Signore giornaliste, Signori giornalisti, grazie per essere intervenuti.

1. L’annuale conferenza stampa del Presidente è una delle rare occasioni per riflettere sui rapporti fra la Corte e i mezzi di comunicazione. Rapporti, direi (scherzosamente) di amore-odio. In ogni caso, non facili. A differenza delle istituzioni propriamente politiche, la Corte non fonda la propria legittimazione sul consenso elettorale, non utilizza e non deve utilizzare sistematicamente la comunicazione pubblica come strumento per assicurarsi il consenso. Non ha dunque fra le sue esigenze quella di “passare” nei mezzi di comunicazione: anche se, in una società democratica, tutto ciò che riguarda il funzionamento delle istituzioni pubbliche e l’impatto della loro attività sulla vita degli individui e della società può e deve essere oggetto di comunicazione e di discussione. La particolarità della Corte, come in genere degli organi di tipo giurisdizionale, è che le giustificazioni delle proprie decisioni sono date e devono essere date nelle motivazioni che essa è tenuta a formulare e a rendere pubbliche: donde l’importanza, per la comprensione del significato delle pronunce, dell’analisi delle motivazioni, che sono d’altronde caratterizzate da una dose inevitabile di tecnicismo. Si aggiunga che, nella nostra tradizione, anche l’udienza pubblica non è il luogo di una discussione tra gli avvocati ed i giudici: questi si limitano ad assistere per lo più muti all’argomentare delle parti, in dialettica fra loro quando sono più d’una e sostengono posizioni contrapposte, o altrimenti anche in un monologo. Nulla avviene di quanto è invece usuale nella pratica di altre Corti, come ad esempio la Corte suprema degli Stati Uniti, le cui udienze su temi importanti sono oggetto di diffuse cronache sui grandi giornali. Per di più, il carattere strettamente collegiale della Corte e di tutta la sua attività, e l’impossibilità di rendere pubbliche le eventuali opinioni dissenzienti di singoli giudici, impediscono di personalizzare le decisioni e di provocare l’espressione di posizioni e pareri individuali dei giudici sulle questioni sottoposte alla Corte. Non impediscono, naturalmente, di spiegare la portata e gli effetti delle pronunce e delle loro motivazioni. Si capisce bene, allora, come fare della buona informazione sulla Corte e sui suoi atti richieda speciali capacità e una speciale qualificazione anche professionale in chi la cura. Occorre saper leggere e interpretare il linguaggio delle decisioni, saperne cogliere i nessi con i dati normativi e con le decisioni precedenti, saper comprendere le dinamiche di un organo che esprime una necessaria continuità di indirizzi nel tempo, pur con tutte le variazioni e le evoluzioni possibili. Bisogna, ad esempio, saper spiegare – e non è sempre facile – la differenza fra una pronuncia di accoglimento, una di rigetto, una pronuncia interpretativa e una pronuncia di inammissibilità, con tutte le variazioni e le sottigliezze che possono accompagnarsi all’uso di queste tecniche. Il pubblico dei vostri lettori ha il diritto di sapere e di capire, e il vostro compito è di renderlo possibile. Non ha nulla a che fare, invece, con la corretta informazione la ricerca esasperata di indiscrezioni su ciò che è avvenuto in camera di consiglio o sulle posizioni assunte in quella sede da questo o da quel giudice. Esse non aggiungono nulla all’informazione dei lettori e non sono notizie nel senso del giornalismo autentico, se non altro perché non sono verificabili né falsificabili: non possono infatti essere né confermate né smentite senza violare nuovamente la riservatezza della camera di consiglio. Quando poi le decisioni della Corte hanno un impatto diretto su temi oggetto di dialettica e di polemica politica quotidiana, il rischio della strumentalizzazione è sempre in agguato. Allora è necessario distinguere bene i fatti – le pronunce e i loro reali contenuti – dalle opinioni che i protagonisti della politica esprimono su di essi. Può accadere di constatare – a me è accaduto anche di recente, ad esempio in occasione della decisione della Corte sulla questione del Crocifisso nelle aule scolastiche – che la corretta informazione, che pure vi è stata, sulla portata e sul senso della decisione della Corte risulti immersa in una profluvie di esternazioni politiche – trattate anch’esse come notizie – che disorientano per l’assenza, talora, di nessi effettivi con ciò che la Corte ha deciso e ha detto. Riconoscere la difficoltà del vostro lavoro significa anche riconoscere, quando c’è, il pregio e la qualità dell’opera informativa che voi realizzate. Forse la Corte, per conto suo, potrebbe fare di più per rendere più agevole il vostro lavoro, per esempio fornendo sistematicamente ai mezzi di comunicazione strumenti accessibili di informazione corretta sulla portata e il contenuto delle decisioni. Di recente abbiamo cercato di diffondere di più la conoscenza sui modi di lavorare della Corte e sulle sue tecniche di giudizio. Nel sito web della Corte – che certo può essere arricchito e migliorato – si possono ora trovare gli abstracts delle principali decisioni, tradotti in inglese, per favorire l’accesso alla nostra giurisprudenza a livello internazionale. Richieste e suggerimenti in questo campo, provenienti dagli operatori professionali dell’informazione, sono più che benvenuti.

