[A cura di  M. Bellocci, P. Passaglia, R. Schulmers]
 
 
 
 
1. Considerazioni generali
In sede introduttiva, si è avuto modo di sottolineare l’incremento del numero di ricorsi in via principale che ha caratterizzato il 2004; ciò che più appare rilevante, peraltro, è che nelle decisioni sono state trattate complessivamente oltre 700 questioni di legittimità costituzionale (nella cifra sono considerate nella loro autonomia le questioni identiche trattate congiuntamente, come – ad esempio – nelle sentenzenumeri 4, 26 e 425, mentre risultano aggregate le questioni che, seppure poste in atti introduttivi diversi, la stessa Corte ha provveduto ab origine ad accorpare in modo trasversale, come – ad esempio – nelle sentenze numeri 9, 14 e 196).
Delle 97 decisioni, 16 sono state rese con ordinanza, e ben 81 con sentenza.
Tra le prime, 2 pronunciano l’estinzione del giudizio per rinunzia (ordinanze numeri 31 e 243) ed altrettante la cessazione della materia del contendere a causa della promulgazione parziale della legge oggetto del giudizio promosso dal Commissario dello Stato per la Regione siciliana, con omissione delle disposizioni impugnate (ordinanze numeri 32 e 131). In 3 ordinanze si decide invece per la manifesta inammissibilità, o a causa della intempestività della notificazione (n. 42), o della tardività del deposito del ricorso (n. 48), o della inadeguatezza della motivazione offerta dal ricorso in relazione ai parametri invocati (n. 416). Con 4 ordinanze, invece, si dichiara la cessazione della materia del contendere a causa della modifica della normativa impugnata (ordinanzenumeri 137, 203, 274 e 432); a queste va affiancata l’ordinanza n. 416, nella quale si prende in considerazione, più in generale, la diversità del quadro normativo, risultante anche da una precedente decisione della Corte costituzionale. Sempre nel senso della cessazione è l’ordinanza n. 440, in ragione dell’affermarsi, nelle prassi applicative, di una interpretazione della disposizione impugnata non lesiva delle posizioni costituzionali difese in giudizio.
Le ordinanze numeri 116, 117, 118 e 119, invece, dispongono il rinvio della trattazione delle domande di sospensione dell’atto legislativo impugnato – istituto introdotto dall’art. 9 della legge n. 131 del 2003 – alla data già fissata per la trattazione del merito.
Delle 97 decisioni del 2004, 51 risultano rese a seguito di ricorsi regionali, mentre 46 a seguito di ricorsi dello Stato.
Nessuna decisione ha avuto ad oggetto questioni costruite su parametri individuati nel testo del Titolo V della Parte seconda della Costituzione anteriore alla riforma del 2001.
 
2. La separazione e la riunione delle cause
Nel corso dell’anno la giurisprudenza costituzionale ha avuto modo di consolidare alcune prassi che – sul versante processuale – erano già emerse nell’anno precedente. In particolare, è stata utilizzata in più occasioni la tecnica della separazione delle questioni proposte con il medesimo ricorso e del loro contestuale accorpamento «trasversale» con questioni omogenee proposte da altri ricorsi.
A tale tecnica la Corte ricorre nel caso di una pluralità di ricorsi proposti avverso un medesimo atto normativo e che tuttavia siano caratterizzati dalla impugnazione di disposizioni dal contenuto molto eterogeneo. Le singole questioni proposte dai diversi ricorsi introduttivi vengono prima separate e poi riunite in un unico giudizio in modo tale che con una decisione unica possano essere risolte questioni omogenee, sia pure sollevate da più di un ricorso.
Con questo sistema le pronunce del 2004 hanno deciso complessivamente 115 ricorsi in via principale, di cui 59 di iniziativa regionale, 46 di iniziativa statale, 3 del Commissario dello Stato per la Regione siciliana, 1 del Consigliere regionale dell’Umbria Ripa di Meana e 6 seguiti di ricorsi del 2002 decisi a partire dal 2003. Dei 115 ricorsi decisi, 2 erano stati depositati nel 2001, 26 nel 2002, 60 nel 2003 e 27 nel 2004.
La «separazione-riunione» delle questioni è stata utilizzata, ad esempio, nelle decisioni concernenti le leggi finanziarie per il 2002, per il 2003 e per il 2004 (si tratta delle sentenze numeri 1, 3, 4, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 26, 36, 37, 49, 201, 236, 260, 307, 308, 320, 345, 353, 381, 390, 423, 424 e 425), nelle sentenze con le quali sono stati risolti i dubbi di costituzionalità riguardanti la c.d. «legge La Loggia» (sentenze numeri 236, 238, 239 e 280), nonché in quelle con cui sono state decise le questioni avverso il decreto legge n. 269 del 2003 (sentenze numeri 196, 286, 287 e 423).
In altri casi – caratterizzati da una struttura più semplice del contenzioso – la Corte si limita più comunemente a riunire i ricorsi vertenti sulla medesima normativa statale (cfr., ad es., le sentenze numeri 6, 274 e 388), o i ricorsi dello Stato concernenti leggi di diverse Regioni aventi analogo contenuto (cfr., ad es., le sentenze numeri 162, 198 e 228), ovvero si limita a separare le questioni proposte con un solo ricorso (sentenze numeri 16, 18, 261, 354, 380, 412, 414 e 427).
 
