[A cura di  M. Bellocci, P. Passaglia, R. Schulmers]
 
 
 
 
 
 
 
1. Premessa
L’aspetto forse più caratterizzante, nel complesso, della giurisprudenza costituzionale del 2004 è dato dal gran numero di interventi che la Corte ha posto in essere sul nuovo Titolo V della Parte seconda della Costituzione. Nel corso dell’anno, infatti, la Corte ha statuito ripetutamente su alcuni dei profili più problematici: in questo capitolo si è tentato di operare una sintesi di questa assai corposa serie di decisioni, con l’obiettivo di tratteggiarne anche una sistematizzazione.
Scorrendo i titoli dei paragrafi, si intuiscono alcuni dei problemi su cui la Corte è stata chiamata a pronunciarsi; fa, probabilmente, eccezione la «giurisprudenza sulla legge La Loggia», la quale, per esigenze sistematiche, anziché essere trattata unitariamente nell’ambito di un ipotetico paragrafo dedicato alla attuazione in via legislativa della riforma costituzionale del 2001, è stata scissa in base all’oggetto proprio delle singole decisioni.
 
2. Un regionalismo cooperativo
 È unanime la constatazione dell’importanza assunta dalla giurisprudenza costituzionale al fine di conformare al modello cooperativo il regionalismo italiano. L’aderenza a questo modello, che ha ottenuto significativi riscontri anche con la revisione del Titolo V operata con la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, ha improntato molte pronunzie rese dalla Corte costituzionale negli ultimi anni.
Nel corso del 2004 non mancano, ovviamente, esempi anche molto pregnanti: il caso della sentenza n. 6, nella quale si è posta una particolare enfasi sulla necessità di «intese forti», è probabilmente paradigmatico. Su tale decisione, come su varie altre che affrontano, funditus o anche incidenter tantum, il tema della leale cooperazione, si rinvia a quanto verrà detto trattando dei rapporti tra enti territoriali relativamente al riparto delle competenze (v. infra, par. 4 e seguenti; con particolare riferimento alla sentenza n. 6, v. par. 4.5).
In questa sede, per le affermazioni di ordine generale che reca, merita una segnalazione la statuizione contenuta nella sentenza n. 27, con cui è stato risolto il conflitto di attribuzione tra la Regione Toscana e lo Stato derivante dalla nomina, da parte del Ministro dell’ambiente, del Commissario straordinario dell’Ente Parco dell’Arcipelago Toscano in mancanza della prescritta intesa con il Presidente della Regione.
Onde giungere alla declaratoria di non spettanza allo Stato del potere esercitato, si rileva che, nell’applicazione del principio di leale cooperazione in tema di intese, la Corte più volte affermato che occorre «comunque» uno sforzo delle parti per dar vita ad una trattativa; in quest’ottica, «lo strumento dell’intesa tra Stato e Regioni costituisce una delle possibili forme di attuazione del principio di leale cooperazione tra lo Stato e la Regione e si sostanzia in una paritaria codeterminazione del contenuto dell’atto».
Ora, l’intesa deve essere realizzata e ricercata anche attraverso reiterate trattative volte a superare le divergenze che ostacolino il raggiungimento di un accordo, «senza alcuna possibilità di un declassamento dell’attività di codeterminazione connessa all’intesa in una mera attività consultiva non vincolante». Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che non realizzasse la richiesta condizione di legittimità il rifiuto d’intesa sul nominativo proposto dal Ministro, seguito dalla mera richiesta d’incontro, fra le parti, non seguita da alcuna altra attività: da ciò derivava che il mancato rispetto della necessaria procedimentalizzazione per la nomina del Presidente rendeva illegittima la nomina del Commissario straordinario.

3. L’autonomia statutaria
3.1 Statuti speciali, decreti di attuazione e manifestazioni della specialità
 Tra le pronunzie nelle quali la Corte ha affrontato il tema della specialità regionale, di particolare rilievo è la sentenza n. 316, che ha deciso varie questioni di legittimità costituzionale della normativa relativa al Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana
All’uopo si è rilevato che la peculiare struttura organizzativa e la composizione di tale organo, delineata, da ultimo, con norma di attuazione dello Statuto (decreto legislativo 24 dicembre 2003, n. 373), costituiscono espressione del principio di specialità, contenuto nell’articolo 23 dello Statuto, che riafferma una aspirazione, saldamente radicata nella storia della Sicilia, ad ottenere forme di decentramento territoriale degli organi giurisdizionali centrali.
Nella stessa decisione, la Corte ha avuto modo di ribadire che le formulazioni ambigue o anche le omissioni riscontrabili all’interno dello statuto siciliano derivano essenzialmente dalla circostanza che esso «è stato approvato prima dell’entrata in vigore del testo costituzionale e con esso non è stato mai coordinato, nonostante la sua “conversione” in legge costituzionale operata dalla legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2».
Con riferimento all’importanza dei decreti di attuazione degli statuti ai fini di proteggere le prerogative proprie delle Regioni speciali e delle Province autonome, deve sottolinearsi come la sentenza n. 236 abbia dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 10, comma 6, della legge 5 giugno 2003, n. 131, il quale prevedeva che «ai commissariati del Governo di Trento e di Bolzano si applicano le disposizioni del d.P.R. 17 maggio 2001, n. 287, compatibilmente con lo statuto speciale di autonomia e con le relative norme di attuazione», in quanto con tale disposizione lo Stato aveva disciplinato le funzioni del Commissario di Governo unilateralmente e rinviando ad una fonte secondaria, non dando corso, in tal modo, alla procedura collaborativa diretta all’approvazione delle norme di attuazione dello Statuto speciale.
La sentenza n. 236 contiene un’altra affermazione di rilievo concernente la specialità regionale. In un passaggio di questa, la Corte si è soffermata sull’incidenza della riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione sulle funzioni amministrative delle Regioni speciali, fornendo una interpretazione dell’art. 11 della legge n. 131 del 2003 (di attuazione dell’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001) in virtù della quale «per tutte le competenze legislative aventi un fondamento nello statuto speciale, il principio del parallelismo tra funzioni legislative e funzioni amministrative conserva la sua validità», mentre «per le ulteriori, più ampie competenze che le Regioni speciali e le Province autonome traggano dalla Costituzione, in virtù della clausola di maggior favore, troverà […] applicazione l’art. 11 della legge n. 131 del 2003 e quindi il trasferimento delle funzioni avrà luogo secondo le modalità previste dalle norme di attuazione e con l’indefettibile partecipazione della commissione paritetica».

3.2. La potestà statutaria delle Regioni a statuto ordinario
 Nel corso del 2004, la Corte ha reso quattro sentenze nel corso di altrettanti giudizi, instaurati ai sensi dell’art. 123 della Costituzione, aventi ad oggetto deliberazioni statutarie delle Regioni a statuto ordinario: la sentenza n. 2 ha riguardato la delibera del Consiglio regionale della Calabria, la sentenza n. 372 quella del Consiglio regionale della Toscana, la sentenza n. 378 quella del Consiglio regionale dell’Umbria e la sentenza n. 379 quella del Consiglio regionale dell’Emilia-Romagna. Si tratta, come noto, delle prime deliberazioni statutarie organiche sottoposte allo scrutinio della Corte costituzionale (in precedenza, le sentenze numeri 304 e 306 del 2002 avevano avuto riguardo a due deliberazioni parziali del Consiglio regionale delle Marche).
Nelle decisioni, articolate in base alla pluralità di censure prospettate nei ricorsi statali, sono stati molteplici i profili analizzati. Onde dare un quadro compiuto di questa giurisprudenza, di seguito si riporta una sintesi delle rationes decidendi argomentate sui singoli punti.

3.2.1. La potestà statutaria ed i suoi limiti
 Nel giudizio concluso con la sentenza n. 2, la Corte, dopo aver sottolineato alcuni profili relativi alla fonte normativa statutaria, rileva che, a seguito della riforma costituzionale di cui alla legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1, la Regione dispone di un autonomo potere normativo per la configurazione di un ordinamento interno adeguato alle sue accresciute responsabilità istituzionali.
Dopo la eliminazione della approvazione dello statuto regionale da parte del Parlamento, i limiti a questa rilevante autonomia normativa possono derivare solo da norme chiaramente deducibili dalla Costituzione.
Peraltro, gli statuti regionali non solo debbono rispettare puntualmente «ogni disposizione della Costituzione», ma debbono altresì rispettarne lo spirito, in nome della «armonia con la Costituzione» (locuzione la cui portata è stata dalla Corte chiarita a far tempo dalla precitata sentenza n. 304 del 2002). Ne consegue la necessità di una lettura particolarmente attenta dei rapporti e dei confini tra le diverse aree normative affidate agli statuti o alle altre fonti legislative statali o regionali, senza presumere la soluzione del problema interpretativo sulla base della sola lettura di una singola disposizione costituzionale, tanto più ove essa utilizzi concetti che possono legittimamente giustificare interpretazioni tra loro non poco difformi a seconda del contesto in cui siano collocati.


3.2.2. Le enunciazioni di principio
 Nelle sentenze numeri 372, 378 e 379 si dichiara la inammissibilità delle censure formulate nei confronti delle enunciazioni statutarie aventi ad oggetto proposizioni che rientrano tra i principi generali e le finalità principali (esemplificando: estensione del diritto di voto agli immigrati, riconoscimento delle altre forme di convivenza, tutela dell’ambiente e del patrimonio culturale),in quanto, pur incidendo su materie eccedenti la sfera di attribuzione regionale, esse risultano comunque prive di idoneità lesiva.
Argomenta la Corte che tali proclamazioni sono riconducibili al ruolo delle Regioni di rappresentanza generale degli interessi delle rispettive collettività, ciò che rende rilevante che, al fianco dei contenuti necessari degli statuti regionali, sussistano altri possibili contenuti, sia che questi risultino ricognitivi delle funzioni e dei compiti della Regione, sia che indichino aree di prioritario intervento politico o legislativo. Tuttavia, «alle enunciazioni in esame, anche se materialmente inserite in un atto-fonte, non può essere riconosciuta alcuna efficacia giuridica, collocandosi esse precipuamente sul piano dei convincimenti espressivi delle diverse sensibilità politiche presenti nella comunità regionale al momento dell’approvazione dello statuto».
D’altra parte, tali proclamazioni di obiettivi e di impegni non possono certo essere assimilate alle c.d. norme programmatiche della Costituzione, alle quali, per il loro valore di principio, sono stati generalmente riconosciuti non solo un valore programmatico nei confronti della futura disciplina legislativa, ma soprattutto una funzione di integrazione e di interpretazione delle norme vigenti.
Avendo riguardo agli statuti regionali, però, non si è in presenza di carte costituzionali, ma solo di fonti regionali «a competenza riservata e specializzata», cioè di statuti di autonomia, i quali, anche se costituzionalmente garantiti, debbono comunque «essere in armonia con i precetti ed i principi tutti ricavabili dalla Costituzione» (sentenza n. 196 del 2003).
In definitiva, le enunciazioni statutarie in esame, esplicando una funzione di natura culturale o anche politica, ma certo non normativa, non comportano né alcuna violazione né alcuna rivendicazione di competenze costituzionalmente attribuite allo Stato e neppure possono costituire in alcun modo il fondamento dell’esercizio di poteri da parte delle Regioni.


3.2.3. La forma di governo
a) Chiamata a giudicare la forma di governo prescelta dalla Regione Calabria, la Corte (sentenza n. 2) ribadisce che il sistema configurato dall’art. 5 della legge costituzionale n. 1 del 1999, che disciplina una forma di «elezione diretta del Presidente della Giunta regionale» costituisce una scelta, indicata come una «normale» possibilità di assetto istituzionale, legittimamente sostituibile da altri modelli ritenuti politicamente più adeguati, fermo il limite, espresso dal legislatore costituzionale, di prevedere ipotesi di elezione diretta nel solo caso del Presidente della Giunta.
Sulla base di tale premessa, la Corte esclude che la Regione Calabria abbia fatto una scelta istituzionale diversa (cioè quella di un governo sostanzialmente parlamentare con correttivi), poiché il previsto meccanismo di elezione diretta del Presidente e del Vice Presidente della Giunta è del tutto analogo a quello disciplinato per il solo Presidente dalla legge costituzionale n. 1 del 1999, salva la diversità che la preposizione alla carica consegue non alla mera proclamazione dei risultati elettorali, ma anche alla necessaria «nomina» da parte del Consiglio regionale. Tale diversità è da ritenersi di natura essenzialmente formale: in tal senso, è significativo che il Consiglio regionale proceda «sulla base dell’investitura popolare espressa dagli elettori, nella sua prima seduta», e che «la mancata nomina del Presidente e del Vice Presidente indicati dal corpo elettorale comport[i] lo scioglimento del Consiglio regionale».
Trattasi, in altri termini, di un procedimento di elezione diretta del Presidente e del Vice Presidente che è soltanto mascherato da una sorta di obbligatoria «presa d’atto» da parte del Consiglio regionale.
A ciò si aggiunga che l’eliminazione del potere presidenziale di fare eventualmente venir meno, tramite le proprie dimissioni, la permanenza in carica dello stesso Consiglio regionale, riduce radicalmente i suoi poteri di indirizzo a beneficio, in primis, del Vice Presidente, che ne può disporre ove subentri nella presidenza.
In definitiva, il sistema configurato, che, al di là del dato formale, resta connotato dall’elezione diretta, viola l’art. 122, quinto comma, nella parte in cui prevede l’elezione diretta anche del Vice Presidente, e l’art. 126, terzo comma, della Costituzione, nella misura in cui riduce oltre il consentito i poteri del Presidente della Giunta eletto a suffragio universale e diretto.
b) Immune da censure (sentenza n. 372), perché coerente con il sistema previsto dalla Costituzione circa i rapporti tra Consiglio regionale e Presidente di Giunta eletto a suffragio universale e diretto si rivela, invece, la previsione statutaria della Toscana, nella parte in cui stabilisce che «il programma di governo è approvato entro 10 giorni dalla sua illustrazione». In effetti, l’approvazione consiliare non appare affatto incoerente rispetto allo schema elettorale «normale» accolto dall’art. 122, quinto comma, della Costituzione, giacché la eventuale mancata approvazione consiliare può avere solo rilievo politico, ma non determina alcun effetto giuridicamente rilevante sulla permanenza in carica del Presidente della Giunta, ovvero sulla composizione di quest’ultima.
c) Parimenti, la previsione statutaria della Regione Emilia-Romagna, secondo cui il Consiglio regionale discute ed approva il programma di governo predisposto dal Presidente della Regione ed annualmente ne verifica l’attuazione, non introduce un rapporto diverso rispetto a quello che consegue all’elezione a suffragio universale e diretto del vertice dell’esecutivo.
Precisa, a tal riguardo, la Corte (sentenza n. 379) che il sistema della elezione a suffragio universale e diretto del Presidente della Regione ha quale sicura conseguenza l’impossibilità di prevedere una iniziale mozione di fiducia da parte del Consiglio, nonché la ulteriore conseguenza delle dimissioni della Giunta e dello scioglimento del Consiglio nel caso di successiva approvazione della mozione di sfiducia nei confronti del Presidente. Come è chiaro, la mancata disciplina, nella delibera statutaria, delle conseguenze di tipo giuridico derivanti dalla mancata approvazione da parte del Consiglio del programma di governo del Presidente dimostra che si è voluto semplicemente creare una precisa procedura per obbligare gli organi di vertice della Regione ad un confronto iniziale e, successivamente ricorrente, sui contenuti del programma di governo; starà, poi, alla valutazione del Presidente prescindere eventualmente dagli esiti di tale dialettica, così come starà al Consiglio far eventualmente ricorso al drastico strumento della mozione di sfiducia, con tutte le conseguenze giuridiche previste dall’art. 126, terzo comma, della Costituzione.



3.2.4. Il sistema elettorale
 a) Alle norme statutarie è preclusa la determinazione del sistema elettorale regionale. Motiva la Corte (sentenza n. 2) che, anche se sul piano concettuale può sostenersi che la determinazione della forma di governo può comprendere la legislazione elettorale, occorre prendere atto che nella Costituzione vigente la potestà legislativa elettorale è stata attribuita ad organi diversi (e/o in base a procedure diverse) da quelli preposti alla adozione dello statuto regionale. La circostanza stessa che la legge statale sia chiamata a determinare i principi fondamentali nelle materie di cui al primo comma dell’art. 122 della Costituzione inevitabilmente riduce la stessa possibilità della fonte statutaria di indirizzare l’esercizio della potestà legislativa regionale in queste stesse materie.
b) Non compete allo Statuto, ed è pertanto costituzionalmente illegittima (sentenza n. 378), la previsione statutaria della Regione Umbria che stabilisce l’incompatibilità della carica di componente della Giunta con quella di consigliere regionale: ciò in quanto il riconoscimento, nell’articolo 123 della Costituzione, del potere statutario in tema di forma di governo regionale deve essere associato alla previsione dell’articolo 122 della Costituzione, che riserva espressamente alla legge regionale, «nei limiti dei principi fondamentali stabiliti con legge della Repubblica», la determinazione delle norme relative al «sistema di elezione» ed ai «casi di ineleggibilità e di incompatibilità del Presidente e degli altri componenti della Giunta regionale nonché dei consiglieri regionali».
c) Con identica motivazione viene dichiarata (sentenza n. 379) la illegittimità costituzionale della disposizione, contenuta nella delibera statutaria dell’Emilia-Romagna, che prevede l’incompatibilità di assessore con quella di consigliere regionale.


3.2.5. I referendum
 La disposizione statutaria della Regione Toscana, nella parte in cui, ai fini dell’abrogazione referendaria di una legge o di un regolamento regionale, richiede che partecipi alla votazione la maggioranza dei votanti alle ultime elezioni regionali, non contrasta con alcuna disposizione della Costituzione né con il principio di ragionevolezza. Rileva a tal proposito la Corte (sentenza n. 372) che la materia referendaria rientra espressamente, ai sensi dell’art. 123 della Costituzione, tra i contenuti obbligatori dello statuto, di talché alle Regioni è consentito articolare variamente la propria disciplina relativa alla tipologia dei referendum previsti in Costituzione, anche innovando ad essi sotto diversi profili, nella misura in cui ogni Regione può liberamente prescegliere forme, modi e criteri della partecipazione popolare ai processi di controllo democratico sugli atti regionali.
Né, d’altra parte, appare irragionevole, in un quadro di rilevante astensionismo elettorale, stabilire un quorum strutturale che non sia rigido, ma che si connoti, invece, di una certa flessibilità, tale da assicurare un adeguamento ai flussi elettorali, tanto più allorché il parametro di riferimento sia costituito dalla partecipazione del corpo elettorale alle ultime votazioni del Consiglio regionale, i cui atti appunto costituiscono oggetto della consultazione referendaria.


