[A cura di M. Bellocci e P. Passaglia]
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
1. Premessa
Nelle pagine che seguono, si passano in rassegna le decisioni che hanno riguardato il sistema delle autonomie territoriali all’interno della Repubblica, rese fondamentalmente in sede di giudizio di legittimità costituzionale in via principale, ma anche in sede di conflitto tra Stato e Regioni, nonché, sia pure in minima parte, a seguito di questioni di legittimità costituzionale sollevate in via incidentale.
Si tratta di un gran numero di decisioni, molte delle quali coinvolgenti una molteplicità di profili: alla luce di ciò, le decisioni di più ampio respiro sono state sovente (parzialmente) frammentate in diversi paragrafi, nella prospettiva di un più immediato riscontro relativo alla ratio decidendi sui singoli profili.
 
2. La legislazione regionale ed i vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario
Con riferimento ai vincoli che si impongono al legislatore regionale (oltre che a quello statale) in relazione alla partecipazione dell’Italia al processo di integrazione comunitaria, di particolare importanza è la sentenza n. 406.
La Corte dichiara l’incostituzionalità degli articoli 1 e 2 della legge della Regione Abruzzo 1° aprile 2004, n. 14, nei quali si prevede la sospensione sino al 31 dicembre 2004 della campagna di profilassi della «blue tongue» (febbre catarrale degli ovini), e si consente, per lo stesso periodo, «in deroga ad ogni altra contraria disposizione», la movimentazione, la commercializzazione e la macellazione, nell’ambito del territorio regionale, dei capi animali non vaccinati.
La pronuncia si segnala perché la illegittimità si fonda sull’esplicito contrasto con la normativa comunitaria, risultando così violato il primo comma dell’art. 117 della Costituzione e restando assorbiti gli altri profili di censura, che evocavano la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di «profilassi internazionale» e di «tutela dell’ambiente e dell’ecosistema».
A tanto la Corte perviene esaminando la direttiva n. 2000/75/Ce, dove si prevede una molteplicità di misure precauzionali e, in particolare, ove si abbiano documentate conferme di animali affetti dal virus, si disciplina – tra l’altro – la delimitazione di zone di protezione e zone di sorveglianza, il censimento degli animali morti, o suscettibili di essere infetti, il divieto di movimento di questi animali, la possibilità di abbattimenti di capi, la distruzione dei loro cadaveri, la possibilità di vaccinazioni obbligatorie.
Inoltre, l’attuazione della direttiva è in larga parte affidata alla Commissione, ed in effetti la Corte ha modo di riscontrare una molteplicità di atti comunitari di esecuzione in corrispondenza alle diverse fasi di diffusione della malattia; in particolare, la Corte rinviene una serie di decisioni della Commissione europea, che disciplinano i limiti alla possibilità di movimento degli animali o di loro parti, nonché le possibili eccezioni. In quest’ambito, parti del territorio abruzzese sono state individuate come sottoposte a queste limitazioni. Aggiungasi, in riferimento alle vaccinazioni, la decisione n. 2001/141/Ce del 20 febbraio 2001, che ha previsto che lo Stato italiano realizzi un programma di vaccinazione nelle aree nelle quali erano stati rilevati focolai di febbre catarrale degli ovini.
Pertanto, per la Corte non vi è dubbio che le disposizioni della legge regionale in esame si pongano in palese contrasto con alcune delle prescrizioni fondamentali della normativa europea di cui alla direttiva n. 2000/75/Ce del 20 novembre 2000, così ponendo anche a rischio la complessiva opera di profilassi a livello europeo. Né è certo sostenibile – come argomentato dalla difesa regionale – che la disapplicazione all’interno di un’area regionale della normativa sopranazionale non incida sulla sua complessiva efficacia, che evidentemente presuppone una uniformità di comportamenti per ridurre i rischi di contagio.
Risulta, infine, inconferente il tentativo della difesa regionale di utilizzare il principio comunitario di precauzione, il quale rappresenta un criterio direttivo che deve ispirare l’attuazione delle politiche ambientali della Comunità europea sulla base di dati scientifici sufficienti e attendibili valutazioni scientifiche circa gli effetti che possono essere prodotti da una determinata attività, ma non può certo essere addotto dai destinatari di una normativa comunitaria ad esso ispirata per negarle attuazione.
Altra decisione di interesse, ai presenti fini, è la sentenza n. 150, in cui la Corte esamina i ricorsi del Governo avverso la legge della Regione Puglia 4 dicembre 2003, n. 26, e la legge della Regione Marche 3 marzo 2004, n. 5, in quanto stabilirebbero «un divieto generalizzato di coltivazione di piante e di allevamento di animali geneticamente modificati o di ogni altro tipo di ogm», ponendosi così in contrasto con l’art. 22 della direttiva 2001/18/Ce, la cui portata normativa è dalla difesa erariale ricostruita nel senso che in esso si stabilirebbe il principio della libera circolazione e l’impossibilità, per gli Stati membri, di vietare, limitare o impedire l’immissione in commercio di ogm, come tali o contenuti in prodotti, conformi ai requisiti della direttiva stessa. Le leggi regionali sarebbero altresì contrastanti con l’art. 23 della citata direttiva 2001/18/Ce e con l’art. 25 del decreto legislativo 8 luglio 2003, n. 224, i quali conterrebbero «una clausola di salvaguardia», in base alla quale solo le previste autorità competenti potrebbero bloccare, ricorrendo gli specifici presupposti e con le modalità previste, la circolazione sul proprio territorio di un prodotto contenente ogm ritenuto pericoloso, avviando una serie di consultazioni al termine delle quali la Commissione Ue dovrebbe decidere sulla fondatezza delle misure unilaterali di salvaguardia, ripristinando un eguale livello di protezione all’interno della Comunità, ovvero invitando lo Stato che le abbia adottate ad abrogarle ed a ripristinare la libera circolazione del prodotto sul proprio territorio.
In ragione di queste argomentazioni, le due leggi regionali violerebbero, in definitiva, l’art. 117, primo comma, della Costituzione, nonché la competenza esclusiva statale in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema di cui all’art 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione.
La Corte dichiara l’inammissibilità dei ricorsi governativi in conseguenza di una evidente erronea indicazione delle norme interposte che dovrebbero dimostrare la illegittimità costituzionale delle disposizioni regionali. Nella decisione si motiva che la direttiva europea 2001/18/Ce, al fine del ravvicinamento delle «legislazioni degli Stati membri riguardanti l’immissione deliberata nell’ambiente di ogm ed al fine di garantire il corretto sviluppo dei prodotti industriali che utilizzano ogm», riguarda l’emissione deliberata nell’ambiente degli organismi geneticamente modificati e la loro immissione in commercio; l’art. 2 della legge della Regione Puglia n. 26 del 2003 e l’art. 2 della legge della Regione Marche n. 5 del 2004 si riferiscono, invece, soltanto alla coltivazione di prodotti agricoli o all’allevamento di animali geneticamente modificati.
Le norme interposte che sarebbero state specificamente violate dalle disposizioni impugnate – e cioè gli articoli 22 e 23 della direttiva 2001/18/Ce e l’art. 25 del d.lgs. n. 224 del 2003 – si riferiscono esclusivamente al commercio degli alimenti contenenti organismi geneticamente modificati: sia la direttiva europea che il d.lgs. n. 224 del 2003 distinguono nettamente la disciplina della «emissione deliberata di ogm per qualsiasi fine diverso dall’immissione in commercio» da quella concernente la «immissione in commercio di OGM come tali o contenuti in prodotti». La asserita violazione del primo comma dell’art. 117 Cost. da parte di disposizioni delle leggi regionali impugnate, che riguardano soltanto tipiche forme di immissioni di ogm nei settori dell’agricoltura e della zootecnia, non può dunque conseguire alla violazione di disposizioni che regolano il diverso profilo della immissione in commercio di ogm.
Lo stesso riferimento alla presunta violazione da parte delle disposizioni regionali impugnate della competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela dell’ambiente viene solo accennata in relazione al presunto contrasto delle discipline impugnate con i poteri riconosciuti al Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio per l’attuazione delle prescrizioni contenute nella direttiva europea e nella legislazione nazionale. La genericità e l’incompiutezza della censura rendono, anche per questa parte, il ricorso inammissibile.
 
3. Il riparto di competenze legislative
La massima parte delle decisioni che la Corte ha reso relativamente al Titolo V della Parte seconda della Costituzione riguarda, come è chiaro, il riparto di competenze tra lo Stato e le Regioni. Nella giurisprudenza del 2005, sono stati ripresi molti principî già enucleati nel recente passato (come, ad esempio, quello secondo cui, onde individuare i contenuti delle «materie» utili elementi possono trarsi anche dalla normativa precedente al 2001: così la sentenza n. 26) e se ne sono ricavati, dal sistema, di nuovi.
 
3.1. Le materie di competenza esclusiva dello Stato
Attraverso le proprie pronunce, la Corte interviene – più o meno incisivamente – su quasi tutti i titoli competenziali previsti all’art. 117, secondo comma, della Costituzione.
 
3.1.1. "Politica estera"
La sentenza n. 449 affronta, tra le altre, una questione concernente la portata dell’art. 117, secondo comma, lettera a), relativamente alla materia «politica estera».
Con una interpretazione conforme a Costituzione, la Corte dirime il dubbio di costituzionalità sollevato dalla ricorrente Regione Emilia – Romagna avverso l’art. 3, comma 43, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, che attribuisce al Ministro degli affari esteri la competenza ad emanare disposizioni per «razionalizzare i flussi di erogazione finanziaria e per semplificare le procedure relative alla gestione delle attività di cooperazione internazionale, con particolare riferimento alle procedure amministrative relative alle organizzazioni non governative». Ritiene, in proposito, la Corte che tale disposizione, non contenendo alcun riferimento testuale alle Regioni quali soggetti attivi della cooperazione internazionale, ben può essere intesa nel senso che il citato potere del Ministro degli affari esteri di emanare un regolamento riguardi soltanto l’attività di cooperazione internazionale dello Stato, e non anche quella delle Regioni. Così interpretata, la disposizione impugnata va ascritta alla materia politica estera, di competenza esclusiva statale ex art. 117, secondo comma, lettera a), non risultando così lesiva dell’autonomia regolamentare nella materia – di legislazione concorrente – dei rapporti internazionali delle Regioni né della loro autonomia amministrativa e finanziaria.
 
3.1.2. "Immigrazione"
Con riferimento alla materia «immigrazione», di cui all’art. 117, secondo comma, lettera b), della Costituzione, deve segnalarsi, in primo luogo, la sentenza n. 50, nella quale si rileva che vanno ricondotte a tale materia, in cui allo Stato è riconosciuta competenza esclusiva, le funzioni amministrative relative alla gestione dei flussi di entrata dei lavoratori non appartenenti all’Unione europea e all’autorizzazione per attività lavorative all’estero.
Con la sentenza n. 201 si dichiara che le competenze statutarie della Provincia di Bolzano non risultano violate dalle disposizioni, dettate dal decreto legge 9 settembre 2002, n. 195 (art. 1, commi 1, 4 e 5), in materia di legalizzazione del lavoro irregolare di extracomunitari.
La normativa censurata va, infatti, ricondotta alla materia dell’immigrazione, e non è dunque contemplata tra le attribuzioni statutarie della Provincia ricorrente.
Le disposizioni impugnate, motiva la Corte, disciplinano un particolare procedimento di legalizzazione del lavoro irregolare degli immigrati extracomunitari per i casi di mancanza od invalidità del permesso di soggiorno, senza incidere né sulla disciplina generale della regolarizzazione del lavoro in quanto tale, né sulle competenze legislative statutarie. Esse delineano un procedimento unitario, volto, attraverso il coessenziale apporto delle competenze di due organi dell’amministrazione periferica dello Stato (la Prefettura – Ufficio territoriale del Governo e la Questura), a disciplinare il soggiorno dei lavoratori clandestini extracomunitari ed a legalizzarne contestualmente il lavoro, e dunque a regolare aspetti caratteristici della materia dell’immigrazione, di esclusiva competenza legislativa dello Stato.
La Corte esclude, contestualmente, la denunciata interferenza tra la disciplina censurata e le competenze amministrative riconosciute alla Provincia ricorrente dall’articolo 16 dello statuto speciale. Tale norma, che pone un necessario parallelismo fra competenze legislative e competenze amministrative, non è infatti operante per la rilevata mancanza di competenze legislative statutarie della Provincia in materia di immigrazione.
Con la sentenza n. 300, la Corte non condivide le censure proposte dallo Stato avverso gli articoli 3, comma 4, lettera d), e comma 5; 6, 7 e 10 della legge della Regione Emilia-Romagna 24 marzo 2004, n. 5 (in tema di «integrazione sociale dei cittadini stranieri immigrati»), sull’assunto che tali norme, concernendo l’immigrazione, il diritto di asilo e la condizione giuridica di cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea, disciplinerebbero materie riservate alla legislazione esclusiva statale che non tollerano intrusioni legislative regionali. Al riguardo, la Corte ricorda che il t.u. sulla disciplina dell’immigrazione di cui al d. lgs. 25 luglio 1998, n. 286, regola la materia dell’immigrazione e la condizione giuridica degli stranieri prevedendo che una serie di attività pertinenti la disciplina del fenomeno migratorio e dei suoi effetti sociali vengano esercitate dallo Stato in stretto coordinamento con le Regioni, alle quali sono direttamente affidate alcune competenze, secondo criteri che tengono conto del fatto che l’intervento pubblico non si limita al doveroso controllo dell’ingresso e del soggiorno degli stranieri sul territorio nazionale, ma riguarda necessariamente altri ambiti, dall’assistenza all’istruzione, dalla salute all’abitazione, materie che intersecano competenze dello Stato con altre regionali, in forma esclusiva o concorrente. In tale quadro normativo, non è dato ravvisare la violazione, da parte della legge della Regione Emilia-Romagna, delle competenze esclusive statali, in quanto il denunciato art. 3, comma 4, lettera d), in base al quale la Regione svolge attività di osservazione e monitoraggio, «per quanto di competenza ed in raccordo con le prefetture», del funzionamento dei centri di permanenza temporanea di cui all’art. 14 del d.lgs. n. 286 del 1998, non contiene alcuna disciplina dei centri in contrasto con quella statale che li ha istituiti, limitandosi a prevedere la possibilità di attività rientranti nelle competenze regionali, quali l’assistenza in genere e quella sanitaria in particolare, secondo modalità tali da impedire comunque indebite intrusioni; inoltre, gli articoli 6 e 7 della legge regionale, che disciplinano le forme partecipative degli stranieri nella Consulta regionale per l’integrazione sociale dei cittadini stranieri immigrati costituiscono la attuazione delle disposizioni statali che prevedono forme di partecipazione dei cittadini stranieri soggiornanti regolarmente nel Paese alla vita pubblica locale, senza disciplinare in alcun modo la condizione giuridica dei cittadini extracomunitari, né il loro diritto di chiedere asilo, affidati alla sola legge statale; anche l’art. 10 della legge, che attribuisce ai cittadini stranieri immigrati la possibilità di accedere ai benefici previsti dalla normativa in tema di edilizia residenziale pubblica, si limita a disciplinare, nel territorio regionale, un diritto già riconosciuto in via di principio dal t. u. del 1998. Quanto all’art. 3, comma 5, della legge, per cui la Regione esercita i poteri sostitutivi nei confronti degli enti locali inadempienti secondo le modalità previste dalla vigente disciplina regionale, la disposizione è immune da censura, perché l’inadempimento da parte degli enti locali si riferisce chiaramente alle attività che la legge regionale affida agli enti locali, sicché l’indicazione a parametro dell’art. 120 Cost., evocato dal ricorrente, è inconferente, atteso che la norma costituzionale riguarda espressamente il potere sostitutivo straordinario statale.
 
