[A cura di M. Bellocci  e P. Passaglia]
 
  
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
1. Premessa
Nel corso del 2005, per la prima volta dal 1988 la Corte ha superato la quota simbolica – ma assai significativa – di cento decisioni rese in un anno in sede di giudizio in via principale. Le 101 decisioni, di cui 85 sentenze e 16 ordinanze, non rivestono importanza solo relativamente al mero dato numerico: sono, anzi, molti gli aspetti da segnalare, anche rispetto ai profili processuali.
 
 
2. Il ricorso
Con riferimento ai problemi connessi al ricorso con cui vengono sollevate le questioni di legittimità costituzionale, di particolare interesse sono le affermazioni concernenti la notifica ed il deposito, il rapporto tra il ricorso e la delibera del Governo o della Giunta regionale contenente la determinazione all’impugnazione ed i contenuti che del ricorso sono propri.
 
2.1. La notifica, il deposito ed i termini per ricorrere
Per quel che attiene alla disciplina del procedimento di impugnazione delle leggi ai sensi dell’art. 127 della Costituzione, un primo profilo che è venuto in evidenza riguarda la notifica del ricorso.
La sentenza n. 344 ha dichiarato l’inammissibilità di un ricorso regionale che era stato notificato dapprima presso l’Avvocatura generale dello Stato e, successivamente, al Presidente del Consiglio dei ministri. Delle due notifiche, soltanto la prima era intervenuta entro il termine di sessanta giorni dalla pubblicazione dell’atto impugnato. La Corte, rifacendosi alla sua «costante giurisprudenza», ha evidenziato che «ai giudizi costituzionali non si applicano le norme sulla rappresentanza dello Stato in giudizio previste dall’art. 1 della legge 25 marzo 1958, n. 260 e dalla legge 3 aprile 1979, n. 103», con la conseguenza che «per la rituale proposizione del giudizio l’atto deve essere notificato presso la sede del Presidente del Consiglio dei ministri». Nel caso concreto, la Corte non ha rinvenuto ragioni per discostarsi da questo orientamento, «dato che la parte ricorrente non ha prospettato argomenti nuovi, anche per quanto concerne la statuizione che l’irritualità della notificazione non può essere sanata dalla costituzione in giudizio della Presidenza del Consiglio dei ministri, per mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato, quando tale costituzione sia avvenuta, come nel caso di specie, proprio per eccepire la predetta inammissibilità».
Diversa è stata la decisione sul caso prospettatosi nel giudizio concluso con la sentenza n. 383, dove uno dei ricorsi avverso un atto legislativo statale risultava, sì, notificato al Presidente del Consiglio dei ministri presso la Presidenza del Consiglio oltre il termine perentorio di sessanta giorni di cui all’art. 32, comma 2, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), ma «a motivo della documentata impossibilità del destinatario a ricevere l’atto nei termini (24 dicembre 2003), per la chiusura dell’Ufficio protocollo della Presidenza del Consiglio», mentre risultava notificato nei termini presso l’Avvocatura dello Stato. Nella fattispecie, il ricorso è stato considerato ammissibile «in forza dell’orientamento della più recente giurisprudenza costituzionale […], che ha affermato il principio di scissione fra il momento in cui la notificazione deve intendersi perfezionata nei confronti del notificante – e che coincide con il momento della consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario – rispetto al momento in cui essa si perfeziona per il destinatario dell’atto».
L’ordinanza n. 20 ha avuto ad oggetto il diverso problema della tardività del deposito del ricorso. In tal caso, l’esame del merito del ricorso è stato dichiarato precluso dalla circostanza che il ricorso medesimo fosse stato depositato presso la cancelleria della Corte costituzionale oltre il termine di dieci giorni dalla notifica (art. 31, terzo e quarto comma, della legge n. 87 del 1953), termine da ritenersi, secondo costante giurisprudenza, perentorio.
Sempre connesse ai tempi dell’impugnazione, sia pure in un’ottica più generale, sono quelle statuizioni nelle quali la Corte ha affrontato il tema della tardività del ricorso derivante dall’avvenuta impugnazione soltanto dopo l’entrata in vigore della legge di conversione, e non del decreto legge convertito. Avverso eccezioni formulate in questi termini, si è sottolineato come la giurisprudenza della Corte sia «costante nel riconoscere la tempestività della impugnazione dei decreti legge dopo la loro conversione, che ne stabilizza la presenza nell’ordinamento» (sentenze numeri 62 e 383).
 
2.2. I rapporti tra il ricorso e la delibera recante la determinazione all’impugnazione
Con riferimento all’incidenza che ha la deliberazione con cui l’ente statuale, regionale o provinciale si determina all’impugnazione, può constatarsi come, in varie occasioni, la Corte costituzionale abbia operato una valutazione diretta a verificare la corrispondenza tra l’intento dell’organo politico ed il ricorso redatto dalla difesa tecnica. Così, nella sentenza n. 95, si è evidenziato – onde delimitare l’oggetto del giudizio – che, benché nell’epigrafe del ricorso proposto dal Presidente del Consiglio avverso la legge della regionale si facesse generico riferimento all’intera legge, «dalla motivazione e dalle conclusioni del ricorso emerge[va] chiaramente che la questione di legittimità costituzionale [era] limitata al solo art. 1, e ciò peraltro conformemente a quanto risulta[va] dalla relazione del Ministro per gli affari regionali allegata alla delibera del Consiglio dei ministri che [aveva] deciso l’impugnativa della legge regionale in questione.
Questa impostazione ha trovato conferma in altre decisioni, tra cui la sentenza n. 106, in cui la Corte ha precisato che «l’oggetto dell’impugnazione è definito dal ricorso in conformità alla decisione assunta dal Governo», e dunque «l’ambito delle censure sottoposte validamente all’esame della Corte risulta in tal modo limitato alle sole disposizioni indicate nella deliberazione assunta dal Consiglio dei ministri, ferma restando la valutazione in ordine all’eventuale nesso di inscindibilità fra la disposizione validamente impugnata e le altre disposizioni della legge, non investite da autonome censure ritualmente proposte».
In applicazione di siffatto principio, nella sentenza medesima si è circoscritto l’oggetto del ricorso ai soli articoli di cui si proponeva l’impugnazione nella relazione del Ministro per gli affari regionali, la cui proposta risultava approvata nella riunione del Consiglio dei ministri in cui era stata deliberata l’impugnazione della legge provinciale.
La relazione del Ministro per gli affari regionali assume, in effetti, un valore generalmente definitorio dei limiti dell’impugnazione deliberata dal Consiglio dei ministri. In tal senso, nella sentenza n. 150, preso atto che «la generica previsione contenuta nella deliberazione del Consiglio dei Ministri di impugnare la legge [era] specificata dall’allegata relazione ministeriale con riferimento esclusivo all’art. 2» di una delle leggi regionali oggetto del giudizio, si è concluso che il ricorso dovesse essere ritenuto «validamente proposto solo nei confronti dell’art. 2 della legge della Regione Marche n. 5 del 2004».
Ed ancora, nel giudizio concluso con la sentenza n. 360, si è evidenziato che la delibera del Consiglio dei ministri conteneva la generica determinazione di impugnare «la legge della Regione Emilia-Romagna 24 giugno 2002, n. 12», ma, al contempo, poiché la relazione del Dipartimento affari regionali, sulla cui base il Consiglio dei ministri aveva deciso di impugnare, censurava espressamente solo alcuni articoli di essa, l’esame delle doglianze svolte nel ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri si doveva limitare a quelle relative a tali articoli (in termini analoghi la Corte si è espressa anche nelle sentenze numeri 300 e 393, nonché, sostanzialmente, nell’ordinanza n. 428; nella sentenza n. 391, la delimitazione oggettiva ha riguardato la reductio dell’impugnazione da un intero articolo ad un solo comma dello stesso).
L’importanza che la deliberazione del Consiglio dei ministri (o della Giunta regionale o provinciale) assume ai fini dell’individuazione del thema decidendum giustifica anche il vaglio della Corte in ordine alla sua sufficiente determinatezza (vaglio per consentire il quale la Corte è giunta anche a richiedere con ordinanza istruttoria il deposito di copia della relazione allegata al verbale della riunione del Consiglio dei ministri, che non risultava prodotta in giudizio: sentenza n. 321). A tal proposito, vengono in rilievo le statuizioni di cui alle sentenze numeri 50 e 384. Nella prima, si è dichiarata la inammissibilità del ricorso regionale della Regione Toscana, per la genericità della delibera della Giunta regionale, di autorizzazione al Presidente a proporre il ricorso, che ometteva di indicare specificamente le disposizioni da impugnare e le ragioni della impugnativa e si limitava ad affermare che la legge statale oggetto del giudizio appariva «in più parti invasiva delle competenze attribuite alla Regione dagli articoli 117 e 118 della Costituzione». A suffragio della decisione, si è rilevato che la delibera di autorizzazione al ricorso di cui all’art. 127 Costituzione «può concernere l’intera legge soltanto qualora quest’ultima abbia un contenuto omogeneo e le censure siano formulate in modo tale da non ingenerare dubbi sull’oggetto e le ragioni dell’impugnativa». Nella seconda decisione, avente ad oggetto il medesimo ricorso regionale, si ribadiva quanto in precedenza affermato (nella sentenza n. 120, invece, la Corte non si è pronunciata, constatata l’infondatezza delle questioni proposte ,sulla «dubbia ammissibilità della censura sotto il profilo della sua conformità alla delibera di impugnazione del Consiglio dei ministri»).
 
