Desidero anzitutto ringraziare gli organi di informazione non solo per la loro presenza all’odierna conferenza stampa ma anche per la continua attenzione che dedicano all’attività della Corte costituzionale e per il contributo che in tal modo danno al radicamento nella coscienza degli italiani di quella legalità costituzionale sulla quale riposa il sistema democratico del nostro Paese.

Voglio, poi, precisare che mi asterrò, in questa esposizione introduttiva, dalla citazione delle singole decisioni che la Corte ha reso – ed anche su temi di particolare interesse – durante lo scorso anno. E ciò perché si tratta di decisioni che voi giornalisti conoscete talmente bene da renderne inutile una ulteriore menzione, specie considerando la possibilità di consultazione della relazione scritta che vi è stata consegnata.

Mi soffermerò, invece, su taluni dati relativi all’attività della Corte che, come si vedrà, offrono, proprio per la loro novità, materia di utile riflessione.

E dico subito che uno dei dati più significativi è quello relativo ai tempi di decisione che sono, mediamente, da quando la Corte è investita di un giudizio a quando il giudizio viene deciso, di poco superiori all’anno, senza mai assumere quegli aspetti patologici di durata che devono essere ormai considerati contra legem e precisamente contro il principio, espressamente posto dall’ordinamento costituzionale ed europeo, della ragionevole durata del processo.

Si può, dunque, affermare che l’equazione “giustizia lenta è giustizia denegata” vale, per la giustizia costituzionale, soltanto in positivo nel senso cioè che “giustizia rapida è giustizia concessa”.

Lo stare al passo con i carichi di lavoro che alla Corte giungono non sempre è facile e – soprattutto – non sempre è possibile.
Si ricorda spesso, nella storia della Corte, la fase critica a cavallo tra gli anni settanta e gli anni ottanta, quando la giurisprudenza costituzionale, dopo un periodo di impasse derivante da giudizi di particolare lunghezza, dovette far fronte ad un arretrato considerevolmente ingente, «smaltito» in maniera definitiva tra il 1988 ed il 1989. In termini assai meno pronunciati, una piccola fase di impasse è stata vissuta tra il 2002 ed il 2004, allorché la Corte è stata chiamata a risolvere il contenzioso sorto a seguito della riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione. La novità e la difficoltà di molte delle questioni pervenute hanno obbligato allora i giudici della Corte «a prendersi un po’ di tempo», a decidere «meno» per decidere «meglio», perché si è avvertito che soltanto così facendo sarebbe stato scongiurato l’esito (solo apparentemente) paradossale sintetizzabile nella parafrasi della equazione appena ricordata: «giustizia rapida è (talvolta) giustizia denegata».

Nel 2005 (ma, in parte, già nel 2004), sono maturati i frutti dell’approfondimento di studio sulle problematiche inerenti ai rapporti tra lo Stato e le Regioni. La Corte ha potuto fondarsi sul bagaglio giurisprudenziale elaborato, ed ha così ripreso a lavorare «a pieno regime», smaltendo quel piccolo «arretrato» che era andato formandosi. Una valenza simbolica, in tal senso, è quella delle decisioni rese, nell’anno appena trascorso, con riferimento a cause radicatesi anteriormente alla riforma del Titolo V, le quali hanno esaurito un contenzioso che vedeva ancora l’applicazione nel testo originario delle disposizioni costituzionali sui rapporti tra i diversi enti territoriali.

Va, infine, detto – per evitare improprie enfatizzazioni delle capacità di lavoro della Corte – che i risultati conseguiti in termini di efficienza della giustizia costituzionale ed ai quali si è fatto rapido cenno sono stati resi possibili dal concorrere di diverse ragioni ed in primo luogo dalla stessa peculiare struttura del giudizio dinanzi alla Corte costituzionale.

Nel giudizio incidentale, infatti, i giudici ordinari svolgono una preziosa funzione di filtro, sottoponendo alla Corte solamente le questioni che siano rilevanti nel giudizio di merito e non manifestamente infondate. Si evita in tal modo che i ruoli della Corte siano congestionati da una grande quantità di questioni prive di qualsiasi consistenza come accade in quegli ordinamenti nei quali esiste l’accesso diretto alla giustizia costituzionale e come accadrebbe anche da noi qualora si introducesse, accogliendo ricorrenti proposte riformatrici, tale tipo di accesso senza adeguati filtri selettivi.

Per quanto riguarda, invece, i conflitti ed i ricorsi in via principale è lo stesso ridotto numero dei soggetti legittimati a ricorrere alla Corte ad impedire che il contenzioso possa assumere proporzioni eccessivamente rilevanti in termini numerici.

