siano espressamente attribuite competenze di carattere solo attuativo”, non può considerarsi, nonostante la sua denominazione,  “tributo proprio della regione”, con la conseguenza che “la disciplina sostanziale dell'imposta non è divenuta – come la stessa Avvocatura sembra erroneamente ritenere – oggetto di legislazione concorrente, ai sensi dell'art. 117, terzo comma, della Costituzione, ma rientra tuttora nella esclusiva competenza dello Stato in materia di tributi erariali, secondo quanto previsto dall'art. 117, secondo comma, lettera e)” (sentenza 296). Analogo discorso vale per la tassa automobilistica, in ordine alla quale “alle regioni a statuto ordinario è stato attribuito dal legislatore statale il gettito della tassa, unitamente all'attività amministrativa connessa alla sua riscossione, nonché un limitato potere di variazione dell'importo originariamente stabilito con decreto ministeriale, restando invece ferma la competenza esclusiva dello Stato per ogni altro aspetto della disciplina sostanziale della tassa stessa” (sentenze 296, 297, 311; sul carattere statale dell’imposta sul reddito, sentenza 370).
Di primario rilievo per l’interpretazione dell’art. 119 è la sentenza 370. Con essa la Corte dichiara incostituzionale la disposizione che prevede un fondo settoriale di finanziamento gestito dallo Stato per funzioni (relative agli asili nido) proprie delle regioni e degli enti locali. “Il nuovo art. 119 della Costituzione – afferma la Corte - prevede espressamente, al quarto comma, che le funzioni pubbliche regionali e locali debbano essere ‘integralmente’ finanziate tramite i proventi delle entrate proprie e la compartecipazione al gettito dei tributi erariali riferibili al territorio dell'ente interessato, di cui al secondo comma, nonché con quote del ‘fondo perequativo senza vincoli di destinazione’, di cui al terzo comma. Gli altri possibili finanziamenti da parte dello Stato, previsti dal quinto comma, sono costituiti solo da risorse eventuali ed aggiuntive ‘per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l'effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio’ delle funzioni, ed erogati in favore ‘di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni’. Pertanto, nel nuovo sistema, per il finanziamento delle normali funzioni di Regioni ed Enti locali, lo Stato può erogare solo fondi senza vincoli specifici di destinazione, in particolare tramite il fondo perequativo di cui all'art. 119, terzo comma, della Costituzione”. In tale decisione è contenuto anche un deciso richiamo al legislatore: “appare evidente che la attuazione dell'art. 119 Cost. sia urgente al fine di concretizzare davvero quanto previsto nel nuovo Titolo V della Costituzione, poiché altrimenti si verrebbe a contraddire il diverso riparto di competenze configurato dalle nuove disposizioni; inoltre, la permanenza o addirittura la istituzione di forme di finanziamento delle Regioni e degli enti locali contraddittorie con l'art. 119 della Costituzione espone a rischi di cattiva funzionalità o addirittura di blocco di interi ambiti settoriali”.
 
4.4.13. Il potere sostitutivo
 
Quanto al potere sostitutivo dell’art. 120, la Corte ha escluso che ad esso debba farsi ricorso per quelle funzioni amministrative che lo Stato, per ragioni di sussidiarietà e adeguatezza, abbia assunto ed organizzato con legge. Queste debbono essere distinte da quelle che “spettano alle Regioni e per le quali lo Stato, non ricorrendo i presupposti per la loro assunzione in sussidiarietà, eserciti poteri in via sostitutiva”. Quando si applichi il principio di sussidiarietà di cui all'art. 118 Cost., quelle esigenze unitarie “che giustificano l'attrazione della funzione amministrativa per sussidiarietà consentono di conservare in capo allo Stato poteri acceleratori da esercitare nei confronti degli organi della Regione che restino inerti. In breve, la già avvenuta assunzione di una funzione amministrativa in via sussidiaria legittima l'intervento sollecitatorio diretto a vincere l'inerzia regionale. Nella fattispecie di cui all'art. 120 Cost. [potere sostitutivo], invece, l'inerzia della Regione è il presupposto che legittima la sostituzione statale nell'esercizio di una competenza che è e resta propria dell'ente sostituito” (sentenza 303).
Circa la possibilità, per le regioni, di sostituirsi agli organi degli enti locali, la Corte ha affermato che, anche qualora in ipotesi tali poteri, ulteriori rispetto a quelli facenti capo al governo ai sensi dell’art. 120, siano da ammettere, debbono sussistere alcune garanzie,quali: a) essere ascritti a organi di governo della regione; b) l’omissione deve essere un fatto giuridicamente qualificato; c) il procedimento deve essere definito dalla legge e l’ente sostituito deve essere messo in grado di far valere le proprie ragioni e di ovviare all’omissione (sentenza 313).
 
4.4.14. Le modifiche territoriali
 
Quanto all’art. 133 Cost (norma non toccata dalla riforma costituzionale), la Corte ha ribadito che “è sempre costituzionalmente obbligatoria la consultazione delle popolazioni residenti nei territori che sono destinati a passare da un comune preesistente ad uno di nuova istituzione, ovvero ad un altro comune preesistente;…e che, in linea di principio, anche le popolazioni della restante parte del comune che subisce la decurtazione territoriale possono essere interessate alla variazione, così che il legislatore regionale, nello stabilire i criteri per individuare l'ambito della consultazione, non può escludere tali ulteriori popolazioni se non sulla base di elementi idonei a fondare ragionevolmente una valutazione di insussistenza di un loro interesse qualificato in rapporto alla variazione territoriale proposta”. Peraltro, le condizioni che possono giustificare la limitazione del referendum alla sola popolazione direttamente interessata alla variazione territoriale – vale a dire una preesistente individualità della comunità costituente la frazione stessa e l'assenza di significativi interessi coinvolti nella variazione, facenti capo alla restante parte del comune da cui la frazione intende distaccarsi – debbono essere definite dal legislatore regionale, così che se ne possa apprezzare la ragionevolezza, e comunque la loro esistenza deve essere verificata in concreto dall'organo regionale che delibera di far luogo al referendum, con decisione motivata suscettibile di essere controllata in sede giurisdizionale (sentenza 47).
 


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