2.3. I contenuti del ricorso
La giurisprudenza costituzionale del 2005 mostra una costante attenzione della Corte nei confronti dei contenuti del ricorso, e segnatamente della idoneità dello stesso a radicare questioni di costituzionalità che siano sufficientemente precisate ed adeguatamente motivate.
Una siffatta attenzione è ben rappresentata dalla sentenza n. 450, in cui la Corte ha sottolineato: «è principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte quello per cui il ricorso in via principale non solo “deve identificare esattamente la questione nei suoi termini normativi”, indicando “le norme costituzionali e ordinarie, la definizione del cui rapporto di compatibilità o incompatibilità costituisce l’oggetto della questione di costituzionalità” (ex plurimis, sentenze n. 360 del 2005, n. 213 del 2003 e n. 384 del 1999), ma deve, altresì, “contenere una seppur sintetica argomentazione di merito, a sostegno della richiesta declaratoria d’incostituzionalità della legge” (si vedano, oltre alle pronunce già citate, anche le sentenze n. 261 del 1995 e n. 85 del 1990). Ed invero, l’esigenza di una adeguata motivazione a sostegno della impugnativa si pone – come precisato dalla sentenza n. 384 del 1999 – “in termini perfino più pregnanti nei giudizi diretti che non in quelli incidentali, nei quali il giudice rimettente non assume propriamente il ruolo di un ricorrente e al quale si richiede, quanto al merito della questione di costituzionalità che esso solleva, una valutazione limitata alla ‘non manifesta infondatezza’”».
Alla luce di tali principî, espressamente o implicitamente confermati in molte decisioni, la Corte ha censurato le carenze riscontrate ne (a) l’individuazione delle norme oggetto delle questioni e delle norme di raffronto e ne (b) la motivazione delle censure.
a) Avendo riguardo ai termini delle questioni, possono evidenziarsi alcuni casi in cui il ricorso omette di individuare i parametri di giudizio o, più frequentemente, sia inficiato da una loro erronea indicazione.
Nel primo senso, può citarsi la sentenza n. 202, che reca una decisione di inammissibilità basata sulla omessa deduzione di norme parametro rilevanti nella materia in questione.
Un caso in parte analogo è quello di cui alla ordinanza n. 428, che ha deciso un ricorso evidentemente incompleto relativamente ai parametri invocati: la Corte ha, infatti, evidenziato come «non po[tessero] trovare ingresso le deduzioni difensive dell’Avvocatura dello Stato circa la violazione, da parte della Regione, con l’impugnata legge, delle norme costituzionali sul riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni nella materia “pesi e misure”, in quanto formulate, per la prima volta, in sede di discussione orale, e pertanto estranee al thema decidendum fissato nel ricorso introduttivo».
In varie occasioni, la Corte ha escluso l’ammissibilità di questioni di legittimità costituzionale sollevate in via principale dal Presidente del Consiglio dei ministri nei confronti di leggi di Regioni a statuto speciale o delle Province autonome allorché il ricorso faceva esclusivo riferimento ad articoli del Titolo V della Parte seconda della Costituzione, senza evocare a parametro le corrispondenti disposizioni statutarie (sentenze numeri 65, 202, 203 e 304). Peraltro, in taluni casi, tale carenza non ha avuto riflessi di tipo processuali, se non altro perché il ricorso introduttivo, «oltre a rivendicare, in base alle disposizioni del Titolo V della Costituzione, la competenza statale nella materia disciplinata dalla legge provinciale, lamenta[va] che le norme impugnate non rinven[issero] alcun titolo legittimante nello statuto speciale di autonomia» (sentenza n. 431).
Relativamente alla erroneità dell’indicazione delle norme di raffronto, la Corte ha censurato i richiami a norme costituzionali inconferenti con la materia trattata nel giudizio (ex plurimis, sentenza n. 467, nonché la sentenza n. 456, che ha escluso – in consonanza con quanto stabilito, in sede di giudizio in via incidentale, con la sentenza n. 244 – che possano riferirsi alle comunità montane le attribuzioni costituzionali delle Regioni o degli enti locali) e la «evidente erronea indicazione delle norme interposte» da cui veniva dedotta la illegittimità delle disposizioni legislative impugnate (sentenza n. 150).
In ordine all’oggetto del giudizio, il difetto di individuazione è stato talvolta ricavato dalla circostanza che venisse impugnato un atto legislativo nel suo complesso, specie allorché, invece, la delibera governativa (o giuntale) facesse riferimento soltanto ad alcuni articoli o ad alcune disposizioni (v. supra, par. precedente). Come è chiaro, quando la legge rechi un contenuto omogeneo (come, ad esempio, nei casi di cui alle sentenze numeri 62 e 159) l’impugnazione della sua totalità non trova alcun ostacolo.
L’esigenza che i termini delle questioni siano adeguatamente determinati non si traduce, peraltro, in una attitudine censoria della Corte costituzionale, la quale procede, nei limiti del possibile, alla precisazione del thema decidendum, quando esso presenta elementi di vaghezza. Così, nella sentenza n. 203, si è pervenuti a «dare un coerente significato alla impugnazione» analizzando l’articolo di legge impugnato e constatando, alla luce della pluralità di contenuti che esso recava, che l’intentio impugnatoria del ricorrente doveva essere ricondotta soltanto ad una parte di essi (una ridefinizione analoga della questione è contenuta anche nella sentenza n. 407). Del pari, nella sentenza n. 26, sebbene nelle conclusioni del ricorso si chiedesse la caducazione per illegittimità costituzionale degli articoli censurati nella loro totalità, la circostanza che gli articoli medesimi avessero una sfera soggettiva di applicazione molto vasta, relativa a tutte le pubbliche amministrazioni, imponeva una circoscrizione dell’ambito oggettivo dell’impugnazione veicolata dal parametro evocato – l’art. 117, comma secondo, lettera g), della Costituzione –, in ragione del quale ad essere censurata doveva intendersi semplicemente l’applicabilità degli articoli impugnati alle amministrazioni dello Stato e degli enti pubblici nazionali.
Nell’ambito di siffatti poteri della Corte rientra anche la «correzione» dell’individuazione dei termini della questione, sempreché essa sia inequivocabilmente ricavabile dal contesto del ricorso. Se ne ha un esempio con la sentenza n. 304, in cui si è rilevato che, quanto ad alcune delle questioni concernenti «l’art. 38, comma 3», della legge provinciale impugnata, il ricorrente aveva fatto erroneo riferimento «ad una disposizione che formalmente non esiste[va], dal momento che l’art. 38 citato [era] costituito da un unico comma» che dispone l’inserimento di un articolo all’interno di un’altra legge «e che solo quest’ultimo articolo, in realtà, contempla[va] un comma 3 peraltro corrispondente in tutto e per tutto alla norma censurata dal ricorrente». In virtù di tale «piena corrispondenza», il ricorso è stato, comunque, per tale profilo, ritenuto ammissibile e riferito correttamente all’art. 38 della legge impugnata «nella parte in cui» introduceva l’articolo recante il comma 3 oggetto di censure.
b) Per quel che concerne le carenze che inficiano la motivazione, a precludere un esame del merito delle questioni sono state l’insufficienza (sentenza n. 151), la «genericità ed apoditticità» (sentenza n. 205), la non adeguatezza della motivazione (sentenza n. 462) o il suo limitarsi alla semplice invocazione delle norme parametro (sentenza n. 65), alla stessa stregua della carenza di specifici motivi (sentenza n. 417) o della mancata specificazione delle censure (sentenza n. 272).
Lo scrutinio inerente a queste carenze viene operato sul piano sostanziale, più che formale, come prova la sentenza n. 323, in cui si è rilevato che «al di là della copiosa e mera evocazione di parametri, l’unica motivazione del ricorso consiste[va] in un asserito contrasto tra la norma [provinciale] impugnata e l’art. 4 della legge statale n. 124 del 1999 […] senza peraltro che [fosse] neppure precisato sotto quale profilo siffatto contrasto tra legge provinciale e legge statale si traduc[esse] in un vizio di legittimità costituzionale della prima», dal che derivava «la sostanziale elusione dell’onere di allegazione gravante sul ricorrente nel giudizio di legittimità costituzionale in via principale».
L’onere di motivazione, valutato in senso sostanziale, rende inammissibili anche quei ricorsi nei quali le argomentazioni si rivelino contraddittorie, come nel caso della sentenza n. 462, dove si è evidenziata la natura «intrinsecamente contraddittoria» della censura, «perché il ricorrente, da un lato, nel denunciare la violazione dell’evocato parametro costituzionale, afferma[va] la competenza esclusiva dello Stato a legiferare nella [dedotta] materia e, dall’altro, nel denunciare l’omessa disciplina del termine di prescrizione da parte del legislatore regionale, presuppone[va] invece la competenza legislativa della Regione, che prima aveva negato».
Lungi dal potersi ritenere contraddittorie, e dunque pienamente ammissibili, sono le questioni subordinate (sentenze numeri 26, 162, 234, 270, 279, 285, 319 e 383) o le questioni che presentino profili di illegittimità costituzionale in via gradata (sentenze numeri 51, 77, 205, 234, 321 e 467, ed ordinanza n. 349) : è ben possibile contestare la legittimità costituzionale di una norma di legge contemporaneamente alla luce di diversi parametri, «sia che si faccia valere un rapporto gradato tra i due presunti vizi, sia anche che si sostenga […] la contemporanea incidenza su più profili di una singola disposizione legislativa»; in tali evenienze, non si ravvisano dunque «elementi di perplessità o contraddittorietà che possano sostenere una pronuncia di inammissibilità del ricorso» (sentenza n. 467).
Parimenti ammissibili sono le questioni proposte in via «cautelativa»: la finalità interpretativa, o «cautelativa», della questione non incide, infatti, sull’ammissibilità della questione medesima, in quanto, per giurisprudenza costante, «a differenza del giudizio in via incidentale, il giudizio in via principale può ben concernere questioni sollevate sulla base di interpretazioni prospettate dal ricorrente come possibili, soprattutto nei casi in cui […] sulla legge non si siano ancora formate prassi interpretative in grado di modellare o restringere il raggio delle sue astratte potenzialità applicative e le interpretazioni addotte dal ricorrente non siano implausibili e irragionevolmente scollegate dalle disposizioni impugnate, così da far ritenere le questioni del tutto astratte o pretestuose» (così, testualmente, la sentenza n. 249, ma nel medesimo senso è anche la sentenza n. 449).
Pur in un quadro tendenzialmente improntato ad un certo rigore, sufficiente ai fini di una pronuncia sul merito dell’impugnazione è che «il ricorso, sebbene succintamente argomentato, [sia] chiaro e determinato e non [lasci] dubbi sull’oggetto della contestazione» (sentenza n. 159): in quest’ottica, la Corte ha sovente respinto eccezioni – statali o regionali – dirette a denunciare la non adeguatezza della motivazione (sentenze numeri 77, 108, 159, 335 e 387). Soltanto quando siffatti requisiti minimi sussistano all’interno dell’atto introduttivo del giudizio, si può ammettere che successive memorie provvedano ad ulteriori specificazioni (sentenza n. 406).
La essenzialità della motivazione si apprezza anche con riferimento alle argomentazioni poste a sostegno dell’individuazione di una determinata norma oggetto o di una norma parametro.
In tal senso, non mancano decisioni che censurano la genericità delle motivazioni dedotte al fine di giustificare la individuazione di una disposizione come affetta da vizio di incostituzionalità (sentenze numeri 37, 279, 336 e 450) e ciò, a maggior ragione, quando la disposizione sia indicata come oggetto di questione soltanto nell’epigrafe del ricorso, senza essere ripresa nella sua parte motiva (sentenza n. 384).
Al pari di quanto riscontrabile per le disposizioni oggetto, anche sulla scelta dei parametri è indefettibile una motivazione ad hoc, con il che uno scrutinio di merito risulta precluso quando le argomentazioni a tal riguardo si appalesino generiche (sentenza n. 50) o siano addirittura, del tutto o per l’essenziale, omesse (sentenze numeri 202, 203, 304, 321, 335 e 383).
 