3.2.6. I diritti di partecipazione alle funzioni regionali
 La delibera statutaria della Regione Emilia-Romagna, che prevede la possibilità di una istruttoria in forma di contraddittorio pubblico, indetta dalla assemblea legislativa ed alla quale possono prendere parte anche associazioni ed altre formazioni sociali, per la formazione di atti normativi o amministrativi di carattere generale, i quali dovranno poi essere motivati con riferimento alle risultanze istruttorie, non comporta aggravi procedurali che violino il principio di buon andamento della pubblica amministrazione. Tale previsione, ad avviso della Corte (sentenza n. 379), è chiaro indice dell’inserimento, anche al livello statutario, di istituti già sperimentati e funzionanti anche in alcune delle maggiori democrazie contemporanee. Questi, lungo dall’essere finalizzati ad ostacolare i poteri degli organi legislativi ed amministrativi, mirano a migliorare ed a rendere più trasparenti le procedure di raccordo degli organi rappresentativi con i soggetti (maggiormente) interessati dalle diverse politiche pubbliche.
Quanto al fatto che «il provvedimento finale è motivato con riferimento alle risultanze istruttorie», basta considerare che la legge sul procedimento amministrativo (legge 7 agosto 1990, n. 241) non impone, ma certo non vieta, la motivazione degli atti normativi; ed in ogni caso – come noto – la motivazione degli atti amministrativi generali, nonché di quelli legislativi, è la regola nell’ordinamento comunitario: alla luce di tali rilievi, la fonte statutaria di una Regione può ben operare proprie scelte in questa direzione.
Neppure la normativa statutaria che prevede un «diritto di partecipazione» al procedimento legislativo in capo a «tutte le associazioni» che ne facciano richiesta viola alcuna disposizione costituzionale: inserendo siffatte previsioni, la Regione tende a disegnare semplicemente alcune procedure volte a garantire ad organismi associativi rappresentativi di significative frazioni del corpo sociale la possibilità di essere consultati da parte degli organi consiliari, senza per questo ostacolare la funzionalità delle istituzioni regionali.
La disposizione statutaria dell’Emilia-Romagna che prevede che la Regione, nell’ambito delle facoltà che le sono costituzionalmente attribuite, riconosce a tutti coloro che – anche immigrati – risiedono in un Comune del territorio regionale determinati diritti di partecipazione non manifesta una pretesa attuale della Regione ad intervenirenella materia delle elezioni statali, regionali e locali, segnatamente riconoscendo il diritto di voto a soggetti estranei a quelli definiti dalla legislazione statale, o comunque introducendo soggetti di questo tipo nell’ambito delle procedure dirette ad incidere sulla composizione delle assemblee rappresentative.
Resta, peraltro, nell’area delle possibili determinazioni delle Regioni la scelta di coinvolgere in altre forme di consultazione o di partecipazione soggetti che comunque prendano parte consapevolmente e con stabilità – almeno relativa – alla vita associata, anche a prescindere dalla titolarità del diritto di voto e dalla cittadinanza italiana.


 
3.2.7. I testi unici regionali
La disposizione statutaria della Regione Umbria, che prevede che la Giunta regionale, previa legge regionale di autorizzazione, presenti al Consiglio regionale progetti di testo unico di disposizioni legislative, soggetti solo alla approvazione finale del Consiglio, non va interpretata come potenzialmente attributiva di «deleghe legislative» alla Giunta regionale (sentenza n. 378). Con essa si prevede, infatti, il conferimento di un semplice incarico di presentare allo stesso organo legislativo regionale, entro termini perentori, un «progetto di testo unico delle disposizioni di legge» già esistenti in «uno o più settori omogenei»; sarà comunque il Consiglio che dovrà approvare il progetto con apposita votazione, seppure dopo un dibattito molto semplificato. Trattasi, quindi, di uno speciale procedimento legislativo diretto soltanto ad operare sulla legislazione regionale vigente, a meri fini «di riordino e di semplificazione».


 
3.2.8. La titolarità e la tipologia del potere regolamentare
 a) Sulla scorta del precedente costituito dalla sentenza n. 313 del 2003, la Corte (sentenza n. 2) ribadisce che la modifica, ad opera dell’art. 1 della legge costituzionale n. 1 del 1999, dell’art. 121 della Costituzione, con l’eliminazione dell’inciso sulla cui base l’esercizio della funzione regolamentare era attribuito necessariamente al Consiglio regionale, affida pienamente allo statuto la disciplina di tale funzione, che può essere anche alquanto articolata, a seconda delle diverse tipologie di fonti regolamentari. Del tutto legittimamente, pertanto, lo statuto calabrese ha disciplinato i diversi tipi di regolamenti regionali, per lo più attribuendone l’adozione alla Giunta, salvo gli speciali regolamenti – rimasti di spettanza del Consiglio – «di attuazione e di integrazione in materia di legislazione esclusiva» dello Stato da quest’ultimo delegati alle Regioni: in tal caso, l’attribuzione al Consiglio regionale appare non irragionevole, in considerazione della probabile rilevanza di questo tipo di normazione secondaria.
b) La disposizione statutaria della Regione Umbria, che prevede che la Giunta possa, previa autorizzazione da parte di apposita legge regionale, adottare regolamenti di delegificazione, non viola alcuna norma della Costituzione, in quanto si limita a riprodurre il modello vigente a livello statale dei c.d. «regolamenti delegati» (sentenza n. 378). Inoltre, contrariamente a quanto asserito dallo Stato in sede di ricorso, l’adozione di tali regolamenti non può alterare, nelle materie di competenza concorrente, il rapporto tra normativa statale di principio e legislazione regionale, poiché la stessa disposizione statutaria stabilisce che la legge di autorizzazione all’adozione del regolamento deve comunque contenere, oltre alla clausola abrogativa delle disposizioni vigenti, «le norme generali regolatrici della materia».


 
3.2.9. Le Regioni ed il diritto comunitario
 a) La norma dello statuto della Toscana che prevede che gli organi di governo ed il Consiglio regionale partecipano, nei modi previsti dalla legge, alla formazione ed all’attuazione degli atti comunitari nelle materie di competenza regionale, non viola le competenze assegnate dalla Costituzione allo Stato (sentenza n. 372). In effetti, nel quadro delle norme di procedura che la legge statale di cui all’art. 117, quinto comma, della Costituzione determina in via generale ai fini della partecipazione delle Regioni alla formazione ed attuazione degli atti comunitari, la disposizione statutaria impugnata prevede unicamente la possibilità che la legge regionale stabilisca, a sua volta, uno specifico procedimento interno diretto a fissare le modalità attraverso le quali si forma la relativa decisione regionale, nell’ambito dei criteri organizzativi stabiliti, in sede attuativa, dall’art. 5 della legge 5 giugno 2003, n. 131.
b) La delibera statutaria della Regione Emilia-Romagna, secondo cui la Giunta disciplina l’esecuzione dei regolamenti comunitari «nei limiti stabiliti dalla legge regionale», è stata impugnata dal Governo in quanto, omettendo «di riferirsi al necessario rispetto delle norme di procedura stabilite da legge dello Stato», si è ritenuto che violasse l’art. 117, quinto comma, della Costituzione.
Nella sentenza n. 379, tale prospettazione è stata disattesa, in considerazione del fatto che la disposizione statutaria disciplina, in generale, i rapporti tra le leggi ed i regolamenti regionali, dando per presupposta la titolarità da parte della Regione dei poteri normativi nelle varie materie; essa non pone, pertanto, il problema dei limiti sostanziali e procedimentali che si impongono a tali poteri. D’altra parte, nulla di difforme rispetto a quanto disposto è stato previsto dalla legislazione statale di attuazione del nuovo Titolo V.


 
3.2.10. Le Regioni ed il diritto internazionale 
La disposizione statutaria dell’Emilia-Romagna che prevede che la Regione, nell’ambito delle materie di propria competenza, provvede direttamente all’esecuzione degli accordi internazionali stipulati dallo Stato, nel «rispetto delle norme di procedura previste dalla legge» è stata impugnata dallo Stato, in ragione dell’omessa esplicitazione della condizione che «gli accordi siano stati previamente ratificati e siano entrati internazionalmente in vigore» e della mancata specificazione in ordine alla provenienza statale della legge contenente le norme procedurali alle quali la Regione deve uniformarsi.
La Corte (sentenza n. 379) reinterpreta la disposizione in modo conforme al sistema costituzionale, stabilendo che il riferimento all’attuazione degli accordi internazionali «stipulati» dallo Stato e non anche «ratificati» non potrebbe legittimare in alcun modo un’esecuzione da parte regionale che fosse anteriore alla ratifica, anche perché, in tal caso, l’accordo internazionale sarebbe certamente privo di efficacia per l’ordinamento italiano. Per altro verso, l’affermato «rispetto delle norme di procedura previste dalla legge» non può che essere interpretato come riferito alle «norme di procedura stabilite dalla legge dello Stato».


 
3.2.11. La Commissione di garanzia statutaria
 La previsione dello statuto umbro che attribuisce alla Commissione di garanzia statutaria la funzione di esprimere pareri sulla conformità allo statuto delle leggi e dei regolamenti regionali non può essere intesa nel senso del conferimento ad un organo amministrativo del potere di sindacare gli atti adottati dai competenti organi regionali. In proposito, nella sentenza n. 378 si evidenzia che le condizioni, le forme ed i termini per lo svolgimento delle funzioni della Commissione sono demandate ad una apposita legge regionale che dovrà disciplinare analiticamente i poteri di questo organo nelle diverse fasi nelle quali potrà essere chiamato ad esprimere pareri giuridici. In ogni caso, la Commissione dovrà esprimeresemplici pareri; questi, se negativi sul piano della conformità statutaria, determineranno come conseguenza il solo obbligo di riesame, senza che siano previste maggioranze qualificate ed anche senza vincolo in ordine ad alcuna modifica delle disposizioni normative interessate.


3.2.12. Il conferimento di funzioni amministrative ed il principio di sussidiarietà
a) Nel ricorso statale si censura la disposizione della delibera statutaria della Regione Emilia-Romagna che prevede che «la Regione, nell’ambito delle proprie competenze, disciplina le modalità di conferimento agli enti locali di quanto previsto dall’art. 118 della Costituzione, definendo finalità e durata dell’affidamento». Tale disposizione, ad avviso del ricorrente, avrebbe menomato l’autonomia degli enti locali ed avrebbe violato lo stesso art. 118 della Costituzione, ai sensi del quale sarebbe precluso «affidare temporaneamente» tali funzioni ad enti, quali i Comuni, le Province e le Città metropolitane, che di esse sono qualificati come «titolari».
Nella sentenza n. 379, la Corte disattende questa censura sottolineando che essa muove da una lettura non condivisibile degli articoli 114 e 118 della Costituzione, dal momento che sembra ipotizzare l’esistenza di rigidi vincoli per il legislatore regionale nell’attuazione dell’art. 118 della Costituzione ed una sostanziale equiparazione tra funzioni degli enti locali «proprie» e «conferite» (ben distinte, invece, dal secondo comma dell’art. 118 della Costituzione.
Di contro, il conferimento agli enti locali di funzioni amministrative nelle materie di competenza legislativa delle Regioni tramite apposite leggi regionali presuppone, non solo una previa valutazione da parte del legislatore regionale delle concrete situazioni relative ai diversi settori (alla luce dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza) in riferimento alle caratteristiche proprie del sistema di amministrazione locale esistente sul territorio regionale, ma anche la perdurante ricerca del migliore modello possibile di organizzazione del settore.
Con ciò, ad essere presupposta è anche la possibilità di modificare la legislazione sulla base dei risultati conseguiti ed al fine di una eventuale sperimentazione di diversi modelli possibili.
Altra disposizione della delibera statutaria della Regione Emilia-Romagna, ai sensi della quale l’assemblea legislativa individua, «in conformità con la disciplina stabilita dalla legge dello Stato», le funzioni della Città metropolitana dell’area di Bologna, è ritenuta dalla Corte non in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione, nella misura in cui subordina espressamente l’esercizio dei poteri regionali al rispetto della «disciplina stabilita dalla legge dello Stato». D’altra parte, il secondo comma dell’articolo 118 della Costituzione, nell’affidare il potere di «conferimento» delle funzioni amministrative anche alla legge regionale, fa esplicito riferimento alle Città metropolitane.
b) La previsione statutaria della Toscana in cui si stabilisce che l’organizzazione delle funzioni amministrative conferite agli enti locali, nei casi in cui risultino specifiche esigenze unitarie, possa essere disciplinata con legge regionale per assicurare requisiti essenziali di uniformità non lede la riserva di potestà regolamentare attribuita dall’art. 117, sesto comma, della Costituzione agli enti locali in ordine all’organizzazione ed allo svolgimento delle funzioni loro conferite (sentenza n. 372). La disposizione, in effetti, fa evidente riferimento alle diverse ipotesi di applicazione del principio di sussidiarietà previste dalla Costituzione, operando una deroga rispetto al criterio generale accolto da altra disposizione statutaria, che riserva alla potestà regolamentare degli enti locali la disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni conferite.
In particolare, una deroga siffatta si inserisce nell’ambito della previsione del sesto comma dell’art. 117, come attuato dall’art. 4, comma 4, della legge n. 131 del 2003, secondo cui la potestà regolamentare dell’ente locale in materia di organizzazione e svolgimento delle funzioni si esplica nell’ambito delle leggi statali e regionali, che ne assicurano i requisiti minimi di uniformità: la previsione statutaria di un regime di riserva assoluta (anziché relativa) di legge regionale è dunque ammissibile purché sia limitata, per non comprimere eccessivamente l’autonomia degli enti locali, ai soli casi di sussistenza di «specifiche esigenze unitarie».
Del resto, negando tale facoltà, si perverrebbe all’assurda conclusione che, al fine di evitare la compromissione di precisi interessi unitari che postulano il compimento di determinate attività in modo sostanzialmente uniforme, il legislatore regionale non avrebbe altra scelta che allocare – in violazione del principio di sussidiarietà – le funzioni in questione ad un livello di governo più comprensivo, assicurandone così l’esercizio unitario.


3.2.13 I dipendenti della Regioni
a) Con riguardo alla disciplina dello Statuto della Calabria relativa al «regime contrattuale dei dirigenti», la Corte (sentenza n. 2) osserva che la intervenuta privatizzazione e contrattualizzazione del rapporto di lavoro dei dirigenti pubblici, pur vincolando anche le Regioni (dotate, ai sensi del quarto comma dell’art. 117 della Costituzione, di poteri legislativi propri in tema di organizzazione amministrativa e di ordinamento del personale), non esclude una, seppur ridotta, competenza normativa regionale in materia, dal momento che si prevede «le Regioni a statuto ordinario, nell’esercizio della propria potestà statutaria, legislativa e regolamentare, adeguano ai principi della legislazione statale i propri ordinamenti, tenendo conto delle relative peculiarità».
b) La delibera statutaria della Regione Emilia-Romagna, nella parte in cui prevede che la disciplina del rapporto di lavoro del personale regionale venga regolata in conformità ai principi costituzionali e secondo quanto stabilito dalla «legge» e dalla contrattazione collettiva, non lede la competenza esclusiva statale in materia di «ordinamento civile». Ritiene la Corte (sentenza n. 379) che il rilievo di costituzionalità muova da una lettura del riferimento alla «legge» come «legge regionale», lettura che risulta erronea se si considera che in altre disposizioni statutarie, là dove si è inteso fare riferimento al potere normativo della Regione, si è espressamente parlato di «legge regionale».
In buona sostanza, la disposizione in esame assume un significato meramente ricognitivo del rapporto tra legislazione e contrattazione, alla luce dei principi costituzionali, nella disciplina del rapporto di lavoro del personale regionale.

 
 
3.2.14. Il diritto di accesso ai documenti amministrativi regionali
 Nella sentenza n. 372 si rileva che la disposizione statutaria della Regione Toscana la quale stabilisce il diritto di accesso, senza obbligo di motivazione, ai documenti amministrativi si conforma al principio costituzionale di imparzialità e di trasparenza dell’azione amministrativa ed è altresì del tutto coerente con l’evoluzione del diritto comunitario (previsioni siffatte sono peraltro presenti anche nella legislazione statale, ad esempio in materia di tutela ambientale).
Essa, inoltre, in quanto attinente ai principi fondamentali di organizzazione e di funzionamento della Regione, rientra strettamente tra gli oggetti di disciplina statutaria.
In ogni caso, la prevista legge di attuazione dovrà prevedere criteri e modi in base ai quali l’interesse personale e concreto del richiedente si contemperi adeguatamente con l’interesse pubblico al buon andamento dell’amministrazione, nonché con l’esigenza di non vanificare in concreto la tutela giurisdizionale delle posizioni di eventuali soggetti terzi interessati.


3.2.15 La potestà tributaria
 a) La Corte (sentenza n. 2) confuta la tesi dell’esorbitanza dai contenuti statutari della disciplina sulla potestà normativa tributaria della Regione, essendo riconosciuta da tempo la legittimità dell’esistenza, accanto ai contenuti necessari degli statuti regionali, di altri possibili contenuti, sia che essi risultino ricognitivi delle funzioni e dei compiti della Regione, sia che indichino aree di prioritario intervento politico o legislativo.
Di tali contenuti ulteriori non può farsi dunque questioni in termini di legittimità, ma, al più in relazione alla loro opinabile efficacia giuridica. Nel caso di specie, peraltro, i riferimenti alla potestà tributaria non vanno oltre una parafrasi di quanto contenuto nei commi secondo, terzo e quinto dell’art. 119, nonché nel comma primo dell’art. 120 della Costituzione.
b) Nell’impugnare la disposizione dello statuto della Toscana secondo cui «la legge disciplina, limitatamente ai profili coperti da riserva di legge, i tributi propri degli enti locali, salva la potestà degli enti di istituirli», lo Stato ha dedotto che con essa si prevederebbe un rapporto tra fonti normative «che è invece solo uno di quelli possibili, costituzionalmente rimessi alle valutazioni ed alle scelte del legislatore nazionale nel momento in cui darà attuazione all’art. 119 della Costituzione».
Disattendendo tali censure, la Corte (sentenza n. 372) sottolinea che il modello seguito dalla disposizione è quello a «due livelli», vale a dire quello di una disciplina normativa dei tributi propri degli enti locali risultante dal concorso di fonti primarie regionali e secondarie locali, in cui spetta alla fonte regionale la definizione dell’ambito di autonomia entro cui la fonte secondaria dell’ente sub-regionale può esercitare liberamente il proprio potere di autodeterminazione del tributo.
In ogni caso, la norma censurata deve essere interpretata nel senso che, in base all’art. 119, secondo comma, della Costituzione, la legge regionale deve attenersi ai principi fondamentali di coordinamento del sistema tributario appositamente dettati dalla legislazione statale «quadro» o, in caso di inerzia del legislatore statale, a quelli comunque desumibili dall’ordinamento.


4. La ripartizione delle competenze
Nel corso del 2004, sono quanto mai numerose le statuizioni che hanno riguardo il riparto di competenze tra gli enti territoriali. Senza poter dare conto in modo completo di tutte le questioni, nei paragrafi che seguono si è cercato di indicare le decisioni più significative (rectius, i passi più significativi delle decisioni) in tema di individuazione degli ambiti competenziali. L’attenzione si è concentrata essenzialmente sulle attribuzioni legislative; gli altri tipi di attribuzioni (segnatamente, regolamentari ed amministrative) non sono comunque state neglette, nella misura in cui di esse si è dato conto nel contesto dell’analisi delle singole decisioni, ovviamente quando ciò risultasse opportuno e non si traducesse in un eccessivo appesantimento della trattazione.


4.1. Le materie attinenti alla competenza esclusiva dello Stato
4.1.1. «Difesa e Forze armate» 
Nella sentenza n. 228, la Corte affronta il tema relativo alla legittimità costituzionale della disciplina del «servizio civile nazionale» da parte dello Stato. Dopo aver configurato il servizio civile come l’oggetto di una scelta volontaria e quale modalità operativa concorrente ed alternativa (rispetto a quella militare) alla difesa dello Stato, il titolo costituzionale di legittimazione dell’intervento statale viene conseguentemente individuato nell’art. 117, secondo comma, lettera d), della Costituzione, che riserva alla legislazione esclusiva dello Stato – oltre alla materia «Forze armate» – anche la materia «difesa», da intendersi, appunto, anche come forma di difesa «civile», mediante attività di impegno sociale non armato espressive del «dovere» sancito all’art. 52 della Costituzione.
La riserva di competenza allo Stato non comporta, tuttavia, che ogni aspetto dell’attività dei cittadini che svolgono detto servizio sia disciplinato da fonte statale. È dunque compito dello Stato quello di disciplinare gli aspetti organizzativi e procedurali del servizio.
D’altra parte, nel servizio civile investono i più diversi ambiti materiali, dall’assistenza sociale alla tutela dell’ambiente alla protezione civile: le relative attività restano soggette – scil., per gli aspetti di rilevanza pubblicistica – alla disciplina dettata dall’ente rispettivamente competente, e dunque, non necessariamente a quella statale, ma anche a quella regionale e, se del caso, anche a quella degli enti locali.
Come è chiaro, nelle ipotesi in cui lo svolgimento delle attività di servizio civile ricada entro ambiti di competenza delle Regioni o delle Province autonome di Trento e Bolzano, l’esercizio delle funzioni spettanti, rispettivamente, allo Stato ed ai suddetti enti, dovrà improntarsi al rispetto del principio della leale collaborazione tra gli enti costitutivi della Repubblica.
L’inquadramento competenziale del «servizio civile nazionale» non esclude, peraltro, che le singole Regioni o Province autonome istituiscano, nell’autonomo esercizio delle proprie competenze legislative, un proprio servizio civile regionale o provinciale, distinto da quello nazionale, il quale avrebbe natura «sostanzialmente diversa» dal servizio civile nazionale, non essendo riconducibile al dovere di difesa.
Questa affermazione, contenuta nella sentenza n. 228, avrebbe potuto avere diretta applicazione nella sentenza n. 229, che definisce un giudizio promosso dallo Stato avverso una legge regionale istitutiva, appunto, del «servizio civile regionale». In concreto, peraltro, l’oggetto dell’impugnativa era circoscritto alla disposizione che reca la previsione di una comunicazione agli Uffici di leva dei nominativi di coloro che, svolgendo il servizio civile regionale, abbiano comunque voluto dichiarare la loro obiezione di coscienza al servizio militare, nella prospettiva e nell’eventualità che esso possa rivivere come servizio obbligatorio. La disposizione è stata ritenuta dalla Corte come mera estrinsecazione di uno spirito di collaborazione tra uffici regionali ed uffici statali: da ciò la dichiarazione di infondatezza del ricorso, argomentato su una pretesa invasione di competenze statali.