3. La corrispondenza tra delibera e ricorso
Sul versante della corretta instaurazione del giudizio, si ribadisce innanzi tutto – con le sentenze numeri 238 e 286 – la necessaria corrispondenza tra delibera dell’organo politico e contenuto del ricorso, almeno per quel che concerne la individuazione delle disposizioni asseritamente incostituzionali, con conseguente inammissibilità delle censure proposte avverso le disposizioni non contemplate dalla delibera (sentenze numeri 134 e 425). Si noti peraltro che nella sentenza n. 286 è stato esplicitamente affermato che la delibera della Giunta regionale concernente l’impugnazione di una determinata disposizione è idonea a «reggere» l’impugnazione della disposizione dalla quale essa sia stata successivamente sostituita, purché essa sia sostanzialmente riproduttiva della prima.
È interessante notare, altresì, come il contenuto della delibera governativa è individuato dalla Corte, nella sua esatta consistenza, mediante il riferimento alla relazione del Ministro per gli affari regionali, che vale a delimitarne il contenuto (cfr., esplicitamente, le sentenze numeri 43, 70 e 134).
L’importanza della delibera, al fine di giudicare della ammissibilità del ricorso, è determinante. Al riguardo, peraltro, si può notare come la Corte non abbia considerato senz’altro onere del ricorrente produrre la delibera dell’organo politico. Infatti, nell’ambito della vicenda decisa con la sentenza n. 134, essa è stata acquisita a seguito di ordinanza istruttoria adottata in data 11 luglio 2003.
Va segnalata, infine, anche la sentenza n. 229, nella quale si esclude che possa valere ad estendere l’ambito di impugnazione – rispetto a quanto indicato nella delibera – la «comunicazione» dell’Avvocatura che, secondo il Governo, l’impugnativa dovrebbe ritenersi estesa a tutto l’impianto della legge.
 
4. I parametri invocabili 
Quanto ai parametri di costituzionalità invocabili dai soggetti ricorrenti, la Corte ha avuto modo di ribadire sia la giurisprudenza inaugurata – nel vigore del nuovo Titolo V – con la sentenza n. 274 del 2003, secondo la quale la modifica costituzionale non ha fatto venir meno il potere dello Stato di impugnare le leggi regionali anche per violazione di parametri differenti dal riparto di competenze (cfr. sentenza n. 162), sia l’affermazione secondo la quale le Regioni possono impugnare leggi statali per violazione di parametri differenti da quelli concernenti il riparto di competenze ove tale violazione «ridondi» nella compressione delle proprie prerogative costituzionali (cfr., ad es., le sentenze numeri 4, 196, 228, 280, 286 e 287). Tale indirizzo, che successivamente alla riforma costituzionale trova la sua prima manifestazione nella sentenza n. 303 del 2003, si inserisce del resto – come è noto – nel solco di quanto pacificamente affermato anche prima dell’entrata in vigore della legge cost. n. 3 del 2001.
 
5. L’individuazione del parametro invocato e la motivazione delle censure
Anche sul versante dell’onere di motivazione delle censure proposte dai ricorrenti, le decisioni del 2004 offrono numerose conferme. Così, ad esempio, si ritrova l’affermazione della inammissibilità di censure costruite sulla mera indicazione del parametro asseritamente violato, senza offrire alcuna motivazione al riguardo (sentenza n. 7, ove si evidenzia come il ricorso non individua gli specifici dei profili di contrasto con il parametro, che rimane semplicemente enunciato, nonché sentenze numeri 196, 198, 376, 416 e 425), ovvero offrendone una assolutamente generica (sentenza n. 73, ove si evidenzia la carente individuazione dei principi fondamentali asseritamente violati in un caso di invocazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., nonché sentenze numeri 176, 196, 354 e 424); con la precisazione, inoltre, secondo la quale il difetto di motivazione non è sanabile nella memoria presentata nell’imminenza dell’udienza (sentenze numeri 286 e 423). In senso analogo dispone la sentenza n. 70, che dichiara l’inammissibilità di una questione di legittimità costituzionale relativa a disposizione del tutto estranea «rispetto alle ragioni della pretesa incostituzionalità fatte valere nell’atto introduttivo» del giudizio. Nella medesima logica, ancora, si pone la sentenza n. 167, ove si evidenzia come il «trasferimento del parametro» richiesto dal ricorrente su una normativa sopravvenuta alla proposizione del ricorso – rispetto alla disciplina invocata quale parametro interposto e caducata da una dichiarazione di incostituzionalità nelle more del giudizio costituzionale – lederebbe il diritto di difesa della parte resistente in quanto quest’ultima non potrebbe essere gravata dell’onere di verificare per quali profili il parametro «vecchio» risulti sostanzialmente riprodotto nel parametro «nuovo».
Ancorché succintamente argomentate, comunque, le censure devono ritenersi ammissibili quando siano chiare e determinate, e non lascino dubbi sull’oggetto della contestazione (sentenza n. 34; analogamente, sentenza n. 162). Viceversa, sono inammissibili le censure formulate «in modo oscuro e perplesso» (sentenza n. 75).
 