2. In una società democratica, il giornalismo di informazione ha una funzione essenziale di controllo sul potere e sul suo esercizio, che per alcuni versi è sostanzialmente assimilabile a quella delle istituzioni di garanzia, tra le quale vi è la Corte costituzionale. Per questo, anche, l’indipendenza dei mezzi di comunicazione dai centri del potere è un bene prezioso quanto l’indipendenza delle istituzioni di garanzia e di coloro che ne sono titolari. Recentemente il neo-direttore di un grande quotidiano ha scritto che “l’Italia è povera di istituzioni di garanzia”. Non sarei d’accordo, se con ciò si intendesse dire che il nostro sistema politico-costituzionale è scarso di articolazioni e di organi con funzioni di garanzia. Queste ci sono e sono ben radicate nel sistema. Ma concordo interamente con lui quando afferma che l’Italia “non esprime una cultura politica diffusa che ne apprezzi l’importanza” (s’intende, delle istituzioni di garanzia); e che “senza il rispetto per il ruolo dell’informazione e per l’indipendenza delle autorità di garanzia, una democrazia è pura finzione”. La Corte costituzionale è istituzione di garanzia per eccellenza: il rispetto della sua piena indipendenza, che non significa reciproca ignoranza e indifferenza rispetto agli organi politici, ma netta separazione e distinzione dei rispettivi ruoli, dei criteri che ne guidano l’azione e delle relative logiche nei processi decisionali, è un bene essenziale della democrazia.

3. Mi asterrò, in questa sede, dal riferirmi anche sinteticamente all’intera attività della Corte nel 2004 (analiticamente descritta nella relazione predisposta dal Servizio studi), un anno che ha visto succedersi tre Presidenti della Corte: prima di me, Riccardo Chieppa e Gustavo Zagrebelsky, ai quali esprimo ancora una volta la gratitudine della Corte. Mi limiterò (dando poi spazio a tutte le vostre domande, a quelle a cui cercherò di rispondere ed eventualmente a quelle a cui non potrò rispondere) ad alcune osservazioni su due aspetti della nostra attività: il contenzioso fra Stato e Regioni e i conflitti fra poteri. Voglio però premettere una breve considerazione sulla durata dei procedimenti. Come sapete, la ragionevole durata dei processi è oggetto di un diritto garantito dalla convenzione europea dei diritti dell’uomo, e oggi anche di un vincolo costituzionale, in base all’art. 111, secondo comma, della Costituzione come modificato dalla legge costituzionale n. 2 del 1999. D’altronde essa corrisponde ad un’esigenza essenziale perché sia resa davvero giustizia. La situazione di endemica violazione di questo diritto, che caratterizza purtroppo il nostro paese, tanto da avere costretto, di fronte alle migliaia di denunce alla Corte europea dei diritti, a creare un apposito ricorso interno per offrire una qualche riparazione, costituisce ragione di grave preoccupazione. Anche la Corte costituzionale non si sottrae al dovere di rendere effettivo questo principio, sia quando essa costituisce l’istanza giurisdizionale davanti a cui il procedimento si esaurisce, sia quando il suo intervento si inserisce in altro procedimento giudiziario, come nel caso delle questioni sollevate in via incidentale. Sono state effettuate elaborazioni sulla durata media dei vari tipi di procedimenti davanti alla Corte per il decennio 1995-2004, da cui risultano fra l’altro i seguenti dati. La durata media