4.1.2. «Tutela della concorrenza»
 Con la sentenza n. 14, la Corte, onde decidere diverse questioni sollevate nei confronti di numerose disposizioni della legge finanziaria 2002 contenenti interventi finanziari in vari settori dell’economia, si sofferma sulla nozione della tutela della concorrenza e sul significato che essa assume in sede comunitaria e nell’ordinamento interno.
All’uopo, la Corte rileva che i principi comunitari del mercato e della concorrenza non sono svincolati da un’idea di sviluppo economico-sociale per cui, ferma restando l’incompatibilità di aiuti pubblici che falsino la concorrenza, sono pur sempre previste deroghe funzionali alla promozione di un mercato competitivo.
Nel diritto interno, la nozione di concorrenza riflette quella operante in ambito comunitario e l’aver accorpato, nel medesimo titolo di competenza [art. 117, secondo comma, lettera e)], la moneta, la tutela del risparmio e dei mercati finanziari, il sistema valutario, i sistemi tributario e contabile dello Stato, la perequazione delle risorse finanziarie e, appunto, la tutela della concorrenza, rende palese che quest’ultima costituisce una delle leve della politica economica statale, che giustifica misure pubbliche volte a ridurre squilibri, a favorire le condizioni di un sufficiente sviluppo del mercato o ad instaurare assetti concorrenziali.
Ciò detto sul piano generale, nella sentenza n. 14 si sottolinea che una dilatazione massima del titolo competenziale in parola, di tipo intrinsecamente trasversale, rischierebbe di vanificare lo schema di riparto disegnato dall’art. 117 della Costituzione, il quale pure attribuisce alla potestà legislativa delle Regioni materie incidenti innegabilmente sulle attività e sullo sviluppo economici. Si tratta, dunque, di stabilire fino a che punto la riserva allo Stato della predetta competenza trasversale sia in sintonia con l’ampliamento delle attribuzioni regionali disposto dalla revisione del Titolo V, posto che anche le Regioni possono predisporre interventi sulla realtà produttiva regionale (purché, ovviamente, non creino ostacolo alla libera circolazione delle persone e delle cose e non limitino l’esercizio del diritto al lavoro in qualunque parte del territorio nazionale).
Alla luce di tale obiettivo, pur non rientrando nei poteri della Corte quello di operare una valutazione della correttezza «economica» delle scelte del legislatore, devesi comunque ammettere la configurabilità di un controllo di costituzionalità diretto a verificare, da un lato, che i presupposti di tali scelte non siano manifestamente irrazionali e, dall’altro, che gli strumenti di intervento siano disposti in una relazione ragionevole e proporzionata rispetto agli obiettivi attesi.
In definitiva, ove sia dimostrabile la congruità dello strumento utilizzato rispetto al fine di rendere attivi i fattori determinanti dell’equilibrio economico generale, il titolo di questa competenza legislativa funzionale dello Stato non potrà essere negata. Sulla base della ratio decidendi così ricostruita, la sentenza n. 14 ha dichiarato che non risultano invasive delle competenze regionali le disposizioni statali che prevedono:
a) il concorso dello Stato nella costituzione e nella dotazione annuale del fondo di mutualità e solidarietà per i rischi in agricoltura;
b) un aumento dello stanziamento per la concessione di contributi in conto capitale nei limiti degli aiuti de minimis per il settore produttivo tessile, dell’abbigliamento e calzaturiero;
c) la individuazione delle tipologie degli investimenti per le imprese agricole, nonché per quelle di prima trasformazione e commercializzazione ammesse agli aiuti;
d) il finanziamento di nuovi patti territoriali e contratti di programma nel settore agroalimentare e della pesca.
In linea di stretta continuità con la sentenza n. 14 si pone la sentenza n. 272, concernente la nuova disciplina della gestione dei servizi pubblici locali.
Tale disciplina era stata impugnata essenzialmente in quanto il regime previsto – ad avviso della Regione ricorrente – avrebbe riguardato interventi, non già di «tutela della concorrenza», ma, più propriamente, di «promozione», quest’ultima essendo da intendersi come materia diversa dalla «tutela» e, per ciò stesso, da ricomprendersi tra le competenze regionali ai sensi del quarto comma dell’art. 117 della Costituzione.
La Corte, dopo aver ricordato che la configurazione della tutela della concorrenza legittima interventi dello Stato volti tanto a promuovere quanto a proteggere l’assetto concorrenziale del mercato, rileva che la dichiarazione contenuta nella legge, secondo cui le disposizioni sulle modalità di gestione ed affidamento dei servizi pubblici locali di rilevanza economica «concernono la tutela della concorrenza e sono inderogabili ed integrative delle discipline di settore», va considerata alla stregua di una norma-principio della materia, alla cui luce è possibile interpretare il complesso delle disposizioni della legge nonché il rapporto con le altre normative di settore nel senso che «il titolo di legittimazione dell’intervento statale […] è fondato sulla tutela della concorrenza […] e che la disciplina stessa contiene un quadro di principi nei confronti di regolazioni settoriali di fonte regionale»: il titolo di legittimazione statale, peraltro, è «riferibile solo alle disposizioni di carattere generale che disciplinano le modalità di gestione e l’affidamento dei servizi pubblici locali di “rilevanza economica”», con il che «solo le predette disposizioni non possono essere derogate da norme regionali».
In buona sostanza, non sono censurabili tutte quelle norme statali che garantiscono, in forme adeguate e proporzionate, la più ampia libertà di concorrenza nell’ambito di rapporti – come quelli relativi al regime delle gare o delle modalità di gestione e conferimento dei servizi – i quali per la loro diretta incidenza sul mercato appaiono più meritevoli di essere preservati da pratiche anticoncorrenziali.
Peraltro, proprio in applicazione del criterio della proporzionalità ed adeguatezza, che consente di delimitare l’ambito di applicazione di una «materia-funzione» qual è la tutela della concorrenza, viene dichiarata la incostituzionalità delle previsioni statali che introducono prescrizioni dettagliate ed auto applicative che vanno al di là della doverosa tutela degli aspetti concorrenziali inerenti alla gara per l’aggiudicazione dei servizi.
Ad analogo esito di illegittimità costituzionale la Corte giunge in merito agli interventi sulla disciplina della gestione dei servizi pubblici locali «privi di rilevanza economica», certamente non riferibili ad esigenze di tutela della libertà di concorrenza e quindi configurantisi come illegittima compressione dell’autonomia regionale e locale (in tal senso, si fa espresso riferimento al «Libro Verde della Commissione europea, sui servizi di interesse generale» del 21 maggio 2003, nel quale si afferma che le norme sulla concorrenza si applicano soltanto alle attività economiche).
Nella sentenza n. 345 è stato evidenziato che anche la disciplina – contenuta nella legge finanziaria per il 2003 – dell’acquisto di beni e servizi secondo procedure di evidenza pubblica, là dove impone la gara, fissa l’ambito soggettivo ed oggettivo di tale obbligo, limita il ricorso alla trattativa privata e collega alla violazione dell’obbligo sanzioni civili (nullità dei contratti) e forme di responsabilità, trova fondamento nella potestà dello Stato di regolare il mercato e di favorire rapporti concorrenziali nell’ambito dello stesso. Le procedure di evidenza pubblica, anche alla luce delle direttive della Comunità europea, hanno, infatti, assunto un rilievo fondamentale per la tutela della concorrenza tra i vari operatori economici interessati alle commesse pubbliche.
Nel caso della normativa specificamente sottoposta all’esame della Corte, l’estensione agli acquisti sotto soglia di beni e servizi non implica (rectius, non può implicare) per gli enti autonomi una indebita applicazione di puntuali modalità, ma solo l’osservanza dei principi desumibili dalla normativa in questione: a suffragio di questa interpretazione si pone, del resto, lo stesso tenore testuale delle disposizioni oggetto di scrutinio, e segnatamente di quella secondo cui le disposizioni de quo «costituiscono norme di principio e di coordinamento» (espressione, questa che, sia detto per incidens, conferma ulteriormente la natura peculiare della materia «tutela della concorrenza», la cui estensione è commisurata al rispetto dei principi di proporzionalità ed adeguatezza dei mezzi usati rispetto al fine che si vuol raggiungere).


4.1.3. «Ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali»
Con riguardo alla materia in oggetto, è da segnalare, in primo luogo, la sentenza n. 3, con cui la Corte risolve «sul piano dell’interpretazione» la questione sollevata dalla Regione Emilia-Romagna nei confronti della disposizione (contenuta nella legge finanziaria per il 2002) che prevede che le amministrazioni pubbliche promuovono iniziative di «alta formazione» del personale e finanziano borse di studio per l’iscrizione dei dipendenti ai corsi di laurea triennali.
Secondo la regione ricorrente, la norma non sarebbe stata integralmente riconducibile alla materia dell’organizzazione delle amministrazioni statali o di enti nazionali, con ciò esorbitando dalla competenza legislativa statale. Disattendendo siffatta prospettazione, la Corte ha sottolineato come la disposizione, da un lato, si inserisca in un contesto normativo che riguarda le assunzioni di personale, con un espresso riferimento alle «amministrazioni dello Stato» e, dall’altro, si svolga in modo tale da far ritenere che il generico richiamo alle «amministrazioni pubbliche» non possa essere letto altro che come sinonimo di «statali», in pieno rispetto del titolo competenziale rappresentato dall’art. 117, secondo comma, lettera g), della Costituzione.
Sulla scorta di questo parametro costituzionale, la sentenza n. 134 ha dichiarato l’illegittimità della legge della Regione Marche che prevedeva, tra i componenti del Comitato di indirizzo dell’istituendo Osservatorio regionale per le politiche integrate di sicurezza, i Prefetti della Regione, il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Ancona, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Ancona, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni di Ancona.
In effetti, la legge, nell’attribuire nuovi compiti ai titolari di uffici giudiziari in quanto tali, configurandoli ex lege come componenti necessari di un organo regionale, ha invaso la potestà legislativa esclusiva dello Stato in tema di ordinamento degli organi e degli uffici dello Stato, violando altresì la riserva di legge statale prevista dall’art. 108, primo comma, della Costituzione in tema di ordinamento giudiziario.


4.1.4. «Ordine pubblico e sicurezza»
 In ordine alla materia in oggetto, può segnalarsi la sentenza n. 428, con la quale la Corte ha escluso che il vigente «codice della strada» violi alcuna delle competenze assegnate dallo statuto speciale e dalle relative norme di attuazione (nonché dalla clausola contenuta nell’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001) alla ricorrente Provincia di Bolzano.
In tal senso, si rileva che considerazioni di carattere sistematico inducono a ritenere che la disciplina della circolazione stradale sia riconducibile, sotto diversi aspetti, a competenze statali esclusive, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, della Costituzione. In primo luogo, l’esigenza di assicurare l’incolumità personale dei soggetti coinvolti nella circolazione (conducenti, trasportati, pedoni) pone problemi di sicurezza, ricadendo, così, nella materia «ordine pubblico e sicurezza», di cui alla lettera h)del secondo comma dell’art. 117.
Inoltre, la disciplina della circolazione stradale, in quanto funzionale alla tutela dell’incolumità personale, mira senza dubbio a prevenire una serie di reati ad essa collegati, come l’omicidio colposo e le lesioni colpose, e, pertanto, essa trova, anche sotto questo diverso profilo, la sua collocazione nella materia «ordine e sicurezza pubblica».
Peraltro, nell’esaminare una determinata normativa, non si rivela sempre agevole individuare un preciso titolo competenziale: proprio la sentenza n. 428 è, a tal proposito, un buon esempio.
Infatti, la normativa inerente alla circolazione stradale non può essere ricondotta unicamente alla materia sopra menzionata. In tal senso, giova sottolineare come la disciplina dell’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile per i danni derivanti dalla circolazione dei veicoli a motore si inquadra certamente nella lettera l) del secondo comma dell’art. 117, nella parte in cui attribuisce alla competenza statale esclusiva la materia dell’«ordinamento civile».
Minori problemi sono posti con riferimento al settore delle sanzioni amministrative per le infrazioni al codice della strada, in quanto per esso vale il principio generale secondo cui la competenza a dettare la disciplina sanzionatoria rientra in quella a porre i precetti della cui violazione si tratta. Per le successive fasi contenziose (amministrativa e giurisdizionale), poi, opera chiaramente la lettera l), del secondo comma dell’art. 117, nella parte in cui attribuisce alla competenza statale esclusiva le materie della «giurisdizione» e della «giustizia amministrativa».


4.1.5. «Giurisdizione e norme processuali»
 La sentenza n. 18 ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto la previsione di legge statale che esenta dalla soggezione ad esecuzione forzata le somme di competenza degli enti locali a titolo di addizionale comunale e provinciale all’Irpef disponibili sulle contabilità speciali esistenti presso le tesorerie provinciali dello Stato ed intestate al Ministero dell’interno. La Corte ha in tal senso evidenziato come, stabilendo un regime di impignorabilità ed insequestrabilità per le somme suddette, il legislatore statale ha voluto unicamente garantire la loro piena disponibilità da parte degli enti locali, estendendo, in tal modo, istituti già conosciuti dal codice di rito e dalla legislazione contabile: da ciò la riconducibilità della previsione legislativa al novero delle disposizioni aventi natura processuale, per ciò stesso rientranti nell’ambito della funzione legislativa esclusiva di cui all’art. 117, comma secondo, lett. l), della Costituzione.


4.1.6. «Ordinamento civile» 
Il limite, individuato dalla costante giurisprudenza della Corte – ed oggi espresso nella riserva alla potestà esclusiva dello Stato della materia «ordinamento civile», ai sensi del nuovo art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione –, consistente nel divieto di alterare le regole fondamentali che disciplinano i rapporti privati è stato ritenuto, con la sentenza n. 282, violato dalla disposizione della legge regionale dell’Emilia-Romagna secondo la quale erano «soppressi i consorzi idraulici, di difesa, di scolo e di irrigazione nonché ogni altra forma di gestione non consortile di opere o sistemi di scolo ed irrigui, che ricad[eva]no nei comprensori di bonifica». Con il provvedimento di soppressione, il Consiglio definiva «la successione nei rapporti giuridici ed amministrativi fra gli organismi soppressi e i consorzi di bonifica che subentra[va]no nell’esercizio dei compiti e delle funzioni»: la norma censurata, dunque, non si limitava a riordinare l’esercizio delle attività di bonifica e la gestione delle relative opere, ma disponeva senz’altro la soppressione ex lege di organismi e di gestioni, anche di carattere privato, stabilendo che i consorzi di bonifica – enti pubblici economici a base associativa – non solo subentravano nell’esercizio dei compiti e delle funzioni dei predetti organismi, ma succedevano ad essi nei rapporti giuridici e amministrativi (e quindi anche nella titolarità dei beni eventualmente posseduti), al di fuori di ogni procedura di eventuale ablazione per ragioni di interesse pubblico, con conseguente corresponsione di indennizzi.
In tal modo, la normativa, oltre a travalicare il limite del diritto privato, andava a violare i principi costituzionali di autonomia e di salvaguardia della proprietà privata e della libertà di associazione, pretendendo di incidere sulla stessa esistenza degli organismi privati di cui disponeva la soppressione (e, in ultima analisi, sul nucleo irriducibile della loro autonoma sfera giuridica).


4.1.7. «Ordinamento penale»
 In continuità con la propria precedente giurisprudenza, la Corte, nella sentenza n. 185, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia, la quale istituiva case da gioco nel proprio territorio e prevedeva che l’amministrazione regionale potesse promuovere la costituzione di una società per azioni con lo scopo di gestire case da gioco ovvero potesse affidare lo svolgimento di tale attività, in regime di concessione, ad una società con sede in uno Stato membro dell’Unione europea. La Corte, in particolare, ha ribadito che la sola fonte del potere punitivo è la legge statale e che – ai termini della riserva in materia di «ordinamento penale» di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione – le Regioni non dispongono di alcuna competenza che consenta loro di introdurre, rimuovere o variare con proprie leggi le pene previste dalle leggi dello Stato.
Nel censurare la legge regionale, si è sottolineato, da un lato, che la norma penale che punisce il gioco d’azzardo in una casa da gioco è espressione non irragionevole della discrezionalità del legislatore e, dall’altro, che essa risponde all’interesse della collettività a vedere tutelati la sicurezza e l’ordine pubblico in presenza di un «fenomeno che si presta a fornire l’habitat ad attività criminali».
Certo, non mancano nella legislazione statale deroghe più o meno ampie alla previsione in parola; ciò nondimeno, la Corte non ha potuto che confermare l’inderogabilità, da parte delle Regioni, della norma incriminatrice, nuovamente invitando, peraltro, lo Stato ad un intervento legislativo di riordino della normativa del settore.

4.1.8. «Previdenza sociale»
 La materia previdenziale è venuta in considerazione nella sentenza n. 287. In essa, la Corte ha escluso che interventi statali a favore della famiglia estrinsecantisi, per un verso, nella concessione di un assegno di mille euro per ogni figlio nato o adottato fra il dicembre 2003 e il dicembre 2004, e, per l’altro, nell’incremento del Fondo nazionale per le politiche sociali, siano riconducibili nell’ambito della materia dei «servizi sociali», di competenza regionale ai sensi dell’art. 117, quarto comma, della Costituzione.
Ciò in quanto le disposizioni contenute nei provvedimenti legislativi vigenti che disciplinano le funzioni ed i compiti relativi alla materia dei servizi sociali evidenziano – quali che siano i settori di intervento (ad esempio, la famiglia, i minori, gli anziani, i disabili) – la sussistenza di un indefettibile nesso funzionale tra i servizi sociali e la rimozione od il superamento di situazioni di svantaggio o di bisogno, per la promozione del benessere fisico e psichico della persona. La provvidenza che è stata oggetto della sentenza n. 287, di contro, è disposta a favore delle donne, cittadine italiane o comunitarie, residenti in Italia (in relazione alla nascita del secondo od ulteriore figlio, o all’adozione di un figlio), senza che assumano alcun rilievo la condizione soggettiva e la sussistenza di situazioni di bisogno, di disagio o di semplice difficoltà. Trattasi, conseguentemente, di una provvidenza temporanea, di carattere indennitario, che costituisce espressione di quella tutela previdenziale della maternità riconosciuta alla donna in quanto tale, in ragione degli articoli 31, secondo comma, e 37 della Costituzione, riconducibile, in definitiva, alla competenza statale in materia di «previdenza sociale», in base a quanto stabilito dall’art. 117, secondo comma, lettera o), della Costituzione.