3.1.3. "Difesa"
Nella sentenza n. 431, la Corte esamina i ricorsi del Presidente del Consiglio dei ministri avverso la legge della Provincia autonoma di Bolzano 19 ottobre 2004, n. 7, che reca disposizioni per la valorizzazione nella Provincia del servizio civile volontario e avverso la legge della Regione Marche 23 febbraio 2005, n. 15, che istituisce il sistema regionale del servizio civile. Le doglianze si incentrano essenzialmente su una pretesa invasione della competenza statale là dove diverse disposizioni, esorbitando dalla competenza provinciale e regionale, inciderebbero su aspetti organizzativi e procedurali del servizio civile nazionale, anziché limitarsi alla disciplina delle concrete attività in cui questo si sostanzia.
Richiamandosi alle principali affermazioni contenute nella sentenza n. 228 del 2004, la Corte esamina le singole censure, ravvisando una prima incostituzionalità nell’art. 2, comma 1, lettera a), della legge della Provincia autonoma di Bolzano n. 7 del 2004, che ai fini della valorizzazione del servizio civile volontario «dietro compensi, crediti e benefici», fa riferimento al servizio civile nazionale per un periodo da sei a dodici mesi anziché attenersi alla durata complessiva del servizio civile nazionale prevista dalla legislazione statale (art. 3, comma 3, del decreto legislativo n. 77 del 2002), fissato in un periodo di dodici mesi, con ciò incidendo su uno degli aspetti attinenti alla organizzazione del servizio, di esclusiva competenza dello Stato.
Non contrastano, invece, con i parametri costituzionali evocati dallo Stato le disposizioni della legge della Provincia di Bolzano e della legge della Regione Marche, che disciplinano tanto il potere di programmazione, anche per il tramite della fissazione di linee guida, e di vigilanza, quanto quello di dettare criteri per l’approvazione dei progetti di sevizio civile, in quanto, in questo ambito, sia la Provincia autonoma sia la Regione hanno piena competenza nella disciplina del «proprio» servizio civile.
Peraltro, continua la Corte, le norme impugnate riferendosi anche al servizio civile nazionale, consentono la delineazione di un sistema nel quale allo Stato è riservata la programmazione e l’attuazione dei progetti a rilevanza nazionale ed alle Regioni e alle Province autonome è demandato il compito di occuparsi, nell’ambito delle rispettive competenze, della realizzazione dei progetti di servizio civile nazionale di rilevanza regionale o provinciale, nel rispetto delle linee di programmazione, indirizzo e coordinamento tracciate a livello centrale e delle norme di produzione statale individuanti caratteristiche uniformi per tutti i progetti di servizio civile nazionale.
Pertanto, ove questo intreccio di competenze tra Stato, Regioni e Province autonome si realizzi, rientra nei poteri delle Regioni e delle Province autonome orientare lo sviluppo delle iniziative attinenti al servizio civile nazionale da svolgersi sul territorio regionale o provinciale in senso conforme alle linee di indirizzo seguite dalle stesse nei vari settori interessati all’attuazione dei progetti, purché non in contrasto con gli indirizzi e le caratteristiche risultanti dalla normativa statale, come pure stabilire ordini di priorità e criteri ulteriori, ma specificativi di quelli nazionali, cui attenersi nella approvazione dei progetti, vigilando sull’attuazione degli stessi.
In definitiva, le norme impugnate si prestano ad una lettura rispettosa sia della programmazione statale sia della uniforme delineazione delle caratteristiche di base dei progetti e, al contempo, capace di cogliere i bisogni delle diverse aree, in vista dell’attuazione degli interventi nell’ambito delle diverse competenze in gioco.
Infondato risulta anche il ricorso avverso l’art. 7, comma 1, lettera b), della legge della Provincia di Bolzano, che attribuisce alla Provincia stessa il compito di promuovere la formazione di base dei volontari per supposto contrasto con l’art. 11, comma 3, del decreto legislativo n. 77 del 2002.
Sottolinea, in proposito, la Corte che, ai sensi della norma statale citata, l’Ufficio nazionale, sentita la Conferenza Stato-Regioni, «definisce i contenuti base per la formazione», ed i corsi di formazione generale «sono organizzati dall’Ufficio nazionale, dalle Regioni e dalle Province autonome di Trento e di Bolzano».
Pertanto, la Provincia autonoma non è estranea né alla formazione di base dei volontari del servizio civile nazionale, essendo chiamata all’organizzazione dei corsi da svolgere in sede locale, né alla individuazione delle materie, posto che la riserva in favore dell’Ufficio nazionale riguarda soltanto la definizione dei «contenuti base» per la formazione, ma non esclude che la Provincia autonoma possa arricchire i contenuti della formazione in quei settori in cui essa esercita la propria competenza legislativa (ad esempio, assistenza sociale e sanitaria, attività culturali, ricreative e di tempo libero, protezione civile, tutela dell’ambiente e del paesaggio).
La declaratoria di incostituzionalità colpisce, invece, l’art. 14, comma 1, lettera a), della legge della Provincia autonoma di Bolzano n. 7 del 2004, nella parte in cui demanda ad un regolamento di esecuzione la disciplina, tra i benefici previsti a favore dei volontari del servizio civile nazionale, anche dei crediti formativi per la formazione universitaria e professionale.
La Corte, al riguardo, fa presente che l’art. 10, comma 2, della legge n. 64 del 2001 affida allo Stato, in una logica di incentivazione dei cittadini a prestare il servizio civile e di riconoscimento delle competenze acquisite, la determinazione degli standards dei crediti formativi spettanti ai soggetti che, ai fini del compimento di periodi obbligatori di pratica professionale o di specializzazione, aspirano al conseguimento delle abilitazioni richieste per l’esercizio delle professioni (cfr. sentenza n. 228 del 2004).
In questa prospettiva, tale incentivazione rientra nell’organizzazione unitaria del servizio civile nazionale, come tale eccedente la competenza provinciale e di esclusiva spettanza dello Stato.
Un parziale accoglimento riceve anche la questione avverso l’art. 14, comma 1, lettera b), della legge provinciale n. 7 del 2004, che demanda ad un regolamento di esecuzione la disciplina delle modalità e dei requisiti per l’iscrizione all’albo provinciale degli enti di servizio civile.
L’art. 5 del decreto legislativo n. 77 del 2002 prevede che presso l’Ufficio nazionale è tenuto l’albo nazionale cui possono iscriversi gli enti e le organizzazioni in possesso dei requisiti previsti dall’art. 3 della legge n. 64 del 2001 ai fini della presentazione di progetti per il servizio civile nazionale e che le Regioni e le Province autonome provvedono all’istituzione di albi su scala regionale o provinciale, nei quali possono iscriversi gli enti e le organizzazioni in possesso dei medesimi requisiti svolgenti attività esclusivamente in ambito regionale e provinciale.
Pertanto, la norma della legge provinciale, là dove prevede il potere della Provincia di stabilire, con proprio regolamento, requisiti ai fini dell’iscrizione all’albo, ulteriori rispetto a quelli fissati dalla legge statale, detta una misura direttamente incidente sull’organizzazione del servizio civile nazionale e sull’accesso ad esso, e perciò viola la competenza esclusiva statale in materia, in mancanza di alcun titolo legittimante da parte dello statuto speciale.
Sempre in relazione all’iscrizione all’albo, la Corte respinge, invece, l’impugnativa avverso l’art. 5, comma 2, della legge della Regione Marche n. 15 del 2005 ai sensi del quale nella prima sezione dell’albo, relativa al servizio civile nazionale, sono iscritti i soggetti in possesso dei requisiti previsti dalla normativa statale vigente, nonché le sedi locali degli enti e delle organizzazioni iscritti all’albo nazionale; qualora, poi, un ente iscritto nell’albo nazionale abbia più sedi nel territorio regionale, si procede ad un’unica iscrizione (con l’indicazione delle singole sedi abilitate alla presentazione dei progetti).
Ad avviso della Corte, la norma denunciata è priva di contenuto lesivo, essendo meramente strumentale ad una ricognizione delle realtà organizzative del servizio nazionale presenti sul territorio regionale, tanto più che la detta iscrizione non condiziona l’accesso al servizio, come è reso palese dal fatto che, secondo la stessa legge regionale sono ammessi a svolgere il servizio civile nazionale nel territorio regionale i soggetti previsti dalla normativa statale vigente.
Altre questioni riguardanti le disposizioni della legge della Regione Marche, che attribuiscono alla Regione le attività connesse alla stipulazione dei contratti di servizio civile, prevedono l’emanazione di un bando regionale anche per i progetti di servizio civile nazionale e stabiliscono che l’avvenuta prestazione del servizio civile regionale preclude la possibilità di presentare ulteriore domanda, vengono dichiarate non fondate in quanto possono essere interpretate nel senso di riferirsi esclusivamente al servizio civile regionale.
Non fondata si rivela, infine, la censura che investe gli articoli 12 e 13 della legge della Regione Marche, che riguardano l’istituzione del fondo per il sistema regionale del servizio civile e le disposizioni finanziarie ai fini della copertura degli oneri derivanti dall’attuazione della legge.
La Corte non condivide l’assunto del Governo ricorrente secondo cui le disposizioni impugnate consentirebbero di finanziare con le risorse nazionali anche il servizio civile regionale ed opererebbero trasferimenti di quote, dal fondo statale al fondo regionale.
Infatti, la legge n. 64 del 2001, che prevede l’istituzione del fondo nazionale per il servizio civile, costituito dalla specifica assegnazione annuale iscritta nel bilancio dello Stato e dagli stanziamenti per il servizio civile nazionale di Regioni, Province, enti locali ed altri enti pubblici e privati colloca il fondo stesso presso l’Ufficio nazionale per il servizio civile, che l’amministra formulando annualmente un piano di intervento, sentita la Conferenza Stato-Regioni, nel quale deve essere prevista la ripartizione delle risorse del fondo, da destinare, in parte, anche alle Regioni e alle Province autonome di Trento e di Bolzano.
Pertanto, la confluenza nel fondo per il sistema regionale del servizio civile di quote delle risorse del fondo nazionale non implica il denunciato finanziamento, con risorse nazionali, degli interventi del servizio civile regionale poiché le quote da ripartire mantengono la loro originaria caratterizzazione finalistica, ciò che esclude qualsiasi sottrazione di fondi destinati al servizio civile nazionale.
3.1.4. «Tutela della concorrenza»
Sulla «tutela della concorrenza», la Corte ha reso due decisioni di notevole rilievo (sentenze numeri 134 e 175). Ad esse possono aggiungersi i riferimenti contenuti nelle sentenze numeri 50 e 285: nella prima si chiarisce che l’attività di intermediazione, nella sua più ampia accezione, può costituire oggetto di normale attività imprenditoriale ed è quindi soggetta anche alle norme che tutelano la concorrenza; nella seconda si afferma che è improprio, invece, il riferimento alla tutela della concorrenza con riguardo al sostegno alle attività cinematografiche, dal momento che esso non appare essenzialmente finalizzato a garantire la concorrenza fra i diversi soggetti interessati, quanto invece a sostenere selettivamente «i film che presentano qualità culturali o artistiche o spettacolari» (ragionando diversamente, si arriverebbe alla inaccettabile conclusione secondo la quale la competenza statale in tema di tutela della concorrenza si sovrapporrebbe ad ogni tipo e forma di finanziamento delle attività riconducibili alle materie di competenza legislativa delle Regioni, sia di tipo concorrente che residuale).
Con la sentenza n. 134, avente ad oggetto l’art. 4, commi 18 e 19, della legge 24 dicembre 2003, n. 350 (finanziamento di contratti di programma nei settori dell’agricoltura e della pesca), la Corte respinge le doglianze della regione ricorrente secondo cui le disposizioni impugnate interverrebbero nelle materie di competenza regionale dell’agricoltura e della pesca, non realizzerebbero il finanziamento integrale delle funzioni ordinarie delle Regioni e, ove pure fosse ravvisabile l’esercizio di una competenza sussidiaria da parte dello Stato nella previsione e gestione del fondo, non prevederebbero la necessaria intesa delle Regioni interessate ai fini dell’approvazione dei contratti di programma.
Al riguardo, la Corte fa presente che le disposizioni impugnate ripropongono la medesima disciplina sostanziale (art. 67, comma 1, della legge n. 448 del 2001) già favorevolmente scrutinata dalla sentenza n. 14 del 2004. Le uniche differenze, a parte l’entità dei fondi, attengono alla concentrazione delle competenze in capo al Ministero delle politiche agricole e forestali ed al mancato espresso riferimento alla possibilità di attivare i contratti sull’intero territorio nazionale (non facendosi peraltro più cenno ai patti territoriali, cui pure si riferiva l’art. 67 della legge n. 448 del 2001).
Ma l’elemento più significativo è dato dal fatto che la dimensione macroeconomica dell’intervento previsto dalla nuova disciplina è assicurata, come nel caso dell’art. 67 della legge n. 448 del 2001, dallo strumento usato (cfr. sentenza n. 272 del 2004) e cioè dal ricorso ai contratti di programma, i quali hanno la funzione, insieme ad altri strumenti che rientrano nella più lata nozione di programmazione negoziata, di stimolare la crescita economica e rafforzare la concorrenza sul piano nazionale. E non è senza significato che la programmazione negoziata rientri tra gli strumenti di politica economica previsti dal documento di programmazione economica e finanziaria per il periodo 2004-2007.
Si tratta, dunque, di interventi finanziari che rientrano nella materia della tutela della concorrenza di cui all’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione e sono di pertinenza esclusiva dello Stato, per cui non lede la Regione ricorrente né l’attribuzione delle funzioni statali all’uno piuttosto che ad altro Ministero, né il trasferimento delle competenze finanziarie da uno ad altro stato di previsione del bilancio dello Stato.
Né vale richiamare la deliberazione del Cipe, la quale ha deciso di «regionalizzare» i finanziamenti in questione, nel duplice senso di reimpiegare nell’ambito del territorio regionale i finanziamenti già concessi e poi revocati e di prevedere la facoltà per la Regione di esercitare le relative funzioni amministrative. Le disposizioni legislative impugnate vanno infatti valutate ex se (cfr. sentenza n. 14 del 2004), senza che possano assumere alcun rilievo, ai fini del giudizio di costituzionalità, le modalità con le quali esse vengono attuate sul piano amministrativo.
La sentenza n. 175 ha avuto, invece, ad oggetto l’art. 4, commi 61 e 63, della legge 24 dicembre 2003, n. 350 (Fondo per il sostegno di una campagna promozionale straordinaria a favore del “made in Italy”), censurato sul rilievo che le dimensioni finanziarie» dell’intervento statale ne escludano il carattere macro-economico ed impongano di ricondurlo, in base al criterio di prevalenza di cui alla sentenza n. 370 del 2003, alla materia del «commercio con l’estero» prevista dall’art. 117, terzo comma, Cost. Inoltre, nel ricorso si afferma che, trattandosi di materia riservata alla potestà legislativa concorrente di Stato e Regione, sarebbe illegittima la previsione di un regolamento governativo per contrasto con l’art. 117, sesto comma, Cost., così come la mancata previsione di una qualsiasi partecipazione delle Regioni violerebbe il principio di leale collaborazione operante «ogni qualvolta lo Stato agisca in materie non sue esclusive a tutela di esigenze unitarie.
Preliminarmente, osserva la Corte che il carattere (asseritamente) modesto dal punto di vista finanziario dell’intervento non è certamente decisivo per escludere la sua riconducibilità alla materia della «tutela della concorrenza» di cui all’art. 117, secondo comma, Cost., ma può, al più, costituire un indizio in tale senso: ed infatti, si ribadisce che proprio l’aver accorpato, nel medesimo titolo di competenza, la moneta, la tutela del risparmio e dei mercati finanziari, il sistema valutario, i sistemi tributario e contabile dello Stato, la perequazione delle risorse finanziarie e la tutela della concorrenza rende palese che quest’ultima costituisce una delle leve della politica economica statale e pertanto non può essere intesa soltanto in senso statico, ma anche in quell’accezione dinamica che giustifica misure pubbliche volte a ridurre squilibri, a favorire le condizioni di un sufficiente sviluppo del mercato o ad instaurare assetti concorrenziali (sentenza n. 14 del 2004).
La Corte ha quindi precisato (sentenza n. 272 del 2004) che «non spetta [ad essa] valutare in concreto la rilevanza degli effetti economici derivanti dalle singole previsioni di interventi statali […] stabilire, cioè, se una determinata regolazione abbia effetti così importanti sull’economia di mercato […] tali da trascendere l’ambito regionale [ma solo] che i vari strumenti di intervento siano disposti in una relazione ragionevole e proporzionata rispetto agli obiettivi attesi».
La (pretesa) modestia dell’intervento statale non determina, quindi, di per sé l’estraneità alla materia di cui alla lettera e) dell’art. 117, secondo comma, Cost., ma potrebbe semmai costituire sintomo della manifesta irrazionalità della pretesa dello Stato di porre in essere, attraverso quell’intervento, uno strumento di politica economica idoneo ad incidere sul mercato; in breve, le scelte del legislatore sono, in questa materia, censurabili solo quando «i loro presupposti siano manifestamente irrazionali e gli strumenti di intervento non siano disposti in una relazione ragionevole e proporzionata rispetto agli obiettivi attesi» (sentenza n. 14 del 2004). Pertanto, «il criterio della proporzionalità e dell’adeguatezza appare essenziale per definire l’ambito di operatività della competenza legislativa statale attinente alla “tutela della concorrenza” e conseguentemente la legittimità dei relativi interventi statali» (sentenza n. 272 del 2004).
Nel caso di specie, la norma censurata rivela pianamente la sua natura di «ragionevole e proporzionato» intervento statale nell’economia volto a promuovere lo sviluppo del mercato attraverso una campagna che diffonda, con il marchio «made in Italy», un’immagine dei prodotti italiani associata all’idea di una loro particolare qualità: dove è evidente la presenza di un rapporto, che certamente non può ritenersi irragionevole tra lo strumento impiegato e l’obiettivo (di sviluppo economico del Paese) che si è prefisso il legislatore statale, così come è evidente che sussiste il requisito dell’adeguatezza per ciò solo che lo strumento impiegato, per sua natura, suppone che sia predisposto e disciplinato dallo Stato perché solo lo Stato può porre in essere strumenti di politica economica tendenti a svolgere sull’intero mercato nazionale un’azione di promozione e sviluppo (sentenza n. 303 del 2003).
È ben vero che, dichiaratamente, il comma 61 dell’art. 4 mira alla diffusione all’estero (nei mercati mediterranei, dell’Europa continentale e orientale) del «made in Italy», ma tale previsione, lungi dall’implicare la riconducibilità alla (ovvero una commistione con la) materia del «commercio con l’estero», esprime soltanto l’auspicata ripercussione sul commercio con l’estero dell’intervento statale volto alla diffusione di un’idea di qualità dei prodotti (in generale) di origine italiana. La circostanza che un intervento di pertinenza dello Stato abbia in futuro ricadute (anche) su un settore dell’economia soggetto alla potestà legislativa concorrente non comporta interferenze tra materie.
L’inquadramento della disciplina de qua nella materia-funzione della «tutela della concorrenza» esclude che possa ravvisarsi una violazione del precetto di cui all’art. 117, sesto comma, Cost., per il fatto che il regolamento disciplinante «le indicazioni di origine e l’istituzione ed uso del marchio» sia emanato dal Ministro delle attività produttive (di concerto con altri) senza coinvolgimento delle Regioni.
Per quanto riguarda i compiti attribuiti alla Scuola superiore dell’economia e delle finanze, la Corte ritiene che la norma impugnata parlando di «supporto formativo» non implica un riferimento alla materia della «formazione professionale» che l’art. 117, terzo comma, Cost. riserva alla competenza residuale delle Regioni e che la Corte ha ritenuto non implicata quando la «formazione» è accessoria rispetto ad un rapporto di lavoro: al che deve aggiungersi che, nella specie, l’attività prevista dalla norma può definirsi, atteso il suo oggetto, più di informazione che non di vera e propria formazione professionale.
Attesa la natura del marchio «made in Italy», quale si è in precedenza tratteggiata, non è pertinente l’invocazione, da parte della Regione ricorrente, delle materie, di competenza concorrente, della «ricerca scientifica e tecnologica» e del «sostegno all’innovazione per i settori produttivi», essendo evidente che il «supporto formativo e scientifico» di cui parla la norma censurata, per ciò solo che mira alla «diffusione del “made in Italy”», è funzionale unicamente all’efficacia della comunicazione e, quindi, della promozione di prodotti (in quanto) italiani.
Più pertinente appare il richiamo alla materia del «commercio con l’estero», specie se visto in connessione – come sottolinea la Regione ricorrente – con la circostanza che alle Regioni è stata conferita «l’organizzazione, anche avvalendosi dell’Istituto nazionale per il commercio estero (Ice), di corsi di formazione professionale, tecnica e manageriale per gli operatori commerciali con l’estero» [art. 41, comma 2, lettera g) del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59].
In proposito, tuttavia, l’attività istituzionale della Scuola – come si evince dalla previsione che essa «è svolta prioritariamente dal personale di ruolo» – ha come principale destinatario il «personale dell’amministrazione dell’economia e delle finanze, nonché, su richiesta delle agenzie fiscali e degli altri enti che operano nel settore della fiscalità e dell’economia, il personale di questi ultimi» (art. 1, comma 2, d.m. 28 settembre 2000, n. 301): il che, unitamente al fatto che la disciplina in esame deve ricondursi, come si è chiarito, alla materia di cui all’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., rende evidente come ad un organismo statale, quale è la Scuola superiore dell’economia e delle finanze, non possa inibirsi di curare autonomamente l’attività di «supporto formativo e scientifico» prevista dalla norma de qua.
Altrettanto evidente è che tale attività ben potrà essere svolta anche dalle Regioni nei corsi di formazione da esse organizzati e che sarebbe auspicabile una «leale collaborazione» tra la Scuola superiore e le iniziative regionali; collaborazione, viceversa, necessaria quando dal «supporto formativo e scientifico» offerto genericamente al «made in Italy» si dovesse passare a quello rivolto a specifici prodotti, in relazione ai quali non potrebbe prescindersi dal coinvolgimento delle Regioni di origine di tali prodotti.
 
3.1.5. "Sistema tributario e contabile dello Stato"
Nella sentenza n. 335, si dichiara l’incostituzionalità dell’art. 44, comma 3, della legge della Regione Emilia-Romagna 14 aprile 2004, n. 7, nella parte in cui rimette a deliberazione della Giunta il metodo di fissazione del tributo per il deposito in discarica dei rifiuti, per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione, che attribuisce allo Stato la legislazione esclusiva in materia di sistema tributario e contabile dello Stato. Motiva, al riguardo, la Corte che l’articolo 3 della legge 28 dicembre 1995, n. 549, ha istituito il tributo speciale per il deposito in discarica dei rifiuti solidi (comma 24), con devoluzione dello stesso alle regioni (comma 27) ed ha stabilito che l’ammontare dell’imposta è fissato, entro determinati limiti, con legge della Regione. Tale tributo, sulla base della costante giurisprudenza della Corte, è da considerarsi statale e non proprio della Regione, senza che rilevi, in contrario, la devoluzione del relativo gettito alle regioni, con la conseguenza che, salvi i casi previsti dalla legge statale, si deve tuttora ritenere preclusa la potestà delle Regioni di legiferare sui tributi esistenti e regolati da leggi statali (cfr. sentenza n. 37 del 2004).
Nella sentenza n. 397, la Corte esamina l’art. 1 della legge della Regione Molise n. 18 del 2004, dove si stabilisce che «l’ammontare del tributo speciale è determinato, a decorrere dal 1° gennaio 2005», secondo gli importi precisati nello stesso comma e maggiorati rispetto a quelli anteriormente vigenti. La nuova determinazione dell’importo del suddetto tributo speciale, dunque, pur essendo intervenuta successivamente al 31 luglio del 2004 (con la citata legge regionale n. 18 del 2004), viene espressamente dichiarata efficace dalla norma impugnata a decorrere dal 1° gennaio 2005: è perciò evidente la violazione del disposto del comma 29 (secondo periodo) dell’art. 3 della legge statale n. 549 del 1995, per il quale il superamento del limite temporale del 31 luglio nella promulgazione della legge regionale comporta, invece, la proroga per tutto l’anno solare successivo del «vigente» importo dell’imposta. Il rilevato contrasto tra la norma regionale impugnata e la norma statale interposta evocata dal ricorrente implica l’illegittimo esercizio da parte della Regione Molise della propria potestà legislativa in una materia in cui lo Stato ha competenza legislativa esclusiva (art. 117, secondo comma, lettera e, della Costituzione).
 
3.1.6. "Ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali"
La materia concernente l’ordinamento e l’organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali è venuta in considerazione sotto diversi profili, e segnatamente quello del reclutamento del personale (sentenza n. 26), quello del contenimento della spesa pubblica (sentenza n. 37), quello collegato alla disciplina degli Ordini e Collegi professionali (sentenza n. 405) e quello del personale scolastico (sentenza n. 279).
Secondo quanto si stabilisce nella sentenza n. 26, l’art. 2 della legge della Regione Toscana 4 agosto 2003, n. 42, là dove disciplina il reclutamento del personale delle pubbliche amministrazioni per le qualifiche ed i profili per i quali sia richiesta la sola scuola dell’obbligo, risulta lesivo delle competenze esclusive dello Stato in materia di ordinamento ed organizzazione amministrativa dello Stato stesso e degli enti pubblici nazionali, nella parte in cui include le amministrazioni statali e gli enti pubblici nazionali esistenti nel territorio regionale.
Al riguardo, ricorda la Corte che la normativa statale (l. n. 56 del 1987, e d.P.R. n. 442 del 2000), già in precedenza riservava alla pubblica amministrazione il reclutamento del proprio personale, disciplinando il relativo avviamento a selezione e che successivamente è stato disciplinato (d.lgs. n. 165 del 2001) il reclutamento riguardante proprio il personale per il quale «è richiesto il solo requisito della scuola dell’obbligo».
Peraltro, anche il più recente complesso normativo costituito dal decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 (Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30), contenente anche la disciplina dei servizi per l’impiego ed in particolare del collocamento, espressamente ne esclude l’applicabilità al personale delle pubbliche amministrazioni. La formazione dei rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni costituisce quindi – come regola generale – oggetto di disciplina autonoma, ciò che è contraddetto dalla disciplina regionale impugnata, la quale incide direttamente sui modi del reclutamento e sui contenuti e sugli effetti di tale reclutamento in relazione al personale delle sedi centrali e degli uffici periferici di amministrazioni ed enti pubblici a carattere nazionale.
Pertanto, conclude la Corte, la norma incide indebitamente sulla organizzazione amministrativa delle amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali.
La Corte, con la sentenza n. 37, ritiene non fondata, in riferimento all’art. 117, comma terzo, della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 35, comma 2, della legge 27 dicembre 2002, n. 289, il quale prevede che, con decreto ministeriale, vengano fissati i criteri e i parametri per la definizione delle dotazioni organiche dei collaboratori scolastici in modo da conseguire nel triennio 2003-2005 una riduzione complessiva del 6 per cento della consistenza numerica della dotazione organica determinata per l’anno scolastico 2002-2003. Motiva la Corte che, in base all’art. 8 della legge 3 maggio 1999, n. 124, tutto il personale amministrativo, tecnico ed ausiliario in forza agli enti locali è stato trasferito alle dipendenze dello Stato e che quindi lo sono anche i collaboratori scolastici, inquadrati come personale ausiliario nel profilo di area A, che svolge mansioni esecutive. Pertanto, la disposizione mira a contenere la spesa pubblica attraverso la contrazione graduale degli organici del personale alle dipendenze dello Stato, sicché tale intervento deve essere ascritto alla materia dell’ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato, di competenza esclusiva statale ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera g), della Costituzione.
Oggetto dell’impugnativa decisa con la sentenza n. 405 sono gli articoli 2, 3 e 4 della legge della Regione Toscana 28 settembre 2004, n. 50, che definisce le modalità di raccordo tra la Regione e le professioni intellettuali regolamentate con la costituzione di Ordini o Collegi e istituisce la Commissione regionale delle professioni e delle associazioni professionali.
Ritiene la Corte che la normativa regionale, prevedendo la costituzione obbligatoria dei coordinamenti (art. 2), disponendo che tali coordinamenti debbano essere finanziati con il contributo degli iscritti agli Ordini o Collegi (art. 2), attribuendo ad essi funzioni finora svolte dagli Ordini o dai Collegi (art. 3), e, infine, prevedendo che tali coordinamenti abbiano un ruolo nella neo istituita Commissione per le professioni, organo consultivo della Regione (art. 4), abbia fuor di ogni dubbio inciso sull’ordinamento e sull’organizzazione degli Ordini e dei Collegi.
La vigente normazione riguardante gli Ordini e i Collegi, continua la Corte, risponde all’esigenza di tutelare un rilevante interesse pubblico la cui unitaria salvaguardia richiede che sia lo Stato a prevedere specifici requisiti di accesso e ad istituire appositi enti pubblici ad appartenenza necessaria, cui affidare il compito di curare la tenuta degli albi nonché di controllare il possesso e la permanenza dei requisiti in capo a coloro che sono già iscritti o che aspirino ad iscriversi. Ciò è, infatti, finalizzato a garantire il corretto esercizio della professione a tutela dell’affidamento della collettività.
Dalla dimensione nazionale – e non locale – dell’interesse sotteso e dalla sua infrazionabilità deriva che ad essere implicata sia la materia «ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali», che l’art. 117, secondo comma, lettera g), della Costituzione riserva alla competenza esclusiva dello Stato, piuttosto che la materia «professioni» di cui al terzo comma del medesimo articolo 117 della Costituzione, evocata dalla resistente.
Per tali motivi, gli impugnati articoli 2 e 3 della legge regionale, in quanto istituiscono e attribuiscono funzioni ai coordinamenti regionali, devono dichiararsi costituzionalmente illegittimi. Da tale illegittimità consegue altresì l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 della medesima legge, perché, pur istituendo un organo regionale con compiti consultivi, prevede in esso la partecipazione di rappresentanti dei predetti coordinamenti, come sopra ritenuti illegittimamente costituiti.
Nell’esaminare l’impugnativa, proposta dalle Regioni Emilia-Romagna e Friuli – Venezia Giulia, di numerose disposizioni del decreto legislativo 19 febbraio 2004, n. 59, che detta le norme generali relative alla scuola dell’infanzia e al primo ciclo dell’istruzione, a norma dell’articolo 1 della legge 28 marzo 2003, n. 53, la Corte, con la sentenza n. 279, dichiara non fondata la questione riferita al comma 5 dell’art. 14, nella parte in cui dispone che, ai fini dell’espletamento dell’orario di servizio obbligatorio, il personale docente interessato ad una diminuzione del suo attuale orario di cattedra viene utilizzato per finalità e attività educative e didattiche. La norma non può violare le competenze regionali in materia di istruzione, né l’autonomia scolastica, poiché l’utilizzazione di personale docente statale rientra senza alcun dubbio nella competenza esclusiva dello Stato di cui all’art. 117, comma secondo, lettera g), della Costituzione.
Priva di fondamento risulta, pure, la censura riferita agli art. 7, commi 5, secondo periodo, e 6, e art. 10, comma 5, secondo periodo, che prevedono – rispettivamente per la scuola primaria e secondaria, indicandone anche, quanto alla scuola primaria, l’impegno orario minimo – la figura del cosiddetto tutor, definito come il docente in possesso di specifica formazione che, in costante rapporto con le famiglie e con il territorio, svolge funzioni di orientamento nella scelta delle attività facoltative, di «tutorato» degli allievi, di coordinamento delle attività educative e didattiche, di cura delle relazioni con le famiglie e di cura della documentazione del percorso formativo compiuto dall’allievo, con l’apporto degli altri docenti. Nella specie, infatti, tali norme non possono qualificarsi norme di dettaglio, in quanto la definizione dei compiti e dell’impegno orario del personale docente, dipendente dallo Stato, rientra nella competenza statale esclusiva di cui all’art. 117, comma secondo, lettera g), della Costituzione, trattandosi di materia attinente al rapporto di lavoro del personale statale.
 