5.1. (Segue:) la individuazione del parametro nei ricorsi concernenti le Regioni speciali (art. 10 legge cost. n. 3 del 2001)
 In conformità a quanto già affermato nella sentenza n. 213 del 2003, la Corte ribadisce la necessità di tenere conto, nell’individuazione del parametro di costituzionalità, della perdurante vigenza delle forme e condizioni di autonomia stabilite negli Statuti speciali e dunque l’impossibilità di invocare direttamente ed unicamente norme del Titolo V della Costituzione senza argomentare sull’applicabilità dell’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001. Dalla sentenza n. 8 emerge con chiarezzache i ricorsi dello Stato nei confronti di leggi delle Regioni a statuto speciale, nel caso in cui intendano far valere la violazione del riparto di competenze, devono essere fondati sulla ricostruzione di un parametro articolato, nel quale siano considerate sia le attribuzioni riconosciute alle titolari della potestà legislativa dagli Statuti speciali che quelle loro spettanti in seguito alla riforma costituzionale del 2001.
Anche i ricorsi delle Regioni speciali, naturalmente, sono inammissibili ove invochino norme del nuovo Titolo V senza argomentare circa la applicabilità, ex art. 10 legge cost. n. 3 del 2001, di tali disposizioni (sentenza n. 424). A ciò fa eccezione il parametro costituito dal quinto comma dell’art. 117 Cost., il quale fa esplicito riferimento – tra i suoi destinatari – anche alle Regioni speciali (sentenza n. 239).

6. L’individuazione dell’oggetto
 La adeguata motivazione deve sorreggere, naturalmente, non solo i parametri, ma anche la individuazione delle disposizioni che il ricorrente intende censurare. Quando il corpus normativo individuato quale oggetto del giudizio sia costituito da più disposizioni dal contenuto eterogeneo, le censure devono essere pertinenti a ciascuna delle disposizioni in questione a pena di inammissibilità (cfr., ad esempio, la sentenza n. 320). La Corte, peraltro, ove ciò sia consentito dalle circostanze, evita in alcuni casi di dichiarare la (sia pure parziale) inammissibilità nei casi in cui le censure del ricorso siano declinate solo nei confronti di alcune delle disposizioni facenti parte del corpus normativo impugnato (fosse esso individuabile nell’intera legge o in un singolo articolo dal contenuto particolarmente complesso), ricorrendo invece ad una interpretazione «delimitativa» del ricorso stesso nel senso di considerarlo portatore solo delle censure adeguatamente precisate (cfr., ad es., sentenze numeri 15, 74, 166, 196 e 380).
Al riguardo, è significativa anche la sentenza n. 162, nella quale tale «interpretazione» del ricorso viene compiuta «anche in base alla delibera del Consiglio dei ministri». In senso analogo si collocano altresì le sentenze numeri 112 e 134.
La Corte ribadisce inoltre, con la sentenza n. 412 questioni sollevate sulla base di interpretazioni prospettate dal ricorrente come possibili, a condizione che queste ultime non siano implausibili e irragionevolmente scollegate dalle disposizioni impugnate così da far ritenere le questioni del tutto astratte o pretestuose». Nello stesso senso anche l’ordinanza n. 440., l’orientamento per il quale il giudizio in via principale «può concernere
 