4.1.9. «Tutela dell’ambiente [e] dell’ecosistema»
 La Corte ha avuto modo di chiarire la portata della riserva di competenza statale in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema.
Nella sentenza n. 259, in particolare, si è evidenziato che tale competenza esclusiva dello Stato non è incompatibile con interventi specifici del legislatore regionale che si attengano alle proprie competenze. Sulla scorta di questa affermazione, è stata dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale di una legge regionale che attribuiva alle province la competenza al rilascio di autorizzazioni relative ad attività di immersione di strutture in mare, di ripascimento della fascia costiera e di movimentazione di fondali marini, dal momento che la competenza a rilasciare le autorizzazioni per lo svolgimento delle attività ivi previste spetta alla Regione, la quale può quindi delegarla – in coerenza con il principio di sussidiarietà – alle Province.
Ad esito analogo la Corte è addivenuta nella sentenza n. 429, nella quale una disposizione legislativa regionale che stabilisce che, nelle aree ricadenti nel perimetro dei parchi nazionali nel territorio della Regione e nelle aree di protezione esterna agli stessi, oggetto di vincolo, le funzioni riguardanti opere o lavori di competenza degli Enti parco nazionali sono esercitate dall’Ente parco successivamente alla stipula di una convenzione o di un accordo interistituzionale tra l’Ente stesso, la Regione e lo Stato, per la determinazione delle relative modalità di esercizio.
Una siffatta disposizione, ad avviso della Corte, non incide sulle attribuzioni dell’Ente parco previste dalla normativa statale, e non interferisce, dunque, sulla competenza esclusiva dello Stato, con la precisazione che l’accordo interistituzionale o la convenzione suddetti in nessun caso possono avere ad oggetto i contenuti e la portata del nulla osta sopra citato.

4.1.10. «Tutela […] dei beni culturali»
 Un altro aspetto sul quale la Corte è stata chiamata a pronunciarsi è quello concernente la distinzione tra la «tutela» dei beni culturali e la loro «valorizzazione», identificando i due concetti materie, rispettivamente, di competenza esclusiva statale ex art. 117, secondo comma, lettera s), e di competenza concorrente ex art. 117, terzo comma, della Costituzione.
Con la sentenza n. 9, la Corte ha risolto il conflitto intersoggettivo avente ad oggetto un regolamento del Ministro per i beni e le attività culturali concernente l’individuazione dei requisiti di qualificazione dei soggetti esecutori dei lavori di restauro e manutenzione dei beni mobili e delle superfici decorate di beni architettonici.
La Corte evidenzia, in via preliminare, che «la tutela e la valorizzazione dei beni culturali, nelle normative anteriori all’entrata in vigore della legge costituzionale n. 3 del 2001, sono state considerate attività strettamente connesse ed a volte, ad una lettura non approfondita, sovrapponibili».
Dal diritto positivo emerge comunque che «la valorizzazione è diretta soprattutto alla fruizione del bene culturale, sicché anche il miglioramento dello stato di conservazione attiene a quest’ultima nei luoghi in cui avviene la fruizione ed ai modi di questa». Per altro verso, la riserva di competenza statale sulla tutela dei beni culturali è legata alla «peculiarità del patrimonio storico-artistico italiano, formato in grandissima parte da opere nate nel corso di oltre venticinque secoli nel territorio italiano e che delle vicende storiche del nostro Paese sono espressione e testimonianza»: i beni culturali vanno dunque «considerati nel loro complesso come un tutt’uno, anche a prescindere dal valore del singolo bene isolatamente considerato».
Per statuire in ordine alla legittimità della disciplina regolamentare, indefettibile è il porre attenzione al suo contenuto specifico, concernente il restauro.
Ora, il restauro non trova, nel diritto positivo, una definizione specifica, ad esso facendosi riferimento soprattutto in relazione alle sue finalità. Sul punto, peraltro, le varie definizioni rintracciabili «nella loro sostanza coincidono e pongono l’accento non solo sulla inscindibilità tra la struttura materiale ed il valore ideale che essa esprime, bensì anche sulla necessità di incidere sulla stessa struttura materiale del bene, allo scopo di conservarlo o di recuperarlo».
Alla luce di ciò, il restauro è da annoverare nell’ambito della «tutela dei beni culturali», e ciò anche se attraverso le operazioni di restauro può giungersi anche alla valorizzazione dei caratteri storico-artistici del bene («che è cosa diversa, però, dalla valorizzazione del bene al fine della fruizione»: «quest’ultima, infatti, non incidendo sul bene nella sua struttura, può concernere la diffusione della conoscenza dell’opera e il miglioramento delle condizioni di conservazione negli spazi espositivi»).
Sulla base di questa ricostruzione, la Corte giunge a statuire sul merito del conflitto nel senso che «poiché la norma impugnata concerne l’acquisizione della qualifica di restauratore ai fini dell’esecuzione dei lavori di manutenzione e restauro dei beni culturali mobili e delle superfici decorate di beni architettonici […] e perciò – rientrando nella normativa relativa al restauro di tali beni – fa parte di un ambito riservato alla legislazione esclusiva dello Stato», quest’ultimo ha la titolarità del potere regolamentare in contestazione.
È da segnalare anche la sentenza n. 26, che ha deciso la questione di legittimità costituzionale originata dalla pretesa lesione delle attribuzioni legislative regionali derivante dalla norma che prevede, in capo al Ministero per i beni e le attività culturali, la facoltà di dare in concessione a «soggetti diversi da quelli statali» la gestione di servizi finalizzati «al miglioramento della fruizione pubblica e della valorizzazione del patrimonio artistico» (c.d. «esternalizzazione» della gestione dei servizi culturali di competenza statale).
La Corte non disconosce le difficoltà interpretative che emergono dalla disposizione: esse riguardano essenzialmente la distinzione dell’attività in esame – di «gestione» – rispetto a quelle di «tutela» o di «valorizzazione» dei beni culturali, e derivano, in massima parte, da una certa oscurità in merito a quale sia l’oggetto della concessione e quali beni culturali essa riguardi. Peraltro, alla luce del criterio interpretativo suggerito dall’art. 152 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, il quale stabilisce, sia pure ai fini della definizione delle funzioni e dei compiti di valorizzazione dei beni culturali, che lo Stato, le regioni e gli enti locali esercitano le relative attività «ciascuno nel proprio ambito» (nel senso, cioè, che ciascuno dei predetti enti è competente ad espletare funzioni e compiti riguardo ai beni culturali, di cui rispettivamente abbia la titolarità), deriva che, nella specie, è lo Stato il soggetto che ha la titolarità dei beni culturali interessati dalla disposizione impugnata.
Conseguentemente, la convenzione concessoria dei servizi disciplinata dalla disposizione impugnata (e dal regolamento ministeriale ivi previsto) non può che concernere servizi finalizzati a beni culturali, di cui allo Stato sono riservate la titolarità e la gestione oltre che la tutela.
Sulla base di tale interpretazione, la Corte ha dichiarato la non fondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata, atteso che è da escludere che la disposizione impugnata possa essere lesiva delle pretese delle regioni ricorrenti, le cui attribuzioni in materia non rientrano, appunto secondo l’interpretazione prospettata, nel suo ambito di previsione.
In una prospettiva più generale, la sentenza n. 307 ha avuto modo di chiarire che la previsione di contributi finanziari, da parte dello Stato, erogati con carattere di automaticità in favore di soggetti individuati in base all’età o al reddito e finalizzati all’acquisto di personal computers abilitati alla connessione ad Internet, non risulta invasivo di competenze legislative regionali, nella misura in cui tale previsione corrisponde a finalità di interesse generale, e segnatamente allo sviluppo della cultura, il cui perseguimento fa capo alla Repubblica in tutte le sue articolazioni (art. 9 della Costituzione), anche al di là del riparto di competenze per materia fra Stato e Regioni di cui all’art. 117 della Costituzione.


4.2. Le materie attinenti alla legislazione concorrente
4.2.1. «Istruzione»
 Uno degli ambiti materiali in cui più arduo è il riparto di competenze è quello inerente all’istruzione.
La Corte ne dà conto soprattutto nel giudizio su alcune disposizioni della legge finanziaria per il 2002 in tema di organizzazione scolastica, concernenti, in particolare, la definizione delle dotazioni organiche del personale docente e l’orario di lavoro. La sentenza n. 13 sottolinea, in effetti, il complesso intrecciarsi in materia di istruzione di «norme generali» – di competenza esclusiva statale ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera n) –, di principi fondamentali e norme di dettaglio, nonché di determinazioni autonome delle istituzioni (l’inciso competenziale di cui al terzo comma dell’art. 117 recita, infatti: «istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale»).
In questo «intreccio», la Corte riconosce che la programmazione della rete scolastica è oggetto che non può non essere ricompreso nell’ambito di competenza dei legislatori regionali, non essendo «plausibile che il legislatore costituzionale abbia voluto spogliare le regioni di una funzione che era già ad esse conferita nella forma della competenza delegata» anteriormente alla riforma del 2001.
Alla luce di tale considerazione, la distribuzione, nell’ambito della Regione, del personale docente tra le istituzioni scolastiche, che la disposizione impugnata affida ad un organo statale, non può rientrare nella materia delle «norme generali sull’istruzione», riservate alla competenza esclusiva dello Stato, in quanto strettamente connessa alla programmazione della rete scolastica di competenza regionale e non può quindi essere scorporata da questa e innaturalmente riservata per intero allo Stato, il cui compito è solo quello di fissare i principi fondamentali.
Ciò stabilito sul piano astratto, la Corte ha tuttavia dovuto riconoscere che una caducazione immediata della disposizione impugnata avrebbe provocato effetti incompatibili con la Costituzione, in quanto alla erogazione del servizio scolastico sono collegati diritti fondamentali della persona. In considerazione dell’evidente esigenza di continuità di funzionamento del servizio di istruzione, qualificato dalla stessa legislazione statale come servizio pubblico essenziale, la Corte ritiene che il principio di continuità – riconosciuto da precedenti sentenze come operante anche sul piano normativo – nell’avvicendamento delle competenze statali e regionali, vada ampliato «per soddisfare l’esigenza della continuità non più normativa ma istituzionale, giacché soprattutto nello Stato costituzionale l’ordinamento vive non solo di norme, ma anche di apparati finalizzati alla garanzia dei diritti fondamentali». In tema di istruzione, la salvaguardia di tale dimensione è imposta da valori costituzionali incomprimibili: per questo, la disposizione statale – pur se contraria al riparto di competenze delineato dall’art. 117 della Costituzione – deve continuare ad operare fino a quando le Regioni si saranno dotate di una disciplina e di un apparato istituzionale idoneo a svolgere la funzione di distribuire gli insegnanti tra le istituzioni scolastiche nel proprio ambito territoriale, secondo i tempi ed i modi necessari ad evitare soluzioni di continuità del servizio, disagi agli alunni ed al personale e carenze di funzionamento delle istituzioni scolastiche.


4.2.2. «Ricerca scientifica»
 Con riferimento alla materia di legislazione concorrente della «ricerca scientifica», la sentenza n. 166 ha stabilito che sono costituzionalmente illegittime le disposizioni legislative regionali che vietano, nel territorio regionale, non solo l’allevamento, ma anche «l’utilizzo e la cessione a qualsiasi titolo di cani e gatti, ai fini di sperimentazione», nonché «la vivisezione a scopo didattico su tutti gli animali, salvo i casi autorizzati». Ciò in ragione dell’ovvia constatazione che in una materia di legislazione concorrente spetta esclusivamente al legislatore statale la determinazione dei principi.
Nella fattispecie, la declaratoria di incostituzionalità è derivata, in particolare, dalla circostanza che la Corte, esaminato il quadro complessivo della normativa vigente, ha ritenuto che siano in essa attentamente bilanciati il doveroso rispetto verso gli animali sottoposti a sperimentazione e l’interesse collettivo alle attività di sperimentazione su di essi che sono ritenute indispensabili, sulla base delle attuali conoscenze di tipo scientifico, sia dall’ordinamento nazionale che dall’ordinamento comunitario. In effetti, il legislatore statale nell’esercizio del proprio potere di determinare i principî fondamentali della materia, non si è limitato a recepire il livello di tutela previsto dalla normativa comunitaria, ma ha già direttamente dettato una disciplina in parte più rigida delle prescrizioni europee, peraltro attraverso una regolamentazione uniforme per tutto il territorio nazionale. I legislatori regionali non possono dunque modificare il punto di equilibrio individuato, riducendo ulteriormente la relativa libertà della ricerca scientifica o comprimendo l’attuale livello di tutela degli animali sottoponibili a sperimentazione.

4.2.3. «Tutela della salute»
 Con precipuo riguardo alla materia inerente alla «tutela della salute», nella sentenza n. 162 sono state dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale avverso alcune leggi regionali che aboliscono il libretto di idoneità sanitaria, di cui deve essere munito, ai sensi della legislazione statale (art. 14 della legge 30 aprile 1962, n. 283), chiunque lavori nei settori della preparazione, produzione, manipolazione e vendita di sostanze alimentari.
Ad avviso della Corte, le disposizioni censurate non potevano ritenersi in contrasto con la competenza esclusiva statale in tema di «ordine pubblico e sicurezza» di cui all’art. 117, secondo comma, lettera h), della Costituzione, dal momento che tale materia, sulla base di una giurisprudenza ormai consolidata, attiene al solo settore relativo alle misure inerenti alla prevenzione dei reati o al mantenimento dell’ordine pubblico. Né può ritenersi che la disposizione statale che prevede l’obbligo del libretto di idoneità sanitaria costituisca un principio fondamentale della materia sanitaria (in quanto tale immodificabile dal legislatore regionale): in effetti, a seguito di una profonda trasformazione della legislazione – nazionale e comunitaria – a tutela della disciplina igienica degli alimenti, prodottasi anche sulla spinta in tal senso degli organismi scientifici e medici, al preesistente sistema è stato affiancato un diverso sistema di garanzia sostanziale (e di controllo) sulle modalità di tutela dell’igiene dei prodotti alimentari; non è pertanto possibile considerare alla stregua di principi fondamentali della materia tutte le prescrizioni sostanziali contenute nella legislazione statale del 1962.
L’evoluzione normativa constatata ha offerto alla Corte lo spunto per confermare che «qualora nelle materie di legislazione concorrente i principi fondamentali debbano essere ricavati dalle disposizioni legislative statali esistenti, tali principi non devono corrispondere senz’altro alla lettera di queste ultime, dovendo viceversa esserne dedotta la loro sostanziale consistenza»; e ciò, ovviamente, «tanto più in presenza di una legislazione in accentuata evoluzione».
Alla luce di ciò, tra l’altro, si è negata la desumibilità dalla legislazione vigente del principio secondo cui spetta solo alle Ausl il rilascio di certificazioni sanitarie ed i relativi accertamenti attribuiti al servizio sanitario nazionale, dal momento che non poche leggi statali hanno attribuito funzioni certificatorie a soggetti diversi ed hanno riconosciuto ai legislatori regionali poteri di riorganizzazione delle strutture sanitarie locali.
 
4.2.4. «Ordinamento sportivo»
 Giudicando della legittimità costituzionale di una normativa statale in tema di utilizzazione di impianti sportivi, la sentenza n. 424 ha evidenziato come non sia «dubitabile» che la disciplina degli impianti e delle attrezzature sportive rientri nella materia dell’«ordinamento sportivo» e che in merito alla stessa operi il riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni sancito dall’art. 117, terzo comma, della Costituzione.
Alla luce di ciò, le disposizioni statali che erano state impugnate da parte di alcune Regioni sono state ritenute non invasive delle competenze regionali, in quanto recanti principi fondamentali. Tale, in particolare, è stata configurata una disposizione con cui si stabilisce che l’uso degli impianti sportivi in esercizio da parte degli enti locali territoriali deve essere aperto a tutti i cittadini e deve essere garantito, sulla base di criteri oggettivi, a tutte le società e associazioni sportive.
Del pari, espressione di un principio fondamentale è stata considerata la disposizione in cui sono stabilite regole generali dirette a garantire che la gestione degli impianti sportivi comunali, quando i Comuni non vi provvedano direttamente, avvenga di preferenza mediante l’attribuzione a determinati organismi sportivi, in via surrogatoria rispetto ai possibili atti di autonomia degli enti locali, e quindi nel rispetto delle scelte appunto autonomistiche degli enti stessi, ai quali è assicurata, in via principale, la possibilità di gestire direttamente gli impianti in questione.
Ad esiti analoghi ha condotto lo scrutinio di una disposizione che, relativamente agli impianti sportivi di pertinenza di istituti scolastici (quali palestre, aree di gioco ed altre analoghe attrezzature genericamente individuate come «impianti sportivi»), fissa regole secondo le quali, compatibilmente con le esigenze dell’attività didattica e delle attività sportive della scuola, anche extracurriculari, i suddetti impianti debbono essere posti a disposizione di società e associazioni sportive dilettantistiche aventi sede nello stesso Comune in cui si trova l’istituto scolastico, o in Comuni confinanti.
È stata, invece, dichiarata costituzionalmente illegittima la previsione di un finanziamento diretto al potenziamento dei programmi relativi allo sport sociale ed a favorire lo svolgimento dei compiti istituzionali degli enti di promozione sportiva, in quanto in essa non si prevedeva alcun – pur necessario – coinvolgimento diretto delle Regioni, anch’esse titolari di potestà legislativa nella specifica materia.