di tutti i procedimenti definiti nei dieci anni è di 353 giorni. Per i giudizi in via incidentale (i più numerosi) è di 339 giorni, pur oscillando, per i giudizi iniziati nei singoli anni, da 236 a 417 giorni. Durate medie più elevate (rispettivamente 515 e 645 giorni) caratterizzano i giudizi di legittimità in via principale e i giudizi per conflitto di attribuzioni fra Stato e Regioni. La media nei giudizi per conflitto fra poteri è di 391 giorni, e di 223 giorni quella dei giudizi di ammissibilità preliminare dei conflitti medesimi. Complessivamente può dirsi che il grosso dei procedimenti si esaurisce entro il secondo anno successivo a quello in cui essi iniziano: per lo più non si va oltre 18-24 mesi. Ad oggi, tutti i giudizi introdotti fino al 2002 compreso, e buona parte di quelli iniziati nel 2003, sono definiti o almeno fissati per la decisione nei primi mesi del 2005; dei procedimenti iniziati nel 2004 sono già definiti il 31,44 % dei giudizi in via incidentale e il 19,83% dei giudizi in via principale. Non sono dati pienamente soddisfacenti, ma nemmeno allarmanti. La Corte sostanzialmente riesce a far fronte al proprio carico di lavoro. Le pendenze restano stabili o diminuiscono: ad oggi risultano in attesa di fissazione solo 198 questioni incidentali (accorpate le questioni sollevate da più atti introduttivi), 24 ricorsi di legittimità in via principale, 22 ricorsi per conflitto di attribuzioni fra Stato e Regioni e 27 ricorsi per conflitto tra poteri. In via generale si deve osservare che durano di meno i giudizi in via incidentale nei quali, non essendovi parti private costituite o emergendo motivi di manifesta infondatezza o di manifesta inammissibilità della questione, la Corte procede senz’altro in camera di consiglio; mentre per le cause che devono essere trattate in udienza – i giudizi in via principale e per conflitti, e i giudizi in via incidentale con parti private costituite – una certa strozzatura è costituita dal numero limitato di udienze che possono aver luogo in un anno e dall’esigenza di non gravare ogni udienza di un numero eccessivo di cause da discutere. La necessità, negli ultimi anni, di dare corso al numero crescente di ricorsi in via principale, talvolta assai complessi, proposti da Stato e Regioni, anche per ottemperare ai termini sollecitatori stabiliti in proposito dalla legge n. 131 del 2003 (c.d. La Loggia), ha condotto a discutere, in ogni udienza, molti ricorsi di questa natura, a spese dei giudizi incidentali con presenza di parti costituite. D’altro canto, i numeri particolarmente elevati dei giudizi in via incidentale instaurati nel 2003 e nel 2004 (rispettivamente 1196 e 1094), che di per sé potrebbero apparire allarmanti, sono spiegabili in gran parte con il numero eccezionale (fino a più di 800) di ordinanze che sollevano le medesime questioni di legittimità sul decreto legge n. 51 del 2002 e sulla legge n. 189 del 2002 (c.d. “Bossi-Fini”) in tema di immigrazione e di trattamento degli stranieri extracomunitari. La Corte ha deciso le principali questioni in materia con le sentenze n. 5, n. 222, n. 223 e con l’ordinanza n. 226, e successivamente ha potuto definire così il grosso dei giudizi che erano ancora pendenti, con un gruppo di ordinanze depositate fra la fine del 2004 e i primi giorni del 2005: onde può ritenersi che questa specifica ondata di procedimenti sia ormai esaurita.