7. L'impugnazione dell'intera legge 
Rimane in linea di massima inammissibile l’impugnazione di un’intera legge, anche se talvolta – come appena richiamato – la Corte «interpreta» il ricorso, in base alle motivazioni in esso contenute, delimitandone l’oggetto alle disposizioni effettivamente censurate (sentenza n. 166). Nel caso della sentenza n. 237 il ricorso è ammissibile perché la legge in questione è composta da un articolo unico.
8. L’interesse a ricorrere
 In relazione a tale profilo, è particolarmente significativa soprattutto la sentenza n. 196, nella quale si afferma la legittimazione delle Regioni – sotto il profilo dell’interesse al ricorso – a far valere le competenze degli enti locali nei giudizi avverso le leggi dello Stato. La Corte, nel caso di specie, sottolinea non soltanto la stretta connessione tra le attribuzioni regionali e quelle delle autonomie locali coinvolte dalla disciplina del condono edilizio, connessione tale da far ritenere la lesione delle competenze locali «potenzialmente idonea a determinare una vulnerazione delle competenze regionali», ma si preoccupa altresì di rilevare il fatto che «il nuovo quarto comma dell’art. 123 Cost. ha configurato il Consiglio delle autonomie locali come organo necessario della Regione e che l’art. 32, secondo comma, della legge n. 87 del 1953 (così come sostituito dall’art. 9, comma 2, della legge n. 131 del 2003), ha attribuito proprio a tale organo un potere di proposta alla Giunta regionale relativo al promovimento dei giudizi di legittimità costituzionale in via diretta contro le leggi dello Stato».
La mancanza di interesse al ricorso è inoltre alla base della decisione di manifesta inammissibilità adottata con la sentenza n. 17, nella quale si afferma che «non può essere configurata alcuna lesione della sfera di competenza regionale, in quanto trattasi di disciplina di imposte esclusivamente statali». Analogamente – nel senso della carenza di interesse – dispongono le sentenze numeri 228 e 236 (la quale ultima si fonda sulla rilevata carenza di attualità dell’interesse), nonché la sentenza n. 414, nella quale la Corte sottolinea che la lesione dovrebbe semmai essere ricondotta a diverse disposizioni di legge, e la sentenza n. 429.
In un caso in cui la norma impugnata aveva ricevuto definitiva attuazione attraverso la adozione di due decreti ministeriali, supportati dal parere unanime dei rappresentanti delle Regioni, compresa la ricorrente, con conseguente venir meno dell’interesse ad una pronunzia di accoglimento, la Corte ha pronunciato la cessazione della materia del contendere (sentenza n. 320). Analogamente, nell’ordinanza n. 440, la Corte ha dichiarato la cessazione della materia del contendere, «essendo sopravvenuta una situazione di carenza di interesse della ricorrente alla prosecuzione del giudizio».
 
9. Il termine per il ricorso 
Quanto al termine per l’impugnazione di una legge in via diretta, può essere segnalato come in più di una decisione la Corte rigetti eccezioni sollevate dallo Stato secondo le quali i ricorsi delle Regioni andavano dichiarati inammissibili in quanto rivolti avverso disposizioni di leggi di conversione di decreti legge riproduttive del contenuto di questi ultimi, e proposti intempestivamente in relazione ad essi. Al riguardo, le sentenze numeri 272, 286 e 287 sottolineano come, in ogni caso, il termine per l’impugnazione della legge di conversione debba essere calcolato avendo riferimento a questa e non al relativo decreto legge.
Sempre a proposito della perentorietà del termine del ricorso, l’ordinanza n. 42 ribadisce l’inapplicabilità al giudizio costituzionale dell’istituto della sospensione feriale dei termini.


10. La notifica ed il deposito del ricorso
Anche nell’anno 2004 la Corte ha avuto modo di confermare la propria giurisprudenza sulla inammissibilità della notifica al Presidente del Consiglio dei ministri presso l’Avvocatura generale dello Stato anziché presso la Presidenza del Consiglio dei ministri (ordinanza n. 42 e sentenza n. 196), nonché sulla perentorietà del termine di dieci giorni dalla notifica per il deposito del ricorso stabilito dall’art. 31, terzo comma, della legge n. 87 del 1953 e, ora, dal comma 4 dello stesso art. 31, come sostituito dall’art. 9 della legge n. 131 del 2003 (ordinanze numeri 42 e 48; sentenza n. 162).


11. L’intervento di terzi in giudizio
 In più di un’occasione la Corte ribadisce anche l’ormai consolidata preclusione nei confronti dell’intervento nei giudizi in via principale di soggetti diversi dai titolari delle attribuzioni legislative in contestazione (sentenze numeri 166, 167 e 196). Nell’ordinanza allegata a quest’ultima sentenza e letta in pubblica udienza, la Corte sente peraltro l’esigenza di precisare che «il giudizio di costituzionalità delle leggi, promosso in via di azione ai sensi dell’art. 127 Cost. e degli artt. 31 e seguenti della legge 11 marzo 1953, n. 87, è configurato come svolgentesi esclusivamente fra soggetti titolari di potestà legislativa, fermi restando, per i soggetti privi di tale potestà, i mezzi di tutela delle loro posizioni soggettive, anche costituzionali, di fronte ad altre istanze giurisdizionali ed eventualmente anche di fronte a questa Corte in via incidentale».
 