Il limitato numero dei giudizi è, dunque, la condizione prima per una giustizia rapida ed efficiente, mentre tutto ciò che contribuisce ad accrescere il numero dei giudizi finisce, inevitabilmente, per tradursi in un ostacolo di fatto allo svolgimento dei giudizi stessi.

Non va taciuto, poi, che a rendere possibile una elevata produttività della giustizia costituzionale concorrono le strutture, particolarmente efficienti, ed i collaboratori, tutti di elevata professionalità e di grande capacità di lavoro, di cui i giudici costituzionali possono avvalersi nello svolgimento della loro attività.

Ed è a tutti i collaboratori dei giudici, tra i quali voglio menzionare il Segretario generale, i bravissimi assistenti, i Direttori dei servizi, il personale delle segreterie, gli impiegati ed operai, il corpo dei carabinieri ed i vigili del fuoco, che va dunque il saluto grato e memore di chi ha oggi l’onore di parlare.
Un altro aspetto che va sottolineato nella giurisprudenza della Corte è l’alta incidenza di decisioni meramente processuali, cioè di inammissibilità o di manifesta inammissibilità della questione; decisioni che nel giudizio in via incidentale sono state nel 2005 oltre il 38% del totale.

Sarebbe sicuramente sbagliato interpretare questo dato come sintomatico di una qualche propensione della Corte ad evitare di pronunciarsi nel merito, dinanzi a questioni ritenute “scomode”, rifugiandosi in una più comoda decisione in rito.
Ogni decisione di inammissibilità è vissuta, dai giudici della Corte, come una sconfitta.

Una sconfitta perché testimonia della insufficiente diffusione della conoscenza relativa alle tecniche di instaurazione del giudizio; una sconfitta perché è d’uopo constatare che i meccanismi del processo costituzionale sono stati fatti «girare a vuoto»; ma, soprattutto, una sconfitta perché irregolarità di natura formale impediscono di affrontare una questione che, nei suoi contenuti, ha sempre una grande importanza, la grande importanza che discende dall’esistenza di persone la cui condizione dipende proprio dalla risoluzione di quella questione.

Ma, quando ricorrono ipotesi di inammissibilità, la Corte non può fare «finta di niente». La Corte non può ignorare la «forma» per concentrarsi unicamente sulla «sostanza», dimenticandosi che esiste un «processo» costituzionale, che questo processo ha le sue regole e che questo processo, per essere tale, deve essere «giusto». Se il compito della Corte è quello di difendere le regole costituzionali, rientra in questo compito anche quello di difendere le regole che presiedono al processo costituzionale.

E non si tratta di pura «forma»: una questione inammissibile è una questione di costituzionalità che è stata sollevata in modo errato, e gli errori compiuti sono tali da rendere opaco il quadro entro il quale la Corte è chiamata a pronunciarsi. Non casualmente, quando il quadro è sufficientemente preciso, la Corte supera eventuali piccoli errori, proprio al fine di rendere giustizia sul caso che le viene sottoposto; ma quando gli errori sono tali da rendere il quadro troppo oscuro, ogni azione della Corte che mirasse a superare gli ostacoli formali si risolverebbe in una azione arbitraria, perché non sarebbe più il giudice a sollecitare l’intervento della Corte su un determinato problema, ma sarebbe la Corte stessa ad individuare il problema da risolvere.

Occorre, invece, ricordare che la Corte costituzionale ha un ruolo estremamente delicato nel sistema costituzionale, essendo ad essa riconosciuto, tra gli altri, il potere di eliminare dall’ordinamento norme che pure sono state approvate dal Parlamento. Proprio la delicatezza di tale potere impone che esso sia esercitato nel più scrupoloso rispetto delle regole processuali che disciplinano il giudizio di legittimità costituzionale, dichiarando perciò, a prescindere da ogni valutazione di merito, inammissibili le questioni ogni qual volta l’atto di rimessione non corrisponda pienamente ai criteri stabiliti dalla legge.

C’è da dire piuttosto, a tale riguardo, che l’elevato numero di decisioni di inammissibilità deriva prevalentemente dalla scarsa conoscenza – specie da parte dei giudici non professionali – delle regole proprie della giustizia costituzionale. Da qui la necessità di conseguire un risultato particolarmente importante: quello di far conoscere la giustizia costituzionale.

La Corte può perseguirlo facendo parlare le proprie decisioni: è lo strumento principale – probabilmente, l’unico vero strumento – che l’ordinamento giuridico le offre.