4. Il contenzioso fra Stato e Regioni è oggi decisivamente influenzato dagli effetti delle riforme costituzionali realizzate con le leggi costituzionali n. 1 del 1999, sull’organizzazione di governo e la potestà statutaria delle Regioni, e n. 3 del 2001, sulla modifica del titolo V, parte II, della Costituzione. Nel 2004, per la prima volta nella storia della Corte, il numero di sentenze (non di ordinanze) pronunciate dalla Corte nei giudizi in via principale, introdotti dallo Stato e dalle Regioni, ha superato, e di molto, quello delle sentenze pronunciate nei giudizi incidentali. Il contenzioso Stato-Regioni ha impegnato la Corte come mai era avvenuto in passato, tanto da giustificare la tesi secondo cui esso sta cambiando o ha già cambiato il modo di lavorare della Corte stessa, sotto il profilo qualitativo. Mentre infatti i giudizi incidentali propongono in genere questioni circoscritte, che investono singole norme o parti di norme, e la lunga esperienza di questi giudizi ha condotto ad elaborare una serie di criteri per valutare l’ammissibilità e delimitare l’oggetto delle questioni, i ricorsi in via principale sollevano spesso una pluralità di questioni, investendo numerose disposizioni di leggi statali o regionali, sulla base di parametri talora genericamente individuati. In taluni casi il grande numero e la varietà delle questioni che venivano sollevate col medesimo ricorso ha indotto la Corte ad affidarle a diversi relatori e ad affrontarle con una pluralità di decisioni, riunendo per altro verso, come di consueto, i giudizi relativi alla medesima disposizione, promossi con ricorsi di differenti Regioni. E’ stato soprattutto il caso delle leggi finanziarie degli ultimi anni, oggetto di molteplici ricorsi regionali. La legge finanziaria del 2002 è stata investita da otto ricorsi regionali, e le questioni sollevate, affidate a 11 relatori diversi, sono state definite mediante ben 23 sentenze e 1 ordinanza. La legge finanziaria del 2003 è stata investita da 11 ricorsi, e le relative questioni, affidate a 11 relatori diversi, sono state definite, finora, con 16 sentenze e 1 ordinanza. La legge finanziaria 2004 ha visto proporre 10 ricorsi, definiti fino ad ora con 9 sentenze affidate a 9 relatori diversi. Al di là dei numeri, la Corte ha dovuto affrontare per la prima volta i problemi, qualitativamente nuovi, posti dagli statuti delle Regioni, e dalla necessità di verificare la legittimità costituzionale delle leggi statali e regionali alla luce del riparto di competenze costituzionali realizzato con la riforma del 2001. Si consideri, ad esempio, che nel nuovo sistema la legislazione statale non può più essere senz’altro giustificata dall’esistenza di una competenza generale o residuale del Parlamento, ma al contrario richiede di essere giustificata in base ad un titolo specifico di competenza statale ricavabile dalla Costituzione. D’altra parte le formule sintetiche, e spesso strutturalmente eterogenee, con cui si identificano nel testo costituzionale le “materie”, non sono quasi mai di facile interpretazione, anche tenendo conto delle inevitabili interferenze e degli intrecci che nella realtà legislativa e fattuale intercorrono fra più ambiti attribuiti a competenze diverse. Tutti problemi, questi, resi più ardui dalla mancanza, nella legge di riforma costituzionale, di norme transitorie che regolino il passaggio dal vecchio al nuovo sistema; dalla scarsa legislazione ordinaria attuativa della riforma (l’unica legge generale di attuazione, la n. 131 del 2003 – c.d. legge La Loggia – è stata oggetto a sua volta di contestazioni, risolte con le sentenze n. 236, n. 238, n. 239 e n. 280, e comunque è lungi dall’avere risolto i maggiori problemi); dalla perdurante assenza di una nuova disciplina della finanza regionale e locale, in mancanza della quale l’assetto dei poteri disegnato dalla riforma non può divenire effettivo, e l’attuazione del principi del nuovo art. 119 della Costituzione non può non restare largamente “congelata”. Complessivamente non è arbitrario, credo, dire che ci siamo trovati e ci troviamo di fronte ad una contraddizione, fra un disegno costituzionale innovativo e ambizioso, e una realtà effettiva, di metodi e contenuti della legislazione governativa e parlamentare, e talora anche regionale, di organizzazione, di capacità di gestione delle rispettive competenze e delle forme di collaborazione, restata largamente ferma ai caratteri del passato. Si sono individuati degli obiettivi, più o meno condivisibili che siano, ma non si sono individuati con sufficiente precisione e realismo i percorsi necessari e possibili per passare dall’assetto preesistente a quello nuovo prefigurato. Questa contraddizione ha posto e pone la Corte di fronte al difficile compito di risolvere le controversie cercando di dare soluzioni che non contraddicano la lettera e lo spirito del nuovo titolo V, ma che tengano conto della realtà di un ordinamento che non può conoscere interruzioni e vuoti, anzitutto nella tutela dei diritti delle persone e nella stessa continuità degli apparati e dell’azione amministrativa. Le soluzioni che essa ha adottato (anche talora limitando gli effetti delle pronunce di incostituzionalità) possono certo essere discusse e criticate, ma non si dovrebbe mai trascurare il contesto in cui esse si collocano.