3.1.7. "Ordine pubblico e sicurezza"
La materia «ordine pubblico e sicurezza» è stata esaminata in due decisioni.
Con la sentenza n. 95 sono state decise questioni concernenti leggi regionali che, eliminando l’obbligo del libretto di idoneità sanitaria, di cui all’art. 14 della legge 30 aprile 1962, n. 283, per il personale addetto alla produzione e vendita di alimenti e per il personale delle farmacie, si riteneva che violassero la competenza legislativa esclusiva statale di cui al secondo comma, lettera h), dell’art. 117 della Costituzione.
La Corte, riprendendo quanto già rilevato nella sentenza n. 162 del 2004, ha dichiarato infondata tale censura, dal momento che, nel vigore del nuovo art. 117 della Costituzione, fin dalla sentenza n. 407 del 2002, si è sempre ribadito che la materia in questione si riferisce «all’adozione delle misure relative alla prevenzione dei reati ed al mantenimento dell’ordine pubblico». D’altra parte, il termine «ordine pubblico» utilizzato dalla Corte di cassazione in alcune pronunce concernenti l’obbligo di dotarsi del libretto sanitario sulla base della legislazione statale ha il significato proprio della disciplina codicistica, sostanzialmente diverso da quello utilizzato dal secondo comma dell’art. 117 della Costituzione.
Anche la sentenza n. 383 si sofferma sul profilo definitorio, sottolineando come la materia «ordine pubblico e sicurezza» riguardi solo gli interventi finalizzati alla prevenzione dei reati ed al mantenimento dell’ordine pubblico (cfr. sentenze n. 407 del 2002, n. 6, n. 162, n. 428 del 2004 e n. 95 del 2005), e non certo la sicurezza tecnica o la sicurezza dell’approvvigionamento dell’energia elettrica (mentre eventuali turbative dell’ordine pubblico in conseguenza di gravi disfunzioni del settore energetico potrebbero semmai legittimare l’esercizio da parte del Governo dei poteri di cui all’art. 120, secondo comma, della Costituzione).
 
3.1.8. "Giurisdizione e norme processuali"
Tra le molte questioni che sono state decise nelle sentenze numeri 50 e 384 alcune hanno riguardato i confini della materia «giurisdizione e norme processuali».
Ad avviso della Corte, devono essere ricondotte ad essa quelle disposizioni della c.d. legge Biagi (legge n. 30 del 2003) volte a condizionare l’esercizio in giudizio di diritti nascenti dal contratto di lavoro e la stessa attività dei giudici. In particolare, nella sentenza n. 50, la Corte ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 5, comma 1, lettere e) ed f) della legge n. 30 del 2003 che prevede principî e criteri direttivi per l’adozione di decreti legislativi in materia di certificazione dei rapporti di lavoro, e segnatamente la lettera e) l’attribuzione di piena forza legale al contratto certificato, nonché la restrizione a specifiche ipotesi della possibilità ad agire in giudizio e la lettera f) la previsione di espletare il tentativo obbligatorio di conciliazione nonché il mantenimento degli effetti degli accertamenti dell’organo certificatore finché non sia provata l’erronea qualificazione del programma negoziale o la difformità nella sua attuazione.
Sulla base di questo assunto, nella sentenza n. 384, sono dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 4, del decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124, in quanto la disposizione censurata concerne direttive del Ministro del lavoro volte ad uniformare l’azione dei vari soggetti abilitati alla certificazione dei rapporti di lavoro.
Parimenti, vanno ricondotte alla materia «giurisdizione e norme processuali» le funzioni amministrative relative alla conciliazione delle controversie di lavoro individuali e plurime, nonché alla risoluzione delle controversie collettive di rilevanza pluriregionale per l’incidenza che la previsione e la regolamentazione del tentativo di componimento bonario delle liti possono avere sullo svolgimento del processo. Sulla base di questa ratio, sempre nella sentenza n. 50, la Corte ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, lettera c), della legge n. 30 del 2003 – che stabilisce il «mantenimento da parte dello Stato delle funzioni amministrative relative alla conciliazione delle controversie di lavoro individuali e plurime, nonché alla risoluzione delle controversie collettive di rilevanza pluriregionale».
Nella sentenza n. 384, in applicazione dei principî espressi nella sentenza n. 50, si dichiara non lesivo delle competenze regionali l’art.8, comma 1, della legge n. 30 del 2003, il quale delega tra l’altro il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi per la definizione di un quadro regolatorio finalizzato alla prevenzione delle controversie individuali di lavoro in sede conciliativa, ispirato a criteri di equità ed efficienza.
L’istituto della conciliazione rientra nell’ordinamento civile, ma riguarda anche la giurisdizione e l’applicazione di norme processuali, tutte materie di esclusiva competenza statale e tali da comportare la disciplina uniforme su tutto il territorio nazionale; pertanto la Corte, nella sentenza n. 384 ha dichiarato non fondate, in riferimento agli articoli 117, comma terzo, e 118, commi primo e secondo, della Costituzione, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 11, commi 1, 4, secondo periodo, 5 e 6, del decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124.
Allo stesso modo deve essere ricondotta all’ordinamento civile e all’applicazione di norme processuali la disciplina della diffida accertativa per crediti patrimoniali.
Sempre nella sentenza n. 384, la Corte ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 10, commi 3 e 4, del decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124, il quale prevede la costituzione di gruppi d’intervento d’intesa con le direzioni regionali dell’INPS e dell’INAIL e con il comando del nucleo dei carabinieri presso l’ispettorato del lavoro per «contrastare specifici fenomeni di violazione di norme poste a tutela del lavoro e della previdenza e assistenza obbligatorie» (comma 3), nonché l’adozione, con decreto del Ministro, di un modello unificato di verbale per l’accertamento degli illeciti (comma 4). Si tratta, infatti, di attività rientranti in larga prevalenza in materie di competenza esclusiva statale e, comunque, posto che i verbali sono destinati a costituire fonti di prova anche a fini sanzionatori incidono quindi sull’applicazione di norme processuali.
 
3.1.9. "Ordinamento civile"
Sulla materia «ordinamento civile», la Corte è intervenuta a più riprese, in relazione ad ambiti normativi variegati: da (a) la disciplina del mercato del lavoro (sentenza n. 50) a (b) la legalizzazione del lavoro irregolare (sentenze numeri 201 e 234), da (c) la tutela dei minori (sentenza n. 106) a (d) la protezione dei dati personali (sentenza n. 271).
a) Nella sentenza n. 50 la Corte ha chiarito, richiamando la sentenza n. 359 del 2003, che i contratti a contenuto formativo, tradizionalmente definiti a causa mista, rientrano nell’ampia categoria dei contratti di lavoro, la cui disciplina fa parte dell’ordinamento civile e spetta alla competenza esclusiva dello Stato.
Va ricondotta alla materia ordinamento civile anche la disciplina del contratto a tempo parziale come del resto la disciplina intersoggettiva di qualsiasi rapporto di lavoro. Sulla base di questo assunto, la Corte costituzionale ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata sull’articolo 3, comma 1, lettere a), b) e c) della legge n. 30 del 2003. Tali disposizioni erano state censurate nella parte in cui prevedono, quali principî e criteri direttivi della delega al Governo in materia di occupazione e mercato del lavoro: l’agevolazione del ricorso a prestazioni di lavoro supplementare nelle ipotesi di lavoro a tempo parziale cosiddetto orizzontale (lettera a), l’agevolazione di forme flessibili ed elastiche di lavoro a tempo parziale cosiddetto verticale e misto (lettera b), l’estensione delle forme flessibili ed elastiche anche ai contratti a tempo parziale a tempo determinato (lettera c).
Nella stessa decisione la Corte ha chiarito che rientra nella competenza esclusiva statale in materia di ordinamento civile anche la disciplina che, al fine di ridurre il contenzioso in materia di rapporti di lavoro, attribuisce un particolare valore probatorio al contratto certificato.
Allo stesso modo rientrano nella materia «ordinamento civile» le funzioni amministrative relative alla conciliazione delle controversie di lavoro individuali e plurime, nonché alla risoluzione delle controversie collettive di rilevanza pluriregionale. Infatti, «la conciliazione delle controversie di lavoro, rispetto alla quale le funzioni amministrative sono strettamente strumentali, non rientra nella materia della tutela e sicurezza del lavoro, bensì in quella dell’ordinamento civile, in quanto concernente la definizione transattiva delle controversie stesse».
Analoga collocazione competenziale è da attribuirsi alle disposizioni della c.d. legge Biagi che contengono norme sulla somministrazione di manodopera o di lavoro altrui e sui rapporti che da essa nascono tra fornitore ed utilizzatore e sui diritti dei lavoratori.
Anche le disposizioni che riguardano la distinzione tra appalto lecito e interposizione vietata sono da ricondurre all’ordinamento civile.
Anche la disposizione contenuta nel numero 6 ha ad oggetto i principî concernenti l’apparato sanzionatorio civilistico e penalistico e quindi ancora una volta va ricondotta a materie di competenza esclusiva statale.
Sempre nella sentenza n. 50, la Corte ha giudicato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 13, commi 1 e 6, del d.lgs. n. 276 del 2003, che prevede deroghe al regime generale del contratto di inserimento qualora i soggetti da inserire siano lavoratori svantaggiati, sulla base della considerazione che, essendo la finalità quella di favorire l’inserimento nel mondo del lavoro di tali soggetti, gli strumenti usati attengono anche al regime retributivo e quindi all’ordinamento civile, oppure a diritti previdenziali e dunque a materie di competenza esclusiva statale.
La Corte ha poi chiarito che la disciplina delle tipologie di lavoro cui si applica il contratto di apprendistato rientra nella materia ordinamento civile. Sulla base di questa ratio ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 47 del d.lgs. n. 276 del 2003, in quanto la disposizione censurata conterrebbe una disciplina esaustiva «delle tipologie di lavoro cui si applica il contratto di apprendistato».
Si dichiara, inoltre, non fondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli 51 (concernente i crediti formativi che si acquisiscono attraverso il contratto di apprendistato ed il loro riconoscimento), 52 (concernente le qualifiche professionali) e 53 (concernente «incentivi economici e normativi e disposizioni previdenziali») del d.lgs. n. 276 del 2003. Infatti, in relazione all’art. 51, la disciplina dei rapporti intersoggettivi tra datore e lavoratore, compresa la formazione all’interno dell’azienda, appartiene alla competenza dello Stato e giustifica così la disciplina statale del riconoscimento dei crediti stessi, mentre il coinvolgimento delle Regioni è assicurato mediante lo strumento più pregnante di attuazione del principio di leale collaborazione e cioè attraverso l’intesa. In relazione all’art. 52, le qualifiche professionali, la cui armonizzazione la norma disciplina, sono strettamente collegate ai crediti formativi ed il coinvolgimento regionale è assicurato dalla partecipazione dei rappresentanti della Conferenza Stato-Regioni all’organismo all’uopo istituito presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali. In relazione all’art. 53, parzialmente modificato dal decreto correttivo n. 251 del 2004, si rileva che esso contiene norme rientranti nell’ordinamento civile (categorie d’inquadramento degli apprendisti); nel suo comma 2 contiene norme concernenti l’ordinamento civile e principî fondamentali in tema di tutela e sicurezza del lavoro, a seconda degli istituti rispetto ai quali operano i limiti numerici nel cui computo non rientrano gli apprendisti; nel comma 3 contempla, in primo luogo, il mantenimento in via provvisoria della disciplina degli incentivi ed inoltre «il principio che questi sono condizionati alla verifica della formazione svolta secondo modalità definite con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, d’intesa con la Conferenza Stato-Regioni, verifica che, concernendo sia la formazione svolta in azienda, sia quella extra-aziendale, non è illegittimo sia regolata dal Ministro una volta garantito il pieno coinvolgimento delle Regioni mediante la suindicata intesa».
Del pari, rientra nell’ambito dell’ordinamento civile la disciplina del contratto di inserimento e quella dei tirocini estivi di orientamento. Sulla base di questa ratio la Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli 54, 55, 56, 57, 58 e 59 del d.lgs. n. 276 del 2003, che contengono la disciplina del contratto d’inserimento.
b) In merito alla disciplina della legalizzazione del lavoro irregolare di extracomunitari, la Corte ha escluso, nella sentenza n. 201, la competenza legislativa statutaria invocata dalla Provincia ricorrente, in quanto gli ambiti settoriali ai quali quest’ultima riporta la normativa denunciata («apprendistato, libretti di lavoro, categorie e qualifiche dei lavoratori», di cui all’articolo 9, numero 4, dello statuto; «costituzione e funzionamento di commissioni comunali e provinciali di controllo sul collocamento», di cui all’art. 9, numero 5, dello statuto ed agli articoli 2 e 3 del d.P.R. n. 280 del 1974; «collocamento e avviamento al lavoro», di cui all’art. 10 dello statuto; ispezione del lavoro, di cui agli articoli 3 e 4 del d.P.R. n. 197 del 1980) sono riconducibili alla materia della tutela del lavoro e del rapporto di lavoro in quanto tale (ordinamento civile), non certo a quella della regolarizzazione del lavoro degli immigrati extracomunitari, attinente all’immigrazione.
Con la sentenza n. 234, la Corte non ritiene che la disciplina statale in ordine alla procedura di emersione progressiva del lavoro irregolare (legge 18 ottobre 2001, n. 383, come sostituito dal decreto legge 25 settembre 2002, n, 210, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 novembre 2002, n. 266), sia lesiva delle competenze legislative ed amministrative delle Province autonome e del principio di leale collaborazione.
Le censure proposte, investono, nella sostanza, le norme relative all’istituzione ed all’attività dei «Comitati per il lavoro e l’emersione del sommerso» (Cles) con i correlativi effetti e, quindi, solo la prima delle due fasi che compongono la procedura di emersione progressiva del lavoro irregolare.
Le norme riguardano il progressivo adeguamento, da parte degli imprenditori, agli obblighi di legge relativi a «materie diverse da quella fiscale e contributiva» e agli obblighi previsti dai contratti collettivi di lavoro in materia di trattamento economico. L’adeguamento si realizza previa presentazione di «piani individuali di emersione», contenenti proposte dirette alla graduale regolarizzazione di detti obblighi, da approvarsi dai Cles e da realizzarsi nel termine indicato dalla legge.
Questa prima fase, dopo l’approvazione dei piani individuali di emersione, sfocia necessariamente nella seconda fase, introdotta dall’obbligatoria presentazione, sempre da parte degli imprenditori, di apposite «dichiarazioni di emersione» degli inadempimenti agli obblighi stabiliti dalla normativa vigente «in materia fiscale e previdenziale».
Ritiene al riguardo la Corte che le norme relative all’attività dei Cles devono essere ricondotte alla competenza legislativa esclusiva dello Stato e vanno in particolare ricomprese, in applicazione del criterio della prevalenza, nella materia dell’«ordinamento civile» di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione. A tale conclusione inducono sia la ratio e l’inquadramento sistematico della normativa denunciata, sia la connessione funzionale tra la fase di emersione progressiva basata sui piani individuali e quella fondata sulla dichiarazione di emersione.
L’intento del legislatore è di raggiungere l’obiettivo del rilancio dell’economia favorendo «l’emersione dall’economia sommersa», attraverso una disciplina transitoria che mantenga inalterata la funzionalità economica delle imprese emergenti. Gli strumenti predisposti sono un appropriato regime di incentivo fiscale e previdenziale e l’attribuzione agli imprenditori della facoltà di ritardare l’adeguamento agli obblighi rimasti inadempiuti, secondo le modalità previste da piani individuali di emersione
In questo contesto, i Cles, ai sensi dei censurati commi 5 e 8 dell’art. 1-bis, svolgono l’importante funzione di modulare l’intervento pubblico nella delicata materia della progressiva regolarizzazione dei rapporti irregolari di lavoro, al fine di realizzare gradualmente l’uniforme adempimento degli obblighi degli imprenditori.
L’attività svolta dai Cles a livello decentrato – e, segnatamente, l’attività di approvazione dei piani e di formulazione di eventuali proposte di modifica – si inserisce in una procedura idonea ad integrare il contratto individuale di lavoro secondo il contenuto dei piani individuali di emersione approvati e, quindi, ad incidere sui tempi e sulle modalità di adempimento degli obblighi previsti dalla legge e dalla contrattazione collettiva, nonché specificamente sul trattamento economico pattuito con il contratto individuale di lavoro. In virtù della procedura gestita dai Cles, i contratti individuali di lavoro, originariamente irregolari, si trasformano gradualmente in contratti conformi ai suddetti obblighi e prescrizioni, generando nuovi impegni degli imprenditori, che valgono, da un lato, a modificare la precedente regolamentazione convenzionale e, dall’altro, a garantire ulteriormente l’adempimento degli obblighi di legge in materie diverse da quella fiscale e previdenziale.
L’assunzione di tali impegni, potendo incidere sull’autonomia negoziale in funzione della regolarizzazione del lavoro, soddisfa pertanto l’esigenza – strettamente connessa al principio costituzionale di eguaglianza – di assicurare, decorso il periodo transitorio previsto dalla citata legge n. 383 del 2001 (art. 1-bis, comma 2, lettera a), l’applicazione uniforme di quelle regole e di quei principî generali disciplinanti i rapporti individuali di lavoro fra privati, che gli imprenditori avevano omesso di applicare.
In materia di trattamento economico, tale intento uniformatore è reso ancora più evidente dall’estensione del regime di emersione progressiva agli imprenditori che avevano già fatto ricorso allo strumento agevolativo dei contratti di riallineamento retributivo di cui al decreto legge 1° ottobre 1996, n. 510, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 novembre 1996, n. 608, e che non erano riusciti a rispettare gli obblighi assunti in forza di tali contratti. La possibilità di accedere ai programmi di emersione progressiva offerta a tali imprenditori è giustificata, infatti, dalla fungibilità dei due regimi, in ragione della finalità ad essi comune di garantire ai lavoratori un trattamento retributivo uniforme.
La speciale disciplina contenuta nelle norme denunciate, essendo idonea a modificare a fini di uniformità l’originario regolamento contrattuale, attiene dunque – in modo caratterizzante – all’esercizio dell’autonomia negoziale in tema di contratti di lavoro e deve perciò essere ricondotta, secondo un criterio di prevalenza, alla materia dell’«ordinamento civile», ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. e, quindi, all’esclusiva sfera di competenza legislativa dello Stato.
Se poi si considera che la fase di emersione progressiva oggetto di censura culmina in quella di regolarizzazione fiscale e previdenziale disciplinata dall’art. 1 e che quest’ultima è sicuramente riconducibile alla competenza legislativa esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettere e) ed o) della Costituzione, appare coerente al disegno complessivo del legislatore ritenere che la prima fase si coordini con la finalità di «incentivo fiscale e previdenziale» e che, di conseguenza, anch’essa sia riconducibile, seppure a titolo diverso, alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.
La disciplina dell’emersione progressiva del lavoro irregolare, rientrante nella materia dell’«ordinamento civile», è, perciò, del tutto diversa per oggetto e funzioni dagli ambiti settoriali invocati dalle Province autonome di Trento e Bolzano. Ciò è sufficiente per escludere la lamentata lesione di competenze statutarie.
Neppure sussiste la competenza legislativa residuale di cui all’art. 117, quarto comma, Cost., invocata dalle Province autonome ricorrenti in forza della «clausola di maggior favore» prevista in via transitoria dall’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, anche con riferimento alla asserita esistenza di una «materia dell’impresa», per la parte di disciplina non inclusa nella competenza relativa alla «tutela e sicurezza del lavoro». Il criterio di prevalenza che ha portato ad accertare l’esclusiva competenza legislativa dello Stato in materia di «ordinamento civile» non consente né di far rientrare le norme denunciate nella competenza residuale né, comunque, di effettuare la comparazione tra le forme di autonomia garantite dalla Costituzione e quelle statutarie richiesta dal citato art. 10.
La Corte inoltre, esclude la denunciata interferenza tra la disciplina censurata e le competenze amministrative riconosciute alle Province ricorrenti dall’art. 16 dello statuto speciale, poiché tale norma, che pone un necessario parallelismo fra competenze legislative e competenze amministrative, non è operante per la rilevata mancanza di competenze legislative statutarie delle Province autonome nella materia dell’emersione progressiva del lavoro irregolare.
L’applicazione del criterio della prevalenza per la risoluzione dell’interferenza tra la norma censurata e le competenze legislative provinciali, in presenza dell’accertata appartenenza del nucleo essenziale della disciplina denunciata alla materia dell’ordinamento civile, esclude, infine, l’operatività del principio di leale collaborazione, invocato dalle ricorrenti sotto il profilo sia legislativo che amministrativo.
c) La sentenza n. 106 dichiara costituzionalmente illegittimo l’art. 12 della legge della Provincia autonoma di Bolzano 3 ottobre 2003, n. 15, dove si prevede l’intervento pubblico di assistenza, nei confronti dei minori in condizioni di disagio economico, in caso di inadempienza del genitore obbligato alla corresponsione dell’assegno di mantenimento mediante l’anticipazione delle somme al genitore o al soggetto affidatario e con surrogazione legale dell’ente pubblico nel diritto di credito. Al riguardo, motiva la Corte, l’art. 1203 del codice civile stabilisce che la surrogazione legale ha luogo di diritto in una serie di casi previsti tassativamente dalla medesima disposizione ai numeri da 1 a 4; stabilisce inoltre, al n. 5, che la surrogazione legale si ha «negli altri casi stabiliti dalla legge».
Poiché si tratta di un istituto del diritto civile destinato a regolare gli effetti del pagamento di una obbligazione da parte di soggetto diverso dall’obbligato, non può dubitarsi che esso rientri nella nozione di «ordinamento civile» di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.: di conseguenza, devesi affermare che gli «altri casi previsti dalla legge», cui fa riferimento la norma, non possono essere che quelli disciplinati espressamente da altra legge statale.
In caso contrario, nell’ordinamento si creerebbe la possibilità di introdurre, mediante leggi regionali o delle Province autonome, ipotesi di surrogazione legale con la conseguenza che verrebbe frustrata l’esigenza di una disciplina uniforme su tutto il territorio nazionale di un modo di adempimento delle obbligazioni e dell’effetto dell’adempimento da parte di un terzo.
d) La Corte esamina, nella sentenza n. 271, la questione di legittimità costituzionale, degli articoli 12, 13 e 14 della legge della Regione Emilia-Romagna 24 maggio 2004, n. 11 (Sviluppo regionale della società dell’informazione), sollevata dal Presidente del Consiglio dei ministri per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettere l), m) e r), e sesto comma, della Costituzione, nonché dei principî della legislazione statale in materia di protezione dei dati personali.
In via preliminare, si considera il problema della collocazione, rispetto al riparto di competenze fra Stato e Regioni di cui al Titolo V della Costituzione, della legislazione censurata, incidente sulla tutela dei dati personali ed, al riguardo, ricorda che il d.lgs. n. 196 del 2003 attualmente vigente coordina in un testo unico la normativa originata dal recepimento di numerose direttive comunitarie adottate in materia per tutelare in modo organico il trattamento dei dati personali (esplicitamente definiti come «qualunque informazione relativa a persona fisica, persona giuridica, ente od associazione, identificati o identificabili, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione»), riferendosi all’intera serie dei fenomeni sociali nei quali questi possono venire in rilievo. Da ciò una disciplina che, pur riconoscendo tutele differenziate in relazione ai diversi tipi di dati personali ed alla grande diversità delle situazioni e dei contesti normativi nei quali tali dati vengono utilizzati, si caratterizza essenzialmente per il riconoscimento di una serie di diritti alle persone fisiche e giuridiche relativamente ai propri dati, diritti di cui sono regolate analiticamente caratteristiche, limiti, modalità di esercizio, garanzie, forme di tutela in sede amministrativa e giurisdizionale.
Per la Corte ci si trova dinanzi ad un corpo normativo essenzialmente riferibile alla categoria dell’«ordinamento civile», di cui alla lettera l) del secondo comma dell’art. 117 Cost.
Peraltro, pur nell’ambito di questa esclusiva competenza statale, la legislazione vigente prevede anche un ruolo normativo, per quanto di tipo meramente integrativo, per i soggetti pubblici chiamati a trattare i dati personali, per la necessità che i principî posti dalla legge a tutela dei dati personali siano garantiti nei diversi contesti legislativi ed istituzionali; in questi ambiti possono quindi essere adottati anche leggi o regolamenti regionali, ma solo in quanto e nella misura in cui ciò sia appunto previsto dalla legislazione statale.
Pertanto, il legislatore regionale può disciplinare procedure o strutture organizzative che prevedono il trattamento di dati personali, pur ovviamente nell’integrale rispetto della legislazione statale sulla loro protezione: infatti, le Regioni, nelle materie di propria competenza legislativa, non solo devono necessariamente prevedere l’utilizzazione di molteplici categorie di dati personali da parte di soggetti pubblici e privati, ma possono anche organizzare e disciplinare a livello regionale una rete informativa sulle realtà regionali, entro cui far confluire i diversi dati conoscitivi (personali e non personali) che sono nella disponibilità delle istituzioni regionali e locali o di altri soggetti interessati. Ciò, tuttavia, deve avvenire nel rispetto degli eventuali livelli di riservatezza o di segreto, assoluti o relativi, che siano prescritti dalla legge statale in relazione ad alcune delle informazioni, nonché con i consensi necessari da parte delle diverse realtà istituzionali o sociali coinvolte.
Sulla base di quanto affermato, viene dichiarata la illegittimità costituzionale dell’art. 12 della legge della Regione Emilia-Romagna n. 11 del 2004 in quanto contraddice la legislazione statale vigente in materia di protezione dei dati personali (nonché le stesse direttive europee che ne sono all’origine).
Innanzitutto, disponendo che, mediante apposito regolamento regionale, sia disciplinata la «cessione dei dati costitutivi del patrimonio informativo pubblico a privati ed enti pubblici economici», non tiene conto che l’istituto della «cessione» dei dati personali è del tutto estraneo alla legislazione statale in materia di protezione di tali dati.
In secondo luogo, il comma 2 dell’art. 12 prevede che la Regione e gli enti regionali incontrino il solo limite dell’art. 18 del d.lgs. n. 196 del 2003 nel rendere disponibili i «dati contenuti nei propri sistemi informativi», laddove, invece, il «Codice» prevede molteplici altri limiti per i trattamenti effettuati da soggetti pubblici.
In terzo luogo, nel medesimo comma 2, si prevede un obbligo per «le associazioni e i soggetti privati che operano in ambito regionale per finalità di interesse pubblico» di fornire «la disponibilità dei dati contenuti nei propri sistemi informativi», sia pure «nei limiti previsti dal decreto legislativo n. 196 del 2003». E tuttavia un obbligo del genere non è previsto dal Codice, caratterizzato, piuttosto, dalla normale preminenza della volontà dell’interessato in ordine al trattamento dei propri dati personali e dal fatto che questi sono raccolti ed utilizzati per scopi determinati.
Sono altresì fondate le censure mosse contro l’art.13 della legge regionale n. 11 del 2004, per la parte in cui assume rilevanza l’assenza di ogni riferimento espresso al doveroso rispetto della normativa a tutela dei dati personali: infatti, l’art. 13 configura un vero e proprio sistema informativo regionale, nel quale confluiscono molteplici dati anche personali, sia ordinari che sensibili, provenienti da diverse pubbliche amministrazioni. Senza tener conto che tali dati possono essere utilizzati solo nei limiti e con tutte le garanzie poste dalla legge statale a tutela della protezione dei dati personali. Il mancato richiamo, da parte della disposizione censurata, di tali garanzie e limiti, e dunque l’utilizzabilità dei dati personali nell’ambito del Sir, determina l’illegittimità costituzionale del comma 1 dell’art. 13 della legge regionale n. 11 del 2004.
 