 
3. L’oggetto delle questioni di legittimità costituzionale
In merito agli atti che sono stati oggetto di ricorso in via principale, non constano, nella giurisprudenza del 2005, particolari novità. Le tipologie, per l’essenziale costituite da atti legislativi statali e leggi regionali, conoscono alcune peculiarità in relazione a determinati giudizi, e segnatamente quelli di cui all’art. 123 della Costituzione, il cui oggetto è la delibera statutaria di una Regione a statuto ordinario (ordinanza n. 353, nonché – salvo quanto si dirà infra, par. 9 –, sentenza n. 469), e quelli previsti dall’art. 28 dello Statuto della Regione Siciliana (ordinanze numeri 103, 69, 293 e 403).
Con riferimento all’oggetto del giudizio, sono peraltro da segnalare soprattutto alcune statuizioni nelle quali il tipo di disposizione impugnata aveva riflessi anche in ordine alla sussistenza di un interesse alla pronuncia di illegittimità costituzionale. Sul tema, si rinvia a quanto verrà detto infra, par. 5.
 
 
4. Il parametro di costituzionalità
Nel corso del 2005, la Corte ha chiuso definitivamente il contenzioso instaurato antecedentemente alla riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione (sentenze numeri 33 e 272, ed ordinanza n. 349). In questi casi, lo scrutinio di costituzionalità è stato effettuato «avendo riguardo ai parametri costituzionali vigenti alla data di emanazione degli atti legislativi impugnati e, quindi, alla loro formulazione anteriore alla riforma di cui alla […] legge costituzionale» n. 3 del 2001 (sentenza n. 272; analogamente, sentenza n. 33).
Con riferimento ai parametri invocabili, molteplici decisioni hanno affrontato questioni in cui l’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001 era invocato come parametro (sentenze numeri 35, 50, 62, 145, 201, 234, 279, 378, 383 e 384). La portata di tale disposizione, confermando precedenti statuzioni, è stata ricostruita tenendo conto che le disposizioni della legge costituzionale modificativa del Titolo V della Costituzione si applicano alle Regioni ed alle Province autonome, ai sensi dell’art. 10 della stessa legge costituzionale, solo «per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite», con il che «deve necessariamente escludersi che le disposizioni della suddetta legge costituzionale possano comportare limitazioni alla sfera di competenza legislativa già attribuita [alle Regioni speciali o alle Province autonome] per effetto dello statuto di autonomia».
Circa la portata dell’art. 10, merita un cenno anche la sentenza n. 279, nella quale si è disattesa la eccezione di inammissibilità proposta dalla difesa erariale, motivata sull’assunto che «le Regioni a statuto speciale godrebbero, in virtù della norma citata, di una tutela solo riflessa e derivata da quella spettante alle regioni ordinarie, con la conseguenza che non potrebbero reagire con autonomo ricorso principale alla eventuale violazione delle maggiori autonomie anche ad esse riconosciute dalla novella costituzionale». La perentoria replica della Corte è stata nel senso che il tenore dell’art. 10 è tale «da non lasciare alcun dubbio circa la volontà del legislatore costituzionale di estendere in via diretta alle Regioni a statuto speciale le maggiori autonomie riconosciute alle Regioni a statuto ordinario, senza alcuna limitazione quanto alle forme di tutela».
Per quel che concerne l’invocabilità di norme parametro che risultino abrogate, la sentenza n. 388 ha stabilito che qualora l’abrogazione di tali norme (nella fattispecie, trattavasi di una norma interposta) sia avvenuta successivamente alla proposizione del ricorso, essa deve ritenersi ininfluente sul giudizio in corso.
Tra tutte, la decisione probabilmente più innovativa, è comunque la sentenza n. 406, nella quale, per la prima volta, la Corte ha fatto impiego esplicito dell’art. 117, primo comma, della Costituzione come parametro nei confronti di disposizioni legislative (regionali) contrastanti con i «vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario». Su tale pronuncia, anche ai fini della ricostruzione delle norme comunitarie la cui violazione ridonda nel contrasto con la disposizione costituzionale da parte della legge regionale, si rinvia a quanto verrà detto infra, parte II, cap. III, sez. II, par. 2.
 