5. Il secondo argomento che intendo trattare è quello dei giudizi per conflitto di attribuzioni fra poteri dello Stato. Com’è noto, si tratta dello strumento che, nel sistema costituzionale, funziona come una sorta di valvola di chiusura dell’ordinamento al fine della salvaguardia dell’equilibrio nei rapporti fra le diverse istituzioni, e dunque della sostanza della divisione dei poteri. Tutte le volte che un atto o un comportamento, di qualunque natura, di un’autorità lede le attribuzioni che la Costituzione conferisce ad un altro soggetto, e non è data altra via di ingresso al giudizio costituzionale, è possibile per il soggetto che si ritenga leso ricorrere alla Corte per ottenere una pronuncia che accerti la violazione e se del caso annulli l’atto impugnato. Proprio anche per questo suo carattere “residuale”, la giurisprudenza della Corte ha dato una interpretazione larga alla nozione di conflitto, ammettendo che esso possa essere instaurato non solo in caso di lamentata invasione della propria competenza, ma anche quando un altro soggetto, esercitando in modo illegittimo attribuzioni proprie, provochi una menomazione di quelle altrui. Egualmente larga è stata la nozione di potere che la Corte ha seguito ai fini dell’ammissibilità del conflitto. Qualunque organo o anche soggetto esterno all’apparato statale (si pensi ai comitati promotori dei referendum) al quale la Costituzione conferisca una attribuzione prevista dalla Costituzione può essere parte attiva del conflitto al fine di difendere tale attribuzione contro atti o comportamenti invasivi o lesivi della medesima. Nel 2004 la Corte, pronunciandosi per la prima volta su un caso del genere, ha ammesso che, in certe circostanze, possa ricorrere allo strumento del conflitto di attribuzioni anche chi non sia più titolare della attribuzione in contestazione, ma la controversia investa quest’ultima sotto il profilo dei limiti di una responsabilità personale: è il caso del conflitto sollevato dall’ex Presidente della Repubblica Cossiga contro due pronunce della Corte di cassazione in tema di limiti della irresponsabilità per gli atti compiuti dal Presidente della Repubblica nel corso del suo mandato, e risolto con una pronuncia in parte di rigetto e in parte di inammissibilità del ricorso (sentenza n. 154). Si tratta di uno strumento molto duttile, inteso a dare una soluzione di tipo giurisdizionale, e dunque fondata sul rispetto della legalità costituzionale, a controversie che altrimenti resterebbero o potrebbero restare affidate a sole soluzioni basate su rapporti di forza o di negoziazione politica. S’intende però che, in conformità a questa sua natura di ultimo rimedio per restaurare l’ordine costituzionale, l’impiego dello strumento del conflitto dovrebbe restare relativamente eccezionale, evitando che controversie di tipo politico o comunque risolvibili mediante un corretto rapporto fra i poteri interessati siano portati davanti alla Corte, ed evitando di favorire così un eccesso di “giurisdizionalizzazione” delle relazioni costituzionali. L’esperienza degli ultimi anni non è purtroppo, da questo punto di vista, tranquillizzante. Nei primi quarant’anni di attività della Corte costituzionale – dal 1956 al 1995 – si contano solo 31 pronunce (di cui 26 sentenze) rese in questo tipo di giudizi, con una media quindi di meno di una all’anno. Nei soli nove anni dal 1996 al 2004 le pronunce sono state invece 94, con una media di oltre 10 all’anno. Ad esse vanno aggiunte le pronunce che la Corte ha reso in sede di decisione preliminare sull’ammissibilità dei ricorsi. Infatti, come sapete, in questo tipo di giudizi il ricorso deve essere anzitutto depositato alla Corte, che deve valutare, senza contraddittorio, se sussista la materia di un conflitto costituzionale di attribuzioni: solo in caso positivo viene ordinata la notifica del ricorso alla controparte o alle controparti, dando luogo alla discussione in udienza pubblica per il giudizio di merito (che però può anche concludersi con una pronuncia di inammissibilità, dopo l’esame più approfondito in contraddittorio). Alle 94 pronunce ora ricordate occorre dunque aggiungere 208 ordinanze conclusive della fase preliminare dei giudizi, oltre 20 all’anno in media. Nel 2004 la Corte ha pronunciato 30 ordinanze in sede di delibazione preliminare sull’ammissibilità e 11 sentenze o ordinanze su conflitti giunti alla fase di merito. La crescita impetuosa dei conflitti fra poteri è quasi interamente dovuta alle numerose controversie che vedono come protagonisti organi giudiziari da un lato, organi governativi e soprattutto parlamentari dall’altro. Questo dato può da un lato apparire fisiologico, poiché le controversie che coinvolgono organi giudiziari si prestano meno di altre a trovare composizione in sede politica o negoziale: i giudici non possono negoziare sull’esercizio delle proprie attribuzioni. D’altra parte, però, l’elevato numero di conflitti di questo genere è la spia di una conflittualità per così dire endemica, di una tensione sottostante, potremmo dire, fra politica e giustizia, che del resto viene segnalata da molti altri elementi abbastanza noti all’opinione pubblica. Si aggiunga che anche talune delle questioni incidentali più impegnative risolte dalla Corte hanno avuto per oggetto norme direttamente incidenti sull’equilibrio fra i poteri, e specificamente, ancora una volta, fra potere giudiziario e poteri politici: si tratta della sentenza n. 24 sulla sospensione dei processi contro i titolari di cinque “alte cariche” dello Stato, e della sentenza n. 120 sulla applicazione della prerogativa della insindacabilità delle opinioni espresse dai parlamentari nell’esercizio delle loro funzioni. Anche la decisione di tali questioni ha dunque in sostanza avuto funzione analoga a quella assolta dalla Corte in sede di giudizi per conflitto fra poteri.