3.1.10. "Ordinamento penale"
Non constano, nel 2005, decisioni nelle quali la materia «ordinamento penale» venga trattata in maniera analitica. Merita, comunque, di essere menzionata la sentenza n. 172, con cui la Corte ha ribadito (in consonanza con precedenti statuizioni) che la materia penale deve essere «intesa come l’insieme dei beni e valori ai quali viene accordata la tutela più intensa» e che essa «nasce nel momento in cui il legislatore nazionale pone norme incriminatrici», mediante la configurazione delle fattispecie, l’individuazione dell’apparato sanzionatorio e la determinazione delle specifiche sanzioni.
 
3.1.11. "Determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale"
Pur senza essere oggetto di disamine analitiche, la competenza in materia di «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali» è stata oggetto di molteplici richiami. Di seguito se ne riportano alcuni dei più significativi (rimandando, per gli altri, alle affermazioni contenute in decisioni che hanno precipuamente riguardo ad altri ambiti materiali).
La sentenza n. 287, riprendendo quanto affermato nella sentenza n. 423 del 2004, stabilisce che le norme che pongono vincoli nell’assegnazione alle Regioni delle risorse del Fondo nazionale per le politiche sociali, istituito dall’art. 59, comma 44, della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica), non determinano livelli essenziali delle prestazioni, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., ma si limitano a prevedere somme a destinazione vincolata.
Secondo quanto sostenuto nella sentenza n. 271, improprio appare il riferimento alla competenza in tema di «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali», in relazione alla legislazione sui dati personali, dal momento che essa non concerne prestazioni, bensì la stessa disciplina di una serie di diritti personali attribuiti ad ogni singolo interessato, consistenti nel potere di controllare le informazioni che lo riguardano e le modalità con cui viene effettuato il loro trattamento.
Nella sentenza n. 383 si è sottolineato come il potere di predeterminare eventualmente – sulla base di apposite disposizioni di legge – i «livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali», anche nelle materie che la Costituzione affida alla competenza legislativa delle Regioni, non può trasformarsi nella pretesa dello Stato di disciplinare e gestire direttamente la disciplina concernente la continuità dell’erogazione di energia elettrica, escludendo o riducendo radicalmente il ruolo delle Regioni. In ogni caso, tale titolo di legittimazione legislativa – come rilevato nella sentenza n. 285 – non può essere invocato se non in relazione a specifiche prestazioni delle quali la normativa statale definisca il livello essenziale di erogazione, risultando viceversa del tutto improprio ed inconferente il riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., onde individuare il fondamento costituzionale della disciplina, da parte dello Stato, di interi settori materiali.
Infine, nella sentenza n. 467, la Corte ritiene che la determinazione dei livelli essenziali dell’assistenza integrativa relativa ai prodotti destinati ad un’alimentazione differenziata rientra senza dubbio nella previsione relativa a prestazioni concernenti il diritto fondamentale alla salute da garantirsi in modo uniforme su tutto il territorio nazionale. Di conseguenza, lo scrutinio di costituzionalità operato con riguardo a tale parametro rende inutile l’esame della questione sotto il profilo della presunta violazione dei principî generali in materia di assistenza sanitaria, i quali non vengono in rilievo per la presenza di una riserva statale di legislazione in materia di determinazione dei livelli essenziali, assorbente, nella specie, di ogni altra relativa questione.
 
3.1.12. "Norme generali sull'istruzione"
La disciplina relativa all’istruzione è oggetto di diversi titoli competenziali. Di seguito si riportano due decisioni che hanno avuto prevalentemente riguardo alle «norme generali sull’istruzione», rinviando ad altre sedi l’analisi di decisioni incentrate maggiormente su altri titoli.
Immune da censure viene dichiarata, nella sentenza n. 34, la legge della Regione Emilia-Romagna 30 giugno 2003, n. 12, che detta norme sul rafforzamento dell’istruzione e della formazione professionale.
In particolare, risulta non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 5, della legge regionale nella parte in cui prevede in favore del personale scolastico, che si avvalga del periodo di aspettativa di cui all’art. 26, comma 14, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, la possibilità di usufruire di assegni di studio alle condizioni e secondo le modalità definite con atto della Giunta regionale, nell’ambito degli indirizzi approvati dal Consiglio regionale. Al riguardo, la Corte ritiene insussistenti la asserita violazione di un principio fondamentale della legislazione statale in materia di istruzione nonché la discriminazione fra situazioni identiche dei dipendenti scolastici ed il dedotto contrasto con il principio di buon andamento della pubblica amministrazione. Sul punto, motiva la Corte, il principio fondamentale desumibile dalla citata disposizione di legge statale è quello della facoltà, concessa al personale scolastico ogni dieci anni di servizio, di fruire di un periodo annuale di aspettativa non retribuita, senza dover allegare alcun particolare motivo. Diversamente, l’art. 7, comma 5, al fine di sostenere le «attività di qualificazione», nel rispetto delle competenze generali dello Stato in materia di formazione iniziale dei docenti del sistema nazionale di istruzione e dei relativi titoli abilitanti, nonché delle materie riservate alla contrattazione, non introduce una ulteriore fattispecie di aspettativa, perseguendo in tal modo la finalità di elevazione professionale del personale scolastico, docente e dirigente senza scalfire il principio fondamentale invocato dallo Stato, e stabilendo che gli assegni non costituiscono in ogni caso retribuzione e che il periodo di aspettativa non può essere computato nel servizio di istituto.
Non risulta, inoltre, invasivo della competenza statale esclusiva a dettare norme generali sull’istruzione (art. 117, comma secondo, lettera n) della Costituzione, e art. 4 della legge 28 marzo 2003, n. 53), l’art. 9, comma 3, della legge della Regione Emilia-Romagna 30 giugno 2003, n. 12, il quale disciplina l’istituto dell’«alternanza scuola-lavoro», definendolo come «modalità didattica, non costituente rapporto di lavoro, realizzata nell’ambito dei percorsi di istruzione o di formazione professionale, anche integrati, quale efficace strumento di orientamento, preparazione professionale e inserimento nel mondo del lavoro». La disposizione censurata, infatti, lungi dal contrastare con quanto stabilito dall’art. 4 della legge n. 53 del 2003, si limita a ripeterne sinteticamente il contenuto definitorio, senza porre principî o regole ulteriori e senza mettere in discussione la competenza statale nel definire gli istituti generali e fondamentali dell’istruzione, i quali vengono soltanto assunti a base della legislazione regionale.
Parimenti, non si pone in contrasto con la competenza statale esclusiva a dettare norme generali sull’istruzione l’art. 17 della legge regionale, il quale definisce le finalità della scuola dell’infanzia. La disposizione, infatti, si propone non già di fornire la definizione del percorso della scuola dell’infanzia, bensì di predisporre, nell’ambito di quanto stabilito dalla legge statale (art. 2, comma 1, lettera e, della legge 28 marzo 2003, n. 53) e in forza delle competenze regionali in materia di istruzione, interventi a supporto di un’offerta formativa in un settore, quale è quello dell’istruzione per l’infanzia, nel quale sono direttamente coinvolti i principî costituzionali che riguardano l’educazione e la formazione del minore.
L’art. 117, comma secondo, lettera n), della Costituzione non risulta violato neppure dall’art. 41 della stessa legge, il quale fornisce la definizione «dell’educazione degli adulti» e delle relative attività. Tale disposizione, nel solco di quanto già genericamente previsto dalla disciplina statale (legge 28 marzo 2003, n. 53, art. 2, comma 1, lettera a), specifica i contenuti dell’«educazione degli adulti», che ricomprende le «opportunità formative, formali e non formali, rivolte alle persone, aventi per obiettivo l’acquisizione di competenze personali di base in diversi ambiti, di norma certificabili, e l’arricchimento del patrimonio culturale», al fine di favorire il rientro nel sistema formale dell’istruzione e della formazione professionale, la diffusione e l’estensione delle conoscenze, l’acquisizione di specifiche competenze connesse al lavoro o alla vita sociale e il pieno sviluppo della personalità dei cittadini, ponendosi così in linea con le finalità individuate dalla legge delega del 2003 ed altresì con quelle prefigurate in ambito comunitario, operando sul versante del sostegno all’acquisizione o al recupero di conoscenze necessarie o utili per il reinserimento sociale e lavorativo e, dunque, in un ambito riconducibile a quello affidato alla competenza regionale in materia di istruzione e formazione professionale.
Ed ancora, non contrasta con i principî di uguaglianza e di buon andamento della pubblica amministrazione l’art. 26, comma 2, della legge regionale, il quale stabilisce che, nel quadro del sistema formativo, al fine di realizzare un positivo intreccio tra apprendimento teorico e applicazione concreta, tra sapere, saper fare, saper essere e sapersi relazionare, di sostenere lo sviluppo della cultura tecnica, scientifica e professionale, nonché di consentire l’assolvimento dell’obbligo formativo di cui all’art. 68 della legge 17 maggio 1999, n. 144, la Regione e gli enti locali promuovono l’integrazione tra l’istruzione e la formazione professionale attraverso interventi che ne valorizzano gli specifici apporti, precisando che detta integrazione rappresenta la base per il reciproco riconoscimento dei crediti e per reali possibilità di passaggio da un sistema all’altro al fine di favorire il completamento e l’arricchimento dei percorsi formativi per tutti. La Corte, infatti, esclude che il significato della disposizione regionale denunciata sia quello di inibire o rendere più difficile il passaggio tra i sistemi di istruzione e formazione professionale agli studenti che provengono da percorsi non integrati, in quanto il senso da ascriversi alla norma è soltanto quello di individuare, come base preferibile per il riconoscimento e per reali (e non solo teoriche) possibilità di passaggio, proprio l’istituto dell’integrazione dei sistemi, senza perciò eliminare altre forme legali di riconoscimento e, specialmente, di crediti.
La Corte, infine, non condivide la denunciata incidenza sui livelli unitari di fruizione del diritto allo studio e l’asserita invasione della competenza statale esclusiva a dettare norme generali sull’istruzione da parte dell’art. 44, comma 1, della legge della Regione Emilia-Romagna 30 giugno 2003, n. 12, il quale stabilisce che il Consiglio regionale, su proposta della Giunta regionale, approva, tra l’altro, i «criteri per la definizione dell’organizzazione della rete scolastica, ivi compresi i parametri dimensionali delle istituzioni scolastiche». La Corte, dopo aver premesso che già la normativa antecedente alla riforma del Titolo V della parte seconda della Costituzione prevedeva la competenza regionale in materia di dimensionamento delle istituzioni scolastiche, e in particolare, ai sensi dell’art. 138 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, quella relativa alla programmazione scolastica, esclude che il legislatore costituzionale del 2001 abbia voluto spogliare le Regioni di una funzione che era già ad esse conferita, di talché la disposizione censurata deve ritenersi riconducibile all’esercizio della competenza legislativa concorrente della Regione in materia di istruzione, riguardando in particolare il settore della programmazione scolastica.
Nella sentenza n. 120, analogamente, la Corte respinge le censure avanzate nei confronti degli articoli 4, comma 2, e 28, comma 2, della legge della Regione Toscana 26 luglio 2002, n. 32, che rispettivamente, demandano ad un regolamento la fissazione degli standards ai quali si dovranno attenere i servizi educativi per la prima infanzia e disciplinano la funzione di impulso e di regolazione del sistema allargato dell’offerta integrata fra istruzione, educazione e formazione, attribuendo alla Regione la definizione degli standards qualitativi, delle linee guida di valutazione e di certificazione degli esiti e dei risultati della funzione. La Corte non ritiene che tali norme siano invasive della competenza esclusiva dello Stato riguardante sia la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali sia le norme generali sull’istruzione. Al contrario, sostiene la Corte, la disciplina degli asili nido ricade «nell’ambito della materia dell’istruzione […], nonché nella materia della tutela del lavoro» e, quindi, in materie comunque attribuite alla potestà legislativa concorrente delle Regioni ai sensi dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione, di talché risulta impossibile «negare la competenza legislativa delle singole Regioni, in particolare per la individuazione di criteri per la gestione e l’organizzazione degli asili, seppure nel rispetto dei principî fondamentali stabiliti dal legislatore statale» (sentenza n. 370 del 2003). Negli stessi termini, la Corte risolve la questione riferita all’art. 28 per la natura essenzialmente organizzativa della disciplina, resa palese, ad esempio, dal riferimento agli «ambiti territoriali», ai «requisiti di accesso» (limitati al piano organizzativo) e al calendario scolastico.
D’altro canto, la tesi che gli standards strutturali e qualitativi di cui alla norma impugnata si identificherebbero con i livelli essenziali delle prestazioni e, quindi, rientrerebbero nella competenza trasversale ed esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, non può essere condivisa, in quanto la norma censurata non determina alcun livello di prestazione, limitandosi ad incidere sull’assetto organizzativo e gestorio degli asili nido, che risulta demandato alla potestà legislativa delle Regioni.
Sotto un diverso profilo, la individuazione degli standards strutturali e qualitativi non può neppure, evidentemente, ricomprendersi nelle norme generali sull’istruzione e cioè in quella disciplina caratterizzante l’ordinamento dell’istruzione e che, dunque, presenta un contenuto essenzialmente diverso da quello lato sensu organizzativo nel quale si svolge la potestà legislativa regionale.
 
3.1.13. L'operare congiunto delle competenze in materia di "ordinamento civile"
L’operare congiunto dei due titoli competenziali dell’«ordinamento civile» e della «previdenza sociale» è stato riscontrato, in primo luogo, nella sentenza n. 50, dove la Corte dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 70, 72, 73 e 74 del d.lgs. n. 276 del 2003. Secondo la Corte, infatti, sia gli articoli da 70 a 73 che l’art. 74 rientrano in materie di competenza esclusiva dello Stato piuttosto che in quella della tutela e sicurezza del lavoro, riguardando in modo prevalente – se non esclusivo – aspetti privatistici e previdenziali relativi alle prestazioni di lavoro accessorio. I primi (articoli 70 a 73) disciplinano quelle prestazioni di natura meramente occasionale nell’ambito dei piccoli lavori domestici, di giardinaggio, d’insegnamento supplementare, di collaborazione con enti o associazioni per lo svolgimento di lavori di emergenza, prestazioni tutte accomunate dalla caratteristica di dar luogo in un anno solare a compensi che non superino un determinato tetto e la circostanza che detta disciplina riguardi soggetti ai margini del mercato del lavoro attiene alle motivazioni di politica legislativa e non agli strumenti di cui il legislatore si è avvalso. Il secondo (art. 74) prevede, escludendo ogni rilievo lavoristico, le prestazioni occasionali riguardanti attività agricole, eseguite a favore di parenti o affini sino al terzo grado.
Il binomio ordinamento civile – previdenza sociale è poi alla base di molta parte delle argomentazioni contenute nella sentenza n. 284, in tema di vigilanza sul lavoro ed ispezioni.
Innanzi tutto, la Corte chiarisce che «non è possibile determinare la competenza a regolare un’attività di vigilanza indipendentemente dalla individuazione della materia cui essa si riferisce».
In particolare, in relazione alle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, lettera d), e dell’art. 8 della legge 14 febbraio 2003, n. 30, il primo dei quali enuncia tra i criteri e principî direttivi della delega di cui al comma 1 dello stesso articolo «il mantenimento da parte dello Stato delle funzioni amministrative relative alla vigilanza in materia di lavoro», mentre il secondo delega il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi per la razionalizzazione delle funzioni ispettive in materia di previdenza sociale e di lavoro, deve escludersi che sia possibile determinare la competenza a regolare un’attività di vigilanza indipendentemente dalla individuazione della materia cui essa si riferisce, e in particolare che la vigilanza sul lavoro e le ispezioni – che della vigilanza costituiscono una modalità di esercizio – rientrino comunque nella materia «tutela del lavoro», quale che sia lo specifico oggetto sul quale vertono. Non è infatti possibile determinare la competenza a regolare un’attività di vigilanza indipendentemente dalla individuazione della materia cui essa si riferisce, mentre la regolamentazione delle sanzioni amministrative, essendo finalizzata al rispetto di una normativa dalla quale, ai fini del riparto di competenza legislativa, riceve la propria connotazione, spetta al soggetto nella cui sfera di competenza rientra la disciplina della materia, la cui inosservanza costituisce l’atto sanzionabile. Pertanto, deve escludersi che le deleghe di cui alle disposizioni censurate, relative alla disciplina dei rapporti intersoggettivi tra datore di lavoro e lavoratore e alla previdenza sociale, si riferiscano alla tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori.
Vengono poi dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 1, comma 1, primo periodo, e 6, comma 1, del decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124, i quali, rispettivamente, prevedono che «il Ministero del lavoro e delle politiche sociali assume e coordina, nel rispetto delle competenze affidate alle Regioni ed alle Province autonome, le iniziative di contrasto del lavoro sommerso e irregolare, di vigilanza in materia di rapporti di lavoro e dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, con particolare riferimento allo svolgimento delle attività di vigilanza mirate alla prevenzione e alla promozione dell’osservanza delle norme di legislazione sociale e del lavoro, ivi compresa l’applicazione dei contratti collettivi di lavoro e della disciplina previdenziale» e che «le funzioni di vigilanza in materia di lavoro e di legislazione sociale sono svolte dal personale ispettivo in forza presso le direzioni regionali e provinciali del lavoro». Nella specie, peraltro la Corte sottolinea che, vertendo la vigilanza su materie di competenza esclusiva statale, non vengono in considerazione il principio di sussidiarietà e le modalità della sua attuazione.
Si dichiarano non fondate anche le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 2; 3, commi da 1 a 4; 4; 5, commi da 1 a 3, del decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124, censurati, per la parte in cui (a) prevedono l’affidamento a strutture statali, quali la direzione generale del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, le direzioni regionali e quella provinciale, di compiti di coordinamento della vigilanza, (b) dispongono che l’istituenda Commissione centrale di coordinamento dell’attività di vigilanza relativamente alle azioni di contrasto del lavoro sommerso e irregolare sia regolata con legge statale, e sia composta da rappresentati di amministrazioni statali nominati da un organo dello Stato, (c) attribuiscono alla Commissione il compito di definire sia le modalità di attuazione e di funzionamento della banca dati di cui all’art. 10, comma 1, sia le linee di indirizzo per la realizzazione del modello unificato di verbale di rilevazione degli illeciti in materia di lavoro, di previdenza e assistenza obbligatoria, (d) stabiliscono che anche le Commissioni regionali di coordinamento siano composte con criteri analoghi a quelli della Commissione centrale, (e) prevedono l’inserimento nell’ambito della Commissione centrale del coordinatore nazionale delle aziende, (f) affidano il coordinamento provinciale dell’attività di vigilanza alle direzioni provinciali del lavoro, con conseguente attribuzione di funzioni amministrative ad organi statali in materia di tutela del lavoro. Secondo la Corte, infatti, escluso che la illegittimità di tali disposizioni dipenda dalla illegittimità degli articoli 1 e 6, la vigilanza regolata dalla normativa impugnata attiene alle materie dell’ordinamento civile e della previdenza sociale. In particolare,le attività concernenti l’emersione del lavoro sommerso e il contrasto al lavoro irregolare rientrano in larga prevalenza, in via diretta, nell’ordinamento civile, con riflesso, in via mediata, negli ordinamenti tributario e previdenziale, tutti di competenza esclusiva dello Stato. L’attribuzione ad organi statali della definizione delle modalità di attuazione e funzionamento della banca dati, nonché delle «linee di indirizzo per la realizzazione del modello unificato di verbale di rilevazione degli illeciti in materia di lavoro, di previdenza e assistenza obbligatoria ad uso degli organi di vigilanza», è in rapporto di dipendenza con l’attribuzione in prevalenza allo Stato delle materie su cui verte la vigilanza, risultando del resto irragionevole, stante lo stretto intreccio dell’assistenza con la previdenza sotto i profili contributivo e gestionale, la separazione della vigilanza su una materia da quella sull’altra, tanto più che l’assistenza è attività nella quale vengono in particolare rilievo i diritti sociali cui possono riferirsi i livelli essenziali delle prestazioni da assicurare su tutto il territorio nazionale.
Non fondata è pure la questione di legittimità costituzionale dell’art. 7 del decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124, relativo ai compiti del personale ispettivo, in quanto la disposizione censurata si riferisce al personale statale, al personale ispettivo degli enti previdenziali specificamente indicati al comma 3 dell’art. 6 dello stesso decreto, nonché a quello degli altri enti per i quali sussiste la contribuzione obbligatoria, cui pure si riferisce il citato comma 3, sicché essa deve essere letta nel senso che il personale ispettivo è quello di enti che comunque svolgono compiti di previdenza obbligatoria, materia di esclusiva competenza statale.
Ad analogo esito si giunge per le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 8, commi 1, 2 e 5, del decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124, recante la rubrica Prevenzione e promozione, in quanto le disposizioni censurate prevedono attività dirette a promuovere l’osservanza delle norme in materia di lavoro e di previdenza, di competenza esclusiva dello Stato, con l’utilizzazione di personale statale o di enti cui è affidata la previdenza obbligatoria, al quale sono devoluti compiti di consulenza a favore delle imprese e dei datori di lavoro in genere, anche mediante «indicazioni operative sulle modalità per la corretta attuazione della predetta normativa».
Sulla base della considerazione, posta a base di tutta la motivazione della sentenza, che la vigilanza, non può essere ricondotta alla materia di competenza concorrente «tutela e sicurezza del lavoro», ma attiene alle materie cui si riferisce, la Corte dichiara non fondate anche le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 14, comma 2, 15, comma 1, 16, commi 1 e 2, e 17, commi 1 e 2, del decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124. Le questioni muovono dall’erroneo presupposto che la disposizione censurata, la quale prevede l’esecutività delle disposizioni impartite dal personale ispettivo in materia di lavoro e di legislazione sociale, disciplinando la vigilanza atterrebbe comunque alla tutela del lavoro.
 