12. La sospensiva nel giudizio sulle leggi 
Nei giudizi aventi ad oggetto la disciplina del «condono edilizio», la Corte è stata per la prima volta sollecitata a dare applicazione al nuovo istituto della sospensione di atti legislativi di cui all’art. 35 della legge n. 87 del 1953, come sostituito dall’art. 9 della legge n. 131 del 2003, il quale dispone che «qualora la Corte ritenga che l’esecuzione dell’atto impugnato o di parti di esso possa comportare il rischio di un irreparabile pregiudizio all’interesse pubblico o all’ordinamento giuridico della Repubblica, ovvero il rischio di un pregiudizio grave ed irreparabile per i diritti dei cittadini, trascorso il termine di cui all’articolo 25, d’ufficio può adottare i provvedimenti di cui all’articolo 40». Tale ultima disposizione, come è noto, prevede la possibilità della sospensione, in pendenza di giudizio, degli atti impugnati nell’ambito del conflitto di attribuzione tra Stato e Regioni.
Sia alcune Regioni che ricorrevano contro la disciplina statale, sia lo Stato che aveva impugnato alcune leggi regionali hanno avanzato formali istanze di applicazione del citato art. 35 della legge n. 87 del 1953. Tuttavia, nell’imminenza della camera di consiglio del 24 marzo, fissata per la decisione su tali richieste di sospensione, l’Avvocatura dello Stato ha depositatoun atto con il quale, «in considerazione […] della prossimità dell’udienza stabilita per la trattazione del merito dei ricorsi» (11 maggio), il Presidente del Consiglio dei ministri rinunciava «alla immediata decisione» circa i richiesti provvedimenti cautelari; le Regioni, dal canto loro, sulla base della rinuncia statale, aderivano alla richiesta di differimento della trattazione «delle istanze cautelari auspicata dall’Avvocatura contestualmente alla propria rinuncia».
La Corte, ritenendo di dovere «prendersi atto» di tale rinuncia, ha disposto il rinvio dell’esame delle istanze di sospensione delle leggi regionali all’udienza pubblica dell’11 maggio, per la quale era fissata la trattazione dei ricorsi nel merito (ordinanze numeri 117, 118 e 119); con l’ordinanza n. 116 ha disposto analogo rinvio anche per l’esame delle istanze di sospensione presentate dalle Regioni nei confronti della normativa statale.
A causa della intervenuta decisione di merito, la Corte ha poi dichiarato il «non luogo a provvedere» in relazione alle citate istanze di sospensione (sentenze numeri 196 e 198).


13. I tipi di sentenze
13.1. Le sentenze «interpretative»
 Anche nel corso del 2004 la Corte costituzionale ha fatto uso di alcune tipologie di sentenze che ormai rientrano nel suo strumentario consolidato, quali le sentenze interpretative di rigetto, in cui la questione di costituzionalità viene ritenuta infondata in base ad una interpretazione della disposizione impugnata differente rispetto a quella proposta dal soggetto ricorrente.
In questo schema si inquadrano senza dubbio le sentenze numeri 3, 4, 13, 238, 345, 353 e 423, che recano nel dispositivo la decisione di non fondatezza «nei sensi di cui in motivazione».
Interpretativa è anche la sentenza n. 280, che affronta le questioni concernenti i commi 4, 5 e 6 dell’art. della legge n. 131 del 2003, meglio nota come «legge La Loggia». Per vero, la «reinterpretazione» riguarda solo il comma 4, mentre i restanti due commi impugnati sono dichiarati incostituzionali in quanto in «irrimediabile contrasto» con la lettura del comma 4 appena esplicitata ed unica conforme a Costituzione.
A fianco di tali sentenze meritano inoltre di essere richiamate alcune decisioni nelle quali la decisione di infondatezza è sorretta non già da una differente interpretazione della disposizione impugnata, ma da una più adeguata – o più completa – ricostruzione del quadro normativo complessivamente inteso rispetto a quella su cui era basato il ricorso. Al riguardo, si vedano le sentenze numeri 7, 8 (dove si fa riferimento all’interpretazione sistematica) e 172.
Può essere richiamata, infine, la sentenza n. 6, nella quale la decisione di infondatezza è basata – tra l’altro – sulla considerazione secondo la quale l’intesa menzionata dalla normativa impugnata «va considerata come un’intesa “forte”, nel senso che il suo mancato raggiungimento costituisce ostacolo insuperabile alla conclusione del procedimento». Tale interpretazione, come nota la stessa sentenza n. 6, era avallata anche dall’Avvocatura dello Stato.