6. Questo capitolo dell’attività della Corte non può essere apprezzato adeguatamente se non si tiene conto del predominante contributo che ad esso proviene da una categoria precisa di conflitti: quelli fra organi giudicanti e Camere del Parlamento, aventi ad oggetto l’applicazione della prerogativa di insindacabilità che l’art. 68, primo comma, della Costituzione prevede per le opinioni espresse e i voti dati da membri del Parlamento nell’esercizio delle loro funzioni. Sulle 94 pronunce (a seguito di 99 ricorsi) su conflitti resi nel novennio 1996-2004, ben 72 (su 75 ricorsi), vale a dire circa tre quarti del totale, riguardano questo tipo di conflitti. Per quanto riguarda l’esito dei giudizi, dei 75 ricorsi soltanto 39 sono stati decisi nel merito. In 22 casi è stata pronunciata la improcedibilità del conflitto per mancato rispetto dei termini processuali da parte del ricorrente; in 11 casi è stata pronunciata la inammissibilità dei conflitti, in genere per carenze dell’atto introduttivo o perché si trattava della riproposizione di conflitti dichiarati improcedibili o inammissibili. In 3 casi è stata dichiarata la cessazione della materia del contendere perché le delibere parlamentari erano già state annullate decidendo precedenti ricorsi. Nei 39 giudizi decisi nel merito, in 28 casi essi sono stati risolti a favore dell’autorità giudiziaria, in 11 casi a favore delle Camere parlamentari. La storia di questo contenzioso nasce da un indirizzo adottato dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 1150 del 1988 e n. 443 del 1993, e confermato - dopo la riforma dell’art. 68 della Costituzione, che ha abolito la necessità dell’autorizzazione parlamentare per processare penalmente i membri del Parlamento, ma ha mantenuto la insindacabilità delle opinioni e dei voti - dalla sentenza n. 129 del 1996: indirizzo secondo cui la deliberazione della Camera di appartenenza del parlamentare, che dichiara l’insindacabilità dell’opinione espressa, inibisce al giudice, investito di un giudizio sulla responsabilità penale o civile derivante da quella opinione (si tratta quasi sempre di giudizi per diffamazione), di andare in contrario avviso, a meno che non sollevi conflitto di attribuzioni davanti alla Corte costituzionale. L’applicazione dell’art. 68, primo comma, della Costituzione, che di per sé dovrebbe avvenire ad opera del giudice, dopo la delibera di insindacabilità della Camera si trasferisce così di fatto, per iniziativa del giudice, alla Corte costituzionale. D’altronde, in mancanza di un controllo di tipo giurisdizionale sulle decisioni delle Camere, la parte offesa verrebbe privata del diritto a far decidere la propria causa da un giudice imparziale, diritto che, proprio in materia di immunità parlamentare, è stato di recente riaffermato anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha condannato in alcuni casi lo Stato italiano in quanto non si era esperito il ricorso per conflitto di attribuzioni. Nei fatti, accade che, instaurato il giudizio penale o civile, l’accusato o il convenuto eccepiscono l’immunità parlamentare e ottengono che la Camera di appartenenza deliberi in proposito. La tendenza delle Camere a ritenere con larghezza la insindacabilità di dichiarazioni rese fuori dai lavori del Parlamento, talvolta addirittura in contrasto con le stesse proposte delle Giunte parlamentari chiamate a istruire i casi, porta i giudici a sollevare quasi automaticamente il conflitto. Ciò, si badi, accade quasi sempre prima che il giudice abbia potuto valutare se la dichiarazione incriminata sia diffamatoria, o viceversa rivesta, ad esempio, il