4.2.5. «Governo del territorio»
 Materia di competenza concorrente tra le più significative è il «governo del territorio». La Corte è su di essa intervenuta a più riprese. Si segnalano, in particolare, due decisioni.
Con la sentenza n. 176 è stato affermato che la previsione, contenuta in legge regionale, di subordinare il rilascio dell’autorizzazione per l’apertura di una grande struttura di vendita alla previa programmazione urbanistica (sospendendo cioè il rilascio di nuove autorizzazioni per l’apertura di grandi strutture di vendita fino all’approvazione dei piani territoriali di coordinamento provinciale che dovranno stabilire, d’intesa con i Comuni, la programmazione riguardante la grande distribuzione con relativa individuazione di zone idonee), introduce un limite non irragionevole all’iniziativa economica privata per la salvaguardia di un bene di rilievo costituzionale, qual è, appunto, il «governo del territorio». La ragionevolezza è peraltro veicolata da (e vincolata a) l’adeguata protezione della libertà di iniziativa economica, nella specie riscontrabile in ragione della presenza di termini finali certi del periodo di sospensione e dell’esistenza di strumenti di tutela azionabili in caso di inosservanza di tali termini da parte della pubblica amministrazione.
La materia del «governo del territorio» ha assunto un ruolo centrale anche nello scrutinio relativo alla legittimità costituzionale delle disposizioni legislative statali recanti il nuovo condono edilizio. Nella sentenza n. 196, la Corte sottolinea come questo intervento di carattere straordinario intenda essenzialmente rendere esenti dalla sanzionabilità penale quei soggetti che, avendo posto in essere determinate tipologie di abusi edilizi, ne chiedano il condono tramite i Comuni, assumendosi l’onere del versamento della relativa oblazione ed i costi connessi all’eventuale rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria.
Al riguardo, pur non essendovi dubbio che solo il legislatore statale dispone di assoluta discrezionalità in materia «di estinzione del reato o della pena, o di non procedibilità», si rende nondimeno necessaria su tutto il territorio nazionale la piena collaborazione dei comuni, titolari di poteri di gestione e di controllo del territorio, con gli organi giurisdizionali, i quali sono privi di una competenza «istituzionale» volta a compiere l’accertamento di conformità delle opere agli strumenti urbanistici.
La Corte rileva, tuttavia, che sul piano della sanatoria amministrativa i vincoli apponibili all’autonomia legislativa delle Regioni, ordinarie e speciali, sono unicamente quelli desumibili dal nuovo art. 117 della Costituzione e dagli statuti speciali.
In particolare, non possono essere disattesi gli ampi poteri legislativi (di tipo concorrente) spettanti alle Regioni, proprio in virtù della competenza in materia di «governo del territorio» (nella quale debbono ricomprendersi i settori dell’edilizia e dell’urbanistica), nella specie da collegare, in primo luogo, con l’altra materia di competenza concorrente della «valorizzazione dei beni culturali ed ambientali». Spazi ancor maggiori spettano alle Regioni ad autonomia particolare, in virtù di competenze legislative primarie in materia di «governo del territorio».
Per altro verso, la disciplina legislativa deve armonizzarsi con la titolarità in capo ai comuni della gestione in proprio (ai sensi del nuovo art. 118 della Costituzione) delle funzioni amministrative, nonché con le previsioni del nuovo art. 119 della Costituzione, là dove esso afferma che le normali entrate dei Comuni devono consentire «di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite» (quarto comma). I Comuni, pertanto, debbono avere la facoltà di provvedere a sanare sul piano amministrativo gli illeciti edilizi e debbono poter determinare, sulla base delle indicazioni provenienti da disposizioni legislative regionali di dettaglio, anche la misura dell’anticipazione degli oneri concessori e le relative modalità di versamento.
Dalla combinazione di queste previsioni, la Corte ha tratto i criteri attraverso i quali produrre una segmentazione della normativa impugnata tale da renderla conforme al dettato costituzionale. Sulla base di quest’opera, allo Stato residuano (devono residuare) – oltre, ovviamente, ai profili penalistici – i poteri limitati alle disposizioni di principio riguardanti il titolo abilitativo edilizio in sanatoria, il limite temporale massimo di realizzazione delle opere condonabili, la determinazione delle volumetrie massime condonabili.
Conseguentemente, pur facendo salvo l’impianto complessivo della normativa sottoposta al giudizio della Corte, è stata dichiarata la illegittimità costituzionale di diverse disposizioni che violavano le competenze regionali, e segnatamente ad essere caducate sono state le disposizioni legislative che non prevedevano che la legge regionale potesse determinare:
a) le condizioni e le modalità per l’ammissibilità a sanatoria di tutte le tipologie di abuso edilizio;
b) i limiti volumetrici inferiori a quelli indicati come massimi;
c) l’applicabilità della legge regionale pure alle opere – quand’anche si trattasse di beni insistenti su aree di proprietà dello Stato o facenti parte del demanio statale – situate nel territorio regionale.
È stata, inoltre, dichiarata l’illegittimità costituzionale de:
d) la mancata previsione di un rinvio esplicito alla legge regionale, in tema di sanatoria di opere abusive, per la determinazione di un termine perentorio, fissato invece dallo Stato, entro il quale le Regioni avrebbero dovuto esercitare il loro potere normativo;
e) la mancata previsione in base alla quale si attribuiva alla legge regionale il potere di disciplinare gli effetti del silenzio, protratto oltre il termine previsto, del comune cui gli interessati avessero presentato la documentazione richiesta;
f) la mancata attribuzione alla legge regionale del potere di determinare la misura dell’anticipazione degli oneri concessori e le relative modalità di versamento.
Finalmente, è stata dichiarata la incostituzionalità della normativa nella parte in cui non prevedeva che la legge regionale, recante i contenuti indicati nei precitati dispositivi di illegittimità costituzionale, dovesse essere emanata entro un congruo termine, da stabilirsi ad opera del legislatore statale: ciò in quanto l’attuazione della legislazione sul condono esige, ai fini dell’operatività della normativa in esame, che il legislatore nazionale provveda alla rapida fissazione di un termine che consenta alle Regioni e alle Province autonome di determinare tutte le specificazioni cui sono chiamate, con la riserva che, nell’ipotesi in cui una Regione o una Provincia autonoma non eserciti il proprio potere legislativo entro il termine prescritto, non potrà non trovare applicazione la disciplina statale.
Anche a seguito degli interventi caducatori della Corte, hanno perso rilievo le doglianze regionali tese a contestare l’intera disciplina del condono edilizio, sul presupposto che esso avrebbe operato un illegittimo bilanciamento tra valori costituzionali primari (in particolare, la tutela dei beni ambientali e paesaggistici) ed altri interessi pubblici. La Corte ha, invece, sottolineato come sia stato trovato un giusto contemperamento dei valori in gioco; il riconoscimento alla legislazione regionale di un ruolo specificativo delle scelte statali rafforza, d’altra parte, la considerazione di quegli interessi pubblici, come la tutela dell’ambiente e del paesaggio, che sono – per loro natura – i più esposti a rischio di compromissione da parte delle normative recanti condoni edilizi.



4.2.6. «Produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia»
La Corte ha avuto modo di chiarire alcuni aspetti della materia di competenza concorrente relativa alla produzione, al trasporto ed alla distribuzione nazionale dell’energia.
Ciò è avvenuto soprattutto con la sentenza n. 7, in cui si è stabilito che la disposizione legislativa regionale secondo la quale la Regione «emana linee guida per la progettazione tecnica degli impianti di produzione, di distribuzione e di utilizzo dell’energia e per le caratteristiche costruttive degli edifici», si colloca «inequivocabilmente» nell’ambito della materia «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia».
Tale disposizione deve dunque essere letta alla luce di quanto disposto dalla legislazione statale (decreto legislativo 16 marzo 1999, n. 79), con il che la disciplina contenuta, relativa alla progettazione tecnica degli impianti di produzione, alla distribuzione ed all’utilizzo dell’energia elettrica, oltre che alla costruzione dei relativi edifici, deve necessariamente uniformarsi alle regole tecniche predisposte – ai termini della disciplina statale – dal gestore nazionale, «al fine di garantire la più idonea connessione alla rete di trasmissione nazionale nonché la sicurezza e la connessione operativa tra le reti».
Così ricostruita nella sua portata, la norma impugnata si limita a prevedere la emanazione, da parte dei competenti organi regionali, di linee guida che dettino criteri per le attività ivi indicate, criteri puramente aggiuntivi rispetto a quelli individuati dalle «regole tecniche» adottate dal gestore nazionale. Viene con ciò stesso garantito il rispetto delle regole tecniche predisposte dal gestore nazionale e, in ultima analisi, il rispetto delle esigenze di unitarietà della rete tutelate dalla disciplina statale.
La censura inerente alla violazione da parte della Regione della competenza statale a porre principi fondamentali in materia concorrente è stata, conseguentemente, ritenuta priva di fondamento.


4.2.7. «Armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario»
Con riguardo alla giurisprudenza su questa materia, si rinvia a quanto verrà detto infra, par. 6.1.


4.2.8. «Valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali»
 La sentenza n. 255, resa in sede di scrutinio della disciplina statale che detta i criteri e le modalità di erogazione dei contributi alle attività dello spettacolo e le aliquote di ripartizione annuale del Fondo unico per lo spettacolo previsto dalla legge 30 aprile 1985, n. 163, ha stabilito che nell’ambito competenziale in oggetto – e segnatamente nella sua seconda parte – rientrano «tutte le attività riconducibili alla elaborazione e diffusione della cultura, senza che vi possa essere spazio per ritagliarne singole partizioni come lo spettacolo».
In base ad un siffatto inquadramento, la Corte ha rilevato che il nuovo assetto accresce molto le responsabilità delle Regioni, «dato che incidenon solo sugli importanti e differenziati settori produttivi riconducibili alla cosiddetta industria culturale, ma anche su antiche e consolidate istituzioni culturali pubbliche o private operanti nel settore».
Dato atto del (nuovo) ruolo delle Regioni, si è peraltro precisato che, per quanto il sostegno finanziario degli spettacoli sia ormai riconducibile ad una materia di cui al terzo comma dell’art. 117 della Costituzione, ciò non può significare l’automatica sopravvenuta incostituzionalità della legislazione statale vigente in materia, anzitutto in conseguenza del principio della continuità dell’ordinamento.
In buona sostanza, «ci si trova con tutta evidenza dinanzi alla necessità ineludibile che in questo ambito, come in tutti quelli analoghi divenuti ormai di competenza regionale ai sensi del terzo comma dell’art. 117 Cost., ma caratterizzati da una procedura accentrata, il legislatore statale riformi profondamente le leggi vigenti (in casi come questi, non direttamente modificabili dai legislatori regionali) per adeguarle alla mutata disciplina costituzionale». D’altra parte, le impellenti necessità finanziarie dei soggetti e delle istituzioni operanti nei diversi settori degli spettacoli hanno indotto il legislatore ad adottare la disposizione impugnata, che non a caso appare esplicitamente temporanea, essendo stata approvata «in attesa che la legge di definizione dei principî fondamentali di cui all’art. 117 della Costituzione fissi i criteri e gli ambiti di competenza dello Stato». In considerazione di questa eccezionale situazione di integrazione della legge n. 163 del 1985, la norma può trovare giustificazione la sua temporanea applicazione, mentre appare evidente che questo sistema normativo non potrà essere ulteriormente giustificabile in futuro.

4.3. Le materie attinenti alla competenza residuale delle Regioni
 Nel corso del 2004, la Corte ha avuto modo di individuare alcune delle materie rientranti dell’ambito della competenza residuale delle Regioni ai termini della previsione di cui all’art. 117, quarto comma, della Costituzione. Possono, a tal riguardo, segnalarsi in particolare tre sentenze.
Nella prima (sentenza n. 1), è stata dichiarata costituzionalmente illegittima la disposizione legislativa statale che disponeva la inapplicabilità delle disposizioni di cui alla legge 11 giugno 1971, n. 426, recante la disciplina del commercio, e delle sagre, fiere e manifestazioni di carattere religioso, benefico o politico.
Se la finalità religiosa, benefica o politica da cui sia connotata una fiera o una sagra non può valere, di per sé, a modificarne la natura e dunque a mutare l’ambito materiale cui la disciplina di tali manifestazioni inerisce – e che non può che essere individuato nella disciplina del «commercio» –, la Corte ha riconosciuto che trattasi di materia di competenza residuale ai sensi del quarto comma dell’art. 117.
Con una successiva decisione (sentenza n. 12), la Corte ha dichiarato la illegittimità costituzionale di disposizioni legislative statali concernenti, rispettivamente, l’incentivazione dell’ippoterapia, il miglioramento genetico dei trottatori e dei galoppatori, la disciplina sanzionatoria per l’impianto abusivo di vigneti. All’uopo, la Corte, dopo aver distinto i diversi oggetti della disposizioni impugnate, ha ricondotto l’ippoterapia, consistente in un trattamento medico, alla «tutela della salute», enumerata fra le materie di potestà concorrente; di conseguenza il legislatore statale, anziché dettare norme puntuali e dettagliate, avrebbe dovuto limitarsi alla predisposizione di principî fondamentali.
Quanto al miglioramento genetico, esso è stato invece ascritto alla materia «agricoltura», di competenza residuale; peraltro, non vertendosi in ogni caso in una materia riconducibile ad alcuna potestà esclusiva dello Stato, la relativa disciplina è stata dichiarata incostituzionale, unitamente alla previsione del potere conferito al Ministro dell’economia e delle finanze di darvi attuazione, previsione che violava l’art. 117, sesto comma, della Costituzione, che attribuisce allo Stato potestà regolamentare nelle sole materie di competenza legislativa esclusiva.
Parimenti, la disciplina relativa all’impianto abusivo di vigneti è stata ricondotta al «nocciolo duro della materia agricoltura», affidata in via residuale alla competenza legislativa delle Regioni: in contrario, non avrebbe potuto rilevare che la disposizione era direttamente attuativa del regolamento comunitario relativo all’organizzazione comune del mercato vitivinicolo, poiché ai sensi dell’art. 117, quinto comma, della Costituzione l’attuazione ed esecuzione della normativa comunitaria spettano, nelle materie di loro competenza, alle Regioni e alle Province autonome di Trento e di Bolzano.
Infine, con la sentenza n. 380, la disposizione legislativa statale secondo cui «ai medici che conseguono il titolo di specializzazione [era] riconosciuto, ai fini dei concorsi, l’identico punteggio attribuito per il lavoro dipendente» è stata dichiarata incostituzionale nella parte in cui si applicava ai concorsi banditi dalle Regioni o dagli enti regionali. La norma, infatti, contrariamente alla tesi «espansiva» sostenuta dalla difesa erariale, atteneva specificamente alla disciplina dei concorsi per l’accesso al pubblico impiego, e dunque la relativa regolamentazione era riferibile all’ambito della competenza esclusiva statale, sancita dall’art. 117, secondo comma, lettera g), della Costituzione, limitatamente ai concorsi indetti dalle amministrazioni statali e dagli enti pubblici nazionali. Relativamente ai concorsi banditi dalle Regioni o dagli enti regionali, invece, essendo di immediata percezione l’impossibilità di collocare la disciplina all’interno del catalogo delle competenze legislative statali esclusive o in quello delle competenze concorrenti, non poteva che concludersi nel senso che la regolamentazione delle modalità di accesso al lavoro pubblico regionale era riconducibile alla materia «innominata» dell’organizzazione amministrativa delle Regioni e degli enti pubblici regionali, di spettanza delle Regioni ai termini del quarto comma dell’art. 117 della Costituzione.


4.4. Le competenze delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome
 Nella giurisprudenza costituzionale del 2004, sono numerose le decisioni che hanno riguardato le Regioni speciali e/o le Province autonome. La gran parte, tuttavia, non ha interessato esclusivamente le autonomie speciali, con il che la relativa trattazione trova la propria sedes materiae nei paragrafi che precedono.
Con precipuo (ed esclusivo) riferimento alle Regioni speciali e/o alle Province autonome si segnalano, comunque, quattro decisioni.
Innanzi tutto, con riferimento all’ambito competenziale concorrente relativo a «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia», merita un cenno la sentenza n. 8, che ha ad oggetto una disposizione legislativa del Friuli-Venezia Giulia. La Corte si sofferma preliminarmente sulla circostanza che non è desumibile dallo statuto alcuna competenza regionale in materia di energia; ciò nondimeno, in applicazione dell’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, si stabilisce che «non possono sussistere dubbi» sulla necessità di riconoscere in capo alla Regione la potestà legislativa anche alla Regione in materia di «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia», da esercitarsi – ovviamente – nelrispetto dei principi fondamentali riservati alla legislazione dello Stato.
In ordine al contenuto della disposizione regionale impugnata, essa, nel prevedere la possibilità che la Regione stipuli accordi con l’ente competente e con i proprietari della rete o tratti di rete al fine di realizzare, razionalizzare e ampliare la capacità di trasmissione degli elettrodotti, anche transfontalieri, deve essere interpretata in modo tale che faccia esclusivamente riferimento ad elettrodotti di competenza regionale con tensione non superiore a 150 KV (ben potendo essere gli elettrodotti di competenza della regione anche transfontalieri). Così intesa, la disposizione non viola le competenze statali nella materia dell’energia elettrica, in quanto non intende regolare anche l’esercizio di funzioni amministrative riservate allo Stato, quali quelle concernenti le reti con trasporto di energia con tensione superiore ai 150 KV e le determinazioni concernenti l’importazione e l’esportazione dell’energia.
Con la sentenza n. 412, la Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Provincia autonoma di Trento avverso la disposizione legislativa statale la quale prevede che l’autorizzazione integrata ambientale sia rilasciata con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, «sentite le regioni interessate», senza operare alcun richiamo alle Province autonome.
Fondandosi sul principio secondo cui «le disposizioni legislative statali devono essere interpretate in modo da assicurarne la conformità con la posizione costituzionalmente garantita alle Province autonome del Trentino-Alto Adige», nella decisione si è sottolineato come (in assenza di un espresso riferimento nella norma censurata alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome, ma anche in presenza – all’interno della legge – di una clausola generale di salvaguardia per le attribuzioni delle autonomie speciali) la disposizione impugnata non possa intendersi nel senso di trasferire alla competenza statale autorizzazioni in materia ambientale che già appartengano alla competenza provinciale o di ridurre il ruolo delle determinazioni provinciali nell’ambito delle procedure di competenza statale.
Per quanto non direttamente concernente una questione di legittimità costituzionale, è da segnalare anche la sentenza n. 177. Nel corso di un giudizio sulla spettanza del potere ispettivo nei confronti degli istituti scolastici paritari presenti nella Regione Siciliana, la Corte ha avuto infatti modo di ricostruire il quadro normativo delle competenze dello Stato e della Regione in materia di istruzione, precisando che, sulla base delle norme di attuazione dello statuto, alla Regione spettano «le attribuzioni degli organi centrali e periferici dello Stato in materia di pubblica istruzione» e, specificamente, «le funzioni di vigilanza e tutela spettanti all’amministrazione dello Stato nei confronti di enti, istituti ed organismi locali, anche a carattere consorziale, che svolgono nella Regione attività nelle materie trasferite a norma del presente decreto»; allo Stato, invece, residua la competenza in ordine alla disciplina della natura giuridica e del riconoscimento legale degli istituti scolastici non statali, essendo assegnato valore legale in tutto il territorio nazionale ai titoli di studio conseguiti negli istituti scolastici non statali «parificati, pareggiati e legalmente riconosciuti dalla Regione in conformità dell’ordinamento statale».
Ora, dopo aver constatato che tale assetto delle competenze dello Stato e della regione in materia di istruzione, deve ritenersi confermato anche dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, stante il disposto dell’art. 10 della stessa legge, la Corte ha stabilito che l’introduzione nel sistema nazionale di istruzione della nuova figura della «scuola paritaria» non comporta alcuna modifica all’assetto delle competenze in materia, né può essere intesa quale attribuzione allo Stato di competenza amministrativa sulle scuole paritarie presenti sul territorio della Regione, nella misura in cui anche tale species deve essere ricondotta al genus degli istituti scolastici non statali, previsto e disciplinato dalle norme di attuazione dello statuto regionale in materia di istruzione. Deve, pertanto, riconoscersi alla Regione la competenza amministrativa e quindi anche la funzione di ispezione e di vigilanza in relazione alle scuole paritarie, ferma la competenza legislativa dello Stato a disciplinare le norme generali sull’istruzione e i principî dell’assetto ordinamentale del sistema nazionale di istruzione.
Un’ultima decisione da menzionare è la sentenza n. 220, resa a proposito di una legge della Regione Sardegna in materia di caccia, impugnata nella parte in cui esclude i cacciatori non residenti nella regione dalla possibilità di rinnovare l’autorizzazione venatoria. Disattendendo le censure prospettate dal giudice a quo, la Corte ha rilevato che una siffatta previsione non determina una ingiustificata differenziazione di trattamento per i cacciatori non residenti in Sardegna e non ostacola di fatto la libera circolazione delle persone tra le regioni: ciò in quanto la norma è rivolta a disciplinare esclusivamente la fase transitoria che precede l’attivazione degli ambiti territoriali di caccia previsti dal piano faunistico regionale e prevede che, in tale fase, la regola è costituita dalla sospensione delle autorizzazioni per l’esercizio della caccia per tutti. La possibilità del rinnovo delle autorizzazioni scadute in favore dei residenti si pone, dunque, quale eccezione a tale regola e trova giustificazione nel principio della preferenza del collegamento del cacciatore con il territorio, affermato dalla legislazione statale e applicato anche dalla legge regionale. In ragione, tra l’altro, della transitorietà della previsione, questa non può non ritenersi frutto di una scelta discrezionale del legislatore regionale che non trasmoda in manifesta irrazionalità.