3.1.14 "Coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell'amministrazione statale, regionale e locale"
Nella sentenza n. 50, la Corte chiarisce che la disciplina in materia di conduzione coordinata ed integrata del sistema informativo lavoro rientra nella materia di competenza esclusiva dello Stato «coordinamento informativo, statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale». Viene al riguardo sottolineato che «la conduzione diretta del sistema informativo statistico e informatico – dato che questo non può non riguardare l’intero territorio nazionale – costituisce un mezzo idoneo a che il sistema stesso risulti complessivamente coordinato».
Peraltro, la disposizione della legge n. 30 del 2003, volta a mantenere in capo allo Stato le competenze in materia, non esclude la facoltà delle Regioni di disciplinare la predisposizione in sede regionale di sistemi di raccolta dati e deve essere valutata insieme con quelle del decreto delegato concernenti il sistema suindicato che prevedono strumenti volti a garantire il coinvolgimento delle Regioni nella gestione del sistema informatico.
La materia del coordinamento informativo è stata presa in considerazione anche nell’ambito della sentenza n. 336, avente ad oggetto il decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche). In particolare, tra le varie questioni sollevate, le Regioni ricorrenti censuravano l’allegato n. 13 al decreto legislativo impugnato, il quale, determinando il contenuto dei modelli da usare nella presentazione dell’istanza di autorizzazione e della denuncia di inizio attività, avrebbe integrato l’esercizio di una potestà regolamentare, che lo Stato non può legittimamente esercitare in materie diverse da quelle riservate alla sua competenza esclusiva.
Onde dichiarare non fondata la questione, la Corte sottolinea che l’allegato n. 13, malgrado il fatto che il Codice ne preveda la modificabilità con atti regolamentari e amministrativi, deve considerarsi pur sempre atto di natura legislativa, sicché esso conserva il regime giuridico della fonte in cui è inserito. Sul merito della questione, la Corte osserva che la disciplina impugnata è riconducibile alla competenza esclusiva dello Stato in tema di «coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale». L’art. 87, comma 3, del Codice, infatti, riguardo al modello A dell’allegato n. 13, dispone che esso sia «realizzato al fine della sua acquisizione su supporti informatici e destinato alla formazione del catasto nazionale delle sorgenti elettromagnetiche di origine industriale». Gli elementi, puntualmente indicati dalla norma in esame, hanno, infatti, natura prevalentemente tecnica e sono destinati a confluire in una banca dati centralizzata per la costituzione di un catasto nazionale di raccolta dei dati stessi. Quanto invece ai modelli B e C dell’allegato n. 13 – concernenti, rispettivamente, la denuncia di inizio attività e la istanza di autorizzazione per opere civili, scavi e occupazione di suolo pubblico in aree urbane – l’art. 87, comma 3, e l’art. 88, comma 1 – con norma espressione del principio fondamentale volto a garantire la celere conclusione dei procedimenti – ne prevedono espressamente l’applicabilità in via suppletiva, solo nel caso in cui gli enti locali non abbiano predisposto i modelli equivalenti.
Un cenno merita anche la sentenza n. 271. Nell’esaminare le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 12, 13 e 14 della legge della Regione Emilia-Romagna 24 maggio 2004, n. 11 (Sviluppo regionale della società dell’informazione), sollevate dal Presidente del Consiglio dei ministri per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettere l), m) e r), e sesto comma, della Costituzione, nonché dei principî della legislazione statale in materia di protezione dei dati personali, la Corte afferma, tra l’altro, che il «coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale» si risolve – appunto – in un potere legislativo di coordinamento, il cui mancato esercizio non preclude autonome iniziative delle Regioni aventi ad oggetto la razionale ed efficace organizzazione delle basi di dati che sono nella loro disponibilità ed anche il loro coordinamento paritario con le analoghe strutture degli altri enti pubblici o privati operanti sul territorio. Il problema sorgerebbe solo nel momento in cui il legislatore statale dettasse normative nei medesimi ambiti a fine di coordinamento.
D’altra parte questo esclusivo potere legislativo statale concerne solo un coordinamento di tipo tecnico che venga ritenuto opportuno dal legislatore statale e il cui esercizio, comunque, non può escludere una competenza regionale nella disciplina e gestione di una propria rete informativa.
 
3.1.15. L'operare congiunto delle competenze in materia di "ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli pubblici nazionali" e di "coordinamento informativo statistico e informativo dei dati dell'amministrazione statale, regionale e locale"
Nella sentenza n. 31, la Corte, con decisione interpretativa, dichiara non fondate le censure formulate nei confronti dei commi 1, secondo periodo, dell’art. 26 della legge n. 289 del 2003, che prevedono che il Ministro per l’innovazione e le tecnologie con «uno o più decreti di natura non regolamentare», stabilisca le modalità di funzionamento del Fondo per il finanziamento di progetti di innovazione tecnologica nelle pubbliche amministrazioni e nel Paese, individui i progetti da finanziare e, ove necessario, la relativa ripartizione, tra le amministrazioni interessate, delle risorse affluenti al Fondo stesso, e nei confronti del comma 2 dello stesso art. 26, che, «al fine di assicurare una migliore efficacia della spesa informatica e telematica sostenuta dalle pubbliche amministrazioni, di generare significativi risparmi eliminando duplicazioni e inefficienze, promuovendo le migliori pratiche e favorendo il riuso, nonché di indirizzare gli investimenti nelle tecnologie informatiche e telematiche, secondo una coordinata e integrata strategia», assegna al Ministro per l’innovazione e le tecnologie una serie di poteri riconducibili alle suddette finalità.
Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 26 si riferiscono, innanzitutto, all’amministrazione dello Stato e degli enti pubblici nazionali: per questa parte, pertanto, esse rinvengono la propria legittimazione nell’art. 117, secondo comma, lettere g) e r), della Costituzione, che assegnano alla competenza legislativa esclusiva statale, rispettivamente, le materie «ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali» e «coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale».
Le norme in questione sono suscettibili, però, di trovare applicazione anche nei confronti delle Regioni e degli enti locali, come risulta dal terzo comma dello stesso art. 26, il quale prevede che i progetti – «di cui ai commi 1 e 2» – possono riguardare «l’organizzazione e la dotazione tecnologica delle Regioni e degli enti territoriali», e dispone che, in tal caso, è necessario sentire la Conferenza unificata di cui al decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281.
Sotto tale aspetto, dunque, tali norme, pur potendo avere una diretta incidenza sulla «organizzazione amministrativa regionale e degli enti locali», non determinano alcuna violazione – nei limiti in cui siano garantite adeguate procedure collaborative – delle competenze della ricorrente. Le disposizioni in esame, infatti, devono essere interpretate, conformemente a Costituzione, nel senso che le stesse – nella parte in cui riguardano Regioni ed enti territoriali – costituiscono espressione della potestà legislativa esclusiva statale nella materia del «coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale», ex art. 117, secondo comma, lettera r), della Costituzione.
La Corte ha, in proposito, già avuto modo di sottolineare che l’attribuzione a livello centrale della suddetta materia si giustifica alla luce della necessità di «assicurare una comunanza di linguaggi, di procedure e di standard omogenei, in modo da permettere la comunicabilità tra i sistemi informatici della pubblica amministrazione» (sentenza n. 17 del 2004).
Ne consegue, pertanto, che «i progetti da finanziare» cui fa riferimento il primo comma dell’art. 26 della legge n. 289 del 2002 – nella misura in cui «riguardino l’organizzazione e la dotazione tecnologica delle Regioni e degli enti territoriali» (comma 3) – possono essere esclusivamente quelli aventi una connotazione riconducibile a siffatta finalità di coordinamento tecnico. Del resto, lo stesso decreto ministeriale 14 ottobre 2003 di attuazione della disposizione in esame ha indicato, tra i «progetti finanziabili», anche quelli idonei a promuovere «l’interoperabilità e la cooperazione applicativa tra pubbliche amministrazioni» (art. 2, comma 1).
Allo stesso modo, la norma contenuta nell’art. 26, comma 2, deve essere intesa – nella parte in cui riguarda Regioni ed enti locali – come attributiva al Ministro della innovazione e delle tecnologie di un potere limitato ad un coordinamento meramente tecnico. Questa interpretazione è suffragata dalle medesime finalità indicate nella disposizione in esame: «assicurare una migliore efficacia della spesa informatica e telematica»; «generare significativi risparmi eliminando duplicazioni e inefficienze, promuovendo le migliori pratiche e favorendo il riuso»; «indirizzare gli investimenti nelle tecnologie informatiche e telematiche, secondo una coordinata e integrata strategia». Sul punto, la Corte, nella sentenza n. 17 del 2004, ha, infatti, precisato che «attengono al predetto coordinamento anche i profili della qualità dei servizi e della razionalizzazione della spesa in materia informatica», ove ritenuti necessari al fine di garantire la omogeneità nella elaborazione e trasmissione dei dati.
È invece fondata l’ulteriore questione sollevata, relativa al comma 3 dello stesso art. 26, nella parte in cui dispone che deve essere sentita la Conferenza unificata nei casi in cui i progetti di cui ai commi 1 e 2 «riguardino l’organizzazione e la dotazione tecnologica delle Regioni e degli enti territoriali» poiché la previsione del mero parere non costituisce una misura adeguata a garantire il rispetto del principio di leale collaborazione. Per quanto la disposizione in esame, sia riconducibile alla materia del «coordinamento informativo statistico e informatico» di spettanza esclusiva del legislatore statale, lo stessa presenta un contenuto precettivo idoneo a determinare una forte incidenza sull’esercizio concreto delle funzioni nella materia dell’«organizzazione amministrativa delle Regioni e degli enti locali». Ciò rende necessario garantire un più incisivo coinvolgimento di tali enti nella fase di attuazione delle disposizioni censurate mediante lo strumento dell’intesa: da qui la illegittimità costituzionale dell’art. 26, comma 3, della legge n. 289 del 2002 nella parte in cui prevede che sia «sentita la Conferenza unificata» anziché che si raggiunga con la stessa Conferenza l’intesa.
 