 
5. L’interesse a ricorrere
Molteplici sono le decisioni che hanno avuto riguardo all’interesse a ricorrere, analizzato sotto molteplici profili. Operando una schematizzazione dell’ampia giurisprudenza rintracciabile, possono distinguersi tre ambiti, relativi a (a) i parametri invocabili, a (b) le vicende incidenti sul persistere dell’interesse ed a (c) i casi che potrebbero definirsi di «sostituzione processuale».
a) Come noto, la configurazione del giudizio in via principale – sia prima che dopo la riforma del Titolo V – si presenta in forme parzialmente diverse a seconda che a ricorrere sia lo Stato ovvero una Regione o una Provincia autonoma.
Quando il giudizio è radicato a seguito di un ricorso statale, le questioni di legittimità costituzionale non debbono necessariamente essere costruite come conflitti competenziali, ben potendo avere ad oggetto la violazione di parametri costituzionali estranei a quelli che regolano i rapporti tra Stato e Regioni. Ed effettivamente non mancano i casi in cui la Corte è stata chiamata a giudicare di asserite lesioni di parametri riconducibili al Titolo V della Parte seconda della Costituzione unitamente a quelle di parametri altri (ex plurimis, sentenze numeri 173, 407 e 465). In taluni casi, il thema decidendum era addirittura integralmente estraneo alla logica rivendicativa di competenza, giacché se è vero che «lo Stato può impugnare le leggi regionali in via principale deducendo come parametro qualsiasi norma costituzionale, pur se estranea al riparto delle competenze legislative» (sentenza n. 277), si giustifica la circostanza che lo Stato, in sede di impugnazione, non deduca alcuna ragione di incompetenza (in tal senso, oltre alla sentenza n. 277, anche la sentenza n. 190).
Tali rilievi non valgono per il caso in cui a proporre ricorso sia una Regione (sentenze numeri 30, 36, 37, 50, 64, 107, 270, 272, 285 e 383), nella misura in cui la logica competenziale è l’unica che possa trovare cittadinanza, e ciò anche se, in certa misura, anche parametri tendenzialmente estranei a questa logica posso venire invocati. La Corte ha, infatti, più volte chiarito che «le Regioni sono legittimate a denunciare la violazione di norme costituzionali non attinenti al riparto di competenze con lo Stato solo quando tale violazione abbia un’incidenza diretta o indiretta sulle competenze attribuite dalla Costituzione alle Regioni stesse», di talché la pronuncia di inammissibilità non può derivare automaticamente dal tipo di parametro invocato, bensì dalla circostanza che nella prospettazione non si evidenzi alcuna incisione, «diretta o indiretta», delle competenze attribuite dalla Costituzione alle Regioni ricorrenti (così la sentenza n. 285; sul punto, tuttavia, si riscontra una copiosa giurisprudenza, in ordine alla quale possono segnalarsi anche le inammissibilità di cui alle sentenze numeri 36, 50, 270, 383 e 384).
b) Relativamente alle vicende che incidono sul persistere dell’interesse al ricorso ed alla decisione, sono molteplici le affermazioni che si connettono alla modifica ed all’abrogazione delle disposizioni oggetto del giudizio.
L’abrogazione della disposizione conduce ad una cessazione della materia del contendere soltanto quando la disposizione abrogata non abbia avuto medio tempore attuazione (sentenza n. 407 ed ordinanza n. 477), nel caso contrario potendosi constatare la persistenza dell’interesse alla pronuncia di merito (sentenza n. 203). Analogamente, l’intervenuta conversione in legge di un decreto legge non fa venir meno l’interesse ad una pronuncia su disposizioni del medesimo: in tal senso, nella sentenza n. 378, si è escluso che il sopravvenire della legge di conversione, con le sostanziali modifiche apportate al testo originario della disposizione impugnata, avesse fatto venir meno l’interesse alla decisione del ricorso, dal momento che la legge di conversione – facendo salvi gli effetti degli atti compiuti nelle more del procedimento legislativo di conversione – aveva conferito piena vigenza al testo originario della disposizione del decreto legge.
Caso affatto peculiare è quello delle delibere legislative siciliane promulgate parzialmente – con omissione delle disposizioni impugnate – nelle more del giudizio di costituzionalità (ordinanze numeri 103, 169, 293 e 403).
A fortiori inidonea ad escludere l’interesse al ricorso è stata ritenuta la modificazione della disposizione impugnata, purché, scil., il contenuto precettivo non risulti mutato, donde la necessità di trasferire le censure dalla disposizione impugnata a quella risultante dalle modifiche intercorse (sentenza n. 50). Né può risultare cessata la materia del contendere allorché la sopravvenienza di una norma di «sanatoria» non abbia effetti, ratione temporis, su quelle oggetto del giudizio (sentenza n. 455). Di contro, la sopravvenuta carenza di interesse è riscontrabile quando la modifica normativa sia satisfattiva delle richieste del ricorrente (sentenze numeri 50, 108, 205, 304 e 378, ed ordinanze numeri 428 e 474) e/o quando sia intervenuta successivamente all’avvenuta attuazione della disposizione impugnata (sentenze numeri 272 e 383).
La radicale modificazione può anche derivare da una pronuncia della Corte, il cui decisum e la cui ratio decidendi producano un mutamento del quadro normativo tale da rendere superate le eventuali violazioni di parametri costituzionali (così la sentenza n. 71, in riferimento a quanto disposto nella sentenza n. 196 del 2004, in tema di condono edilizio straordinario; in senso analogo, anche la sentenza n. 26). Più specificamente, la sentenza n. 397 ha constatato che la sopravvenuta carenza di interesse può desumersi da una pronuncia di illegittimità costituzionale che, riferita ad altra disposizione, incida su quella oggetto della decisione di tipo processuale nel senso di spostarne il dies a quo dell’efficacia, tanto da escludere ogni contrasto con una norma parametro (nella specie destinata a perdere vigenza anteriormente all’efficacia della disposizione legislativa).
Sotto un diverso profilo, è da sottolinearsi come la cessazione della materia del contendere non possa derivare dalla attuazione che abbia avuto la norma censurata, «permanendo nell’ordinamento una disposizione che, in ipotesi, potrebbe dare luogo anche a diverse applicazioni, non conformi agli evocati parametri» (sentenza n. 33).
Come è chiaro, il difetto sopravvenuto di interesse può essere reso manifesto dalla rinuncia formale al ricorso, che produce, se accettata, la estinzione del giudizio. Non mancano, peraltro, casi di rinuncia sostanziale, cioè non formalizzata ma espressa in sede di trattazione della causa, rinuncia che, senza poter estinguere il giudizio, fornisce comunque un segno inequivocabile del venir meno di ogni interesse alla decisione della Corte (si pensi, ad esempio, a quanto avvenuto nel giudizio concluso con la sentenza n. 36).
c) Per quanto attiene, infine, alle ipotesi di «sostituzione processuale», è da evidenziare la sentenza n. 417, in cui si è confermato il precedente della sentenza n. 196 del 2004 nel ritenere le Regioni legittimate a denunciare la legge statale per la violazione di competenze degli enti locali. La Corte ha infatti ritenuto sussistente in via generale una tale legittimazione in capo alle Regioni, perché «la stretta connessione, in particolare […] in tema di finanza regionale e locale, tra le attribuzioni regionali e quelle delle autonomie locali consente di ritenere che la lesione delle competenze locali sia potenzialmente idonea a determinare una vulnerazione delle competenze regionali».
 
 
6. La riunione e la separazione delle cause
A tale tecnica la Corte ricorre nel caso di una pluralità di ricorsi proposti avverso un medesimo atto normativo e che tuttavia siano caratterizzati dalla impugnazione di disposizioni dal contenuto molto eterogeneo. Le singole questioni proposte dai diversi ricorsi introduttivi vengono prima separate e poi riunite in un unico giudizio in modo tale che con una decisione unica possano essere risolte questioni omogenee, sia pure sollevate da più di un ricorso.
I 133 ricorsi integralmente definiti nel 2005, di cui 65 promossi dallo Stato, hanno visto 22 casi di riunione e 7 ricorsi decisi con separate pronunce.
La riunione è stata disposta in 5 casi relativamente a ricorsi statali avverso leggi regionali aventi una certa omogeneità o, comunque, una continguità contenutistica (sentenze numeri 95, 150, 431, 456 e 469, tutte concernenti due ricorsi); in 2 casi il collegamento materiale ha riguardo atti legislativi statali impugnati da Regioni e leggi regionali impugnate dallo Stato (sentenze numeri 62 e 378, rispettivamente concernenti tre ricorsi statali ed uno regionale e quattro ricorsi statali ed uno regionale). Nei restanti 15 casi, si sono avute riunioni di impugnative regionali avverso gli stessi atti o avverso atti connessi: le sentenze numeri 30, 31, 35, 36, 234, 279, 285 e 336 hanno deciso due ricorsi regionali; la sentenza n. 383 e l’ordinanza n. 349 su quattro; la sentenza n. 417 su cinque; la sentenza n. 384 su 7; la sentenza n. 270 su 8; la sentenza n. 50 su 9; la sentenza n. 272 ha deciso su ben 17 ricorsi regionali, aventi ad oggetto una serie di atti legislativi in materia di «quote-latte».
Per quanto attiene alla separazione dei giudizi, cinque ricorsi regionali aventi ad oggetto la legge 14 febbraio 2003, n. 30 (Delega al Governo in materia di occupazione e mercato del lavoro) – c.d. «legge Biagi» – sono stati decisi in parte con la sentenza n. 50 ed in parte con la sentenza n. 384. Le sentenze numeri 277 e 462 hanno deciso un ricorso statale avverso una legge della Regione Lazio recante contenuti eterogenei, alla stessa stregua di quanto avvenuto, relativamente ad una legge della Provincia autonoma di Bolzano, con le sentenze numeri 304 e 323.
A questi dati devono aggiungersi i 3 ricorsi che erano stati parzialmente decisi nel 2004 e che, nel 2005, sono stati solo parzialmente definiti nel 2005, giacché restano pendenti alcune questioni. In questi tre casi, si è trattato di discipline statali coinvolgenti una pluralità di materie, e segnatamente la legge finanziaria (legge 24 dicembre 2003, n. 350, per cui resta pendente il ricorso n. 33 del 2004, parzialmente deciso con le sentenze numeri 36, 71, 77, 107, 134, 151, 160, 162, 175, 219, 222, 231, 242, 270 e 449) ed il c.d. collegato ordinamentale in materia di pubblica amministrazione (legge 16 gennaio 2003, n. 3, per cui restano pendenti i ricorsi n. 31 del 2003, parzialmente deciso con la sentenza n. 270, e n. 32 del 2003, parzialmente deciso con le sentenze numeri 31 e 270).
 