13.2. Le sentenze «manipolative»
 Non sono mancate, nel corso dell’ultimo anno, neppure le sentenze c.d. «manipolative».
Le sentenze numeri 13, 196 e 308 possono essere inquadrate come contenenti decisioni «additive». Nella sentenza n. 196, in particolare, la Corte giunge sino ad individuare il tenore esatto delle parole che devono essere introdotte nel testo legislativo sottoposto al suo esame perché possano essere sanati i vizi di costituzionalità.
Alcune sentenze contengono invece dispositivi «riduttivi» (o «ablativi»). Tra queste, si segnalano: la sentenza n. 196, a proposito della illegittimità costituzionale dell’Allegato 1 del decreto legge n. 269 del 2003; la sentenza n. 380, che dichiara l’incostituzionalità di una disposizione «nella parte in cui» si applica a determinate fattispecie; la sentenza n. 423, che individua specificamente le parti della disposizione da colpire mediante le formule «limitatamente alle parole», «limitatamente all’inciso»; la sentenza n. 390 mediante la dicitura «limitatamente alla parte in cui dispone che […]».
Nella già menzionata sentenza n. 196, inoltre, sono presenti alcuni dispositivi qualificabili come «sostitutivi».
 
13.3. Le altre tecniche dedisorie 
La sentenza n. 43 si segnala perché individua nella disposizione impugnata una «incompletezza» rispetto a quello che dovrebbe essere lo standard costituzionalmente prescritto; la decisione, tuttavia, è nel senso della infondatezza, evidenziandosi che «la rilevata incompletezza non [è] tale da inficiare la legittimità costituzionale della norma medesima», e che il suo «completamento» deve essere ritenuto condizione di applicabilità della norma stessa.
La sentenza n. 196 dichiara la illegittimità costituzionale di numerose disposizioni, nella parte in cui non assegnano alle Regioni un ruolo nel «completamento» della normativa medesima, intervenendo direttamente con disposizioni di dettaglio. Nel testo della decisione, tuttavia, si evidenzia che, ove le Regioni non provvedessero a compiere le proprie scelte normative entro un termine stabilito dallo Stato, ma comunque «congruo», dovrebbero ritenersi applicabili le norme statali anche nelle parti dichiarate incostituzionali.
La sentenza n. 255 è nel senso della infondatezza. Tuttavia, dal testo della decisione emerge che la normativa impugnata appare sostanzialmente incompatibile con l’assetto costituzionale risultante dalla riforma del 2001, e che la sua «salvezza» dipende esclusivamente dal suo carattere di temporaneità.


14. Le pronunzie di illegittimità costituzionale consequenziale
 Anche nel corso del 2004, in alcuni casi la Corte costituzionale ha dichiarato la illegittimità costituzionale consequenziale di disposizioni differenti da quelle impugnate, in applicazione dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953. Tale istituto, infatti, come ha ribadito la sentenza n. 2, può essere applicato anche ai giudizi in via principale, in quanto «esprime un principio di diritto processuale che è valido per tutte le questioni di legittimità costituzionale previste dal Capo II della predetta legge n. 87, come si desume anche dalla dizione letterale del citato art. 27».
In particolare, ciò è avvenuto nella sentenza n. 166, nell’ambito della quale la consequenzialità deriva dalla strumentalità delle norme colpite ex art. 27 rispetto a quelle dichiarate incostituzionali in accoglimento del ricorso, nonché nella sentenza n. 272. Si vedano, inoltre, le sentenze numeri 2 e 378 (infra, par. 19).