3.1.16 "Tutela dell'ambiente [e] dell'ecosistema"
Ponendosi nel solco di un orientamento ormai consolidato, nell’anno 2005 la Corte conferma il principio secondo cui l’inserimento della materia «tutela dell’ambiente» nel novero di quelle di competenza esclusiva dello Stato non è sostanzialmente inteso ad eliminare la preesistente pluralità di titoli di legittimazione per interventi regionali diretti a soddisfare contestualmente, nell’ambito delle proprie competenze, ulteriori esigenze rispetto a quelle di carattere unitario definite dallo Stato.
In applicazione di tali principî, in una fattispecie concreta, si è evidenziato – sentenza n. 135 – come la disciplina sulle attività a rischio rilevante, incidendo su una pluralità di interessi e di oggetti, in parte di competenza esclusiva dello Stato, ma in parte anche di competenza concorrente delle Regioni, consenta «una serie di interventi regionali nell’ambito, ovviamente, dei principî fondamentali della legislazione statale in materia».
Alcune sentenze, pur mantenendosi nel solco tracciato dalle precedenti, hanno apportato ulteriori specificazioni. Tra queste può menzionarsi la sentenza n. 214, la quale, nel ribadire che la tutela dell’ambiente, di cui alla lettera s) dell’art. 117, secondo comma, della Costituzione, si configura come una competenza statale sovente connessa ed intrecciata inestricabilmente con altri interessi e competenze regionali concorrenti, ha avuto modo di precisare che, nell’ambito di dette competenze concorrenti, risultano legittimi gli interventi posti in essere dalla Regione stessa, nel rispetto dei principî fondamentali della legislazione statale in materia ed altresì l’adozione di una disciplina maggiormente rigorosa rispetto ai limiti fissati dal legislatore statale. Nel medesimo senso, la sentenza n. 108 ha sottolineato che la tutela dell’ambiente si configura come una competenza statale non rigorosamente circoscritta e delimitata, ma connessa e intrecciata con altri interessi e competenze regionali concorrenti, e che, nell’ambito di dette competenze concorrenti, risulta legittima l’adozione di una disciplina regionale maggiormente rigorosa rispetto ai limiti fissati dal legislatore statale: la competenza esclusiva dello Stato non è incompatibile con interventi specifici del legislatore regionale che si attengano alle proprie competenze.
Giova, altresì, segnalare la sentenza n. 62, che ha operato un sintetico raffronto tra il nuovo ed il vecchio quadro costituzionale, evidenziando come, per quanto riguarda la disciplina ambientale, non solo le Regioni ordinarie non abbiano acquisito maggiori competenze, invocabili anche dalle Regioni speciali, ma, al contrario, una competenza legislativa esclusiva in tema di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema sia stata espressamente riconosciuta allo Stato, sebbene in termini che non escludono il concorso di normative delle Regioni, fondate sulle rispettive competenze, al conseguimento di finalità di tutela ambientale; il che può avvenire in tema di tutela della salute e di governo del territorio, ovviamente nel rispetto dei livelli minimi di tutela apprestati dallo Stato e dell’esigenza di non impedire od ostacolare gli interventi statali necessari per la soddisfazione di interessi unitari, eccedenti l’ambito delle singole Regioni. Peraltro – prosegue la Corte – ciò non comporta che lo Stato debba necessariamente limitarsi, allorquando individui l’esigenza di interventi di questa natura, a stabilire solo norme di principio, lasciando sempre spazio ad una ulteriore normativa regionale.
Queste definizioni della materia «ambiente» sono state applicate, a più riprese, nella decisione di fattispecie specifiche. Operando una schematizzazione a meri fini espositivi, possono distinguersi, in particolare, quattro ambiti fondamentali, concernenti (a) i parchi e le aree protette, (b) la prevenzione di incidenti rilevanti, (c) la gestione di rifiuti e (d) la protezione della fauna.
a) La Corte esamina, nella sentenza n. 108, la legge della Regione Umbria 29 dicembre 2003, n 23, impugnata dallo Stato per asserita violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, in quanto (a) vieta l’apertura di nuove cave e la riattivazione di cave dismesse all’interno di parchi nazionali e regionali, comprese le aree contigue, e (b) consente, all’interno delle predette aree, interventi di ampliamento o completamento delle cave in esercizio e di reinserimento o recupero ambientale di cave dismesse, fermo restando che non sono consentiti interventi di ampliamento ad eccezione di quelli destinati alla estrazione di pietre ornamentali in corso di attività alla data di entrata in vigore della legge.
La Corte dopo avere riaffermato la complessa configurazione della «tutela dell’ambiente» di cui alla lettera s) dell’art. 117 della Costituzione, ritiene fondata la questione relativamente ai parchi nazionali. Si osserva, in proposito, che la legge quadro statale sulle aree protette (legge 6 dicembre 1991, n. 394), nel fissare gli standards di tutela uniformi, con l’art. 11, comma 1, prevede che l’esercizio delle attività consentite entro il territorio del parco nazionale è disciplinato con regolamento e, con il successivo comma 3, lettera b), stabilisce che nei parchi nazionali sono vietati l’apertura e l’esercizio di cave, di miniere e di discariche, nonché l’asportazione di minerali.
Dal confronto tra la norma statale interposta in materia di parchi nazionali e la norma regionale impugnata, emerge che le modifiche introdotte, lungi dal disporre una disciplina più rigorosa rispetto ai limiti fissati dal legislatore statale, derogano in peius agli standards di tutela uniforme sull’intero territorio nazionale. Né vale addurre una competenza esclusiva regionale in materia di cave a seguito della modifica del titolo V della Costituzione, poiché, nel caso di specie, si è disciplinata la materia delle cave quando le stesse insistano in un parco, e pertanto la materia «cave» va ad intrecciarsi con il valore ambiente. Quando viene toccato tale ultimo valore, la Regione può legiferare solo per fissare limiti più rigorosi di tutela, senza dunque alcuna possibilità di introdurre deroghe al divieto di svolgere nei parchi attività di cava.
D’altro canto, non può sostenersi che non esisterebbe un divieto assoluto di svolgere attività di cava nelle aree protette, tanto che la stessa legge n. 394 del 1991 prevede che tale divieto sia derogabile con il semplice regolamento del Parco, con la conseguenza che se la deroga può essere effettuata da un regolamento, a maggior ragione si potranno effettuare deroghe tramite legge. La tesi è infondata in quanto qui non viene in rilievo il rapporto di gerarchia legge-regolamento, bensì il fatto che la competenza a disciplinare la materia delle deroghe al divieto di cave nel parco è attribuita in via esclusiva, da una legge statale, al regolamento del Parco.
L’illegittimità costituzionale della norma dunque deve individuarsi non già in una presunta inammissibilità di deroghe al divieto di cave nel parco, ma nel fatto che tali deroghe possono essere eventualmente adottate tramite regolamento del Parco. Né si può convenire con la interpretazione secondo la quale il divieto di svolgere attività di cava nelle aree protette si riferisce all’apertura di nuove cave, non anche a quelle in esercizio in base a regolare concessione o dismesse senza che sia stata attuata la riambientazione del relativo sito. Parimenti infondata la tesi regionale per la quale gli interventi di ampliamento sarebbero limitati a quelli destinati alla estrazione di pietre ornamentali, poiché non sono ammissibili deroghe in peggio alla protezione dell’ambiente, senza che si possa distinguere tra «piccole deroghe» (tollerate) e «grandi deroghe» (non tollerate).
La questione non è, invece, fondata per quanto riguarda i parchi regionali.
Con riferimento alle aree naturali protette regionali, l’art. 22 della legge n. 394 del 1991 dispone che l’adozione di regolamenti delle aree protette, secondo i criteri stabiliti con legge regionale, rientra fra i principî fondamentali per la disciplina di tali aree. La legge regionale impugnata stabilisce in linea di principio il divieto di condurre cave nei parchi regionali, in conformità all’art. 11 della legge n. 394 del 1991, e prevede, in alcune ipotesi ben circoscritte, la possibilità di deroghe a tale divieto.
Il parco regionale, sottolinea la Corte, è tipica espressione dell’autonomia regionale e, a questo proposito, l’art. 23 della legge n. 394 del 1991 stabilisce che il Parco regionale è istituito con legge regionale e determina i principî del regolamento. Il regolamento può anche non essere adottato (art. 22, comma 6, della legge n. 394 del 1991), di talché, in sua mancanza, la disciplina delle attività di cava non può che essere quella regionale, poiché altrimenti il Parco regionale non potrebbe usufruire di deroghe al divieto di istituire cave nei parchi (dovendosi fare applicazione dell’art. 11 della legge n. 394 del 1991, che vieta le cave nel Parco salvo diversa previsione regolamentare).
b) Di notevole rilievo, anche per le affermazioni che recano relativamente alla materia «ambiente», le due pronunce che hanno riguardo alla prevenzione di incidenti rilevanti.
Con la sentenza n. 135, la Corte respinge il conflitto di attribuzione proposto dalla Provincia autonoma di Bolzano avente ad oggetto l’ispezione disposta dal Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio nello stabilimento MEMC Electronic Material s.r.l. di Merano, ai sensi del decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 334, nell’ambito delle verifiche relative ai pericoli di incidenti industriali rilevanti connessi con determinate sostanze pericolose, nonché il decreto 8 maggio 2002 del medesimo Direttore generale, con cui è stata istituita la commissione incaricata di svolgere la suddetta ispezione.
La Corte non ritiene che tali provvedimenti siano lesivi delle competenze legislative e amministrative in materia di igiene e sanità e di prevenzione e pronto soccorso per calamità pubbliche, attribuite alle Province autonome dallo statuto speciale per la Regione Trentino-Alto Adige e dalle relative norme di attuazione.
Al riguardo, la Corte – dopo aver richiamato la disciplina comunitaria, incentrata sulla necessità che in materia ambientale sia assicurato «un elevato livello di tutela» ispirata ai principî «della precauzione e dell’azione preventiva», prevedendo allo scopo un articolato sistema di controlli, nel cui ambito sono imposti agli Stati membri incisivi obblighi di vigilanza, volti a prevenire i pericoli di incidenti rilevanti negli impianti qualificati come pericolosi – sottolinea che il decreto di recepimento della direttiva comunitaria subordina (ai sensi dell’art. 72 del d.lgs n. 112 del 1998) il trasferimento delle competenze alle regioni alla adozione delle specifiche normative regionali volte a «garantire la sicurezza del territorio e della popolazione», alla attivazione dell’Agenzia regionale protezione ambiente e, infine, al raggiungimento di un accordo di programma tra Stato e Regione per la verifica dei presupposti per lo svolgimento delle funzioni.
In attesa di questo trasferimento, le ispezioni relative agli stabilimenti a maggior incidenza di rischio sono disposte dal Ministero dell’ambiente; le ispezioni sono svincolate da qualsiasi cadenza periodica e possono svolgersi in tutti gli stabilimenti a rischio di incidenti (e cioè sia in quelli soggetti ex art. 8 all’obbligo del rapporto di sicurezza sia in quelli tenuti soltanto, ai sensi dell’art. 7, ad una politica di prevenzione comprensiva di un sistema di gestione della sicurezza).
Sulla base di tali premesse, la Corte ricorda che la disciplina degli incidenti a rischio rilevante, pur riconducibile alla «tutela dell’ambiente» di esclusiva spettanza dello Stato, può incidere anche su oggetti ed interessi di competenza concorrente delle Regioni, e dunque consente interventi regionali nell’ambito dei principî fondamentali della legislazione statale in materia. Peraltro, prosegue la Corte, ove si consideri la centralità delle verifiche ispettive nella disciplina dei controlli sui rischi di incidenti rilevanti, tali da consentire «un esame pianificato e sistematico dei sistemi tecnici, organizzativi e di gestione applicati» nei diversi stabilimenti, adeguato alle peculiarità di ciascuno di essi, secondo criteri di sicurezza comuni (art. 18 direttiva 96/82/CE), deve riconoscersi che rientra nella ratio di una effettiva tutela dell’ambiente riservare allo Stato, non soltanto un potere di disciplina uniforme per tutto il territorio nazionale, ma anche le potestà amministrative necessarie a garantire l’adeguatezza degli standards di precauzione. In quest’ottica, si conclude, l’art. 25, comma 6, del decreto legislativo n. 334 del 1999, nel riconoscere la permanenza di un potere ispettivo generale in capo al Ministero dell’ambiente, può ritenersi costituire norma fondamentale, cui la provincia di Bolzano è tenuta ad adeguarsi secondo quanto disposto dall’art. 1, comma 2, del decreto legislativo in esame.
Strettamente connessa con le affermazioni contenute nella sentenza n. 135 è la sentenza n. 214, che dichiara la infondatezza della questione sollevata nei confronti della legge della Regione Emilia-Romagna 17 dicembre 2003, n. 26, in quanto, disciplinando la predisposizione di «piani di emergenza esterni», relativamente agli stabilimenti in cui si impiegano sostanze pericolose, al fine di limitare gli effetti dannosi derivanti da incidenti rilevanti, ne attribuisce la competenza alle Province; ciò che avrebbe violato la competenza esclusiva statale in materia di tutela dell’ambiente.
La Corte dopo aver precisato la nozione e la valenza costituzionale della «tutela dell’ambiente», ritiene che la disciplina dei piani di emergenza esterni, che riserva allo Stato il compito di fissare standards di tutela uniformi sull’intero territorio nazionale (art. 20 del d.lgs. n. 334 del 1999), non esclude la compatibilità con interventi specifici del legislatore regionale Per quanto concerne il tema dei pericoli di incidenti rilevanti connessi con determinate sostanze pericolose, la Corte rileva che l’art. 20, comma 1, del d.lgs. n. 334 del 1999 prevede la predisposizione di piani di emergenza esterni agli stabilimenti a cura del prefetto, d’intesa con le Regioni e gli enti locali interessati, previa consultazione della popolazione, con lo scopo di controllare e circoscrivere gli incidenti già avvenuti, limitare i danni, informare la popolazione, risanare l’ambiente.
L’oggetto del contendere attiene a competenze amministrative, che la legge regionale impugnata ha assegnato alla Provincia, mentre la legge statale le attribuisce al prefetto. A tal fine, la Corte sottolinea che il d.lgs. n. 334 del 1999 dispone (all’art. 18) che la Regione disciplina, ai sensi dell’art. 72 del d.lgs. n. 112 del 1998, l’esercizio delle competenze amministrative in materia di incidenti rilevanti, individuando, fra l’altro, le autorità titolari delle funzioni amministrative e dei provvedimenti discendenti dall’istruttoria tecnica e stabilisce le modalità per l’adozione degli stessi. È evidente, allora, che sia la stessa normativa statale a consentire interventi sulle competenze amministrative da parte della legge regionale, e che, pertanto, la norma impugnata non interferisca illegittimamente con la potestà legislativa statale là dove questa prevede la competenza del prefetto (art. 20 del d.lgs. n. 334 del 1999).
In effetti, è lo stesso art. 20, ultimo comma, del d.lgs. n. 334 del 1999 a porre come limite della sua vigenza l’attuazione dell’art. 72 del d.lgs. n. 112 del 1998, il quale conferisce alla Regione le competenze amministrative in materia – tra l’altro – di adozione di provvedimenti in tema di controllo dei pericoli da incidenti rilevanti, discendenti dall’istruttoria tecnica. L’attribuzione alla Provincia, da parte della Regione, con l’art. 3 della legge regionale n. 26 del 2003, di una competenza amministrativa ad essa conferita dall’art. 72 d.lgs. n. 112 del 1998, non solo non viola la potestà legislativa dello Stato (sentenza n. 259 del 2004), ma costituisce applicazione di quanto alla Regione consente la stessa legge statale, sia pure in attesa dell’accordo di programma previsto dalla norma statale. La normativa impugnata non è peraltro operante, come espressamente riconosce la legge regionale n. 26 del 2003 (art. 3, comma 3), dal momento che le funzioni Provinciali relative alla valutazione del rapporto di sicurezza saranno esercitate solo ed a seguito del perfezionamento della procedura di cui all’art. 72, comma 3, del d.lgs. n. 112 del 1998, cioè dopo che sarà perfezionato l’accordo di programma tra Stato e Regione in ordine alla verifica dei presupposti per lo svolgimento delle funzioni, nonché per le procedure di dichiarazione.
c) Con riferimento alla gestione dei rifiuti, sono stati oggetto di statuizione da parte della Corte la circolazione extra-regionale dei rifiuti (sentenza n. 161) e, soprattutto, la gestione dei rifiuti radioattivi (sentenza n. 62).
Nella sentenza n. 161, si dichiaral’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge della Regione Basilicata 31 agosto 1995, n. 59, nella parte in cui fa divieto a chiunque conduca nel territorio della Regione Basilicata impianti di smaltimento e/o stoccaggio di rifiuti, anche in via provvisoria, di accogliere negli impianti medesimi rifiuti, diversi da quelli urbani non pericolosi, provenienti da altre regioni o nazioni.
Al riguardo, la Corte ricorda che il principio dell’autosufficienza locale nello smaltimento dei rifiuti in ambiti territoriali ottimali vale, ai sensi dell’art. 5, comma 3, lettera a), del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, solo per i rifiuti urbani non pericolosi e non anche per altri tipi di rifiuti, per i quali vige invece il diverso criterio della vicinanza di impianti di smaltimento appropriati, per ridurre il movimento dei rifiuti stessi, correlato a quello della necessità di impianti specializzati per il loro smaltimento. Ed a siffatto criterio sono stati ritenuti soggetti i rifiuti speciali, definiti (sentenza n. 505 del 2002), sia pericolosi (sentenza n. 281 del 2000) che non pericolosi (sentenza n. 335 del 2001).
L’impugnata legge regionale pone un generale divieto per chiunque conduca nel territorio della Regione Basilicata impianti di smaltimento e/o stoccaggio di rifiuti, anche in via provvisoria, di accogliere negli impianti medesimi rifiuti provenienti da altre regioni o nazioni. Tale divieto, se è legittimo con riferimento ai rifiuti urbani non pericolosi, si pone, invece, in contrasto con la Costituzione, nella parte in cui si applica a tutti gli altri tipi di rifiuti di provenienza extraregionale, in quanto invade la competenza esclusiva attribuita allo Stato in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema dall’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, e viola i principî fondamentali della legislazione statale contenuti nel decreto legislativo n. 22 del 1997. Il divieto, inoltre, impone un vincolo alle Regioni non consentito dall’art. 120, primo comma, della Costituzione, che vieta ogni misura atta ad ostacolare la libera circolazione delle cose e delle persone tra le Regioni (sentenza n. 505 del 2002).
Nella sentenza n. 62 si accoglie l’impugnativa del Governo avverso tre leggi regionali, rispettivamente delle Regioni Sardegna (legge regionale 3 luglio 2003, n. 8), Basilicata (legge regionale 21 novembre 2003, n. 31) e Calabria (legge regionale 5 dicembre 2003, n. 26), che dichiarano il territorio regionale come territorio «denuclearizzato», precluso al transito ed alla presenza di materiali nucleari provenienti da altri territori.
Per quanto riguarda la Regione Sardegna, la Corte ritiene che l’intervento legislativo regionale non trovi fondamento in alcuna delle competenze attribuite alla Regione dallo statuto speciale e dalla Costituzione.
In proposito, non vale invocare la competenza legislativa primaria in materia di «edilizia ed urbanistica» (art. 3, lettera f, dello statuto), che non comprende ogni disciplina di tutela ambientale, e deve comunque esercitarsi – quando si tratti, ciò che non è nella specie, di ambiti in cui le Regioni ordinarie non abbiano acquisito, con il nuovo Titolo V della Parte seconda della Costituzione, maggiori competenze invocabili anche dalle Regioni speciali in forza dell’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001 (cfr. sentenza n. 536 del 2002) – nei limiti statutari delle norme fondamentali di riforma economico-sociale e degli obblighi internazionali e comunitari.
Né, in proposito, può valere il riferimento all’art. 58 delle norme di attuazione dello statuto sardo di cui al d.P.R. n. 348 del 1979, che si limita a trasferire alla Regione le funzioni amministrative concernenti gli interventi per la protezione della natura, le riserve ed i parchi naturali, ed all’art. 80 del d.P.R. n. 616 del 1977, il quale, pur includendo la «protezione dell’ambiente» nell’ambito della disciplina dell’uso del territorio riconducibile alla materia «urbanistica», non ha fatto venir meno le competenze statali in materia specificamente ambientale.
Ancor meno la legge censurata può giustificarsi in base alla competenza concorrente della Regione in materia di salute pubblica, protezione civile e governo del territorio: mentre questi ultimi due titoli di competenza non aggiungono nulla ai poteri della Regione in campo ambientale, in presenza della competenza statale di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), i poteri della Regione nel campo della tutela della salute non possono consentire, sia pure in nome di una protezione più rigorosa della salute degli abitanti della Regione medesima, interventi preclusivi suscettibili, come nella specie, di pregiudicare, insieme ad altri interessi di rilievo nazionale (cfr. sentenza n. 307 del 2003), il medesimo interesse della salute in un ambito territoriale più ampio, come avverrebbe in caso di impossibilità o difficoltà a provvedere correttamente allo smaltimento di rifiuti radioattivi.
In ogni caso, alle Regioni, sia ad autonomia ordinaria sia ad autonomia speciale, è sempre interdetto adottare misure di ogni genere capaci di ostacolare «in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose tra le Regioni» (art. 120, primo comma, Cost.); e la normativa impugnata, che preclude il transito e la presenza, anche provvisoria, di materiali nucleari provenienti da altri territori, è una misura tra quelle che alle Regioni sono vietate dalla Costituzione.
Inoltre, il problema dello smaltimento dei rifiuti di origine industriale pericolosi non può essere risolto sulla base di un criterio di «autosufficienza» delle singole Regioni (cfr. sentenze n. 281 del 2000, n. 335 del 2001, n. 505 del 2002), poiché occorre tener conto della eventuale irregolare distribuzione nel territorio delle attività che producono tali rifiuti, nonché, nel caso dello smaltimento dei rifiuti radioattivi, della necessità di trovare siti particolarmente idonei per conformazione del terreno e possibilità di collocamento in sicurezza dei rifiuti medesimi. La comprensibile spinta, spesso presente a livello locale, ad ostacolare insediamenti che gravino il rispettivo territorio degli oneri connessi (secondo il noto detto «not in my backyard»), non può tradursi in un impedimento insormontabile alla realizzazione di impianti necessari per una corretta gestione del territorio e degli insediamenti al servizio di interessi di rilievo ultraregionale.
La medesima ratio decidendi conduce alla declaratoria di incostituzionalità della legge regionale della Basilicata, in ordine alla quale la Corte si limita a sottolineare che non può essere invocato, a difesa della legge, un potere di intervenire a difesa della salute con misure più rigorose di quelle fissate dallo Stato, poiché la Regione non può in ogni caso adottare misure che pregiudichino, insieme con altri interessi di rilievo nazionale, lo stesso interesse alla salute in un ambito più vasto, come accadrebbe se si ostacolasse la possibilità di smaltire correttamente i rifiuti radioattivi.
Per le stesse ragioni riferite a proposito delle precedenti leggi regionali, viene dichiarata la incostituzionalità della legge regionale della Calabria impugnata.
Con la stessa sentenza n. 62, la Corte esamina l’impugnativa della Regione Basilicata avverso il decreto legge 14 novembre 2003, n. 314, nel testo risultante dalla legge di conversione 24 dicembre 2003, n. 368, dove si prevede che la sistemazione in sicurezza dei rifiuti radioattivi, degli elementi di combustibile irraggiati e dei materiali nucleari, ivi inclusi quelli rivenienti dalla disattivazione delle centrali elettronucleari e degli impianti di ricerca e di fabbricazione del combustibile, sia effettuata presso il Deposito nazionale, riservato ai soli rifiuti di III categoria, che costituisce «opera di difesa militare di proprietà dello Stato»; e che il sito sia individuato entro un anno dal Commissario straordinario nominato ai sensi dell’art. 2, sentita l’apposita Commissione tecnico-scientifica, e previa intesa in sede di conferenza unificata Stato-Regioni-autonomie locali, ovvero, in mancanza del raggiungimento dell’intesa entro il termine stabilito, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri previa deliberazione del Consiglio dei ministri (art. 1, comma 1).
La ricorrente lamenta la violazione delle competenze legislative della Regione in materia di tutela della salute, protezione civile e governo del territorio, nonché dei principî costituzionali di sussidiarietà e leale collaborazione tra Stato e Regioni.
La Corte dichiara la questione parzialmente fondata. Al riguardo, si osserva che la competenza statale in tema di tutela dell’ambiente, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., è tale da offrire piena legittimazione ad un intervento legislativo volto a realizzare un impianto necessario per lo smaltimento dei rifiuti radioattivi, oggi conservati in via provvisoria in diversi siti, ma destinati a trovare una loro collocazione definitiva che offra tutte le garanzie necessarie sul piano della protezione dell’ambiente e della salute. La concomitante possibilità per le Regioni di intervenire, anche perseguendo finalità di tutela ambientale, non comporta che lo Stato debba necessariamente limitarsi, allorquando individui l’esigenza di interventi di questa natura, a stabilire solo norme di principio, lasciando sempre spazio ad una ulteriore normativa regionale.
Del pari, l’attribuzione delle funzioni amministrative il cui esercizio sia necessario per realizzare interventi di rilievo nazionale può essere disposta, in questo ambito, dalla legge statale, nell’esercizio della competenza legislativa esclusiva di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, ed in base ai criteri generali dettati dall’art. 118, primo comma, della Costituzione, vale a dire ai principî di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza.
Nella specie, la localizzazione e la realizzazione di un unico impianto destinato a consentire lo smaltimento dei rifiuti radioattivi potenzialmente più pericolosi, esistenti o prodotti sul territorio nazionale, costituiscono certamente compiti il cui esercizio unitario può richiedere l’attribuzione della competenza ad organi statali.
Tuttavia, quando gli interventi dello Stato, in vista di interessi unitari di tutela ambientale, concernono l’uso del territorio, ed in particolare la realizzazione di opere e di insediamenti atti a condizionare in modo rilevante lo stato e lo sviluppo di singole aree, l’intreccio, da un lato, con la competenza regionale concorrente in materia di governo del territorio, oltre che con altre competenze regionali, dall’altro lato con gli interessi delle popolazioni insediate nei rispettivi territori, impone che siano adottate modalità di attuazione degli interventi medesimi che coinvolgano le Regioni sul cui territorio gli interventi sono destinati a realizzarsi (cfr. sentenza n. 303 del 2003).
Il livello e gli strumenti di tale collaborazione possono naturalmente essere diversi in relazione al tipo di interessi coinvolti ed alla natura ed all’intensità delle esigenze unitarie che devono essere soddisfatte.
I procedimenti concretamente configurati dal decreto legge impugnato concernono sia la individuazione del sito in cui collocare il Deposito (e dunque la scelta dell’area più idonea sotto il profilo tecnico ed in relazione ad ogni altra circostanza rilevante), sia la concreta localizzazione e la realizzazione dell’impianto.
Sotto il primo profilo, è corretto il coinvolgimento, che il decreto legge attua, delle Regioni e delle autonomie locali nel loro insieme, attraverso la Conferenza unificata Stato-Regioni-autonomie locali, chiamata a cercare l’intesa sulla individuazione del sito. Naturalmente, ove l’intesa non venga raggiunta, lo Stato deve essere posto in condizioni di assicurare egualmente la soddisfazione dell’interesse unitario coinvolto, di livello ultraregionale. Pertanto, in caso di mancata intesa, la individuazione del sito è rimessa ad un provvedimento adottato dal Presidente del Consiglio dei ministri, previa delibera del Consiglio dei ministri, e dunque col coinvolgimento del massimo organo politico-amministrativo, che assicura il livello adeguato di relazione tra organi centrali e autonomie regionali costituzionalmente garantite.
Quando, però, una volta individuato il sito, si debba provvedere alla sua «validazione», alla specifica localizzazione ed alla realizzazione dell’impianto, l’interesse territoriale da prendere in considerazione ed a cui deve essere offerta, sul piano costituzionale, adeguata tutela, è quello della Regione nel cui territorio l’opera è destinata ad essere ubicata. A questo livello, il semplice coinvolgimento della Conferenza unificata, il cui intervento non può sostituire quello, costituzionalmente necessario, della singola Regione interessata (cfr. sentenze n. 338 del 1994, n. 242 del 1997, n. 303 del 2003 e n. 6 del 2004).
Da questo punto di vista, la disciplina recata dal decreto legge impugnato è carente, poiché prevede che alla «validazione» del sito provveda il Consiglio dei ministri, sulla base degli studi della Commissione tecnico-scientifica, e sentiti i soli pareri di enti nazionali.
È dunque necessario, al fine di ricondurre tali previsioni a conformità alla Costituzione, che siano previste forme di partecipazione al procedimento della Regione interessata, fermo restando che, per il caso di dissenso irrimediabile, possono essere previsti meccanismi di deliberazione definitiva da parte di organi statali, con adeguate garanzie procedimentali.
Una garanzia, pur minima, della Regione è invece presente nella previsione del comma 2, primo periodo, dell’art. 2, ai cui sensi il Commissario straordinario è autorizzato ad adottare, anche in sostituzione dei soggetti competenti, tutti i provvedimenti e gli atti di qualsiasi natura necessari alla progettazione, all’istruttoria, all’affidamento e alla realizzazione del Deposito nazionale, con le modalità di cui all’articolo 13 del decreto legge 25 marzo 1997, n. 67, convertito con modificazioni dalla legge 23 maggio 1997, n. 135. In effetti, il comma 4, secondo periodo, di detto art. 13 prevede che, ove il Commissario, decorso un termine per l’adozione degli atti necessari da parte delle amministrazioni competenti, provveda in sostituzione, in caso di competenza regionale, i provvedimenti siano comunicati al Presidente della Regione, il quale, entro quindici giorni, può disporne la sospensione, anche provvedendo diversamente.
Quanto alle procedure per la messa in sicurezza e lo stoccaggio dei rifiuti radioattivi di I e II categoria, cui provvede, ai sensi dell’art. 3, comma 1-bis, il Presidente del Consiglio con proprio decreto, vale osservare che per tale messa in sicurezza «si applicano le procedure tecniche e amministrative di cui agli articoli 1 e 2» del decreto (fatta eccezione per quelle speciali previste dalla legge n. 443 del 2001 e dal d.lgs. n. 190 del 2002). Pertanto, anche a seguito della dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale degli articoli 1 e 2, a tali procedure vengono ad essere estese le garanzie previste per quelle relative al Deposito nazionale.
d) La Corte costituzionale ha reso, nel 2005, tre decisioni che hanno ad oggetto la disciplina dell’attività venatoria.
Con la sentenza n. 391, ancora una volta la Corte si pronuncia su una legge regionale che indebitamente dilata i limiti temporali del prelievo venatorio. La Corte ha modo di ribadire che, sia con riferimento alle regioni ad autonomia ordinaria sia per le regioni (e province) ad autonomia speciale (sentenze n. 226 del 2003 e n. 536 del 2002), la delimitazione temporale del prelievo venatorio disposta dall’articolo 18 della legge n. 157 del 1992 «è da considerare come rivolta ad assicurare la sopravvivenza e la riproduzione delle specie cacciabili, corrispondendo quindi, sotto questo aspetto, all’esigenza di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, il cui soddisfacimento l’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione attribuisce alla competenza esclusiva dello Stato, in particolare mediante la predisposizione di standard minimi di tutela della fauna» (sentenza n. 311 del 2003).
Analoga ratio va riconosciuta alla previsione del termine giornaliero, anch’esso fissato al fine di garantire la sopravvivenza e la riproduzione delle specie cacciabili.
L’articolo unico della legge della Regione Puglia 25 agosto 2003, n. 15, procrastinando fino ad un’ora dopo il tramonto il termine di chiusura del periodo venatorio giornaliero relativo agli acquatici da appostamento che dipendono ecologicamente dalle zone umide, incide sul nucleo minimo di salvaguardia della fauna selvatica ed è pertanto costituzionalmente illegittima.
Nella sentenza n. 392, la Corte dichiara, la incostituzionalità dell’art. 7, comma 3, della Regione Friuli-Venezia Giulia n. 30 del 1999, nella parte in cui consente che all’esecuzione di piani di abbattimento di fauna selvatica procedano, oltre ai soggetti di cui all’art. 19, comma 2, della legge 11 febbraio 1992, n. 157, anche le Riserve di caccia situate nel territorio della Regione (a mezzo di cacciatori ad esse assegnati), in quanto qualificate come «conduttori a fini faunistico-venatori dei fondi». A tanto la Corte perviene dopo aver verificato che alle riserve di caccia regionali si attribuiscono finalità venatorie non contemplate dalla legge quadro statale sulla caccia, con ciò eccedendo dai limiti statutari apposti alla legislazione regionale in materia di caccia.
In quest’ottica, la Corte richiama l’articolo 19, comma 2, della legge statale n. 157 del 1992, che, nel disciplinare l’abbattimento di fauna nociva, prevede che «le regioni, per la migliore gestione del patrimonio zootecnico, per la tutela del suolo, per motivi sanitari, per la selezione biologica, per la tutela del patrimonio storico-artistico, per la tutela delle produzioni zoo-agro-forestali ed ittiche, provvedono al controllo delle specie di fauna selvatica anche nelle zone vietate alla caccia. Tale controllo, esercitato selettivamente, viene praticato di norma mediante l’utilizzo di metodi ecologici su parere dell’Istituto nazionale per la fauna selvatica. Qualora l’Istituto verifichi l’inefficacia dei predetti metodi, le regioni possono autorizzare piani di abbattimento. Tali piani devono essere attuati dalle guardie venatorie dipendenti dalle amministrazioni provinciali. Queste ultime potranno avvalersi dei proprietari o conduttori dei fondi sui quali si attuano i piani medesimi, purché muniti di licenza per l’esercizio venatorio, nonché delle guardie forestali e delle guardie comunali munite di licenza per l’esercizio venatorio».
Si tratta chiaramente, secondo la Corte, di attività non svolta per fini venatori, perché l’abbattimento di fauna nociva risulta previsto soltanto a fini di tutela dell’ecosistema e trae origine da un’attenta ponderazione tesa ad evitare che la tutela degli interessi (sanitari, di selezione biologica, di protezione delle produzioni zootecniche, ecc.) perseguiti con i piani di abbattimento trasmodi nella compromissione della sopravvivenza di alcune specie faunistiche ancorché nocive. A tale scopo, l’art. 19, comma 2, contiene un elenco tassativo di soggetti autorizzati all’esecuzione di tali piani, nel quale non sono compresi i cacciatori, come si desume, altresì, dal comma 3 del medesimo articolo 19, secondo il quale le sole Province di Trento e Bolzano possono attuare i piani di abbattimento della fauna nociva anche avvalendosi di altre persone, purché munite di licenza per l’esercizio venatorio.
La previsione dell’art. 19 della legge statale n. 157 del 1992, ribadisce la Corte, «nella parte in cui disciplina i poteri regionali di controllo faunistico, costituisce un principio fondamentale della materia a norma dell’art. 117 della Costituzione, tale da condizionare e vincolare la potestà legislativa regionale: non solo per la sua collocazione all’interno della legge quadro ma anche per l’inerenza della disposizione a materia contemplata dalla normativa comunitaria in tema di protezione delle specie selvatiche (la rigorosa disciplina del controllo faunistico recata dall’art. 19 della legge n. 157 del 1992 è infatti strettamente connessa all’ambito di operatività della direttiva 79/409/CEE, concernente la conservazione di uccelli selvatici)».
Ed è proprio con tale principio espresso dalla norma statale che si pone in contrasto l’articolo 7, comma 3, primo periodo e lettera a), della legge regionale impugnata, in quanto qualifica le Riserve «quali conduttori a fini faunistico-venatori dei fondi», facendo così rientrare le Riserve di caccia, e per esse i cacciatori assegnati, tra i soggetti autorizzati all’esecuzione dei piani. Non trattandosi nella specie di attività venatoria, il previsto ampliamento risulta irragionevole, e in quanto tale si pone come esorbitante rispetto alla potestà integrativo-attuativa che l’art. 6, n. 3, dello statuto speciale attribuisce al legislatore regionale in materia di tutela della fauna.
Infine, alla luce della sentenza n. 393, immune da censure, riferite all’art. 117, secondo comma, lettera s), ed all’art. 117, primo comma, della Costituzione, si rivela la questione sollevata nei confronti dell’art. 3 della legge della Regione Umbria 29 luglio 2003, n. 17. La disposizione impugnata prevede che «la Giunta regionale, sentito l’Istituto nazionale per la fauna selvatica e previo parere della competente commissione consiliare permanente, approva il calendario venatorio, recante disposizioni relative ai tempi, ai luoghi e ai modi della caccia, disponendone la pubblicazione nel Bollettino Ufficiale della Regione entro il 15 giugno di ogni anno. Il calendario venatorio, ove ricorrano le condizioni di cui all’articolo 18, comma 2 della legge 11 febbraio 1992, n. 157, può consentire il prelievo venatorio di determinate specie dal primo giorno utile di settembre, stabilendone le modalità».
Diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, tale formulazione non esclude, in realtà, il rinvio alle procedure, alle condizioni ed ai limiti previsti dall’art. 18, comma 2, della legge n. 157 del 1992, limitandosi a disporre che il calendario venatorio può prevedere una diversa data di inizio per il periodo venatorio relativamente ad alcune specie solo «ove ricorrano le condizioni di cui all’articolo 18, comma 2, della legge 11 febbraio 1992, n. 157».
Pertanto, la norma regionale non si discosta da quanto previsto dalla norma statale, la quale fissa uno standard minimo di tutela della fauna, giacché l’autorizzazione all’esercizio dell’attività venatoria in periodi diversi da quelli previsti dall’art. 18, comma 1, della legge n. 157 del 1992 deve comunque ritenersi subordinata, anche nella Regione Umbria, alla integrale applicazione della disciplina dettata dal secondo comma del medesimo articolo. Così intesa la disposizione regionale impugnata, infondata deve ritenersi anche la censura relativa al mancato rispetto degli obblighi comunitari, ed in particolare della direttiva 79/409/CEE (c.d. direttiva uccelli), perché la disposizione regionale, mediante il richiamo espresso all’articolo 18, comma 2, della legge 11 febbraio 1992, n. 157, si pone in conformità con la disciplina statale che di tale direttiva costituisce attuazione.
 