 
7. Il contraddittorio di fronte alla Corte
Il processo in via principale, in quanto processo di parti, si caratterizza per una assai elevata percentuale di casi nei quali le parti si costituiscono di fronte alla Corte.
L’anno 2005 non fa, in questo senso, eccezione. A fronte dei 136 ricorsi decisi (parzialmente o integralmente), si sono avuti soltanto 12 casi di mancata costituzione. Lo Stato è rimasto inerte in un solo giudizio, conclusosi con la dichiarazione di estinzione per rinuncia (ordinanza n. 6). Gli 11 casi di mancata costituzione delle Regioni sembrano, invece, assumere diversi significati: così, in 4 giudizi in cui lo Stato è rimasto l’unico soggetto presente si è avuta una dichiarazione di incostituzionalità (sentenze numeri 167, 319, 335 e 445) ed in un quinto un accoglimento parziale delle censure (sentenza n. 456, resa peraltro relativamente a due giudizi riuniti, in cui solo una delle Regioni non si era costituita). In un ulteriore caso si è fatto luogo ad una pronuncia di merito, ma di rigetto (sentenza n. 95, che ha deciso due giudizi riuniti, in uno dei quali era presente la difesa regionale). Nei restanti 5 giudizi non si è proceduto ad uno scrutinio di merito, ora in ragione della constata cessazione della materia del contendere (ordinanze numeri 103, 403 e 428) ora per la rinuncia al ricorso, prodromo dell’estinzione (ordinanze numeri 353 e 478).
In quattro casi la costituzione di una Regione è stata dichiarata inammissibile.
Nel giudizio concluso con la sentenza n. 150, con ordinanza letta nella pubblica udienza del 22 febbraio 2005 e allegata alla sentenza, è stata dichiarata inammissibile la costituzione della Regione Puglia, in quanto avvenuta oltre il termine prescritto dall’art. 23, comma 3, delle Norme integrative per i giudizi dinanzi alla Corte. La Regione Puglia, nel riconoscere la tardività della propria costituzione, aveva presentato il 5 agosto 2004 una «nuova memoria di costituzione», ritenendo che la Corte, all’art. 33 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, pubblicate nella Gazzetta Ufficiale n. 176 del 29 luglio 2004, avesse permesso alle parti «nei procedimenti pendenti davanti alla Corte alla data di entrata in vigore delle […] norme integrative» di costituirsi «fino al decimo giorno successivo alla data stessa». Nel replicare a tale prospettazione, la Corte ha evidenziato l’infondatezza di tale argomentazione, «dal momento che il testo delle Norme integrative [era] stato semplicemente oggetto di una “integrale ripubblicazione” a fini meramente notiziali, dopo che la precedente deliberazione 10 giugno 2004 della Corte costituzionale (Modificazioni alle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale), pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 151 del 30 giugno 2004, aveva apportato diverse modifiche alla precedente formulazione delle Norme integrative» (ciò che, peraltro, era stato espressamente evidenziato dal Comunicato di rettifica pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 187 dell’11 agosto 2004). Anche volendosi prescindere dal fatto che, comunque, l’art. 33, al momento della sua entrata in vigore, non trovava applicazione nei confronti di termini già scaduti, la mancata novazione della fonte meramente ripubblicata a fini notiziali rendeva evidente che l’efficacia di questa norma transitoria si fosse esaurita da quasi cinquanta anni.
Nella sentenza n. 391 si è dato conto che la Regione Puglia si era costituita in giudizio con atto depositato dopo la scadenza del termine di venti giorni decorrente dalla data del deposito del ricorso: la costituzione della Regione Puglia doveva pertanto dichiararsi inammissibile, «in conformità alla costante giurisprudenza [della] Corte circa la perentorietà, anche per la parte resistente, dei termini per la costituzione in giudizio».
In tutto analoghe sono state le decisioni relative alla costituzione tardiva della Regione Umbria nel giudizio definito con la sentenza n. 393 ed a quella della Regione Molise nel giudizio definito con la sentenza n. 397.
Una fattispecie peculiare si è presentata nel giudizio concluso con la sentenza n. 455, nel quale il Presidente della Regione Liguria, resistente, si era costituito senza previa autorizzazione della Giunta regionale. Il vizio riscontrabile non ha inficiato, tuttavia, l’avvenuta costituzione, risultando sanato dall’avvenuto deposito, unitamente alla memoria depositata in prossimità dell’udienza pubblica, della copia autentica della deliberazione della Giunta che aveva proceduto alla ratifica della costituzione medesima.
Al di là di questi casi inerenti alla costituzione delle parti, uno dei profili che maggiormente hanno caratterizzato il processo in via principale nel corso del 2005 è rappresentato dalla frequenza degli atti di intervento spiegati da terzi, che hanno riguardato i giudizi conclusi da ben 10 pronunce (sentenze numeri 150, 232, 336, 344, 355, 378, 383 e 469, ed ordinanze numeri 20 e 103), per un numero totale di 36 interventi.
In taluni casi, degli interventi si è dato conto soltanto nella decisione definitiva. Nella ordinanza n. 20 si sono citati quattro interventi, di cui uno fuori termine; la manifesta inammissibilità del ricorso ha peraltro precluso ogni decisione in merito all’ammissione di questi soggetti.
Analoga è stata la sorte dell’intervento, spiegato anch’esso fuori termine, nel giudizio concluso con la dichiarazione di cessazione della materia del contendere di cui all’ordinanza n. 103.
Fuori termine è risultato altresì l’intervento – per un lapsus calami definito «nel ricorso per conflitto di attribuzioni» – posto in essere nel giudizio concluso con la sentenza n. 232.
Più articolata è stata la motivazione che ha presieduto alla declaratoria di inammissibilità dell’intervento nella sentenza n. 355, in cui si è evidenziato che, «a prescindere dalla tardività dell’intervento», era decisivo il rilievo che «nei giudizi di legittimità costituzionale promossi in via principale non è ammessa, secondo la costante giurisprudenza [della] Corte, la presenza di soggetti diversi dalla parte ricorrente e dal titolare della potestà legislativa il cui atto è oggetto di contestazione» («mentre del tutto improprio [era] il riferimento dell’interveniente ai principî affermati [dalla] Corte nei giudizi di ammissibilità del referendum, avuto riguardo all’evidente diversità di tali giudizi rispetto a quelli di legittimità costituzionale in via principale»).
In un caso, sull’intervento è stato deliberato con ordinanza collegiale, all’udienza del 26 ottobre 2004, sentite le parti: nella fattispecie, i cinque interventi sono stati dichiarati inammissibili «in base al consolidato orientamento [della] Corte, secondo il quale nei giudizi di legittimità costituzionale proposti in via principale non è ammessa la presenza di soggetti diversi dalla parte ricorrente e dal titolare della potestà legislativa il cui esercizio sia oggetto di contestazione» (sentenza n. 336).
Più frequente è stato l’utilizzo della forma dell’ordinanza presidenziale letta in udienza pubblica.
Così, nel giudizio concluso con la sentenza n. 150, l’ordinanza del 22 febbraio 2005 ha dichiarato l’inammissibilità di ben venti interventi (alcuni dei quali anche spiegati fuori termine), in ragione della configurazione del giudizio in via principale come processo «svolgentesi esclusivamente fra soggetti titolari di potestà legislativa».
Parimenti, l’ordinanza letta all’udienza del 7 giugno 2005 ha dichiarato l’inammissibilità dell’intervento spiegato facendo riferimento alla costante secondo cui «è inammissibile l’intervento, nei giudizi promossi in via principale nei confronti di leggi regionali o statali, di soggetti diversi da quelli titolari delle competenze legislative oggetto di contestazione, ancorché tali soggetti siano, o si assumano, destinatari attuali o potenziali degli effetti prodotti dalle leggi impugnate e, pertanto, anche dall’eventuale dichiarazione d’incostituzionalità di tali leggi» (sentenza n. 378, nella quale dell’inammissibilità dell’intervento si dà conto anche in un capo del dispositivo).
Sostanzialmente assimilabile è la motivazione che ha condotto, nell’ordinanza letta nell’udienza del 24 maggio 2005, alla declaratoria di inammissibilità dell’intervento spiegato: «il giudizio di costituzionalità delle leggi, promosso in via d’azione, è configurato come svolgentesi esclusivamente fra soggetti titolari di potestà legislativa, fermi restando, per i soggetti privi di tale potestà, i mezzi di tutela delle loro posizioni soggettive, anche costituzionali, di fronte ad altre istanze giurisdizionali ed eventualmente anche di fronte a questa Corte in via incidentale» (sentenza n. 383).
Identica è stata la motivazione dell’ordinanza letta all’udienza del 29 novembre 2005, la quale, nel negare ingresso all’intervento spiegato dai promotori del referendum sullo Statuto della Regione Umbria (anche in proprio, nonché in qualità di rappresentanti dell’apposito «Comitato per il referendum sullo Statuto regionale dell’Umbria»), ha ulteriormente precisato che «anche nel giudizio previsto dall’art. 123, secondo comma, della Costituzione, [la] Corte ha già avuto modo di chiarire che gli unici soggetti legittimati ad esserne parti sono la Regione, in quanto titolare della potestà normativa in contestazione, e lo Stato, indicato dalla Costituzione come unico possibile ricorrente» (sentenza n. 469).
Un caso a sé, infine, è costituito dall’intervento della Regione Friuli – Venezia Giulia nel giudizio di cui alla sentenza n. 344. Essendo oggetto di impugnazione, promossa dalla Regione Veneto, un decreto di attuazione dello Statuto speciale del Friuli – Venezia Giulia, quest’ultima Regione è stata destinataria, al pari dello Stato, della notifica del ricorso, donde la sua contiguità con la posizione di parte del giudizio.
 