4.5. L’attrazione di materie da parte dello Stato sulla base del principio di sussidiarietà
 La sentenza n. 6 costituisce il seguito ideale della sentenza n. 303 del 2003, con la quale la Corte ha esplicitato la necessità di una lettura sistematica del testo costituzionale, tale da saldare le previsioni dell’art. 117 con quelle dell’art. 118.
Nel caso di specie, era stato impugnato da parte di alcune Regioni il decreto legge 7 febbraio 2002, n. 7, recante «Misure urgenti per garantire la sicurezza del sistema elettrico nazionale» (oggetto di impugnazione era poi stata anche la legge 9 aprile 2002, n. 55, di conversione del decreto legge).
La Corte ha riconosciuto che la disciplina oggetto dei ricorsi «insiste indubbiamente nell’ambito della materia “produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia”, espressamente contemplata dall’art. 117, terzo comma, della Costituzione tra le materie affidate alla potestà legislativa concorrente delle Regioni»; del pari, «è incontestabile che la disciplina impugnata non contiene principi fondamentali volti a guidare il legislatore regionale nell’esercizio delle proprie attribuzioni, ma norme di dettaglio autoapplicative e intrinsecamente non suscettibili di essere sostituite dalle Regioni».
Ciò premesso, è stato sottolineato come il problema della competenza legislativa dello Stato non possa essere risolto esclusivamente alla luce dell’art. 117 Cost., essendo indispensabile una ricostruzione che tenga conto dell’esercizio del potere legislativo di allocazione delle funzioni amministrative secondo i principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza di cui al primo comma dell’art. 118 Cost.
Sulla scorta di queste considerazioni, è stata dedotta l’infondatezza delle censure prospettate nei ricorsi regionali, atteso che la normativa ha «ridefinito in modo unitario ed a livello nazionale i procedimenti di modifica o ripotenziamento dei maggiori impianti di produzione dell’energia elettrica, in base all’evidente presupposto della necessità di riconoscere un ruolo fondamentale agli organi statali nell’esercizio delle corrispondenti funzioni amministrative».
Ovviamente, la valutazione della necessità del conferimento di una funzione amministrativa ad un livello territoriale superiore rispetto a quello comunale deve essere necessariamente effettuata dall’organo legislativo corrispondente almeno al livello territoriale interessato e non certo da un organo legislativo operante ad un livello territoriale inferiore («come sarebbe un Consiglio regionale in relazione ad una funzione da affidare – per l’esercizio unitario – al livello nazionale»).
Ora, alla luce di quanto stabilito nella sentenza n. 303 del 2003, affinché un siffatto intervento da parte del legislatore statale sia legittimo, è peraltro necessario (a) che esso rispetti i principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza nella allocazione delle funzioni amministrative, rispondendo ad esigenze di esercizio unitario di tali funzioni, (b) che esso detti una disciplina logicamente pertinente, dunque idonea alla regolazione delle suddette funzioni, (c) che esso risulti limitato a quanto strettamente indispensabile a tale fine, (d) che esso risulti adottato a seguito di procedure che assicurino la partecipazione dei livelli di governo coinvolti attraverso strumenti di leale collaborazione (o, comunque, che preveda adeguati meccanismi di cooperazione per l’esercizio concreto delle funzioni amministrative allocate in capo agli organi centrali).
Applicando i criteri indicati alla normativa oggetto del giudizio di legittimità costituzionale, la Corte ha rilevato, in primo luogo, «la necessarietà dell’intervento dell’amministrazione statale in relazione al raggiungimento del fine di evitare il “pericolo di interruzione di fornitura di energia elettrica su tutto il territorio nazionale”»: ciò in quanto «alle singole amministrazioni regionali – che si volessero attributarie delle potestà autorizzatorie contemplate dalla disciplina impugnata – sfuggirebbe la valutazione complessiva del fabbisogno nazionale di energia elettrica e l’autonoma capacità di assicurare il soddisfacimento di tale fabbisogno».
In secondo luogo, si è sottolineato come non potesse non riconoscersi, da un lato, la «specifica pertinenza» della normativa in relazione alla regolazione delle funzioni amministrative in questione, e, dall’altro, che tale normativa si è limitata ad una regolamentazione «in funzione del solo fine di sveltire le procedure autorizzatorie necessarie alla costruzione o al ripotenziamento di impianti di energia elettrica di particolare rilievo».
Finalmente, in merito alla necessaria previsione di idonee forme di intesa e collaborazione tra il livello statale e i livelli regionali, sono stati considerati adeguati i due distinti livelli di partecipazione delle Regioni disciplinati nel decreto legge n. 7 del 2002, quale convertito dalla legge n. 55 del 2002: per il primo comma dell’art. 1, quale opportunamente modificato in sede di conversione, la determinazione dell’elenco degli impianti di energia elettrica che sono oggetto di questi speciali procedimenti viene effettuata «previa intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano»; per il secondo comma dell’art. 1, l’autorizzazione ministeriale per il singolo impianto «è rilasciata a seguito di un procedimento unico, al quale partecipano le Amministrazioni statali e locali interessate, svolto nel rispetto dei principi di semplificazione e con le modalità di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni, d’intesa con la Regione interessata».
Il riferimento all’intesa è stato poi ulteriormente specificato nel senso che essa «va considerata come un’intesa “forte”», tale per cui «il suo mancato raggiungimento costituisce ostacolo insuperabile alla conclusione del procedimento», a causa del «particolarissimo impatto» che un impianto di energia elettrica ha «su tutta una serie di funzioni regionali, relative al governo del territorio, alla tutela della salute, alla valorizzazione dei beni culturali ed ambientali, al turismo, etc.».
La medesima ratio decidendi è stata alla base della sentenza n. 233, con la quale la Corte ha risolto il conflitto intersoggettivo originato dalla deliberazione del Comitato interministeriale per la programmazione economica relativa al Metro leggero automatico di Bologna.
Dato conto della riconducibilità dell’atto a materia di competenza concorrente, la Corte ha ricapitolato i criteri sulla base dei quali lo Stato può attrarre a sé funzioni in base al principio di sussidiarietà, soffermandosi, in particolare, sul pieno coinvolgimento della Regione interessata tramite la partecipazione alla riunione del Cipe, sul necessario «consenso, ai fini dell’intesa sulla localizzazione, dei Presidenti delle Regioni e Province autonome interessate», e sulla necessità di «assicurare alle Regioni una adeguata possibilità di rappresentare la propria posizione, nel rispetto del principio di leale collaborazione».
Nella vicenda concernente l’approvazione del progetto della metropolitana di Bologna, la Corte ha rilevato che l’art. 3 del decreto legislativo n. 190 del 2002 disciplina analiticamente la procedura di elaborazione ed adozione del progetto preliminare delle infrastrutture strategiche di rilevante interesse nazionale e, in questo ambito, prevede puntualmente il ruolo ed i poteri delle Regioni e delle Province autonome, nonché le eventuali procedure alternative in caso di loro motivato dissenso. In concreto, tuttavia, si è riscontrato il mancato rispetto di queste previsioni (in particolare, sulla deliberazione la Regione non ha espresso il proprio consenso), ciò che ha costituito, quindi, «sicura violazione» del principio di leale collaborazione, «la cui osservanza è tanto più necessaria in un ambito come quello di una procedura che integra l’esercizio in sussidiarietà da parte di organi statali di rilevanti poteri in materie di competenza regionale».


4.6. La contrapposizione tra la legislazione statale e la legislazione regionale ed il ruolo del giudizio di legittimità costituzionale
 A conclusione della trattazione relativa al riparto di competenze legislative tra lo Stato e le Regioni, giova soffermarsi, sia pur brevemente, su un tema di particolare importanza, quello cioè del modo di esercizio delle competenze, segnatamente nel caso in cui si producano contrasti tra legislazioni.
Le disposizioni costituzionali in tema di rapporti tra gli enti territoriali «presuppongono che l’esercizio delle competenze legislative da parte dello Stato e delle Regioni, secondo le regole costituzionali di riparto delle competenze, contribuisca a produrre un unitario ordinamento giuridico, nel quale certo non si esclude l’esistenza di una possibile dialettica fra i diversi livelli legislativi, anche con la eventualità di parziali sovrapposizioni fra le leggi statali e regionali, che possono trovare soluzione mediante il promuovimento della questione di legittimità costituzionale dinanzi a questa Corte, secondo le scelte affidate alla discrezionalità degli organi politici statali e regionali». È, però, «implicitamente escluso dal sistema costituzionale […] che il legislatore regionale (così come il legislatore statale rispetto alle leggi regionali) utilizzi la potestà legislativa allo scopo di rendere inapplicabile nel proprio territorio una legge dello Stato che ritenga costituzionalmente illegittima, se non addirittura solo dannosa o inopportuna, anziché agire in giudizio» dinanzi alla Corte costituzionale, attraverso il giudizio di legittimità costituzionale in via principale.
Tali considerazioni hanno guidato la Corte nello scrutinio di costituzionalità delle leggi regionali che negavano unilateralmente – in forme ed in misura talvolta parzialmente diverse – la possibilità di applicare nel territorio regionale la sanatoria edilizia statale di tipo straordinario prevista dall’art. 32 del decreto legge n. 269 del 2003 (oggetto, a sua volta, della sentenza n. 196). Le declaratorie di illegittimità costituzionale contenute nella sentenza n. 198 sono state, quindi, il logico corollario del principio secondo cui «né lo Stato né le Regioni possono pretendere, al di fuori delle procedure previste da disposizioni costituzionali, di risolvere direttamente gli eventuali conflitti tra i rispettivi atti legislativi tramite proprie disposizioni di legge».
La medesima ratio decidendi è stata impiegata, nella sentenza n. 199, al fine di dichiarare che non spettava ad una Regione, e per essa alla Giunta regionale, adottare un atto con il quale si negava efficacia, all’interno del proprio territorio, all’art. 32 del decreto legge n. 269 del 2003, dovendosi all’uopo constatare che ciò che è precluso ad una legge regionale (o statale) è precluso, a fortiori, ad un atto amministrativo di indirizzo che dichiari o presupponga l’inapplicabilità di un atto legislativo (rispettivamente dello Stato o delle Regioni).


5. I poteri sostitutivi
 Un numero considerevole di decisioni, nel corso del 2004, ha riguardato il tema della configurabilità, in capo ad enti diversi dallo Stato (ed in ipotesi altrie rispetto a quelli contemplati nel secondo comma dell’art. 120 della Costituzione), di poteri che comportano la sostituzione di organi di un ente a quelli di un altro, ordinariamente competente, nel compimento di atti, ovvero la nomina da parte dei primi di organi straordinari dell’ente «sostituito» per il compimento degli stessi atti.
Il tema, come è chiaro, assume una particolare delicatezza, se è vero che siffatti poteri concorrono a configurare ed a limitare l’autonomia dell’ente nei cui confronti opera la sostituzione, con il che essi debbono trovare fondamento esplicito o implicito nelle norme o nei principi costituzionali che tale autonomia prevedono e disciplinano.
Rigettando le prospettazioni erariali, la Corte ha stabilito che l’art. 120, secondo comma, della Costituzione «non può essere inteso nel senso che esaurisca, concentrandole tutte in capo allo Stato, le possibilità di esercizio di poteri sostitutivi», in quanto «esso prevede solo un potere sostitutivo straordinario, in capo al Governo, da esercitarsi sulla base dei presupposti e per la tutela degli interessi ivi esplicitamente indicati» (enfasi testuale), e lascia dunque impregiudicata l’ammissibilità e la disciplina di altri casi di interventi sostitutivi, configurabili dalla legislazione di settore, statale o regionale, in capo ad organi dello Stato o delle Regioni o di altri enti territoriali, in correlazione con il riparto delle funzioni amministrative da essa realizzato e con le ipotesi specifiche che li possano rendere necessari.
Non è allora preclusa, «in via di principio», la possibilità che la legge regionale, «intervenendo in materie di propria competenza, e nel disciplinare, ai sensi dell’art. 117, terzo e quarto comma, e dell’art. 118, primo e secondo comma, della Costituzione, l’esercizio di funzioni amministrative di competenza dei Comuni, preveda anche poteri sostitutivi in capo ad organi regionali, per il compimento di atti o di attività obbligatorie, nel caso di inerzia o di inadempimento da parte dell’ente competente, al fine di salvaguardare interessi unitari che sarebbero compromessi dall’inerzia o dall’inadempimento medesimi».
Un siffatto riconoscimento non può, tuttavia, non essere contornato da condizioni e limiti; condizioni e limiti ricavabili, essenzialmente, da quelli elaborati dalla giurisprudenza costituzionale anteriormente alla riforma costituzionale del 2001, in relazione ai poteri sostitutivi dello Stato nei confronti delle Regioni. In particolare, (a) «le ipotesi di esercizio di poteri sostitutivi debbono essere previste e disciplinate dalla legge […], che deve definirne i presupposti sostanziali e procedurali», (b) «la sostituzione può prevedersi esclusivamente per il compimento di atti o di attività “prive di discrezionalità nell’an (anche se non necessariamente nel quid o nel quomodo)” […], la cui obbligatorietà sia il riflesso degli interessi unitari alla cui salvaguardia provvede l’intervento sostitutivo» (affinché la sostituzione «non contraddica l’attribuzione della funzione amministrativa all’ente locale sostituito»), (c) «il potere sostitutivo deve essere […] esercitato da un organo di governo della Regione o sulla base di una decisione di questo» («ciò che è necessario stante l’attitudine dell’intervento ad incidere sull’autonomia, costituzionalmente rilevante, dell’ente sostituito»), (d) «la legge deve […] apprestare congrue garanzie procedimentali per l’esercizio del potere sostitutivo, in conformità al principio di leale collaborazione» («dovrà dunque prevedersi un procedimento nel quale l’ente sostituito sia comunque messo in grado di evitare la sostituzione attraverso l’autonomo adempimento, e di interloquire nello stesso procedimento)».
L’insieme di queste considerazioni, formulate nella sentenza n. 43 (dalla quale sono tratti i brani citati), sono state poi ribadite nelle successive decisioni che hanno avuto ad oggetto il medesimo tema.
Nella sentenza n. 43 si è ritenuto che la disposizione regionale impugnata fosse rispettosa di tutti i limiti e di tutte le condizioni sopra enucleati. Del pari, immuni da censure sono risultate le disposizioni regionali, oggetto dei giudizi conclusi con le sentenze numeri 70, 71, 72, 73, 140 e 172, che attribuivano ad organi regionali poteri sostitutivi. Infondate sono state dichiarate anche le questioni sollevate in merito a disposizioni legislative regionali che attribuivano poteri sostitutivi, per un verso, alla Regione nei confronti delle Province, e, per l’altro, alle Province nei confronti dei Comuni e di altri enti minori (sentenza n. 227).
La declaratoria di illegittimità costituzionale ha invece colpito una disposizione di legge regionale che, nel prevedere un potere sostitutivo della Regione nei confronti dei Comuni, non determinava «in alcun modo» la tipologia delle sostituzioni affidate alla Regione, non individuava l’organo regionale competente, non disciplinava la procedura di esercizio del potere, né prevedeva «alcun meccanismo di collaborazione con l’ente inadempiente» (sentenza n. 69). Analoga sorte hanno avuto le disposizioni legislative regionali che affidavano poteri sostitutivi al difensore civico, in quanto quest’ultimo, per la sua natura e per le funzioni esercitate, non può essere configurato alla stregua di un organo di governo regionale, configurazione che, «sola», consente di esercitare nei confronti degli enti locali interventi di tipo sostitutivo (sentenze numeri 112 e 173).
Alla luce dei medesimi principi, è stata dichiarata infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata da una Regione nei confronti della previsione, con atto legislativo statale, di un potere sostitutivo statale da esercitarsi da parte di un commissario straordinario di nomina governativa, secondo modalità che sono state ritenuti tali da offrire idonee garanzie circa il rispetto del principio di leale cooperazione (sentenza n. 240).
Infine, il tema del potere sostitutivo, ed in particolare il potere sostitutivo «straordinario» di cui al secondo comma dell’art. 120 della Costituzione, è stato oggetto anche della sentenza n. 236, che ha definito i ricorsi presentati dalla Provincia autonoma di Bolzano e dalla Regione Sardegna in ordine all’art. 8 della legge n. 131 del 2003, attuativo del disposto costituzionale. La Corte ha rilevato, nell’occasione, che «la previsione del potere sostitutivo fa […] sistema con le norme costituzionali di allocazione delle competenze, assicurando comunque, nelle ipotesi patologiche, un intervento di organi centrali a tutela di interessi unitari». Alla luce di ciò, non sarebbe ammissibile una «disarticolazione» di questo sistema, in applicazione della «clausola di favore», nei confronti delle Regioni ad autonomia differenziata, dissociando il titolo di competenza dai meccanismi di garanzia ad esso immanenti: la conclusione è stata dunque nel senso che un potere sostitutivo potrà trovare applicazione anche nei confronti delle Regioni speciali e delle Province autonome. Peraltro, «riguardo alle competenze già disciplinate dai rispettivi statuti, continueranno […] ad operare le specifiche tipologie di potere sostitutivo in essi (o nelle norme di attuazione) disciplinate».
Al quadro di riferimento così tratteggiato non è comunque seguito un esame nel merito delle questioni prospettate, essendosi constatato che «il concreto trasferimento alle Regioni ad autonomia speciale delle funzioni ulteriori attratte dal nuovo Titolo V deve essere effettuato con le procedure previste dall’art. 11 della legge n. 131 del 2003, ossia con norme di attuazione degli statuti adottate su proposta delle commissioni paritetiche», con la conseguenza che, «fino a quando tali norme di attuazione non saranno state approvate, la disciplina del potere sostitutivo di cui si [è] contesta[ta] la legittimità resta nei loro confronti priva di efficacia e non è idonea a produrre alcuna violazione delle loro attribuzioni costituzionali».



6. Il regime finanziario dello Stato, delle Regioni e degli enti locali
Nel corso del 2004, la Corte ha avuto modo di intervenire su molti aspetti correlati al regime finanziario disegnato dal nuovo art. 119 della Costituzione. Il tema si interseca con quello relativo alla ripartizione delle competenze normative tra Stato e Regioni (ma anche enti locali), specie in connessione con la previsione – al terzo comma dell’art. 117 – di una competenza concorrente in materia di «armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario». Onde evitare di tracciare distinzioni che possano risultare artificiose, in questa sede verranno prese in considerazione le più significative tra le decisioni che riguardino atti aventi dirette implicazioni finanziarie.