3.1.17. "Tutela [...] dei beni culturali"
Come è il caso per altri settori dell’ordinamento, la disciplina della «cultura» viene ripartita, nel nuovo Titolo V della Parte seconda della Costituzione, sotto diversi titoli competenziali. Rinviando ad altre sedi la trattazione di decisioni che hanno avuto riguardo ad altri aspetti della materia, è il caso di passare qui in rassegna la sentenza n. 232, anche per le affermazioni in essa presenti relativamente alla distinzione dei concetti «tutela» e di «valorizzazione» dei beni cultuali (che si traducono in diversi tipi di competenze).
Con tale decisione, la Corte dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale di alcune disposizioni dell’art. 40 della legge della Regione Veneto 23 aprile 2004, n. 11, che attribuisce al piano di assetto territoriale (Pat), con riguardo ai centri storici, la determinazione sia delle categorie in cui devono essere raggruppati i manufatti e gli spazi liberi esistenti, sia dei valori di tutela in funzione degli specifici contesti da salvaguardare, nonché, per ogni categoria, l’individuazione degli interventi, delle destinazioni d’uso ammissibili e dei margini di flessibilità consentiti dal piano degli interventi (Pi).
Secondo lo Stato ricorrente siffatte disposizioni sono lesive delle attribuzioni statali in materia di tutela dei beni culturali, le quali, essendo esclusive, comprendono anche la potestà regolamentare, rilevandosi altresì che nella tutela dei beni culturali rientra anzitutto il potere di riconoscere i beni culturali come tali.
Osserva la Corte che la tutela dei beni culturali, inclusa nel secondo comma dell’art. 117 Cost., sotto la lettera s), tra quelle di competenze legislativa esclusiva dello Stato, è materia che condivide con altre alcune peculiarità. Essa ha un proprio ambito materiale, ma nel contempo contiene l’indicazione di una finalità da perseguire in ogni campo in cui possano venire in rilievo beni culturali. Essa costituisce anche una materia-attività, come la Corte l’ha già definita (v. sentenza n. 26 del 2004), condividendo alcune caratteristiche con la tutela dell’ambiente, non a caso ricompresa sotto la stessa lettera s) del secondo comma dell’art. 117 della Costituzione. In entrambe assume rilievo il profilo teleologico della disciplina.
La Corte sottolinea che, mentre non è discutibile che i beni immobili di valore culturale caratterizzano e qualificano l’ambiente (specie dei centri storici, cui la norma impugnata si riferisce), ha rilievo anche l’attribuzione della valorizzazione dei beni culturali alla competenza concorrente di Stato e Regioni.
Ai fini del discrimine delle competenze, ma anche del loro intreccio nella disciplina dei beni culturali, elementi di valutazione si traggono dalle norme del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e paesaggistici), dove si ribadisce l’esigenza dell’esercizio unitario delle funzioni di tutela dei beni culturali e, nel contempo, si stabilisce che siano non soltanto lo Stato, ma anche le Regioni, le città metropolitane, le province ed i comuni ad assicurare e sostenere la conservazione del patrimonio culturale ed a favorirne la pubblica fruizione e la valorizzazione. A rendere evidente la connessione della tutela e valorizzazione dei beni culturali con la tutela dell’ambiente sono anche le lettere f) e g) del comma 4 dell’art. 10 del suindicato codice, le quali elencano, tra i beni culturali, le ville, i parchi, i giardini, le vie, le piazze, ed in genere gli spazi aperti urbani di interesse artistico o storico.
Con riguardo a tale ultimo rilievo è anche sotto altro, più specifico, aspetto che viene in evidenza la competenza regionale. La materia del governo del territorio, comprensiva dell’urbanistica e dell’edilizia (v. sentenze n. 362 del 2003 e n. 196 del 2004), rientra tra quelle di competenza legislativa concorrente. Spetta perciò alle Regioni, nell’ambito dei principî fondamentali determinati dallo Stato, stabilire la disciplina degli strumenti urbanistici.
Ora, non v’è dubbio che tra i valori che gli strumenti urbanistici devono tutelare abbiano rilevanza non secondaria quelli artistici, storici, documentari e comunque attinenti alla cultura nella polivalenza di sensi del termine. Non si può dubitare, ad esempio, che disposizioni le quali, a qualsiasi livello, limitino l’inquinamento atmosferico o riducano, disciplinando la circolazione stradale, le vibrazioni, tutelino l’ambiente ed insieme, se esistenti, gli immobili o i complessi immobiliari di valore culturale.
Nelle materie in cui ha primario rilievo il profilo finalistico della disciplina, la coesistenza di competenze normative rappresenta la generalità dei casi. Ed è significativo che la Costituzione abbia stabilito che nella materia dei beni culturali la legge statale preveda forme di intesa e coordinamento tra Stato e Regioni (art. 118, terzo comma).
Concludendo, la Corte rileva che la norma regionale impugnata non è invasiva della sfera di competenza statale, in quanto la disciplina regionale è in funzione di una tutela non sostitutiva di quella statale, bensì diversa ed aggiuntiva, da assicurare nella predisposizione della normativa di governo del territorio.
La legge regionale non stabilisce nuovi criteri di identificazione dei beni culturali ai fini del regime proprio di questi nell’ambito dell’ordinamento statale, bensì prevede che nella disciplina del governo del territorio – e quindi per quanto concerne le peculiarità di questa – si tenga conto non soltanto dei beni culturali identificati secondo la normativa statale, ma eventualmente anche di altri, purché però essi si trovino a far parte di un territorio avente una propria conformazione e una propria storia (v. sentenza n. 94 del 2003).
 
3.2. Le materie di competenza concorrente
Sebbene meno numerose delle affermazioni relative alle materie di competenza esclusiva dello Stato, sono comunque molte le decisioni che hanno riguardato le materie individuate, dall’art. 117, terzo comma, della Costituzione, come di competenza concorrente. In buona parte, le decisioni hanno avuto riguardo a leggi statali di ampio respiro, che, in quanto tali, ponevano «principî fondamentali della materia» (come è nel caso del paragrafo seguente). Non mancano, però, decisioni (si pensi a quelle in tema di «professioni») nelle quali la Corte è stata chiamata a verificare la sussistenza di principî fondamentali comunque risultanti dalla legislazione statale in vigore, anche anteriore alla riforma del Titolo V (giacché l’assenza di nuovi principî non può comportare la paralisi dell’attività del legislatore regionale: così, ad esempio, la sentenza n. 120).
 
3.2.1. "Tutela e sicurezza del lavoro"
Le sentenze numeri 50 e 384, intervenendo sulle più recenti riforme del mercato del lavoro, hanno condotto una vasta opera definitoria della materia «tutela e sicurezza del lavoro», la cui estensione viene, peraltro, limitata dal concorrere di altri titoli competenziali, previsti al secondo comma, dell’art. 117.
Nella sentenza n. 50, la Corte chiarisce, innanzi tutto, che, a prescindere da quale che sia il completo contenuto che debba riconoscersi alla materia «tutela e sicurezza del lavoro», non si dubita che in essa rientri la disciplina dei servizi per l’impiego ed in specie quella del collocamento. Lo scrutinio delle norme impugnate dovrà quindi essere condotto applicando il criterio secondo cui spetta allo Stato la determinazione dei principî fondamentali ed alle Regioni l’emanazione delle altre norme comunemente definite di dettaglio; occorre però aggiungere che, essendo i servizi per l’impiego predisposti alla soddisfazione del diritto sociale al lavoro, possono verificarsi i presupposti per l’esercizio della potestà statale di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni di cui all’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., come pure che la disciplina dei soggetti comunque abilitati a svolgere opera di intermediazione può esigere interventi normativi rientranti nei poteri dello Stato per la tutela della concorrenza (art. 117, secondo comma, lettera e, Cost.).
Con riferimento alle singole censure prospettate, la Corte dichiara, in primo luogo, non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 2, comma 1, lettera d) della legge n. 30 del 2003, in quanto, pur contenendo prescrizioni concernenti strumenti e modalità d’inserimento di soggetti svantaggiati nel mondo del lavoro attinenti alla tutela del lavoro, la disposizione censurata si limita alla enunciazione di principî generali. Allo stesso modo secondo non sono fondate sono le censure rivolte nei confronti dell’articolo 2, comma 1, lettere e) f) e g), in quanto tali disposizioni contengono norme generali sui contratti a contenuto formativo e, più in particolare, sull’incentivazione al lavoro femminile.
Le affermazioni di più ampio respiro contenute nella sentenza n. 50 sono comunque quelle che affermano, anche attraverso il riferimento all’art. 120, primo comma, della Costituzione, le dimensioni necessariamente nazionali del mercato del lavoro.
Dichiarando non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, lettera l), della legge n. 30 del 2003, là dove dispone l’identificazione di un unico regime autorizzatorio o di accreditamento per gli intermediari pubblici, con particolare riferimento agli enti locali, e privati, la Corte sottolinea che l’opzione di un unico regime giuridico per chiunque voglia svolgere attività in senso generico di intermediazione è correlata all’esigenza che il mercato del lavoro abbia dimensioni almeno nazionali (in questa sede non vengono in evidenza problemi di adeguamento al diritto comunitario), esigenza la quale a sua volta si radica nel precetto dell’art. 120, primo comma, Cost., la cui osservanza costituisce la premessa perché siano garantiti anche altri interessi costituzionalmente protetti, quali quelli inerenti alle prestazioni essenziali per la realizzazione del diritto al lavoro, da un lato, ed allo svolgimento di attività che possono avere natura economica in regime di concorrenza, dall’altro. La previsione di ambiti regionali del mercato del lavoro è ausiliaria e complementare rispetto al mercato nazionale.
In applicazione di questa ratio decidendi, la Corte dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, commi 1-6, del decreto legislativo n. 276 del 2003, attuativo delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge n. 30 del 2003, che istituisce un apposito albo delle agenzie per il lavoro ai fini dello svolgimento delle attività di somministrazione, intermediazione, ricerca e selezione del personale, supporto alla ricollocazione professionale e disciplina le modalità di rilascio delle autorizzazioni, dei criteri di verifica dell’attività e di revoca di dette attività. L’impugnata disciplina viene ritenuta connessa alla scelta dell’unicità del regime autorizzatorio o di accreditamento, mentre la previsione delle sue articolazioni è in funzione della varietà sia dei soggetti cui può essere data l’autorizzazione o l’accreditamento, sia delle attività che essi possono svolgere. Inoltre, poiché le agenzie iscritte nell’albo possono svolgere la loro attività sull’intero territorio nazionale e l’autorizzazione definitiva viene rilasciata solo dopo la verifica del corretto andamento dell’attività svolta (art. 4, comma 2, d.lgs. n. 276 del 2003), la disciplina delle modalità di rilascio delle autorizzazioni, dei criteri di verifica dell’attività, di revoca dell’autorizzazione e «di ogni altro profilo relativo alla organizzazione e alle modalità di funzionamento dell’albo delle agenzie per il lavoro», ancorché in parte si tratti anche di disciplina di attività amministrative, è coessenziale ai principî fondamentali in materia di unicità di regime autorizzatorio o di accreditamento.
Sulla base della medesima ratio la Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6 del d.lgs. n. 276 del 2003, che prevede particolari regimi di autorizzazione allo svolgimento della attività di intermediazione.
Nella sentenza n. 384, si evidenzia il principio secondo cui la vigilanza (sul lavoro) non rientra nella competenza concorrente in esame, ma deve essere connotata di volta in volta, in relazione al suo oggetto specifico: su questa base, la Corte dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 1, della legge 14 febbraio 2003, n. 30, il quale delega, tra l’altro, il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi per il riassetto della disciplina vigente sulle ispezioni in materia di previdenza sociale e di lavoro.
Si dichiara, invece, costituzionalmente illegittimo l’art. 10, comma 1, ultimo periodo, del decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124, nella parte in cui non prevede che il decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali concernente le modalità di attuazione e funzionamento della banca dati sia adottato previa intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano. Infatti, premesso che l’art. 10, comma 1, stabilisce l’istituzione, nell’ambito delle strutture del Ministero del lavoro e delle politiche sociali ed avvalendosi delle risorse del Ministero stesso, di una banca dati telematica che raccoglie le informazioni concernenti i datori di lavoro ispezionati, nonché informazioni e approfondimenti sulle dinamiche del mercato del lavoro e su tutte le materie oggetto di aggiornamento e di formazione permanente del personale ispettivo, alla quale hanno accesso esclusivamente le amministrazioni che effettuano vigilanza ai sensi del decreto stesso, la previsione contenuta nell’ultimo periodo, secondo cui con successivo decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, sentito il Ministro per l’innovazione e le tecnologie, previo parere del Centro nazionale per l’informatica nella pubblica amministrazione, vengono definite le modalità di attuazione e di funzionamento della predetta banca dati, anche al fine di consentire il coordinamento con gli strumenti di monitoraggio di cui all’articolo 17 del decreto legislativo n. 276 del 2003, è illegittima, nella parte in cui non prevede l’intesa con la Conferenza permanente, giacché la banca dati riguarda tra l’altro «informazioni e approfondimenti sulle dinamiche del mercato del lavoro», materia che rientra nella «tutela e sicurezza del lavoro».
 
3.2.2. "Istruzione"
La sentenza n. 279 ha affrontato la delicata questione concernente la individuazione delle norme generali e la loro distinzione, non solo dalle altre norme, di competenza delle regioni, ma anche dai principî fondamentali di cui all’art. 117, comma terzo, della Costituzione.
Ora, ove si consideri che il problema si intreccia e si identifica con quello di competenza, è evidente come il criterio di soluzione cui far capo vada individuato guardando, al di là del dato testuale, di problematico significato, alla ratio della previsione costituzionale che ha attribuito le norme generali alla competenza esclusiva dello Stato.
E, sotto quest’ultimo aspetto, può dirsi che le norme generali in materia di istruzione sono quelle sorrette, in relazione al loro contenuto, da esigenze unitarie e, quindi, applicabili indistintamente al di là dell’ambito propriamente regionale.
Le norme generali così intese si differenziano, nell’ambito della stessa materia, dai principî fondamentali i quali, pur sorretti da esigenze unitarie, non esauriscono in se stessi la loro operatività, ma informano, diversamente dalle prime, altre norme, più o meno numerose.
Nel caso di specie, la Corte esamina l’impugnativa, proposta dalle Regioni Emilia-Romagna e Friuli-Venezia Giulia, di numerose disposizioni del decreto legislativo 19 febbraio 2004, n. 59, che detta le norme generali relative alla scuola dell’infanzia ed al primo ciclo dell’istruzione, a norma dell’articolo 1 della legge 28 marzo 2003, n. 53.
Sulla base della sopra menzionata distinzione tra norme generali e principî fondamentali, non risulta fondata la questione riferita all’art. 1, comma 3, del decreto legislativo n. 59 del 2004, dove si prevede la promozione da parte di uffici pubblici periferici (uffici scolastici regionali) di appositi accordi con i competenti uffici delle Regioni e degli enti locali, in quanto la norma impugnata non attribuisce allo Stato una funzione amministrativa in senso proprio, ma si limita a riconoscergli la legittimazione a stipulare accordi funzionali alla realizzazione di quella continuità educativa con il complesso dei servizi all’infanzia e con la scuola primaria, che costituisce una delle finalità proprie della scuola dell’infanzia; non vi è, pertanto, dubbio che l’indicazione di tale finalità sia espressiva della competenza esclusiva statale in materia di norme generali sull’istruzione. Peraltro, la norma censurata realizza proprio quel modello collaborativo tra Stato e regioni invocato dalle stesse Regioni ricorrenti.
Immuni da censure risultano anche l’art. 7, commi 1, 2, primo periodo, e 4, primo periodo, e l’art. 10, commi 1, 2, primo periodo, e 4, primo periodo, del decreto legislativo n. 59 del 2004, che stabiliscono – rispettivamente per la scuola primaria e la scuola secondaria – l’orario annuale delle lezioni, l’orario annuale delle ulteriori attività educative e didattiche rimesse all’organizzazione delle istituzioni scolastiche e l’orario relativo alla mensa ed al dopo-mensa. Non si tratta, infatti, di indebite norme di dettaglio che fissano, limitandola, l’offerta formativa, poiché, al contrario, le stesse vanno intese come espressive di livelli minimi di monte-ore di insegnamento validi per l’intero territorio nazionale, ferma restando la possibilità per ciascuna regione (e per le singole istituzioni scolastiche) di incrementare, senza oneri per lo Stato, le quote di rispettiva competenza.
Altresì non lesive dell’autonomia regionale e di quella delle istituzioni scolastiche risultano le disposizioni (articoli 7, comma 4, secondo periodo, e 10, comma 4, secondo periodo, del decreto legislativo n. 59 del 2004), che prevedono – rispettivamente per la scuola primaria e per quella secondaria – che le istituzioni scolastiche, per lo svolgimento delle attività e degli insegnamenti opzionali che richiedano una specifica professionalità non riconducibile al profilo professionale dei docenti della scuola primaria o secondaria, stipulino contratti di prestazione d’opera con esperti in possesso di titoli definiti con decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, di concerto con il Ministro per la funzione pubblica. Al riguardo, osserva la Corte, la scelta della tipologia contrattuale da utilizzare per gli incarichi di insegnamento facoltativo da affidare agli esperti e l’individuazione dei titoli sono funzioni sorrette da evidenti esigenze di unitarietà di disciplina sull’intero territorio nazionale, cosicché le disposizioni impugnate vanno qualificate come norme generali sull’istruzione, di competenza esclusiva dello Stato.
Non fondate sono anche le questioni riferite all’art. 2, che disciplina l’accesso alla scuola dell’infanzia, stabilendo che possano esservi iscritti le bambine ed i bambini che compiono i tre anni entro il 30 aprile, ed all’art. 12, che regola l’accesso alla medesima scuola dell’infanzia nella fase transitoria di sperimentazione, prevista dalla legge delega, avente inizio con l’anno scolastico 2003-2004 e destinata a proseguire fino all’anno 2006, prevedendo la possibilità di una graduale anticipazione dell’età minima per l’iscrizione. In ordine alla denunciata violazione della delega, per quanto riguarda l’accesso alla scuola dell’infanzia senza attendere i risultati della fase di sperimentazione, la Corte, oltre a ribadire che le regioni non sono legittimate a denunciare il vizio di eccesso di delega se non in quanto da tale vizio discenda una diretta lesione dell’autonomia regionale, osserva che la fissazione del limite di età per l’iscrizione alla scuola dell’infanzia è una funzione sorretta da evidenti esigenze unitarie (rappresentando l’omogeneità anagrafica condizione minima di uniformità in materia scolastica), espressiva di una competenza legislativa sicuramente spettante allo Stato.
Sono, invece, accolte le doglianze avverso gli articoli 12 e 13, per le parti relative alla «modulazione» delle anticipazioni dell’età di accesso alle scuole, in quanto non prevedono alcuna forma di partecipazione delle regioni nella fase decisionale.
Si assume, in sostanza, che, se si conviene che la sperimentazione non è una funzione da svolgere necessariamente in forma centralizzata ed anzi deve tenere conto, secondo lo stesso legislatore statale, delle peculiari situazioni locali (come testimonierebbe il previsto coinvolgimento dell’Anci), dovrebbe allora concludersi che la relativa disciplina rientra nell’ambito della competenza regionale, come è del resto coerente con la natura di materia concorrente propria dell’istruzione.
Ritiene la Corte che, pur essendo la materia riconducibile alla competenza esclusiva dello Stato, è necessario il coinvolgimento delle realtà locali nella fase di graduale anticipazione dell’età di accesso alla scuola, almeno per quanto riguarda la scuola dell’infanzia. Peraltro, occorre considerare che, in materia di istruzione, il naturale interlocutore dello Stato è essenzialmente la regione, in quanto gli enti locali sono privi di competenza legislativa.
La norma appare pertanto non rispettosa, sotto tale profilo, del principio di leale collaborazione e va dunque ricondotta a legittimità costituzionale sostituendo alla prevista partecipazione consultiva dell’Anci quella della Conferenza unificata Stato-Regioni.
Non essendovi alcuna ragionevole giustificazione per limitare alla sola scuola dell’infanzia la partecipazione delle regioni ai processi decisionali, la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 13, comma 1, secondo periodo, del medesimo decreto legislativo, nella parte in cui non prevede che il decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca relativo all’eventuale anticipazione delle iscrizioni alla scuola primaria sia adottato sentita la Conferenza unificata Stato-Regioni.
L’ultima questione riguarda l’art. 15, comma 1, secondo periodo, che, al fine di realizzare le attività educative di cui agli articoli 7, commi 1, 2 e 3, e 10, commi 1, 2 e 3, del medesimo decreto legislativo, affida la possibilità di attivare incrementi di posti per le attività di tempo pieno e di tempo prolungato nell’ambito dell’organico del personale docente, al decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze.
Argomenta a tal proposito la Corte che l’incremento, nell’ambito dell’organico del personale docente statale, dei posti attivati per le attività di tempo pieno e di tempo prolungato attiene ad aspetti dell’organizzazione scolastica che evidentemente intersecano le competenze regionali relative alle attività educative, di talché il rispetto del principio di leale collaborazione impone che nell’adozione delle scelte relative vengano coinvolte anche le regioni, quanto meno nella forma della consultazione della Conferenza unificata Stato-Regioni.
Anche la sentenza n. 231 ha riguardato aspetti in parte inerenti alla materia «istruzione». La Corte dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 3, comma 92, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, ai termini del quale, «per l’attuazione del piano programmatico di cui all’art. 1, comma 3, della legge 28 marzo 2003, n. 53, è autorizzata, a decorrere dall’anno 2004, la spesa complessiva di 90 milioni di euro per i seguenti interventi:
«a) sviluppo delle tecnologie multimediali;
«b) interventi di orientamento contro la dispersione scolastica e per assicurare il diritto-dovere di istruzione e formazione;
«c) interventi per lo sviluppo dell’istruzione e formazione tecnica superiore e per l’educazione degli adulti;
«d) istituzione del Servizio nazionale di valutazione del sistema di istruzione».
In ordine ai finanziamenti di cui alle lettere a), b) e c), le doglianze regionali si appuntano soprattutto sulla circostanza che le disposizioni suindicate abbiano autorizzato la spesa pur in assenza del piano programmatico, la cui approvazione, secondo quanto stabilito dalla legge n. 53 del 2003 (che già prevedeva i finanziamenti in questione), comporterebbe l’intesa con la Conferenza unificata di cui al decreto legislativo n. 281 del 1997: in sostanza, l’asserito vizio di costituzionalità si sarebbe concretizzato nella lesione del principio di leale collaborazione.
Di diverso avviso la Corte, la quale ha sottolineato che «la norma può e deve essere letta in armonia con i principî costituzionali». In tal senso, il richiamo esplicito del piano programmatico di cui all’art. 1, comma 3, della legge n. 53 del 2003, e quindi anche le modalità della sua approvazione, non può non comportare che «l’autorizzazione alla spesa, oggetto della censura, è pur sempre subordinata, per quanto concerne la sua concreta attuazione, all’approvazione del piano, a sua volta condizionata all’intesa con la Conferenza».
Con precipuo riguardo al finanziamento sub d), la Corte ha rilevato che la istituzione del Servizio nazionale di valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione è stata disposta, insieme con il riordino dell’Istituto nazionale di valutazione del sistema dell’istruzione, con il decreto legislativo 19 novembre 2004, n. 286, il cui art. 15 ne prevede il finanziamento mediante l’utilizzazione di «quota parte dell’autorizzazione di spesa di cui all’art. 3, comma 92, della legge 24 dicembre 2003, n. 350». Da ciò si deduce che il finanziamento di cui alla lettera d) ha la sua autonoma fonte normativa nel citato art. 15, non impugnato dalla Regione, donde l’infondatezza della questione sotto tale profilo, in quanto l’eventuale violazione della competenza regionale non deriva dalla disposizione censurata.
Sempre in tema di istruzione, deve menzionarsi la sentenza n. 37, nella quale si disattende una censura regionale relativa ad una asserita compressione dell’autonomia delle istituzioni scolastiche. Oggetto del giudizio è l’art. 35, comma 1, della legge 27 dicembre 2002, n. 289, il quale disciplina le modalità di riconduzione dell’orario di insegnamento a quello obbligatorio di servizio dei docenti. La norma denunciata si limita a ricondurre l’orario di insegnamento a quello obbligatorio di servizio dei docenti per tutte le scuole del territorio nazionale, enunciando così un principio al quale devono attenersi le istituzioni scolastiche, ancorché dotate di autonomia, e non spiega comunque effetto sulla determinazione del livello del servizio scolastico. Deve, pertanto, escludersi la lesione delle attribuzioni legislative regionali e dell’autonomia delle istituzioni scolastiche, la quale non può in ogni caso risolversi nella incondizionata libertà di autodeterminazione, ma esige soltanto che a tali istituzioni siano lasciati adeguati spazi che le leggi statali e quelle regionali, nell’esercizio della potestà legislativa concorrente, non possono pregiudicare (sentenza n. 13 del 2004).
 