carattere di espressione del diritto di critica politica. Solo se e quando la Corte costituzionale annulli la delibera parlamentare, ridando via libera al giudice, questi potrà e dovrà valutare il merito della dichiarazione “incriminata”. Il giudizio della Corte, com’è ovvio, non si porta e non può portarsi sul carattere di oggettiva illiceità o viceversa di liceità della dichiarazione che si assume diffamatoria, ma è limitato alla valutazione sul punto se la dichiarazione stessa sia da considerarsi o meno espressione della funzione parlamentare. Se lo è, scatta la prerogativa della insindacabilità, e dunque il parlamentare non può essere condannato, a prescindere dal carattere diffamatorio o meno dell’opinione espressa; se l’opinione non è, invece, espressa nell’esercizio delle funzioni, essa dovrà essere valutata dal giudice alla stregua delle opinioni di qualsiasi soggetto, non coperto da immunità, e alla luce dei limiti che incontra la libertà di manifestazione del pensiero, garantita dall’art. 21 della Costituzione. La grande frequenza dei conflitti di questo tipo manifesta un malessere di fondo del nostro sistema. Se poi si tiene conto di un ulteriore dato di fatto, e cioè che la grandissima parte dei giudizi penali e civili instaurati contro membri del Parlamento in relazione a loro dichiarazioni ritenute diffamatorie vedono come attori o querelanti dei magistrati, e si riferiscono a dichiarazioni critiche nei riguardi dell’attività di tali magistrati, è facile avvedersi che siamo di fronte ad una delle emergenze di quel fenomeno di tensione fra politica e magistratura, o meglio fra politici e magistrati, cui già prima accennavo. La Corte costituzionale, chiamata a dirimere i conflitti, si trova all’incrocio fra gli interessi coinvolti in queste vicende, e non può che custodire, dai due lati per così dire, i confini della prerogativa parlamentare come determinati dalla Costituzione, che la riferisce alle sole opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni parlamentari. Dunque: un gran numero di querele o di azioni civili proposte da magistrati contro parlamentari, cui corrispondono quasi sempre delibere di insindacabilità assunte dalle Camere, che danno luogo invariabilmente a conflitti di attribuzioni davanti alla Corte costituzionale. Si può ritenere, a seconda dei punti di vista, che vi sia un eccesso di attacchi pubblici a magistrati da parte di parlamentari, o un eccesso di iniziative giudiziarie di magistrati nei confronti di dichiarazioni politiche di parlamentari, o forse che vi siano entrambi gli eccessi. In ogni modo, la concentrazione dell’attenzione sulla immunità e sui suoi limiti fa sì che lo scontro avvenga su questo tema, anziché trasferirsi, come sarebbe più fisiologico, su quello della difesa o dei limiti del diritto di critica, di cui i parlamentari godono alla stregua di ogni cittadino. Si discute, cioè, non – come sarebbe auspicabile - dell’ambito e dell’importanza della libertà di critica, che può certo investire anche i magistrati e l’esercizio del potere giudiziario, e dei limiti che esso incontra a tutela di altri beni costituzionalmente protetti come il diritto all’onore delle persone, ma dell’ambito e dei limiti di quella eccezione che è costituita dalla immunità parlamentare. La salute democratica della società si misura invece sulla capacità di trovare il giusto equilibrio fra libertà di manifestazione del pensiero, e specie di critica politica, e i diritti contrapposti, molto più che sull’altezza dello scudo che le immunità erigono a tutela della libertà di opinione dei soli membri delle assemblee rappresentative.