6.1. Legislazione statale ed autonomie finanziarie
 a) Le disposizioni della legge finanziaria 2002, che pongono limiti e divieti nei confronti del personale alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni non sono lesive delle competenze regionali, in quanto sono riconducibili a ben individuate competenze statali: ciò vale, secondo quanto stabilito nella sentenza n. 4, per la norma secondo cui «gli oneri derivanti dai rinnovi contrattuali per il biennio 2002-2003 sono a carico delle amministrazioni di competenza nell’ambito delle disponibilità dei rispettivi bilanci», e per quella in base alla quale, con riguardo alla contrattazione integrativa, i comitati di settore, in sede di deliberazione degli atti di indirizzo, si attengono ai «criteri indicati per il personale» dipendente dello Stato. Tali previsioni, infatti, rientrano nella materia, di competenza concorrente (art. 117, terzo comma, della Costituzione), della «armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica» e fissano – in linea con gli impegni assunti dall’Italia «in sede comunitaria» – principi fondamentali volti al contenimento della spesa corrente.
Anche le previste verifiche congiunte tra comitati di settore e Governo in merito alle implicazioni finanziarie della contrattazione integrativa di comparto impongono regole strumentali rispetto al fine – legittimamente perseguito dalla legislazione statale in sede di coordinamento della finanza pubblica – di valutazione della compatibilità con i vincoli di bilancio risultanti dagli strumenti di programmazione annuale e pluriennale.
Per quanto riguarda il divieto agli enti locali di assumere personale a tempo indeterminato e di ricorrere, per la copertura dei posti disponibili, alle procedure di mobilità, le disposizioni statali perseguono il fine di dare effettività al patto di stabilità interno incidendo su una delle più frequenti e rilevanti cause del disavanzo; sicché – attesa la stretta attinenza di tali precetti con il fine del coordinamento della finanza pubblica, sub specie del contenimento della spesa corrente – non sussiste alcuna compressione delle competenze regionali.
È, infine, chiaramente strumentale rispetto al fine di coordinamento della finanza pubblica, e costituisce norma di principio, anche la disposizione secondo cui gli organi di revisione contabile accertano che i documenti di programmazione del fabbisogno di personale siano improntati al rispetto del principio di riduzione complessiva della spesa e che eventuali deroghe a tale principio siano analiticamente motivate.
b) Sulla base delle medesime considerazioni, con la sentenza n. 260, viene respinta l’impugnazione dell’Emilia-Romagna nei confronti delle disposizioni che, nelle leggi finanziarie del 2003 e del 2004, pongono vincoli ai comitati di settore in sede di deliberazione degli atti di indirizzo riguardanti i dipendenti del comparto Regioni-autonomie locali.
c) La sentenza n. 17 ha ad oggetto alcune disposizioni della legge finanziaria 2002 che prevedono che le pubbliche amministrazioni, da un lato, sono autorizzate ad acquistare sul mercato i servizi originariamente prodotti al proprio interno, a condizione di ottenere conseguenti economie di gestione, e, dall’altro, possono costituire soggetti di diritto privato ai quali affidare lo svolgimento di servizi, nel rispetto del principio di economicità, si limitano ad indicare, con carattere non vincolante per l’autonomia delle regioni, talune possibili modalità procedimentali per l’acquisizione e l’affidamento dei servizi (c.d. esternalizzazione dei servizi) con finalità esclusivamente economico-finanziarie.
Correttamente interpretata, la normativa in esame costituisce, in realtà, una indicazione di principio di possibili misure adottabili, nell’ambito del coordinamento della finanza pubblica, in ordine al reperimento di forme aggiuntive di copertura delle spese e di finanziamento, nonché di riduzione dei fabbisogni finanziari per la gestione dei «servizi».
Del pari, la disposizione che prevede che le amministrazioni pubbliche possono ricorrere a forme di autofinanziamento, grazie alle entrate proprie derivanti dalla cessione dei servizi prodotti o dalla compartecipazione alle spese da parte degli utenti del servizio (al fine di ridurre gli stanziamenti a carico del bilancio dello Stato), non costituisce lesione della competenza legislativa regionale residuale in materia di organizzazione e funzionamento della Regione: essa si giustifica, infatti, non solo sulla base dei poteri dello Stato diretti all’armonizzazione ed al coordinamento dei bilanci, delle spese e delle entrate dell’intera finanza pubblica, compreso il sistema tributario, ma anche in ragione del fatto che l’autofinanziamento delle funzioni attribuite alle Regioni (ed agli enti locali) costituisce – nel nuovo assetto delle competenze costituzionali – null’altro che un corollario della potestà legislativa regionale esclusiva in materia.
Inoltre, la disposizione non pone limiti al legislatore regionale sul presupposto, addotto dalle regioni ricorrenti, del disconoscimento del carattere autonomo e non più derivato della finanza regionale: essendo stato dato avvio – con il decreto legislativo 18 febbraio 2000, n. 56 – al passaggio dal sistema di finanziamento delle Regioni a statuto ordinario per trasferimenti a quello che prevede l’accesso diretto (mediante la c.d. compartecipazione ad alcuni tributi statali), l’applicabilità della norma de qua non può ledere l’autonomia finanziaria regionale, dovendo questa conformarsi ai principi fondamentali fissati dalla legge statale; né è sufficiente ad integrare detta violazione la semplice circostanza della riduzione dei trasferimenti e stanziamenti statali a seguito di entrate proprie. D’altra parte, la norma denunciata – per la sua natura di principio e per l’interpretazione che deve essere data al necessario presupposto compensativo di corrispondenti entrate proprie regionali – non è tale da poter comportare uno squilibrio incompatibile con le esigenze complessive della spesa regionale.
Non costituisce, infine, un indebito potere di indirizzo e coordinamento l’attribuzione, in capo al Ministro per l’innovazione e le tecnologie, del potere di definire, per il miglioramento della qualità dei servizi e la razionalizzazione della spesa per informatica, gli indirizzi per l’impiego ottimale dell’informatizzazione delle pubbliche amministrazioni: ciò in quanto trattasi di un potere limitato, per quanto riguarda le Regioni, ad un coordinamento meramente tecnico, rientrante nell’ambito della previsione costituzionale di coordinamento informativo statistico e informatico dei dati delle pubbliche amministrazioni, secondo la previsione dell’art. 117, secondo comma, lettera r), della Costituzione.
d) Secondo quanto affermato nella sentenza n. 36, i limiti posti dalle disposizioni della legge finanziaria 2002 alla crescita della spesa corrente degli enti locali, in termini di impegni e pagamenti, sono introdotti in osservanza del cosiddetto patto di stabilità interno, concernente il concorso delle Regioni e degli enti locali «alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica che il paese ha adottato con l’adesione al patto di stabilità e crescita» definito in sede di Unione europea. Non è contestabile, al riguardo, il potere del legislatore statale di imporre agli enti autonomi, per ragioni di coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali (condizionati anche da obblighi comunitari), vincoli alle politiche di bilancio, anche qualora questi si traducano, inevitabilmente, in limitazioni indirette all’autonomia di spesa degli enti. La natura e la finalità di tali vincoli escludono pertanto che tali disposizioni possano considerarsi come esorbitanti dall’ambito di una disciplina di principio spettante alla competenza dello Stato.
Non può, inoltre, negarsi che, in via transitoria ed in vista degli specifici obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica perseguiti, il legislatore statale possa, nell’esercizio non irragionevole della sua discrezionalità, introdurre per un anno un limite alla crescita della spesa corrente degli enti autonomi, tenendo conto che, comunque, si tratta di un limite complessivo, che lascia agli enti stessi ampia libertà di allocazione delle risorse tra i diversi ambiti ed obiettivi di spesa.
e) Strettamente correlata alla sentenza n. 36 è la sentenza n. 353, resa a proposito di questioni sollevate dalle Province autonome di Trento e di Bolzano e dalla Regione Trentino-Alto Adige. I ricorrenti denunciano la disposizione della legge finanziaria 2003 ai termini della quale «le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e di Bolzano concordano con il Ministero dell’economia e delle finanze, per gli esercizi 2003, 2004 e 2005, il livello delle spese correnti e dei relativi pagamenti»: la disposizione è censurata nella parte in cui consente che sia il Ministro a determinare unilateralmente, in mancanza dell’accordo, i flussi di cassa verso gli enti. La Corte osserva che, pur dovendosi privilegiare il metodo dell’accordo, non si può escludere che, in pendenza delle trattative, lo Stato possa imporre qualche limite anche alle Regioni speciali, nell’esercizio del potere di coordinamento della finanza pubblica nel suo complesso ed in vista di obiettivi nazionali di stabilizzazione finanziaria, al cui raggiungimento tutti gli enti autonomi, compresi quelli ad autonomia speciale, sono chiamati a concorrere. Nella specie, deve ritenersi che il potere amministrativo attribuito dalla norma al Ministro non necessiti di criteri e limiti sostanziali, poiché può essere esercitato solo in correlazione ed al fine del contenimento della spesa degli enti entro i limiti oggettivi risultanti dalla legge, oltre che dai documenti di programmazione: in altri termini, il Ministro non gode di un ambito di discrezionalità politica, bensì solo di un potere di determinazione prevalentemente tecnica il cui esercizio è ancorato a parametri oggettivi.
f) La sentenza n. 390 riconduce alla competenza statale consistente nel dettare i principi fondamentali in materia di «coordinamento della finanza pubblica» anche la disposizione della legge finanziaria 2004 secondo cui le amministrazioni pubbliche diverse da quelle dello Stato «adeguano le proprie politiche di reclutamento di personale al principio di contenimento della spesa in coerenza con gli obiettivi fissati dai documenti di finanza pubblica». La Corte ritiene evidente che la legislazione statale fissi un principio che non limita in alcun modo l’autonomia regionale riguardo ai concreti strumenti (adeguamento delle proprie «politiche di reclutamento del personale») attraverso i quali quell’obiettivo («contenimento della spesa») può essere raggiunto.
Ben può, inoltre, prevedere, la legge statale, un accordo tra Governo, Regioni ed autonomie locali volto a far sì che vi sia il «concorso delle autonomie regionali e locali al rispetto degli obiettivi di finanza pubblica», e che l’accordo sia trasfuso in un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri che fissi «per le amministrazioni regionali, per le province e i comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti che abbiano rispettato le regole del patto di stabilità interno per l’anno 2002, per gli altri enti locali e per gli enti del Servizio sanitario nazionale, criteri e limiti per le assunzioni a tempo indeterminato per l’anno 2003». Anche tale previsione costituisce un principio di «coordinamento della finanza pubblica», legittimamente apposto coinvolgendo nell’individuazione dei «criteri e limiti per le assunzioni a tempo indeterminato» le Regioni e le autonomie locali.
Non altrettanto può dirsi, invece, per la disposizione secondo cui le assunzioni a tempo indeterminato devono, comunque, essere contenute entro percentuali non superiori al 50 per cento delle cessazioni dal servizio verificatesi nel corso dell’anno 2002: in questo caso, infatti, la disposizione non si limita a fissare un principio di coordinamento della finanza pubblica, ma pone un precetto specifico e puntuale che si risolve in una indebita invasione dell’area (individuabile nell’organizzazione della propria struttura amministrativa) riservata alle autonomie regionali e degli enti locali, alle quali la legge statale può solo prescrivere criteri ed obiettivi, ma non imporre nel dettaglio gli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere quegli obiettivi.
g) La disposizione della legge finanziaria 2003 ai termini della quale «le somme iscritte nei capitoli del bilancio dello Stato aventi natura di trasferimenti alle imprese per contributi alla produzione e agli investimenti affluiscono ad appositi fondi rotativi in ciascuno stato di previsione della spesa» (con la connessa disposizione che prevede che tali contributi «sono attribuiti secondo criteri e modalità stabiliti dal Ministro dell’economia e delle finanze») intende fissare un limite al costo degli interventi, anche regionali, di contribuzione alla produzione e agli investimenti: pur trattandosi di disposizione con finalità di contenimento della spesa pubblica regionale ed essendo, dunque, atta ad incidere sulla finanza regionale, la Corte, con la sentenza n. 414, ha ritenuto che fosse comunque rispettosa del criterio di riparto in materia di «coordinamento finanziario», in quanto volta esclusivamente a porre limiti massimi all’onerosità, sotto diversi aspetti, degli interventi regionali di sostegno all’imprenditoria.


6.2. Il sistema finanziario e tributario degli enti locali
 Nelle pronunce che seguono, la Corte traccia le linee guida volte a configurare il sistema finanziario e tributario degli enti locali in conformità al nuovo art. 119 della Costituzione.
a) Con la sentenza n. 37, in occasione della impugnativa nei confronti di diverse disposizioni della legge finanziaria 2002 relative all’imposta sulla pubblicità, a diversi tributi locali, all’addizionale comunale e provinciale all’Irpef ed alla compartecipazione dei Comuni al gettito dell’Irpef, la Corte sottolinea che «l’art. 119 della Costituzione considera, in linea di principio, sullo stesso piano Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni, stabilendo che tutti tali enti “hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa” (primo comma), hanno “risorse autonome” e “stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri”, sia pure “in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”, ed inoltre “dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio” (secondo comma)». Le risorse derivanti da tali fonti, e dal fondo perequativo istituito dalla legge dello Stato, consentono (recte, debbono consentire) agli enti di «finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite» (quarto comma), salva la possibilità per lo Stato di destinare risorse aggiuntive ed effettuare interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni, per gli scopi di sviluppo e di garanzia enunciati dalla stessa norma o «per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle funzioni degli enti autonomi».
L’attuazione di questo disegno costituzionale richiede, peraltro, l’intervento del legislatore statale, il quale, al fine di coordinare l’insieme della finanza pubblica, dovrà non solo fissare i principi cui i legislatori regionali dovranno attenersi, ma anche determinare le grandi linee dell’intero sistema tributario, e definire gli spazi ed i limiti entro i quali potrà esplicarsi la potestà impositiva, rispettivamente, di Stato, Regioni ed enti locali.
Un siffatto intervento richiede altresì la definizione di una disciplina transitoria che consenta l’ordinato passaggio dall’attuale sistema – caratterizzato dalla permanenza di una finanza regionale e locale ancora in non piccola parte «derivata» e da una disciplina statale unitaria di tutti i tributi, con limitate possibilità di autonome scelte riconosciute a Regioni ed enti locali – ad uno affatto nuovo.
Ad oggi non si danno ancora, se non in limiti ristrettissimi, tributi che possano definirsi a pieno titolo «propri» delle Regioni o degli enti locali, nel senso che essi siano frutto di una loro autonoma potestà impositiva, e quindi possano essere disciplinati dalle leggi regionali o dai regolamenti locali, nel rispetto dei soli principi di coordinamento (attualmente assenti in quanto «incorporati» in un sistema di tributi sostanzialmente governati dallo Stato). In tal senso, non è eccezione probante quella dei tributi di cui oggi la legislazione dello Stato destina il gettito, in tutto o in parte, agli enti autonomi, e per i quali la stessa legislazione riconosce spazi limitati di autonomia agli enti quanto alla loro disciplina, trattandosi comunque di tributi che sono quasi integralmente riconducibili a determinazioni provenienti dal centro.
Per quanto poi riguarda i tributi locali, stante la riserva di legge che copre tutto l’ambito delle prestazioni patrimoniali imposte (art. 23 della Costituzione), e che comporta la necessità di disciplinare a livello legislativo quanto meno gli aspetti fondamentali dell’imposizione, e data l’assenza di poteri legislativi in capo agli enti sub-regionali, dovrà anche essere definito, da un lato, l’ambito in cui potrà esplicarsi la potestà regolamentare degli enti medesimi, e, dall’altro lato, il rapporto tra legislazione statale e legislazione regionale per quanto attiene alla disciplina di grado primario dei tributi locali (potendosi in astratto concepire situazioni di disciplina normativa a tre livelli – legislativa statale, legislativa regionale, e regolamentare locale – oppure a due soli livelli – statale e locale, ovvero regionale e locale –).
Dalle premesse enunciate discende l’impossibilità di accedere alla tesi secondo cui la materia del «sistema tributario degli enti locali» spetterebbe fin da oggi alla potestà legislativa residuale delle Regioni. Correlativamente, non possono essere accolte le censure basate sul carattere dettagliato e non di principio delle disposizioni impugnate in materia di tributi locali o devoluti agli enti locali: le norme impugnate, infatti, recano modifiche particolari ad aspetti di tributi che già erano oggetto di specifica disciplina in preesistenti leggi statali, e sui quali quindi il legislatore statale conserva un potere di intervento sino alla definizione delle premesse del nuovo sistema impositivo delle Regioni e degli enti locali.
b) Sulla base delle considerazioni contenute nella sentenza n. 37, la Corte respinge, con la sentenza n. 241, il ricorso avverso le norme che delegano il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi per la graduale eliminazione dell’Irap (legge 7 aprile 2003, n. 80). Si esclude, infatti, che tale tributo possa considerarsi alla stregua di un «tributo proprio» della Regione e si riafferma, quindi, la spettanza al legislatore statale della potestà di dettare norme modificative della disciplina.
Aggiunge la Corte che il legislatore non ha violato il disposto del nuovo art. 119 della Costituzione. In tal senso, sono ritenuti elementi idonei a fondare la conformità dell’intervento legislativo ai principi che il novellato art. 119 della Costituzione pone a garanzia dell’autonomia regionale in materia tributaria la previsione della soppressione graduale dell’Irap, l’assicurazione che – sino al completamento del processo di attuazione della riforma costituzionale – sono garantiti (anche in termini qualitativi, oltre che quantitativi) gli attuali meccanismi di finanza regionale, nonché la prevista intesa con le Regioni per compensare la progressiva riduzione dell’Irap con trasferimenti e compartecipazioni e, non ultima, la salvezza delle eventuali anticipazioni del federalismo fiscale.
c) Sempre in linea di continuità, la Corte respinge, con la sentenza n. 381, i ricorsi avverso le disposizioni contenute nelle leggi finanziarie 2003 e 2004 che, nella sostanza, sospendono gli aumenti per le addizionali Irpef e le maggiorazioni dell’aliquota Irap. Siffatte previsioni appaiono alla Corte giustificabili in base alla considerazione che esse si traducono in una temporanea e provvisoria sospensione dell’esercizio del potere regionale in attesa di un complessivo ridisegno dell’autonomia tributaria delle Regioni, nel quadro dell’attuazione del nuovo art. 119 Cost., nonché di una manovra che investe, da un lato, la struttura di un tributo indubitabilmente statale, quale è l’Irpef, destinato a modificazioni profonde, e, dall’altro, quella di un tributo, quale l’Irap, che è tuttora disciplinato dalla legge dello Stato. Né risulta dimostrato che le disposizioni producano una complessiva insufficienza dei mezzi finanziari a disposizione delle Regioni per l’adempimento dei loro compiti.
d) Considerazioni analoghe consentono, nella sentenza n. 431, di respingere il ricorso avverso la disposizione contenuta nella legge finanziaria 2003 che prevede talune proroghe di agevolazioni fiscali relative all’Irap inerenti all’agricoltura. Non condivisibile, in particolare, è ritenuta la tesi secondo cui ogni intervento sul tributo che comporti un minor gettito per le Regioni dovrebbe essere accompagnato da misure compensative per la finanza regionale. Non può, infatti, essere effettuata una atomistica considerazione di isolate disposizioni modificative del tributo, senza considerare nel suo complesso la manovra fiscale entro la quale esse trovano collocazione, ben potendosi verificare che, per effetto di plurime disposizioni di leggi, il gettito complessivo destinato alla finanza regionale non subisca riduzioni.
e) Anche il ricorso avverso la disposizione, contenuta nella legge finanziaria 2003, che dispone la fissazione delle basi di calcolo dei sovracanoni per la produzione di energia idroelettrica è stato respinto (sentenza n. 261). Tale disciplina, ribadisce la Corte, attiene alla materia del sistema finanziario e tributario degli enti locali e, in attesa di un intervento legislativo attuativo dell’art. 119 Cost., spetta tuttora al legislatore statale la potestà di dettare norme modificative, anche nel dettaglio, della disciplina dei sovracanoni.