15. Lo «statuto» della «cessazione della materia del contendere» per ius superveniens
 L’ordinanza n. 137 individua in modo esplicito i passaggi argomentativi necessari a dichiarare la cessazione della materia del contendere a seguito di sopravvenienze normative intervenute nel corso del giudizio. A tal fine, per prima cosa, deve valutarsi se la normativa in questione sia effettivamente «sopravvenuta», in quanto pertinente rispetto all’oggetto del giudizio.
In secondo luogo, è necessario verificare se lo ius superveniens sia caratterizzato da una effettiva innovatività, ovvero se «dalla disposizione legislativa sopravvenuta [sia] desumibile una norma sostanzialmente coincidente con quella impugnata nel ricorso». In tal caso «la questione – in forza del principio di effettività della tutela costituzionale delle parti nei giudizi in via d’azione – dovrebbe essere trasferita sulla nuova norma».
In terzo luogo, si deve accertare «il carattere satisfattivo o meno» dello ius superveniens «rispetto alle censure fatte valere nell’atto introduttivo del giudizio».
Tuttavia, anche nel caso in cui le pretese della parte ricorrente risultino soddisfatte dalla modifica normativa, affinché possa addivenirsi ad una dichiarazione di cessazione della materia del contendere sarà necessario verificare se la disposizione oggetto del giudizio «abbia ricevuto una qualche attuazione medio tempore». Ciò in quanto, ove così fosse, permarrebbe l’interesse al ricorso e la Corte dovrebbe pronunziarsi nel merito.
Allorché si verifichino le suddette condizioni, può essere dichiarata la cessazione della materia del contendere, dal momento che risulta venuta meno «la necessità di una pronunzia della Corte».
Al di fuori dei casi in cui la mancata attuazione della disposizione impugnata emerga con chiarezza (si pensi ad esempio alla sentenza n. 12), per l’accertamento di tale circostanza, nell’ordinanza n. 203 vengono utilizzate ad esempio le dichiarazioni provenienti da soggetti qualificati (quali il Difensore civico della Regione Abruzzo, evidenziando come la valutazione di quest’ultimo sia «condivisa dalla stessa ricorrente»).
Nell’ordinanza n. 274 si dichiara cessata la materia del contendere in relazione alle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 35 della legge n. 448 del 2001, in quanto si ritiene che le nuove disposizioni medio tempore entrate in vigore, nonché la declaratoria di incostituzionalità operata dalla sentenza n. 272 abbiano determinato un mutamento del quadro normativo in senso complessivamente satisfattivo delle pretese delle ricorrenti; ciò anche in considerazione della mancata attuazione della normativa impugnata in conseguenza della mai avvenuta adozione del regolamento governativo di attuazione.
Ancora nel senso della (parziale) cessazione della materia del contendere, per effetto di sopravvenienze normative sostanzialmente satisfattive delle pretese del ricorrente, sono le sentenze numeri 8, 15, 17, 36, 196, 345 e 424.
Per due casi di trasferimento della questione sulla nuova norma, in quanto sostanzialmente riproduttiva o comunque non modificativa del contenuto della disposizione censurata, si segnalano le sentenze numeri 286 e 431.
La sopravvenienza normativa in corso di giudizio fonda anche la dichiarazione di cessata materia del contendere dell’ordinanza n. 432, nella quale la Corte prende atto di un intervento del legislatore statale che aveva fatto salve pro tempore le disposizioni regionali oggetto di impugnazione stabilendone la necessaria applicazione.
Da segnalare, infine, è la sentenza n. 14, nella quale la Corte ritiene di non prendere in considerazione lo ius superveniens, per decidere nel merito una delle questioni proposte nel senso della infondatezza.


16. La cessazione della materia del contendere per promulgazione parziale delle leggi regionali siciliane
Anche nel corso dell’anno 2004 non mancano alcune decisioni con le quali la Corte – conformemente alla giurisprudenza ormai consolidata – pronuncia la cessazione della materia del contendere in relazione alle questioni sollevate nei confronti di leggi della Regione siciliana che vengano successivamente promulgate con omissione delle parti impugnate. In tal senso, si vedano le ordinanze numeri 32 e 131.


17. L’estinzione del giudizio
L’ordinanza n. 31 pronuncia l’estinzione del giudizio. Della vicenda sottesa a tale provvedimento possono essere evidenziate le seguenti particolarità.
Innanzi tutto che – da un punto di vista sostanziale – la rinunzia al ricorso da parte dello Stato è basata su una nota proveniente dal Presidente della Regione che fornisce, secondo quanto affermato nello stesso atto di rinuncia, «un’adeguata interpretazione della norma che sembra poter far superare l’eccezioni sollevate dal Governo».
In secondo luogo, che il deposito dell’atto di rinuncia, successivo allo svolgersi dell’udienza pubblica, precede di ben sei mesi il deposito dell’atto formale di accettazione da parte della Regione.
Altre decisioni che pronunciano l’estinzione per rinunzia sono l’ordinanza n. 243 ele sentenze numeri 390 e 424.
Merita infine di essere richiamata la sentenza n. 134, nella quale si evidenzia come il potere di rinunziare al ricorso sia attribuito al Presidente del Consiglio dei ministri, e non ai singoli ministri.


18. Altri tipi di decisione
 Con la sentenza n. 74 la Corte dichiara l’inammissibilità della questione sottopostale, a seguito della «individuazione dell’esatto contenuto della normativa oggetto del […] giudizio», ricostruito in modo differente da quanto era stato fatto nel ricorso introduttivo.
La sentenza n. 167, invece, dichiara la inammissibilità della questione a causa del venir meno, in seguito ad una precedente sentenza di illegittimità costituzionale, dei principi fondamentali della materia invocati come parametro interposto a sostegno della presunta violazione della competenza statale in materia di potestà legislativa concorrente. Né può valere ad evitare tale esito il sopravvenire di una nuova normativa, sostanzialmente riproduttiva delle norme abrogate, in quanto nessuna continuità normativa può ritenersi sussistente tra le due fonti, poiché con la dichiarazione di illegittimità costituzionale delle precedente disciplina, questa viene rimossa con effetto ex tunc, ciò che impedisce di operare qualunque «saldatura» tra le due fonti.
Nella sentenza n. 286 la Corte dichiara inammissibile una questione propostale, in quanto «censura di mero fatto», che non riguarda una presunta lesività della norma impugnata.