7. Quanto ho osservato finora, e la stessa scelta dei temi su cui ho soffermato l’attenzione, potrebbero dare l’impressione che, come qualcuno ha detto, la Corte sia divenuta o stia divenendo, prevalentemente, la Corte dei conflitti e non più la Corte dei diritti: che cioè essa si stia trasformando, da presidio dei diritti e delle libertà costituzionali, in arbitro delle controversie fra poteri. L’osservazione non è del tutto priva di fondamento: ma non sarebbe esatto considerare finita la stagione della giustizia costituzionale come strumento di tutela dei diritti fondamentali: non solo perché talora gli stessi conflitti fra poteri nascondono problemi di diritti contrapposti (basti pensare al tema, appena evocato, del contrasto fra libertà di manifestazione del pensiero e diritto all’onore della persona); ma anche perché la crescita numerica dei conflitti e la maggiore attenzione pubblica che essi talora suscitano non possono condurre a disconoscere la perdurante vitale importanza degli strumenti di tutela dei diritti. Anche nel 2004 la Corte è largamente intervenuta in tema di diritti, con pronunce di cui si dà analitico conto nella relazione del Servizio studi: ho già ricordato sopra, ad esempio, alcune decisioni in materia di trattamento degli stranieri immigrati. Su questo terreno, forse la novità maggiore è costituita dalla prossima attesa entrata in vigore del Trattato costituzionale europeo, che prevede la formale adesione dell’Unione europea alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, trasforma la Carta di Nizza in una vera e propria carta dei diritti con valore giuridico, e prefigura ulteriori estensioni dell’attività comunitaria in settori, come quelli della sicurezza pubblica, nei quali problemi di tutela dei diritti emergono in grande rilievo. Qualcuno già pensa che in Europa stia nascendo – a Strasburgo o a Lussemburgo, o in entrambi i luoghi - la nuova giustizia costituzionale, e che le Corti costituzionali nazionali siano destinate a divenire Corti regionali. Penso che questa visione sia eccessiva o almeno precorra di molto i tempi. Non v’è dubbio che anche nel diritto comunitario si porranno sempre più problemi di tutela dei diritti, e che questo esigerà un controllo costituzionale sugli atti delle autorità comunitarie, che non potrà che spettare alla Corte di Lussemburgo. Altrettanto non v’è dubbio che la crescita impetuosa e il consolidarsi della giurisprudenza dell’altra Corte sopranazionale, quella di Strasburgo, pone e porrà sempre più esigenze di armonizzazione anche delle giurisprudenze interne, comprese quelle costituzionali, relative ai diritti fondamentali che le Carte costituzionali e le convenzioni internazionali garantiscono, di solito in termini convergenti. Di questo si è parlato fra l’altro la settimana scorsa, in occasione di un incontro qui tenutosi con il Presidente e con il Giudice italiano della Corte dei diritti, cui hanno preso parte anche autorevoli rappresentanti delle giurisdizioni superiori. La Corte costituzionale dal canto suo sta dotandosi di ulteriori strumenti e apparati per seguire costantemente e da vicino la giurisprudenza delle Corti sopranazionali e individuare i problemi che ne possono nascere ai fini della nostra attività. D’altra parte la Corte di Strasburgo interviene solo a posteriori, in via sussidiaria, quando i rimedi interni diretti a evitare o a rimediare alle violazioni dei diritti siano stati invano esperiti. E già questa considerazione mostra come il ruolo dei giudici nazionali, comuni e costituzionali, per la tutela dei diritti sia lungi dall’essere marginalizzato. Ciò che si deve auspicare non è che si trasferisca la domanda di tutela dalle istanze interne a quelle internazionali, ma, al contrario, che il sistema nazionale di tutela sia messo in grado di operare in modo da ridurre i casi di ricorso alla giustizia sopranazionale: anche, proprio, perseguendo l’armonizzazione della giurisprudenza interna con quella della Corte europea. In proposito, ci si può domandare se una caratteristica negativa del nostro sistema non sia data dall’assenza di un rimedio interno di carattere generale del tipo del ricorso diretto individuale in caso di lamentata violazione di diritti fondamentali, quale quello conosciuto in molti altri paesi europei. Infatti credo si possa dire che, per lo più, le carenze o le lacune suscettibili di verificarsi nel nostro paese in tema di tutela dei diritti derivano, più che dalla eventuale esistenza di norme legislative lacunose o in contrasto con la convenzione europea, da incertezze interpretative o da cattive applicazioni delle leggi o da disfunzioni di apparati, fattori dunque che richiedono, per essere ovviati, non tanto una verifica sulla costituzionalità di leggi, quanto efficienti sistemi di tutela nei casi concreti, e dunque il buon funzionamento dei rimedi giurisdizionali: quelli comuni e, se occorresse e se vi fosse, quello offerto dal ricorso costituzionale.

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