Ma la Corte, da sola, non basta. Come avvenne in passato per la diffusione dei valori costituzionali, è indispensabile che alla Corte si affianchino le istituzioni, la società, i giudici.

Le istituzioni debbono promuovere una vera e propria cultura della giustizia costituzionale, che non è – potrebbe dirsi in modo alquanto semplicistico – la cultura «di ciò che dice la Corte», ma è la cultura «di come i principi costituzionali sono concretizzati», di quale sia il loro significato profondo e di quali siano le modalità attraverso cui proteggerli e svilupparli.

Il riferimento alle «istituzioni» non è limitato alle sole istituzioni politiche, nazionali, regionali e locali, ma si estende anche a quelle universitarie, nell’auspicio che gli insegnamenti di giustizia costituzionale vengano potenziati, ed a quelle scolastiche, alle quali si chiede di diffondere con sempre maggiore impegno la cultura della Costituzione, per ciò che essa dice e per come essa vive. In questa prospettiva, anche alla comunità scientifica è richiesto un incessante sforzo di divulgazione all’interno della società di quei valori e di quei principi che, nati per essere «di tutti», non tollerano di essere gelosamente coltivati all’interno di ristrette cerchie culturali.

Infine, ai giudici, a tutti i giudici, ordinari e speciali, professionali ed onorari, che tanto si sono prodigati per fare della Costituzione il punto di riferimento irrinunciabile della vita dell’ordinamento giuridico, si chiede di impegnarsi affinché la Costituzione, per come essa vive nella giurisprudenza costituzionale, vada sempre più a permeare di sé l’intero ordinamento giuridico.

E non è senza significato che, nel quadro delle celebrazioni per il cinquantesimo anniversario di attività della Corte, siano stati banditi 10 premi per tesi di laurea su temi attinenti alla giustizia costituzionale. Premi che saranno consegnati nel corso di una solenne cerimonia che si terrà in Campidoglio il 22 aprile del corrente anno.

Un certo numero di decisioni di inammissibilità risulta poi motivato dal fatto che le questioni sollevate investono valutazioni discrezionali del legislatore e dimostrano come la Corte sia stata sempre consapevole dei limiti rigorosi che si pongono al suo sindacato e che non si possono superare senza tradire ad un tempo la funzione della Corte e le ragioni della sua stessa esistenza.

C’è un ulteriore aspetto che merita di essere sottolineato nella giurisprudenza della Corte e che si collega a quanto sin qui detto sulla discrezionalità legislativa quale limite che la Corte pone al suo sindacato di legittimità.

La Corte, infatti, avverte tutto il peso che ha la dichiarazione di incostituzionalità di una disposizione legislativa e proprio per questo ricorda spesso ai giudici che le leggi non si dichiarano incostituzionali se esiste la possibilità di dar loro un significato che le renda compatibili con i precetti costituzionali e che, pertanto, la dichiarazione di illegittimità costituzionale deve essere la soluzione ultima cui si fa luogo quando tutte le altre strade sono precluse.

Così come impropria e fuorviante, e perciò inammissibile, risulta la prospettazione in termini di legittimità costituzionale di una questione puramente interpretativa, in quanto tale rimessa alla valutazione propria del giudice che è chiamato ad applicare concretamente la norma e che non può sollecitare un controllo sulla sua astratta conformità a Costituzione.

Qualche parola va poi spesa riguardo alla funzione – che negli ultimi anni è andata assumendo un rilievo sempre maggiore – della Corte costituzionale quale arbitro dei conflitti, sia tra Stato e Regioni sia tra poteri dello Stato.

Per quanto riguarda in particolare i conflitti tra Stato e Regioni ed i ricorsi in via principale proposti dallo Stato contro leggi regionali o dalle Regioni contro leggi statali è da segnalare che le decisioni sui due gruppi di giudizi hanno rappresentato quasi il 25% del totale delle decisioni della Corte e che in essi è stata resa la maggior parte delle sentenze (rispettivamente 14 e 85 mentre le sentenze pronunciate nei giudizi in via incidentale sono state soltanto 80), con un marcato allontanamento dal passato, che vedeva il giudizio in via incidentale come il giudizio centrale nel sistema italiano di giustizia costituzionale. Sicché, alla sua funzione istituzionalmente primigenia di Corte dei diritti, propria della nostra Corte costituzionale, si è venuta ad affiancare, in misura numericamente paritetica se non ormai prevalente, l’altra e non meno importante funzione di Corte dei conflitti. Anche se la contrapposizione tra Corte dei diritti e Corte dei conflitti è molto meno netta di quanto possa sembrare a prima vista.