 
8.  Le decisioni della Corte
Le 101 decisioni rese nel 2005, di cui 85 sentenze e 16 ordinanze, recano, in totale, 348, un numero, dunque, quasi equivalente ai 366 del giudizio in via incidentale.
 
8.1.  Le decisioni interlocutorie
In taluni giudizi, la Corte ha pronunciato ordinanze istruttorie, concernenti segnatamente gli interventi di terzi e l’acquisizione di elementi utili ai fini della decisione (nel 2005 non si sono registrati casi di decisioni sulla sospensione dell’atto impugnato ai sensi dell’art. 35 della legge n. 87 del 1953, come sostituito dall’art. 9, comma 4, della legge 5 giugno 2003, n. 131). Rinviando a quanto si è avuto modo di rilevare supra, par. 7, in merito alle ordinanze di inammissibilità degli interventi, con riferimento alle ordinanze istruttorie può segnalarsi come, tra i giudizi decisi nel 2005, vengano in rilievo due casi.
Il primo è quello – già menzionato supra, par. 2.2 – di cui alla sentenza n. 321, dove si afferma che, a seguito di una prima udienza di trattazione, la Corte, con ordinanza istruttoria del 14 novembre 2003, «ha richiesto alla Presidenza del Consiglio dei ministri di depositare copia della relazione allegata al verbale della riunione del Consiglio stesso in cui la proposizione del ricorso fu deliberata, che non risultava prodotta in giudizio».
Il secondo caso concerne l’ordinanza emanata, in data 15 dicembre 1999, a seguito dell’udienza pubblica del 26 ottobre 1999. Con essa la Corte ha disposto l’acquisizione di elementi di conoscenza concernenti profili tecnici e giuridici relativi alle c.d. «quote-latte» (verbali delle riunioni tenute del Comitato permanente delle politiche agroalimentari e forestali e della Conferenza permanente per i rapporti tra Stato e Regioni e Province autonome, relazione finale della Commissione di garanzia quote latte, prospetto delle date di emissione dei bollettini Aima in riferimento alle campagne lattiero-casearie 1995-1996, 1996-1997, 1997-1998, quadro del contenzioso civile e amministrativo in corso, in relazione alla determinazione delle quote latte individuali e alle compensazioni effettuate dall’Aima, oggi Agea). L’ordinanza ha fornito elementi di prova poi impiegati nella definizione dei giudizi di cui alla sentenza n. 272 ed all’ordinanza n. 349.
 
8.2.  L'estinzione del giudizio
I casi di estinzione a seguito di rinuncia al ricorso, ai sensi dell’art. 25 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, sono stati, in totale 14. Di questi, un dispositivo dà conto di una rinuncia parziale (sentenza n. 272), uno della rinuncia intervenuta relativamente ad un ricorso trattato congiuntamente ad altri (rinuncia, dunque, non preclusiva dell’esame del merito: ancora sentenza n. 272) ed un terzo dà conto congiuntamente di una rinuncia parziale e di rinunce relative a ricorsi trattati congiuntamente ad altri (sentenza n. 270). In altri undici casi la rinuncia ha prodotto una preclusione assoluta alla trattazione del merito dei ricorsi (ordinanze numeri 6, 40, 329, 349, con quattro identici capi di dispositivo, 353, 412, 426 e 478).
Da notare che in 3 casi la rinuncia è intervenuta in relazione a giudizi che non avevano visto la costituzione del resistente (ordinanze numeri 6, 353 e 478), donde l’assenza della necessità di una accettazione della rinuncia, altrimenti indefettibile.
 
8.3.  Le decisioni processuali
Le decisioni processuali, che nel complesso si attestano a quota 80 capi di dispositivo, sono ripartite tra dichiarazioni di cessazione della materia del contendere, inammissibilità e manifeste inammissibilità.
A] Si sono avuti 18 casi di cessazione della materia del contendere. La maggior parte di queste ipotesi si sono avute – come più dettagliatamente riferito supra, par. 5 – in relazione all’avvenuta abrogazione, sostituzione o modifica delle disposizioni impugnate (sentenze numeri 50, 108, 205, 272, 304, 378 383 e 407, ed ordinanze numeri 428, 474 e 477). In quattro casi, si è riproposta, invece, la cessazione della materia del contendere conseguente alla promulgazione parziale delle leggi siciliane sottoposte allo scrutinio di legittimità costituzionale (ordinanze numeri 103, 169, 293 e 403).
B] Il numero più cospicuo di decisioni processuali è costituito, comunque, dalle 61 pronunce di inammissibilità, sovente presenti in numero plurimo all’interno di una decisione (ad esempio, si contano 13 capi di dispositivo nella sentenza n. 50, 8 nella sentenza n. 272 e 5 nella sentenza n. 383).
Siffatte pronunce sono motivate principalmente da difetti riscontrati in ordine alla motivazione delle censure (sentenze numeri 50, 65, 202, 205, 272, 279, 304, 323, 335, 336, 383, 417, 450 e 462), da vizi nella individuazione dei termini delle questioni (sentenze numeri 26, 37, 150, 151, 203, 360 e 383), dall’invocazione di parametri diversi da quelli concernenti il riparto di competenze tra lo Stato e le Regioni (sentenze numeri 36, 50, 270, 285, 383 e 384) e dal difetto di interesse, variamente argomentato (sentenze numeri 37, 50, 71 e 397), anche in relazione ad una rinuncia «sostanziale» (sentenza n. 36; sul punto, si rinvia a quanto detto supra, par. 5).
Piuttosto numerosi sono anche i casi nei quali l’inammissibilità deriva dall’assenza, nella deliberazione del Consiglio dei ministri o della Giunta regionale, di riferimenti relativi alle poi disposizioni oggetto di impugnazione (sentenze numeri 50, 150 e 300); non mancano, poi, decisioni che censurano la genericità della delibera in questione (sentenze numeri 50, 384).
Nella sentenza n. 344, la decisione processuale ha fatto seguito alla constatazione della tardività della notifica del ricorso, mentre la sentenza n. 469 censura l’erroneità del procedimento di impugnazione per il quale si è optato (trattavasi di una delibera statutaria di una Regione ordinaria impugnata nelle forme di cui all’art. 127 della Costituzione; sul tema, si rinvia, comunque, alle considerazioni svolte infra, par. 9).
C] Ad esaurire il novero delle decisioni di tipo processuale, deve menzionarsi l’ordinanza n. 20, con la quale il deposito tardivo del ricorso è stato all’origine di una declaratoria di manifesta inammissibilità.
 
8.4. Le decisioni di rigetto
La maggioranza relativa delle formule contenute nei dispositivi delle decisioni è rappresentata da quelle che constatano la non fondatezza delle questioni poste, che sono, in totale, 155. Tra queste, 8 sono interpretative di rigetto, presentando il riferimento a «i sensi di cui in motivazione».
Il dato relativamente esiguo delle decisioni interpretative non osta alla constatazione del notevole impiego di strumenti ermeneutici anche nell’ambito del giudizio in via principale. Sono, infatti, assai frequenti le sentenze di rigetto che, pur non recando traccia nel dispositivo, possono dirsi, nella sostanza, interpretative (sentenze numeri 31, 36, 120, 231, 270, 278, 431 e 449). Ad esse possono aggiungersi le statuizioni che muovono dal riconoscimento di un erroneo presupposto interpretativo (sentenze numeri 272 e 336), ovvero dalla necessità di disattendere interpretazioni prospettate in chiave difensiva (sentenze numeri 108 e 465). Parimenti, la Corte non ha esitato a fornire interpretazioni delle norme parametro diverse da quelle fornite dai ricorrenti (ex plurimis, sentenza n. 173).
Lo sviluppo dell’attività ermeneutica nel giudizio in via principale ha fatto sì che anche in esso la declaratoria di illegittimità costituzionale si configurasse alla stregua di una extrema ratio. Ne sono dimostrazioni eloquenti quelle statuizioni nelle quali la Corte ha constatato preliminarmente l’impossibilità di superare in via interpretativa le ragioni dell’asserita incostituzionalità (assai significative, a tal proposito, risultano le sentenze numeri 145 e 407).
 