 
6.3. I fondi speciali istituiti dallo Stato
 In un’altra (nutrita) serie di pronunce, la Corte verifica la conformità all’art. 119 della Costituzione di alcuni fondi speciali istituiti dallo Stato.
a) Viene innanzi tutto in rilievo la disposizione della legge finanziaria 2002 che istituisce presso il Ministero dell’interno il Fondo per la riqualificazione urbana dei comuni e che demanda ad un regolamento ministeriale il compito di dettare le disposizioni per la ripartizione del Fondo tra gli enti interessati.
La Corte, nella sentenza n. 16, sottolinea che nel nuovo contesto costituzionale di distribuzione delle competenze legislative, amministrative e finanziarie non possono trovare spazio interventi finanziari diretti dello Stato a favore dei Comuni, vincolati nella destinazione, per normali attività e compiti di competenza di questi ultimi, fuori dall’ambito dell’attuazione di discipline dettate dalla legge statale nelle materie di propria competenza, o della disciplina degli speciali interventi finanziari in favore di determinati Comuni. Siffatte forme di intervento non sono ammissibili, in particolare, nell’ambito di materie e funzioni la cui disciplina spetta alla legge regionale, pur eventualmente nel rispetto (quanto alle competenze concorrenti) dei principi fondamentali della legge dello Stato.
Sulla scorta di tali affermazioni di principio, la disposizione impugnata viene dichiarata costituzionalmente illegittima. Ora, poiché la caducazione di tale norma non comportava diretto e immediato pregiudizio per diritti delle persone, la Corte ha ritenuto insussistenti ragioni di ordine costituzionale che si opponessero ad una dichiarazione di incostituzionalità in toto. Onde essere destinati alla finanza locale, i fondi in questione dovranno dunque essere assoggettati, se del caso, ad una nuova disciplina legislativa, che sia rispettosa della Costituzione.
b) Le considerazioni svolte nella sentenza n. 16 sono riproposte nella sentenza n. 49, che dichiarata la illegittimità costituzionale delle disposizioni contenute nella legge finanziaria 2002 che istituiscono ex novo il Fondo nazionale per il sostegno alla progettazione delle opere pubbliche delle regioni e degli enti locali e il fondo nazionale per la realizzazione di infrastrutture di interesse locale.
c) Altresì illegittima risulta la disposizione della legge finanziaria 2004 che affida la gestione del Fondo istituito al fine di garantire il rimborso dei c.d. prestiti fiduciari in favore degli studenti capaci e meritevoli a Sviluppo Italia S.p.a., società interamente partecipata dallo Stato. In questo caso, le modalità di utilizzo del fondo di garanzia, attinente alla materia dell’istruzione, comportano scelte discrezionali relativamente ai criteri di individuazione degli studenti capaci e meritevoli che esigono un diretto coinvolgimento delle Regioni, in quanto titolari di potestà legislativa concorrente nella specifica materia. Di ciò – conclude la Corte nella sentenza n. 308 – non ha tenuto conto la disposizione in questione, che ha indebitamente riservato ogni potere decisionale ad organi dello Stato o ad enti ad esso comunque riferibili, quale, appunto la sopra menzionata società per azioni.
d) Costituzionalmente illegittima si rivela anche la disposizione della legge finanziaria 2003 nella è previsto l’intervento legislativo dello Stato in tema di asili nido, nonché la creazione di un Fondo statale di finanziamento dei datori di lavoro che realizzino asili nido o micro-nidi nei luoghi di lavoro.
A tale declaratoria, contenuta nella sentenza n. 320, si giunge rilevando che la disciplina degli asili nido ricade nell’ambito della materia dell’istruzione (sia pure in relazione alla fase pre-scolare del bambino), nonché, per altri versi, nella materia della tutela del lavoro, che l’art. 117, terzo comma, della Costituzione affida parimenti alla potestà legislativa concorrente, con la conseguenza che in questi ambiti il legislatore statale può determinare soltanto i principi fondamentali della materia e non può dettare, quindi, una disciplina dettagliata ed esaustiva. In sostanza, si sottolinea ulteriormente che l’art. 117 della Costituzione vieta che in una materia di competenza legislativa regionale si prevedano interventi finanziari statali, seppur destinati a soggetti privati, poiché ciò equivarrebbe a riconoscere allo Stato potestà legislative e amministrative non derivanti dal sistema costituzionale di riparto delle rispettive competenze.
e)Sempre in linea di continuità con le pronunce che precedono (ed in particolare la sentenza n. 16), la Corte affronta, nella sentenza n. 423, i ricorsi proposti nei confronti delle disposizioni contenute nelle leggi finanziarie 2003 e 2004 riguardanti il Fondo per le politiche sociali. In premessa, si sottolinea che l’attuale sistema di finanziamento delle politiche sociali consiste nella previsione della regola generale secondo cui la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali si avvale di un finanziamento plurimo al quale concorrono, secondo competenze differenziate e con dotazioni finanziarie afferenti ai rispettivi bilanci, lo Stato, le Regioni e gli enti locali.
Dalla lettura delle caratteristiche che connotano la struttura e la funzione del Fondo, la Corte desume che lo stesso non è riconducibile ad alcuno degli strumenti di finanziamento previsti dal nuovo art. 119 della Costituzione. Da ciò non consegue, tuttavia, la sua soppressione, in quanto, per un verso, il Fondo è destinato a finanziare anche funzioni statali, e, per l’altro, la sua perdurante operatività per gli aspetti di incidenza sul sistema dell’autonomia finanziaria regionale si giustifica in via transitoria fino all’attuazione del nuovo modello delineato dall’art. 119 della Costituzione (si sottolinea, peraltro, che in questa fase non sono comunque ammesse nuove prescrizioni che incidano in senso peggiorativo sugli spazi di autonomia già riconosciuti dalle leggi statali in vigore ovvero che contraddicano i principi fissati dallo stesso art. 119).
Alla luce di tali considerazioni e delle disposizioni costituzionali riguardanti l’autonomia finanziaria regionale, la Corte ritiene fondata la questione relativa alla prevista destinazione di almeno il 10 per cento delle risorse del Fondo «a sostegno delle politiche in favore delle famiglie di nuova costituzione, in particolare per l’acquisto della prima casa di abitazione e per il sostegno alla natalità». La disposizione pone, infatti, un preciso vincolo di destinazione nell’utilizzo delle risorse da assegnare alle Regioni in contrasto con i criteri ed i limiti che presiedono all’attuale sistema di autonomia finanziaria regionale, che – come già più volte evidenziato – non consentono finanziamenti di scopo per finalità non riconducibili a funzioni di spettanza statale.
Viene, invece, respinta la doglianza volta a contestare che la quantità di risorse da destinare alla spesa sociale non sia stata concordata tra Stato e Regioni. Ciò in quanto spetta in via esclusiva allo Stato, nell’esercizio dei suoi poteri di regolazione finanziaria, stabilire quanta parte delle risorse debba essere destinata alla copertura della spesa sociale; il coinvolgimento delle Regioni – in ossequio al principio di leale cooperazione – deve essere assicurato solo nella fase di concreta ripartizione delle risorse finanziarie.
L’autonomia finanziaria regionale non è neppure violata dalla fissazione di un termine (ritenuto eccessivamente gravoso) per l’utilizzo delle risorse da parte degli enti destinatari: la disposizione che prevede tale fissazione risponde, infatti, all’esigenza di assicurare che le risorse non tempestivamente utilizzate siano rese nuovamente disponibili per gli scopi che la normativa si propone di raggiungere.
La declaratoria di illegittimità costituzionale, invece, colpisce la disposizione che assegna alla Federazione dei maestri del lavoro d’Italia un contributo annuo per far fronte a spese per diverse attività assistenziali. Al riguardo, la Corte, dopo aver rilevato che la Federazione svolge attività incidente, per profili diversi, su materie e funzioni di competenza regionale, ha modo di riaffermare che non è consentito al legislatore statale dettare specifiche disposizioni con le quali si conferiscono contributi finanziari che possono incidere su politiche pubbliche regionali.
Costituzionalmente illegittime sono anche le disposizioni che prevedono, l’una, l’erogazione alle persone fisiche di un contributo, finalizzato alla riduzione degli oneri effettivamente rimasti a carico per l’attività educativa di altri componenti del medesimo nucleo familiare presso scuole paritarie, e, l’altra, un intervento finanziario a favore delle Regioni che si determinino ad istituire il reddito di ultima istanza (quale strumento di accompagnamento economico ai programmi di reinserimento sociale destinato ai nuclei familiari a rischio di esclusione sociale): siffatte previsioni incidono illegittimamente sulla sfera di competenza regionale, con finanziamenti caratterizzati da vincoli di destinazione in ambiti di materia spettanti alla competenza legislativa regionale (rispettivamente, «istruzione» e «servizi sociali»).
Per quanto riguarda, infine, la disposizione che prevede finanziamenti da destinare al potenziamento dell’attività di ricerca scientifica e tecnologica, la Corte sottolinea che la «ricerca scientifica», sebbene inclusa tra le materie appartenenti alla competenza concorrente, deve essere considerata non solo una «materia», ma anche un «valore» costituzionalmente protetto (ai sensi degli articoli 9 e 33 della Costituzione), ed è, in quanto tale, in grado di rilevare a prescindere da ambiti di competenze rigorosamente delimitati. Pertanto, la disposizione impugnata deve essere interpretata nel senso che essa è finalizzata a sostenere e potenziare esclusivamente quell’attività di ricerca scientifica in relazione alla quale è configurabile un autonomo titolo di legittimazione del legislatore statale.



6.4. Il ricorso all’indebitamento da parte delle Regioni
 La sentenza n. 425 ha deciso in merito alle impugnative proposte avverso le disposizioni della legge finanziaria 2004 le quali prevedono che, «ai sensi dell’articolo 119, sesto comma, della Costituzione, le Regioni a statuto ordinario, gli enti locali, le aziende e gli organismi di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, possono ricorrere all’indebitamento solo per finanziare spese di investimento», e che «le Regioni a statuto ordinario possono, con propria legge, disciplinare l’indebitamento delle aziende sanitarie locali ed ospedaliere e degli enti e organismi in qualunque forma costituiti, dipendenti dalla Regione, solo per finanziare spese di investimento».
Al riguardo, le Regioni a statuto speciale e la Provincia autonoma di Trento, ricorrenti, sostengono che, ai sensi dell’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, ad esse l’articolo 119, sesto comma, della Costituzione non potrebbe applicarsi se non nelle parti in cui comporti forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite loro, e che in ogni caso la individuazione delle nozioni di indebitamento e di investimento, ai fini dell’applicazione dell’art. 119, sesto comma, spetterebbe alla Regione (o alla Provincia).
La Corte dichiara non fondate le questioni. L’articolo 119, sesto comma, della Costituzione non introduce restrizioni all’autonomia finanziaria regionale, ma enuncia espressamente un vincolo – quello a ricorrere all’indebitamento solo per spese di investimento – che si applica anche alle Regioni a statuto speciale. La finanza delle Regioni a statuto speciale è infatti parte della «finanza pubblica allargata», nei cui riguardi lo Stato conserva poteri di disciplina generale e di coordinamento, nell’esercizio dei quali può chiamare anche le autonomie speciali a concorrere al conseguimento degli obiettivi complessivi di finanza pubblica, connessi ai vincoli provenienti dalla partecipazione dell’Italia all’Unione europea, come quelli relativi al cosiddetto patto di stabilità interno. Di conseguenza non è illegittima l’estensione che la legge statale ha disposto, nei confronti di tutte le Regioni, della normativa attuativa.
Altre censure, sollevate anche da Regioni a statuto ordinario, concernono, da un lato, l’estensione dell’applicazione delle norme ad enti diversi da quelli espressamente indicati nell’art. 119, sesto comma, e, dall’altro, le restrizioni che si apportano alle nozioni di indebitamento e di investimento. Viene contestato inoltre il potere ministeriale di modificare con proprio decreto le tipologie di operazioni costituenti indebitamento ed investimento.
Le censure sono dichiarate in parte fondate ed in parte non fondate.
La Corte ritiene che la legge dello Stato possa porre regole specifiche che concretizzano ed attuano il vincolo di cui all’art. 119, sesto comma, della Costituzione, in particolare definendo ciò che si intende per «indebitamento» e per «spese di investimento»: trattasi di nozioni il cui contenuto non può determinarsi a priori, in modo assolutamente univoco, sulla base della sola disposizione costituzionale, poiché si fondano su principi della scienza economica, ma che non possono non dare spazio a regole di concretizzazione connotate da una qualche discrezionalità politica. Ciò risulta del resto evidente qualora si tenga conto che le definizioni del legislatore statale derivano da scelte di politica economica e finanziaria effettuate in stretta correlazione con i vincoli di carattere sovranazionale. Parimenti, la nozione di «indebitamento» è ispirata ai criteri adottati in sede europea, ai fini del controllo dei disavanzi pubblici, e si concretizza nella somma delle entrate che non possono essere portate a scomputo del disavanzo calcolato ai fini del rispetto dei parametri comunitari. Ciò posto, è chiaro come non si possa ammettere che ogni ente territoriale faccia in proprio le scelte di concretizzazione delle nozioni di indebitamento e di investimento: trattandosi di far valere un vincolo di carattere generale, che deve valere in modo uniforme per tutti gli enti, solo lo Stato può legittimamente provvedere a tali scelte.
Sono invece fondate le censure che investono le disposizioni che attribuiscono al Ministro dell’economia e delle finanze il potere di disporre con proprio decreto modifiche alle tipologie di «indebitamento» e di «investimento» stabilite ai fini di cui all’art. 119, sesto comma, della Costituzione. Tali disposizioni conferiscono al Ministro una potestà il cui esercizio può comportare una ulteriore restrizione della facoltà per gli enti autonomi di ricorrere all’indebitamento per finanziare le proprie spese senza che sia osservato il rispetto del principio di legalità sostanziale, in forza del quale l’esercizio di un potere politico-amministrativo incidente sull’autonomia regionale (nonché sull’autonomia locale) può essere ammesso solo sulla base di previsioni legislative che predeterminino in via generale il contenuto delle statuizioni dell’esecutivo, delimitandone la discrezionalità.

6.5. Il patrimonio degli enti autonomi
Con la sentenza n. 427, la Corte ha modo di soffermarsi sulla disposizione dettata dall’art. 119, ultimo comma, della Costituzione (ai sensi della quale «i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno un proprio patrimonio, attribuito secondo i principî generali determinati dalla legge dello Stato»), in occasione dell’impugnativa concernente la norma che prevede che le istituzioni di assistenza e beneficenza e gli enti religiosi che perseguono rilevanti finalità umanitarie o culturali possono ottenere la concessione o locazione di beni immobili demaniali o patrimoniali dello Stato. La Corte esclude che l’intervento statale sia invasivo della competenza regionale individuata, a norma dell’art. 117, quarto comma, della Costituzione, come relativa alle «politiche sociali». A tal proposito, la Corte sottolinea che sino all’attuazione dell’ultimo comma dell’art. 119 della Costituzione e, pertanto, sino alla previsione da parte del legislatore statale dei principi per la attribuzione a Regioni ed enti locali di beni demaniali o patrimoniali dello Stato, detti beni restano a tutti gli effetti nella piena proprietà e disponibilità dello Stato.
La disposizione costituisce, in definitiva, una manifestazione del potere dominicale dello Stato di disporre dei propri beni e, come tale, non incontra i limiti della ripartizione delle competenze secondo le materie.



6.6. Il regime tributario della Regione Siciliana
Nel 2004, la Corte è stata chiamata a pronunciarsi su taluni rilevanti aspetti inerenti al particolare regime tributario che caratterizza la Regione Siciliana.
a) La sentenza n. 29 ha ad oggetto, in primo luogo, la disposizione statale che riserva allo Stato il gettito di imposte sostitutive correlate all’emersione di basi imponibili, destinandolo ad apposito fondo. Tale disposizione è stata impugnata in quanto asseritamente lesiva delle prerogative della Regione in materia finanziaria. Disattendendo la censura, la Corte ha sottolineato come, nel prevedere la destinazione del gettito delle entrate sostitutive, la disposizione richiama implicitamente il suo regime che si incentra sulla clausola di salvaguardia secondo cui l’applicazione delle disposizioni alle Regioni a statuto speciale ed alle Province di Trento e Bolzano avviene solo «compatibilmente con le norme dei rispettivi statuti».
Ne consegue che, trattandosi di un imposta sostitutiva di tributi di pacifica spettanza della Regione Siciliana, il gettito derivante dalle stesse non possa confluire nel fondo statale, perché ciò sarebbe in contrasto con la normativa di attuazione dello Statuto speciale, secondo la quale spettano alla Regione tutte le entrate tributarie erariali riscosse nel suo territorio, ad eccezione delle nuove entrate tributarie il cui gettito sia destinato alla copertura di oneri diretti a soddisfare particolari finalità dello Stato.
Per le ragioni sopra riportate, la Corte ritiene che anche la disposizione che prevede le modalità per la determinazione delle regolazioni contabili degli effetti finanziari derivanti per lo Stato, le Regioni e gli enti locali dalla disposizione di cui sopra non sia in contrasto con le fonti dell’autonomia siciliana: essa non pone, infatti, né un problema di riparto del gettito fiscale (essendo il gettito delle imposte sostitutive di spettanza regionale, per la cui attribuzione si fa ricorso all’ordinario sistema di versamento unitario dei tributi), né un problema di mancata partecipazione regionale alla determinazione del riparto stesso (in quanto l’eventuale ricorso a regolazioni contabili da effettuare in sede di Conferenza unificata per l’attuazione della normativa in questione può costituire, comunque, un momento di garanzia per la tutela degli interessi regionali).
Sempre nella stessa pronuncia, la Corte ribadisce il proprio orientamento secondo il quale lo Stato può disporre in merito alla disciplina sostanziale dei tributi da esso istituiti, anche qualora il correlativo gettito sia di spettanza regionale, purché non sia dimostrata una grave alterazione del rapporto tra complessivi bisogni regionali e insieme dei mezzi finanziari per farvi fronte.
b) Nella sentenza n. 103, la Corte ritiene non lesivi dell’autonomia finanziaria della Regione Siciliana i decreti dirigenziali emessi in attuazione della legge finanziaria 1991, che prevedono la possibilità di stabilire, con apposito decreto ministeriale, i tempi e le modalità, nei rapporti tra le aziende di credito, i concessionari e la Banca d’Italia, per il riversamento all’erario delle somme relative all’acconto Iva versato dai contribuenti. L’affermazione, contenuta nei decreti, che gli acconti sono riversati al bilancio statale ad eccezione di determinati importi spettanti alla Regione Siciliana non può infatti, significare altro che detti ultimi importi debbano essere versati immediatamente alla cassa regionale, avendo quindi i decreti in questione valore di ordini di versamento di somme rivolti alla tesoreria provinciale in favore della regione. La Corte rileva, infine, che anche la statuizione secondo la quale le operazioni di conguaglio avvengono nell’anno successivo non determina uno iato di significato apprezzabile tra il momento di previsione dell’entrata e quello di effettivo versamento; ciò nella considerazione che il conguaglio, cui si ricorre perché l’esatto ammontare di quanto dovuto alla Regione può conoscersi solo a seguito delle operazioni tecniche del sistema di versamento unitario dei tributi, avviene entro margini temporali ristretti e comunque non è rimesso alla discrezionalità dell’amministrazione finanziaria.
c) In sede di conflitto di attribuzione sollevato dalla Regione siciliana, la Corte, nella sentenza n. 306, ha affermato che non spetta allo Stato negare l’attribuzione alla Regione del gettito dell’imposta sulle assicurazioni, dovuta dagli assicuratori che hanno domicilio fiscale o la rappresentanza fuori dal territorio regionale, nell’ipotesi in cui i premi riscossi siano relativi a polizze di assicurazione rilasciate per veicoli a motore iscritti in pubblici registri automobilistici aventi sede nella Regione medesima, ovvero per le macchine agricole le cui carte di circolazione siano intestate a soggetti residenti nelle medesime province.
La Corte ha, quindi, respinto la tesi dello Stato, che correlava la spettanza del gettito ad un ristretto criterio di territorialità della riscossione, ricordando di aver già chiarito che le norme di attuazione dello Statuto hanno delineato un sistema di finanziamento sostanzialmente basato sulla devoluzione alla Regione del gettito dei tributi erariali riscossi nel suo territorio, e precisando che non è sempre decisivo il luogo fisico in cui avviene l’operazione contabile della riscossione, in quanto la normativa tende ad assicurare alla Regione il gettito derivante dalla capacità fiscale che si manifesta sul suo territorio.
Del pari infondata è stata ritenuta la tesi secondo cui il gettito dell’imposta sia ormai attribuito alle province, in quanto la normativa statale limita il trasferimento con riferimento alle Regioni a statuto ordinario, mentre demanda alle Regioni a statuto speciale l’attuazione sul proprio territorio delle disposizioni sulla devoluzione del tributo alle province.



7. I referendum consultivi delle popolazioni locali
7.1. Il distacco di un Comune da una Regione e la sua aggregazione ad un’altra
La sentenza n. 334 ha deciso la questione di legittimità costituzionale sollevata dall’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione, avente ad oggetto l’art. 42, secondo comma, della legge 25 maggio 1970, n. 352, nella parte in cui prescriveva che le richieste di referendum per il distacco da una Regione e l’aggregazione ad altra Regione di una o più Province o di uno o più Comuni dovessero essere corredate delle deliberazioni, identiche nell’oggetto, di tanti consigli di Province o di Comuni che rappresentassero almeno un terzo delle restanti popolazioni delle Regioni investite dall’avviato procedimento di distacco-aggregazione.
Il procedimento disegnato dalla disposizione legislativa, nel richiedere le deliberazioni di una quota consistente di consigli non direttamente interessati dalla variazione territoriale, appariva eccessivamente onerosa per i richiedenti, risolvendosi nella frustrazione del diritto di autodeterminazione dell’autonomia locale, la cui affermazione e garanzia è risultata invece tendenzialmente accentuata (attraverso l’introduzione dell’esplicito riferimento alla approvazione da parte della «maggioranza delle popolazioni della Provincia o delle Province interessate e del Comune o dei Comuni interessati») a seguito della riforma dell’art. 132 della Costituzione avvenuta del 2001.
La Corte ha dunque rilevato che, «poiché il referendum previsto dalla disposizione costituzionale attualmente vigente mira a verificare se la maggioranza delle popolazioni dell’ente o degli enti interessati approvi l’istanza di distacco-aggregazione, deve coerentemente discenderne che la legittimazione a promuovere la consultazione referendaria spetta soltanto ad essi e non anche ad altri enti esponenziali di popolazioni diverse». Le valutazioni delle popolazioni non direttamente interessate non possono essere in grado di «contrastare ed annullare finanche le determinazioni iniziali (neppure giunte al di là dello stadio di semplici richieste) di collettività che intendano rendersi autonome o modificare la propria appartenenza regionale». Siffatte valutazioni trovano, semmai, «congrua tutela nelle fasi successive a quella della mera presentazione della richiesta di referendum», in ragione della natura meramente consultiva dello stesso.



7.2. Il mutamento di denominazione di un Comune
Conformandosi ad un indirizzo ampiamente consolidato, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 237, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di una disposizione legislativa regionale con cui si modificava la denominazione di un Comune, senza che su tale determinazione fosse stata sollecitata la consultazione referendaria prescritta dall’art. 133, secondo comma, della Costituzione (e dalla corrispondente norma dello Statuto regionale). Nella specie, la Corte ha avuto modo di sottolineare, in particolare, che l’obbligo del referendum non viene meno neppure nel caso in cui si tratti di una semplice integrazione della denominazione, trattandosi, comunque, di una «modifica».
 

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