La causa della consistenza numerica del contenzioso tra Stato e Regioni deve correttamente individuarsi non già in un accresciuto spirito di conflittualità di tali enti, bensì in un fisiologico processo di assestamento conseguente alle modifiche apportate al Titolo V della Costituzione. Il cambiamento delle regole di riparto della competenza legislativa e della diversa allocazione delle funzioni amministrative ha prodotto inevitabili contrasti interpretativi, che hanno a loro volta determinato un aumento del contenzioso. E’ prevedibile comunque che il progressivo consolidarsi della giurisprudenza sugli aspetti più controversi del nuovo assetto costituzionale abbia l’effetto di produrre una rapida diminuzione di tale conflittualità.

Riguardo ai conflitti tra poteri dello Stato, la parte numericamente più rilevante riguarda i conflitti tra parlamento e potere giudiziario nei quali si controverte se le dichiarazioni dei parlamentari, astrattamente lesive dell’onore e della reputazione dei terzi, siano state rese nell’esercizio della funzione parlamentare e siano quindi insindacabili in sede giudiziaria ai sensi dell’art. 68 della Costituzione.

E il punto più delicato consiste proprio nei criteri per definire l’ambito proprio della funzione parlamentare e conseguentemente l’ambito dell’insindacabilità delle dichiarazioni rese nell’esercizio della attività parlamentare.

D’altra parte, il consolidarsi della giurisprudenza costituzionale in materia e la progressiva presa di coscienza dei limiti propri dell’insindacabilità sono fattori che prevedibilmente comporteranno, nell’immediato futuro, una drastica riduzione di tale tipo di conflitti, con evidente ulteriore beneficio sui tempi della giustizia costituzionale.

Un ultimo punto sul quale ritengo doveroso soffermarmi riguarda i rapporti tra la giurisprudenza costituzionale ed il diritto sovranazionale.

La Convenzione europea dei diritti dell’uomo e l’Unione europea sono oggi realtà consolidate, realtà imprescindibili, realtà che impongono un ripensamento di molti concetti – giuridici e non giuridici – che ci provengono dalla tradizione.

Di fronte ai mutamenti, che a buon diritto possono dirsi «epocali», derivanti dall’emergere di organismi sovranazionali, due erano gli atteggiamenti che si sarebbero potuti adottare: da un lato, quello di trincerarsi dietro un (magari inespresso) rifiuto delle novità, alimentato dal costante richiamo alla calda linearità delle dottrine consegnateci dal passato, dall’altro quello di accettare la «sfida», di accettare il cambiamento entrando a farne parte.

Per la Corte costituzionale, la scelta della prima strada avrebbe significato un tranquillo mantenimento del ruolo conquistato negli anni. Ma la Corte costituzionale non voleva e non poteva accontentarsi di salvaguardare le sue prerogative. Non voleva e non poteva perché il ruolo della Corte altro non è se non quello di difendere la Costituzione. Ed in un ordinamento complesso, in un ordinamento – come si suol dire – «multilivello», la difesa della Costituzione passa anche attraverso la partecipazione attiva alla formazione di un diritto costituzionale europeo nel quale la Costituzione italiana abbia lo spazio e la posizione che le competono.

Si badi bene che l’alternativa non è tra la difesa dell’identità della Costituzione italiana (e dunque, in ultima analisi, della Repubblica italiana) e lo scolorirsi di questa identità all’interno di un processo più ampio, di cui l’Italia è soltanto una delle parti: la sfida che la Corte ha raccolto è proprio quella di salvaguardare l’identità della Costituzione italiana, senza chiudere le porte che danno verso l’esterno, ma anzi aprendole e cercando un dialogo sempre più stretto e sempre più fecondo con i principali interlocutori, che nel caso della Corte costituzionale sono la Corte di giustizia delle Comunità europee (la Corte di Lussemburgo) e la Corte europea dei diritti dell’uomo (la Corte di Strasburgo).

Questo dialogo è fatto di confronti, di interazione e – perché negarlo? – anche di momentanei contrasti e duraturi chiarimenti. È un dialogo in cui la Corte costituzionale elabora una giurisprudenza che si arricchisce degli spunti offerti dalla giurisprudenza delle due corti europee ed in cui le due corti europee elaborano una giurisprudenza che si nutre delle soluzioni che emergono nei vari diritti costituzionali nazionali.

In questa interazione, la Corte costituzionale si è adoperata e si adopera affinché il diritto sovranazionale penetri come deve all’interno dell’ordinamento giuridico italiano, senza stravolgerlo, ma arricchendolo e completandolo, nella piena consapevolezza della grande ricchezza rappresentata dall’integrazione europea.

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