8.5.  Le decisioni di accoglimento
I capi di dispositivo che recano una declaratoria di illegittimità costituzionale sono 99. Le tipologie di accoglimento presentano forti profili di comunanza con quelle che si sono riscontrate nel giudizio in via incidentale (accoglimento tout court, ablativo, additivo, sostitutivo), con l’aggiunta della declaratoria in via consequenziale, quest’anno assente nei dispositivi dei processi in via d’eccezione.
A] Per quel che concerne le illegittimità costituzionali tout court, si segnalano 33 casi (sentenze 50 – 2 capi di dispositivo –, 51, 62 – 3 capi –, 77, 106, 107, 159, 160, 167, 190, 232, 270, 271, 272, 277, 285 – 2 capi –, 286, 319, 335, 355, 378 – 2 capi –, 391, 405, 406, 407, 424, 455 e 465).
Da notare è che, se generalmente queste formule si rivolgono ad uno o più articoli o commi, talvolta colpiscono un atto nel suo complesso. A tal proposito si segnalano i 3 capi di dispositivo di cui alla sentenza n. 62 e la sentenza n. 319, in cui la disciplina contenuta nell’atto legislativo (sempre regionale) esorbitava, nel suo complesso, dalle competenze all’ente attribuite dalla Costituzione. La sentenza n. 159, invece, ha dichiarato l’atto legislativo regionale incostituzionale, nel suo complesso, per violazione di altri parametri.
A queste decisioni può ricondursi, in certa misura, anche la sentenza n. 391 che reca una illegittimità costituzionale dell’«articolo unico» di una legge regionale.
B] In ordine alle decisioni additive, al loro numero piuttosto elevato (33 capi di dispositivo), corrisponde anche una certa varietà nella formulazione. Così, se nella maggior parte dei casi l’incostituzionalità di una disposizione viene pronunciata «nella parte in cui non prevede» un determinato contenuto (sentenze numeri 51, 162, 219, 242, 279 – 2 capi di dispositivo –, 285 – 2 capi –, 383 – 5 capi – e 384 – 2 capi –), non mancano altri tipi di dichiarazioni: dall’incostituzionalità della disposizione «nella parte in cui non esclude» un certo contenuto (nella specie, l’applicazione di un regolamento alle Province autonome di Trento e di Bolzano: sentenza n. 145) all’incostituzionalità «nella parte in cui non dispone» (sentenze numeri 285 – 11 capi di dispositivo – e 383 – 2 capi –), formula, quest’ultima, particolarmente utilizzata nei casi di decisioni «manipolative di procedura» (su cui, v. infra).
Tra le decisioni di tipo additivo, alcune presentano peculiarità che meritano almeno un cenno.
La prima è la sentenza n. 271, con la quale si dichiara l’incostituzionalità di una disposizione legislativa regionale «nella parte in cui non richiama», all’interno del testo, il necessario rispetto della legislazione statale nella materia su cui va ad incidere (nella specie, la protezione dei dati personali): l’additiva, in questo caso, non si pone come una «aggiunta» di contenuto normativo, ma semmai come una esplicitazione dei rapporti intercorrenti tra legislazione statale e legislazione regionale.
Altra decisione da segnalare è la sentenza n. 62, che reca due dispositivi costruiti come una compenetrazione tra incostituzionalità additiva ed interpretativa. Vi si dichiara, infatti, l’illegittimità costituzionale di due disposizioni legislative statali «nella parte in cui non preved[ono] una forma di partecipazione della Regione interessata, nei sensi di cui in motivazione», a determinati procedimenti. Questo tipo di declaratoria appare funzionale alla introduzione, attraverso una «manipolativa di procedura», di meccanismi di raccordo ulteriori – individuati in motivazione – rispetto a quelli già contemplati dalle disposizioni censurate, in merito a procedimenti e fasi diverse da quelli nelle quali le Regioni hanno già la possibilità di intervenire.
Infine, la sentenza n. 231 può annoverarsi nell’ambito delle decisioni «additive di principio», adottando una «manipolativa di procedura» (veicolata dalla illegittimità costituzionale di una disposizione, «in quanto non prevede alcuno strumento volto a garantire la leale collaborazione tra Stato e Regioni») che, constatata l’esigenza di un coinvolgimento delle Regioni nel procedimento disciplinato dalla disposizione legislativa statale oggetto del giudizio, non precisa quali in concreto debbano essere gli strumenti attraverso cui garantire un tale coinvolgimento, all’uopo rilevando, in motivazione, che «il principio di leale collaborazione può essere diversamente modulato poiché nella materia in oggetto non si riscontra l’esigenza di specifici strumenti costituzionalmente vincolati di concretizzazione del principio stesso», e dunque che «deve essere rimessa alla discrezionalità del legislatore la predisposizione di regole che comportino il coinvolgimento regionale».
C] Meno numerose delle sentenze additive, ma comunque tutt’altro che infrequenti – 26 capi di dispositivo, in totale – sono le decisioni di tipo ablativo. La maggior parte di esse sono strutturate come illegittimità costituzionali di una disposizione «limitatamente alle parole» specificate nel dispositivo (sentenze numeri 270 – 7 capi –, 321, 383 – 2 capi –, 384 – 2 capi –, 431 – 2 capi – e 445). Negli altri casi, l’incostituzionalità della norma è dichiarata «nella parte in cui prevede» qualcosa (sentenze numeri 30, 145, 397 e 456) o «nella parte in cui introduce» una nuova disposizione legislativa (sentenza n. 383). Ancora, con valore sostanzialmente analogo, l’incostituzionalità ha avuto riguardo alla disposizione «nella parte in cui include» determinati soggetti tra i propri destinatari (nella specie, le amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali esistenti nel territorio della Regione da cui la legge impugnata proveniva: sentenza n. 26), «nella parte in cui si applica» a certi soggetti (nella specie, il personale delle Regioni: sentenza n. 449) o «nella parte in cui si riferisce» a certe categorie di personale ovvero alle Regioni ed agli enti locali (rispettivamente, sentenze numeri 407 e 417).
L’incostituzionalità ablativa ha avuto anche riguardo all’annullamento della disposizione «nella parte in cui disciplina» una certa attività (sentenza n. 108) o, infine, «nella parte in cui demanda» alla fonte regolamentare la disciplina di alcuni aspetti della normativa oggetto del giudizio» (sentenza n. 431).
D] In 4 casi, la Corte ha adottato un dispositivo di tipo sostitutivo, dichiarando la illegittimità della disposizione «nella parte in cui prevede [una certa forma di coinvolgimento della Conferenza unificata] anziché [oppure invece che] [un’altra]» (sentenze numeri 31, 222, 279 e 383).
E] Come si vede, tutte le decisioni sostitutive possono classificarsi all’interno di una specifica categoria, quella concernente le «manipolative di procedura», le decisioni, cioè, nelle quali l’illegittimità costituzionale mira a modulare una disciplina che sia pienamente conforme al principio di leale cooperazione, principio cardine dell’assetto autonomistico.
Con siffatte statuizioni, la Corte ha dedotto dal sistema la necessità di un coinvolgimento, o di un coinvolgimento maggiore di enti territoriali diversi rispetto a quello cui l’atto finale di un procedimento sia imputabile (o delle istanze rappresentative degli stessi). A tal fine, come già accennato, le decisioni manipolative si sono tradotte in una sostituzione «migliorativa» ovvero in una «addizione», ora declinata in forme specifiche ora attraverso un richiamo al principio cooperativo tradottosi, nel dispositivo, in una additiva di principio (sentenza n. 231).
Questo tipo di decisioni ha assunto una consistenza assai rilevante: al fianco delle decisioni sostitutive e della additiva di principio cui si è accennato, possono citarsi, al riguardo, varie decisioni additive strutturate secondo lo schema classico (sentenze numeri 51, 62, 162, 219, 242, 278, 383 e 384).
F] Nel corso del 2005, sono state adottate anche 3 dichiarazioni di illegittimità costituzionale in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27, secondo periodo, della legge n. 87 del 1953.
Nelle sentenze numeri 355 e 405, alla declaratoria principaliter di alcune disposizioni ha fatto seguito la incostituzionalità di tutte le altre disposizioni della legge regionale censurata, la Corte non poteva «omettere di rilevare che l’intera legge regionale si pone[va] in inscindibile connessione con le disposizioni specificamente impugnate dal ricorrente». Analoga è stata la motivazione addotta per l’incostituzionalità in via consequenziale di cui alla sentenza n. 424, nella quale, la pronuncia è stata resa una volta constatato che «l’intera legge regionale si pone[va] in inscindibile connessione con le disposizioni specificamente impugnate dal ricorrente», giacché gli articoli 8 e 9, non impugnati, [avevano] ragion d’essere in quanto funzionali al raggiungimento dello scopo della legge medesima».
 