19. Il giudizio ex art. 123, secondo comma, della Costituzione
Con le quattro sentenze numeri 2, 372, 378 e 379, la Corte si è pronunciata su altrettanti ricorsi del Governo avverso le prime organiche deliberazioni legislative di adozione dei nuovi statuti da parte delle Regioni Calabria, Toscana, Umbria ed Emilia-Romagna.
Nella sentenza n. 378, chiamata a decidere anche sul ricorso presentato da un Consigliere regionale di minoranza avverso la delibera statutaria della Regione Umbria, la Corte ha l’occasione per fornire un chiarimento sui soggetti legittimati a promuovere il giudizio ex art. 123 della Costituzione. Nel dichiarare inammissibile il ricorso del Consigliere regionale, la Corte si fonda principalmente sull’argomento secondo il quale «l’impugnativa in via principale per motivi di costituzionalità delle leggi e degli statuti regionali è determinata da fonti costituzionali, secondo quanto reso palese dagli articoli 123 e 127 della Costituzione, nonché dall’articolo 2 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1 […], che individuano soltanto nel Governo e nelle Giunte regionali gli organi che possono ricorrere in via principale alla Corte costituzionale»; argomento confermato «dal primo comma dell’articolo 137 della Costituzione, secondo il quale “una legge costituzionale stabilisce le condizioni, le forme, i termini di proponibilità dei giudizi di legittimità costituzionale […]”». Analogamente, secondo la medesima pronuncia, è da escludere l’ammissibilità dell’intervento dello stesso Consigliere regionale nel giudizio in via principale promosso dal Governo, in quanto «anche nel giudizio sulla speciale legge regionale disciplinata dall’articolo 123 della Costituzione, gli unici soggetti che possono essere parti sono la Regione, in quanto titolare della potestà normativa in contestazione, e lo Stato, indicato dalla Costituzione come unico possibile ricorrente». Anche in questo caso, peraltro, la Corte si preoccupa di precisare che «restano fermi, naturalmente, per i soggetti privi di tali potestà i mezzi di tutela delle loro posizioni soggettive dinanzi ad altre istanze giurisdizionali ed anche dinanzi a questa Corte nell’ambito del giudizio in via incidentale».
Conseguenza naturale della inammissibilità del ricorso e dell’intervento del Consigliere regionale è poi la inconoscibilità, da parte della Corte, delle censure e delle deduzioni ivi prospettate (in particolare, era stato sollevato un vizio di conformità della seconda deliberazione statutaria rispetto alla prima non rilevato nell’impugnazione governativa); l’oggetto del giudizio in via diretta in ordine alla legittimità costituzionale delle delibere statutarie resta imprescindibilmente fissato nel ricorso introduttivo del Governo. Al riguardo, però, vale anche qui il potere della Corte, ampiamente utilizzato nel giudizio sugli atti legislativi, di valutare le motivazioni addotte nel ricorso al fine di «delimitare» l’oggetto delle censure; ed è così che, in qualche caso, censure rivolte genericamente a disposizioni nel loro complesso, vengono circoscritte solo ad alcuni commi escludendone altri (sentenza n. 2).
Sempre sul piano dell’oggetto del giudizio, la Corte è stata anche sollecitata in due circostanze ad autorimettersi questioni di legittimità costituzionale di norme diverse da quelle contenute nelle delibere statutarie impugnate; ma in entrambi i casi non si è dato seguito a tali richieste, sottolineando in termini espliciti la manifesta infondatezza delle questioni (sentenze numeri 2 e 378).
Una particolare ragione di inammissibilità di alcune questioni proposte nei ricorsi governativi è stata affermata nelle sentenze numeri 372, 378 e 379, dove la Corte ha chiarito che le proclamazioni di obiettivi e di impegni costituiscono enunciazioni statutarie a carattere non prescrittivo e non vincolante, di talché «esse esplicano una funzione, per così dire, di natura culturale o anche politica, ma certo non normativa». Tali disposizioni «non comportano né alcuna violazione, né alcuna rivendicazione di competenze costituzionalmente attribuite allo Stato e neppure fondano esercizio di poteri regionali», sicché risultano del tutto prive di «idoneità lesiva», rendendo conseguentemente inammissibili le relative censure.
Quanto agli esiti di questo tipo di giudizi, va segnalato l’uso non infrequente che la Corte ha fatto dell’istituto della illegittimità consequenziale in riferimento ad altre disposizioni non censurate delle medesime deliberazioni statutarie sottoposte ad impugnazione. Nella sentenza n. 2, l’art. 27 della legge n. 87 del 1953 è stato applicato a disposizioni che disciplinavano «alcune fasi ulteriori dei procedimenti» previsti nelle norme dichiarate incostituzionali o che facevano «esplicito riferimento agli istituti ivi previsti»; nella sentenza n. 378, la dichiarazione di illegittimità consequenziale ha toccato una disposizione che prevedeva «un ulteriore svolgimento di quanto disciplinato» in una delle norme caducate principaliter.
 

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