 
9. Il controllo degli statuti ordinari ai sensi dell'art. 123 della Costituzione
Nel corso del 2005, la Corte ha reso una sola decisione, l’ordinanza n. 353, peraltro di scarsa rilevanza ai presenti fini.
Il Presidente del Consiglio dei ministri aveva impugnato molteplici disposizioni dello statuto della Regione Liguria approvato in prima deliberazione il 27 luglio 2004 ed in seconda deliberazione il 28 settembre 2004. Nelle more della decisione della Corte, il ricorrente – premesso che, in adeguamento ai rilievi formulati, la Regione Liguria (non costituitasi) aveva riapprovato in prima lettura il 23 novembre 2004 e, in seconda lettura, il 28 gennaio 2005 un nuovo testo statutario, che, decorso il termine di tre mesi dalla pubblicazione senza richiesta di referendum confermativo, era stato pubblicato nel Bollettino Ufficiale della Regione Liguria del 4 maggio 2005 come legge regionale 3 maggio 2005, n. 1 (Statuto della Regione Liguria) – rilevava essere venuti meno l’oggetto e i presupposti del ricorso, rinunciando conseguentemente al ricorso.
Più significative, ai fini della individuazione delle peculiarità del procedimento di approvazione dello statuto (e, quindi, anche del giudizio della Corte), sono le sentenze numeri 445 e 469, ambedue rese a proposito di ricorsi promossi ex art. 127 della Costituzione.
La prima ha deciso il ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri avverso l’articolo 3, comma 3, della legge della Regione Liguria 24 dicembre 2004, n. 31 (Norme procedurali per lo svolgimento del referendum previsto dall’art. 123, comma 3, della Costituzione), nella parte in cui prevedeva che le operazioni referendarie di cui all’art. 123, terzo comma, Cost., iniziate prima del giudizio della Corte costituzionale sulla deliberazione statutaria impugnata dal Governo, perdessero efficacia «qualora [venisse] pronunciata l’illegittimità totale della deliberazione statutaria ovvero [venisse] pronunciata l’illegittimità parziale della medesima e le parti dichiarate incostituzionali coincid[essero] con l’oggetto della richiesta referendaria».
Ad avviso del ricorrente, la previsione che potessero esservi richieste referendarie coincidenti con le parti della deliberazione statutaria in ipotesi dichiarate incostituzionali si poneva in contrasto con la previsione costituzionale secondo cui il referendum deve avere ad oggetto soltanto l’intera delibera statutaria e non singole norme o parti di essa.
La Corte, accogliendo la questione, ha evidenziato che «il tenore letterale del terzo comma dell’art. 123 della Costituzione rende palese che il referendum ivi disciplinato si riferisce alla complessiva deliberazione statutaria e non a singole sue parti; pertanto, gli effetti che possono essere prodotti sul procedimento di richiesta di questo tipo di referendum da una eventuale sentenza della Corte costituzionale di accoglimento dei rilievi di costituzionalità sollevati dal Governo con il ricorso di cui al secondo comma dell’art. 123 Cost. non possono subire alcuna differenziazione a seconda dell’ampiezza della dichiarazione di illegittimità costituzionale». Alla luce di ciò, tanto nel caso in cui sia stata dichiarata la illegittimità totale quanto nel caso in cui sia stata dichiarata la illegittimità parziale della deliberazione statutaria, le operazioni del procedimento referendario eventualmente compiute prima del ricorso del Governo non possono non divenire necessariamente inefficaci: ogni pronuncia di accoglimento, infatti, «determina di per sé una mutazione dell’oggetto del referendum, sia nell’ipotesi che successivamente si proceda ad una nuova deliberazione statutaria da parte del Consiglio regionale in conseguenza di una dichiarazione di illegittimità totale o parziale della delibera statutaria, sia nell’ipotesi che si debba semplicemente prendere atto di un effetto meramente demolitorio di parte della deliberazione statutaria prodotto dalla sentenza [della] Corte».
Sulla scorta di questi rilievi di ordine generale, la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 3, della legge regionale della Liguria n. 31 del 2004 è stata peraltro limitata alle sole parole «e le parti dichiarate incostituzionali coincidano con l’oggetto della richiesta referendaria», in quanto erano queste a far erroneamente ritenere ammissibile l’ipotesi di una richiesta referendaria limitata ad alcune delle disposizioni contenute nella deliberazione statutaria (esente da profili di illegittimità era, invece, il riferimento, contenuto nello stesso comma 3 dell’art. 3 della legge regionale, alla dichiarazione di illegittimità costituzionale solo di parte della deliberazione statutaria, «dal momento che anch’essa determinava la necessità che venisse considerato inefficace il precedente procedimento di richiesta referendaria, in quanto concernente un testo statutario diverso da quello risultante dalla pronuncia di accoglimento [della] Corte»).
Di notevole interesse è anche la sentenza n. 469, relativa ai giudizi di legittimità costituzionale della legge della Regione Umbria 16 aprile 2005, n. 21 (Nuovo Statuto della Regione Umbria), e della legge della Regione Emilia-Romagna 31 marzo 2005, n. 13 (Statuto della Regione Emilia-Romagna), promossi con distinti ricorsi del Presidente del Consiglio dei ministri ai sensi dell’art. 127 della Costituzione.
Entrambi i testi statutari erano stati oggetto di precedenti impugnative del Governo, ai sensi dell’art. 123, secondo comma, della Costituzione, e le conseguenti sentenze della Corte numeri 378 e 379 del 2004, accogliendo in minima parte le questioni di legittimità sollevate, avevano dichiarato la illegittimità costituzionale di alcune disposizioni delle due delibere statutarie.
Entrambi i testi non erano stati oggetto di riesame da parte dei rispettivi Consigli regionali tramite la procedura di cui all’art. 123, secondo comma, della Costituzione, ma, dopo una fase di pubblicazione notiziale degli esiti del giudizio di costituzionalità e la riapertura dei termini per l’eventuale richiesta di referendum ai sensi dell’art. 123, terzo comma, erano stati promulgati dai Presidenti delle rispettive Regioni.
A fondamento dell’impugnativa, il Governo negava che si potesse, sulla base dell’art. 123 della Costituzione, procedere alla promulgazione di una delibera statutaria dichiarata parzialmente illegittima senza procedere previamente al suo riesame e ad una nuova approvazione secondo la procedura di cui all’art. 123, secondo comma, della Costituzione (l’asserita illegittimità della procedura di promulgazione seguita dalle Regioni avrebbe inoltre leso – sempre ad avviso del Governo – il diritto degli elettori regionali ad esercitare il potere di richiedere referendum popolare sul testo della deliberazione statutaria).
Entrambi i ricorsi sono stati dalla Corte dichiarati inammissibili, in quanto proposti «non già nell’ambito del procedimento di controllo preventivo di cui all’art. 123, secondo comma, Cost., ma nell’esercizio del potere che l’art. 127, primo comma, Cost. riconosce al Governo di impugnare a posteriori le leggi regionali, quindi assumendo come termine iniziale di riferimento per l’esercizio dell’azione la data della pubblicazione della legge regionale nel Bollettino Ufficiale della Regione interessata».
Nella sentenza si è sottolineato che le due azioni promosse dal Governo contrastavano «con il sistema dei controlli sulle fonti primarie regionali quale attualmente configurato nel Titolo V della Parte II della Costituzione e, specificamente, con le previsioni contenute nell’art. 123, secondo comma, e nell’art. 127, primo comma, che individuano due ben distinte procedure di controllo, mediante ricorso diretto del Governo [alla] Corte, per la legge che adotta lo statuto regionale e per tutte le altre leggi regionali».
Secondo la Corte, «l’esplicita previsione di uno speciale e meno favorevole (perché preventivo) sistema di controllo sulla legge statutaria comporta che a questa legge, una volta promulgata e pubblicata nel Bollettino Ufficiale, non possa applicarsi anche il controllo successivo previsto per le altre leggi regionali dall’art. 127, primo comma, Cost.»; d’altra parte, «è tutto il disegno costituzionale relativo alle forme di autonomia delle Regioni che, nel silenzio delle disposizioni costituzionali, si pone come ostacolo ad una estensione di forme di controllo tipiche di una fonte legislativa ad un’altra».
Ad evitare lacune nel sistema delle garanzie, la Corte ha rilevato che «il controllo preventivo di cui al secondo comma dell’art. 123 Cost. è senz’altro reiterabile […], seppure solo a certe condizioni, così come nel passato, nel vigore del previgente art. 127 Cost., era ben nota la possibilità di una nuova impugnativa (per quanto limitata) da parte del Governo delle leggi regionali rideliberate dal Consiglio regionale dopo il primo rinvio governativo»: non può escludersi, infatti, che «il testo della deliberazione statutaria, già sottoposto ad un primo scrutinio [della] Corte, venga successivamente modificato ad opera del Consiglio regionale e che questo nuovo testo susciti dubbi di legittimità costituzionale sul piano sostanziale in relazione alle nuove disposizioni, con la conseguente possibilità per il Governo di promuovere una nuova impugnazione limitatamente alle norme che non avrebbero potuto formare oggetto del precedente ricorso; analogamente, non può escludersi per il Governo la possibilità di presentare un nuovo ricorso facendo valere eventuali vizi formali relativi al procedimento di adozione dello statuto e successivi al primo giudizio di questa Corte». Come è chiaro, anche in questi casi, il dies a quo per l’azione del Governo «non potrebbe che essere costituito dalla data della necessaria pubblicazione notiziale, ad opera della Regione, dell’atto da cui risult[asse] il testo statutario che la Regione intenda deliberato come definitivo».
In entrambi i casi di specie la suddetta seconda pubblicazione notiziale si era verificata, ed era dunque evidente che il Governo avrebbe potuto promuovere il ricorso di cui al secondo comma dell’art. 123, sollevando le questioni di legittimità costituzionale oggetto dei giudizi nel termine dei trenta giorni successivi alle suddette pubblicazioni notiziali, termine che era invece ampiamente scaduto al momento della proposizione dei due ricorsi avverso le leggi di adozione degli statuti in questione.
Conclusivamente, si osservava che «la tipicità dell’azione prevista dall’art. 123, secondo comma, Cost. e la conseguente inutilizzabilità del ricorso ex 127, primo comma, Cost., per le deliberazioni di adozione delle leggi statutarie non esclude […] che possa impugnarsi la promulgazione e la successiva vera e propria pubblicazione di un testo statutario in ipotesi incostituzionale per vizi non rilevabili tramite il procedimento di cui all’art. 123, secondo comma, Cost.»; «in simili casi (peraltro senza dubbio marginali) al Governo resta comunque la eventuale possibilità di utilizzare lo strumento del conflitto di attribuzione, analogamente a quanto nel passato si è ammesso per le ipotesi, in qualche misura analoghe, concernenti la asserita lesione dei poteri governativi relativi al controllo preventivo sulle leggi regionali ai sensi del previgente art. 127 Cost. (sentenza n. 40 del 1977)».
 

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