3.2.3. "Professioni"
A più riprese, la Corte ha avuto modo di definire il significato da attribuire alla materia «professioni», sottolineando, tra l’altro, che essa consente alle Regioni di disciplinare – nei limiti dei principî fondamentali in materia e della competenza statale all’individuazione delle professioni – tanto le professioni per il cui esercizio non è prevista l’iscrizione ad un Ordine o Collegio, quanto le altre, per le quali detta iscrizione è prevista, peraltro limitatamente ai profili non attinenti all’organizzazione degli Ordini e Collegi (sentenza n. 405).
La Corte, con la sentenza n. 319, dichiara la incostituzionalità della legge della Regione Abruzzo 23 gennaio 2004, n. 2, che prevedeva la istituzione di corsi di formazione professionale per l’esercizio dell’arte ausiliaria della professione sanitaria di massaggiatore-capo bagnino degli stabilimenti.
Motiva la Corte che, al di là della denominazione data ai corsi, la specifica finalità di abilitazione all’esercizio della professione di massaggiatore-capo bagnino degli stabilimenti idroterapici e l’attribuzione alla Regione dell’individuazione dei requisiti necessari per la relativa frequenza, dei programmi di studio e delle modalità di valutazione finale escludono che la normativa sia riconducibile alla materia residuale della «formazione professionale» (come definita dalla sentenza n. 50 del 2005; v. anche le sentenze n. 51 e n. 175 del 2005). E dimostrano che essa si propone invece la finalità – diversa ed ulteriore rispetto a quella propriamente formativa – di disciplinare una specifica figura professionale sociosanitaria, regolandone le modalità di accesso, così incidendo sul relativo ordinamento didattico (cfr. sentenza n. 82 del 1997).
L’impianto generale, il contenuto e lo scopo della legge inducono pertanto a ritenere che il suo oggetto debba essere ricondotto alla materia concorrente delle «professioni» di cui all’art. 117, terzo comma, della Costituzione, ed in particolare delle professioni sanitarie.
La Corte quindi ribadisce che nelle materie di competenza concorrente la legislazione regionale deve svolgersi nel rispetto dei principî fondamentali determinati dalla legge dello Stato e che tali principî, ove non ne siano stati formulati di nuovi, sono quelli desumibili dalla normativa statale previgente (sentenze n. 201 del 2003 e n. 282 del 2002; art. 1, comma 3, della legge 5 giugno 2003, n. 131).
Parimenti, riafferma che, in materia di professioni sanitarie, dal complesso dell’ampia legislazione statale già in vigore si ricava il principio fondamentale per cui l’individuazione delle figure professionali, con i relativi profili e ordinamenti didattici, è riservata alla legislazione statale. Questo principio si pone quindi come un limite invalicabile dalla potestà legislativa regionale.
La sentenza n. 355 riguarda gli articoli 2, commi 2 e 3, e 3 della legge della Regione Abruzzo 19 novembre 2003, n. 17, nella parte in cui fissano i requisiti per l’iscrizione nel registro regionale degli amministratori di condominio e dispongono che l’attività di amministratore di condominio, nella regione, sia preclusa a chi non sia iscritto nel registro.
Per la Corte, non vi è dubbio che la legge regionale vada ricondotta alla materia delle professioni, appartenente alla competenza legislativa concorrente delle regioni, ai sensi dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione.
Al riguardo, dalla normativa vigente – e segnatamente dall’art. 2229, primo comma, del codice civile, oltre che dalle norme relative alle singole professioni – può trarsi il principio che l’individuazione delle professioni, per il suo carattere necessariamente unitario, è riservata allo Stato, rientrando nella competenza delle regioni la disciplina di quegli aspetti che presentano uno specifico collegamento con la realtà regionale. Esula, pertanto, dai limiti della competenza legislativa concorrente delle regioni in materia di professioni l’istituzione di nuovi e diversi albi (rispetto a quelli istituiti dalle leggi statali) per l’esercizio di attività professionali, avendo tali albi una funzione individuatrice delle professioni preclusa in quanto tale alla competenza regionale.
La sentenza n. 424 riguarda la legge della Regione Piemonte 31 maggio 2004, n. 13, che ha regolamentato le discipline bio-naturali, definite come le pratiche che si prefiggono il compito di promuovere lo stato di benessere ed un miglioramento della qualità della vita della persona, mediante l’armonizzazione della persona con se stessa e con gli ambienti sociale, culturale e naturale che la circondano. Al riguardo, osserva la Corte che l’impianto generale, lo scopo esplicito ed il contenuto della legge rendono evidente che l’oggetto della normativa in esame va ricondotto alla materia delle «professioni» e che, ai fini della ripartizione delle competenze afferenti la materia in esame, l’individuazione di una specifica tipologia o natura della «professione» oggetto di regolamentazione legislativa non ha alcuna influenza.
La potestà legislativa delle regioni in materia di «professioni» deve allora rispettare il principio secondo cui l’individuazione delle figure professionali, con i relativi profili ed ordinamenti didattici, e l’istituzione di nuovi albi (sentenza n. 355 del 2005) è riservata allo Stato. Tale principio, al di là della particolare attuazione che recano i singoli precetti normativi, si configura infatti quale limite di ordine generale, invalicabile dalla legge regionale.
La Corte, nella sentenza n. 459, ritiene, di contro, che la Regione Emilia-Romagna, istituendo la figura professionale di guida ambientale turistica per la conduzione di persone in visita ad ambienti montani (legge regionale 1°febbraio 2000, n. 4, art. 2, comma 3), non abbia inciso indebitamente sui principî fondamentali stabiliti dalla legge statale in materia (legge n. 6 del 1989), che riserva l’attività professionale di accompagnamento in montagna alle guide alpine ed agli «accompagnatori di media montagna».
Al riguardo, la Corte ritiene che ciò che distingue la figura professionale della guida alpina è, sulla base di quanto previsto dalla legge statale n. 6 del 1989, non già una generica attività di accompagnamento in aree montane, bensì l’accompagnamento su qualsiasi terreno che comporti «l’uso di tecniche e di attrezzature alpinistiche».
Nel caso di specie, la legge regionale, oggetto di censura, ha individuato, fra le diverse «professioni turistiche di accompagnamento», la «guida-ambientale escursionistica», figura essenzialmente finalizzata ad illustrare «gli aspetti ambientali e naturalistici» dei diversi territori (montani, collinari, di pianura ed acquatici) e con esplicita esclusione di percorsi di particolare difficoltà ed in ogni caso di quelli che richiedono l’uso di attrezzature e tecniche alpinistiche.
Pertanto, non si erode l’area della figura professionale della guida alpina, ma si opera del tutto legittimamente nell’area lasciata alla discrezionalità del legislatore regionale dalla vigente legislazione di cornice in materia turistica.
 
3.2.4. "Tutela della salute"
In talune decisioni, la Corte torna ad occuparsi, sotto diversi profili, del concreto riparto di competenze in materia di «tutela della salute».
Nella sentenza n. 95, la Corte dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate nei confronti dell’art. 1 della legge della Regione Veneto 19 dicembre 2003, n. 41 e nei confronti dell’art. 37 della legge della Regione Basilicata 2 febbraio 2004, n. 1.
Il ricorrente Presidente del Consiglio sostiene che queste disposizioni, eliminando l’obbligo del libretto di idoneità sanitaria, di cui all’art. 14 della legge 30 aprile 1962, n. 283, per il personale addetto alla produzione e vendita di alimenti e per il personale delle farmacie, violerebbero un principio fondamentale stabilito dalla legislazione statale a tutela della salute, violando, altresì, l’esclusiva competenza legislativa statale in tema di «ordine pubblico e sicurezza», di cui al secondo comma, lettera h), dell’art. 117 della Costituzione, dal momento che tale obbligo sarebbe qualificabile come vincolo di ordine pubblico, anche sulla base di alcune sentenze della Corte di cassazione.
La Corte, dopo aver ritenuto inconferente il richiamo alla competenza esclusiva statale in materia di «ordine pubblico», ricorda (v. sentenza n. 162 del 2004) che la legislazione in materia di tutela della disciplina igienica degli alimenti è stata profondamente trasformata dalla adozione, in una serie di direttive della Comunità europea, recepite dal legislatore statale, di modalità diverse di tutela dell’igiene dei prodotti alimentari, affiancando al preesistente sistema delineato dall’art. 14 della legge n. 283 del 1962 un diverso sistema di tutela igienica degli alimenti, basato per lo più su vasti poteri di controllo e di ispezione, che si riferiscono pure al comportamento igienico del personale che entra in contatto con le diverse sostanze alimentari.
In tal modo, ben può la legislazione regionale scegliere fra le diverse possibili specifiche modalità per garantire l’igiene degli operatori del settore. Ciò che resta, invece, vincolante è «l’autentico principio ispiratore della disciplina in esame, ossia il precetto secondo il quale la tutela igienica degli alimenti deve essere assicurata anche tramite la garanzia di alcuni necessari requisiti igienico-sanitari delle persone che operano nel settore, controllabili dagli imprenditori e dai pubblici poteri» (sentenza n. 162 del 2004).
La scelta delle Regioni di sopprimere l’obbligo del libretto di idoneità sanitaria, pertanto, non determina di per sé la violazione di tale principio fondamentale, dal momento che deve comunque essere considerata implicitamente fatta salva l’applicazione del diverso sistema di tutela dell’igiene dei prodotti alimentari disciplinata dai decreti legislativi, attuativi delle direttive comunitarie, n. 156 del 1997, n. 155 del 1997 e n. 123 del 1993.
All’esame della Corte è, nella sentenza n. 200, l’art. 37, comma 3, della legge della Regione Marche 17 luglio 1996, n. 26, il quale dispone che, fino alla definizione degli accordi di cui all’art. 5, comma 4, di detta legge, in via provvisoria, resta fermo l’obbligo della preventiva autorizzazione per l’accesso alle prestazioni alle strutture sanitarie non pubbliche.
La censura del Tar per le Marche si incentra essenzialmente sulla violazione dell’art. 117 della Costituzione, in quanto la disposizione regionale non avrebbe attribuito all’assistito, in contrasto con i principî fondamentali della legislazione statale, la facoltà di «libera scelta» della struttura sanitaria, subordinandola, invece, nell’attesa di appositi accordi, al rilascio di un’autorizzazione per l’accesso alle strutture private accreditate, che abbiano accettato il budget imposto dalla Usl territorialmente competente.
Sottolinea la Corte come l’evoluzione della legislazione sanitaria abbia messo in luce che, subito dopo l’enunciazione del principio della parificazione e concorrenzialità tra strutture pubbliche e strutture private, con la conseguente facoltà di libera scelta da parte dell’assistito, si sia progressivamente imposto nella legislazione sanitaria il principio della programmazione, allo scopo di realizzare un contenimento della spesa pubblica ed una razionalizzazione del sistema sanitario. In questo modo, si è temperato il predetto regime concorrenziale attraverso i poteri di programmazione propri delle Regioni e la stipula di appositi «accordi contrattuali» tra le Usl competenti e le strutture interessate per la definizione di obiettivi, volume massimo e corrispettivo delle prestazioni erogabili (d.lgs. 19 giugno 1999, n. 229).
Tali ultime disposizioni si configurano come norme di principio dirette a garantire ad ogni persona il diritto alla salute come «un diritto costituzionale condizionato dall’attuazione che il legislatore ordinario ne dà attraverso il bilanciamento dell’interesse tutelato da quel diritto con gli altri interessi costituzionalmente protetti», tenuto conto dei limiti oggettivi che lo stesso legislatore incontra nella sua opera di attuazione in relazione alle risorse organizzative e finanziarie di cui dispone al momento (sentenze nn. 304 del 1994, 247 del 1992).
Dall’orientamento giurisprudenziale della Corte (sentenze numeri 304 del 1994, 247 del 1992), si ricava che anche nel sistema dell’accreditamento permangono i poteri di controllo, indirizzo e verifica delle Regioni e delle Usl, tanto che «la libertà di scegliere, da parte dell’assistito, chi chiamare a fornire le prestazioni sanitarie non comporta affatto una libertà sull’an e sull’esigenza delle prestazioni», in quanto resta confermato il principio fondamentale che l’erogazione delle prestazioni soggette a scelte dell’assistito è subordinata a formale prescrizione a cura del servizio sanitario nazionale (sentenza n. 416 del 1995).
Non sussiste, quindi, la violazione dell’indicato parametro costituzionale, poiché la norma censurata si conforma a quei principî. Oltretutto, la disposizione in esame ha carattere transitorio, e proprio nella stessa legge regionale impugnata si prevedono forme di contrattazione che intercorrono tra Giunta regionale e Usl, da un lato, ed i vari soggetti accreditati, pubblici e privati, erogatori delle prestazioni, dall’altro.
Nella sentenza n. 467, la Corte non ritiene che la legge della Regione Campania 11 febbraio 2003, n. 2, riconoscendo, art. 1, l’assistenza sanitaria per stati morbosi mediante l’erogazione di prodotti dietetici in casi tassativamente determinati ed escludendo i sostituti del latte materno per i nati da madri sieropositive per Hiv, abbia disciplinato in senso riduttivo, rispetto alla normativa statale un livello essenziale di assistenza sanitaria e tanto meno abbia violato i principî fondamentali posti dalla legislazione dello Stato in materia di tutela della salute, attribuita alla potestà legislativa concorrente regionale.
Dall’esame della normativa statale in materia di prodotti alimentari destinati ad una alimentazione particolare, emerge, infatti, con chiarezza la distinzione tra una finalità di assistenza sanitaria curativa e una finalità di prevenzione, concernente soggetti sani (i lattanti figli di madri sieropositive per Hiv), che occorre preservare dal pericolo di contagio veicolato dal latte materno, per cui la diversità di fini di tutela e di soggetti beneficiari si riflette inevitabilmente sulle modalità di erogazione e sui contesti istituzionali e organizzativi nei quali questa viene effettuata.
Pertanto, l’introduzione in questo contesto normativo di prodotti alimentari destinati ai lattanti si sarebbe collocata fuori dal dichiarato ambito operativo della legge regionale, limitato alla tutela dei soggetti portatori delle patologie già individuate dalla normativa statale, richiamati integralmente al solo scopo di individuare i fruitori della ristorazione differenziata. Tanto, peraltro, non preclude l’assistenza ai nati da madri sieropositive, che rimane garantita dalla normativa statale, in cui è stabilito pure che l’esistenza del presupposto della prestazione venga accertata e certificata da uno specialista del Servizio sanitario nazionale, spettando poi alla Regione l’adozione di una normativa di carattere organizzativo che non può essere certo sostituita da una pronunzia della Corte.
Anche la censura riferita all’art. 4, che, disponendo l’obbligo di fornire pasti differenziati ai soggetti aventi problemi connessi all’alimentazione a carico di tutte le amministrazioni pubbliche e non soltanto di quelle regionali, avrebbe travalicato l’ambito di competenza riservato all’ente territoriale, viene respinta.
Al riguardo, la Corte rileva che, in virtù della competenza legislativa concorrente attribuita alle regioni sia in materia di tutela della salute che di alimentazione, ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost., le leggi dalle stesse validamente emanate, nel rispetto dei principî fondamentali stabiliti dalla legislazione statale, devono avere effetto nei confronti di tutti i soggetti istituzionali che esercitano potestà amministrative ad esse riconducibili. Nel caso di specie, la Regione disciplina un servizio pubblico mirante a soddisfare un diritto dei cittadini sancito, nei suoi livelli essenziali, dalla stessa legislazione statale. Sarebbe paradossale che la somministrazione di pasti differenziati ai soggetti portatori di patologie riconosciute dalla legge come presupposti per il godimento del diritto avvenisse soltanto nelle strutture dipendenti dalla Regione, con un immotivato e irragionevole sacrificio del diritto alla salute di chi, per avventura, dovesse servirsi di mense statali.
A tutt’altro proposito, nella sentenza n. 147, la Corte non ritiene che la legge della Regione Piemonte 3 gennaio 1997, n. 4, che disciplina l’attività libero professionale dei medici veterinari dipendenti dal Servizio sanitario nazionale, abbia violato i diversi parametri costituzionali evocati dal Tar per il Piemonte.
Osserva la Corte che la legge regionale opera in una materia – la tutela della salute – di competenza legislativa concorrente, in cui spetta al legislatore statale la determinazione dei principî fondamentali in materia. Principî tuttora deducibili dall’art. 36, comma 1, del d.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761, secondo il quale «il personale veterinario ha la facoltà di esercitare l’attività libero-professionale, fuori dei servizi e delle strutture dell’unità sanitaria locale, purché tale attività non sia prestata con rapporto di lavoro subordinato, non sia in contrasto con gli interessi ed i fini istituzionali dell’unità sanitaria locale stessa, né incompatibile con gli orari di lavoro, secondo modalità e limiti previsti dalla legge regionale».
La previsione della legge statale è all’origine delle limitazioni poste dalla legge regionale in questione allo svolgimento dell’attività libero-professionale dei veterinari, nonché di una differenziata disciplina nei diversi settori di attività libero-professionale; limitazioni le quali non determinano alcuna illegittima preclusione allo svolgimento dell’attività lavorativa, dal momento che, come già affermato proprio in relazione alla disciplina del pubblico impiego nell’ambito dell’organizzazione sanitaria pubblica, «dal riconoscimento dell’importanza costituzionale del lavoro non deriva l’impossibilità di prevedere condizioni e limiti per l’esercizio del relativo diritto, purché essi siano preordinati alla tutela di altri interessi e di altre esigenze sociali parimenti fatti oggetto, come nella fattispecie, di protezione costituzionale» (sentenza n. 330 del 1999; si veda, altresì, sentenza n. 457 del 1993). Con riguardo alla norma in questione, le limitazioni all’attività libero-professionale dei veterinari, oltre a non essere assolute, perché operanti solo nel territorio della Usl presso la quale il veterinario svolge il proprio servizio come pubblico dipendente e, inoltre, perché riferite alle sole strutture ambulatoriali private per la cura degli animali d’affezione, appaiono connesse all’esigenza di garantire che non siano compromesse le finalità istituzionali nel settore della assistenza e della vigilanza zooiatrica che la Usl svolge nell’ambito del territorio di propria competenza.
Non è dunque affatto contraddittorio che il legislatore regionale abbia ritenuto di porre limitazioni allo svolgimento di tale attività a tutela delle esigenze delle finalità istituzionali delle strutture pubbliche, in misura tale da non svuotare del tutto il contenuto del diritto e proprio in ossequio ai principî fondamentali stabiliti dal legislatore statale.
Anche la censura mossa con riguardo all’art. 120 della Costituzione è infondata, in quanto il limite territoriale posto dall’art. 2 della legge piemontese con riguardo all’attività sugli animali d’affezione si riferisce unicamente al «territorio di competenza della A.S.R. presso la quale il medico veterinario svolge il proprio servizio di pubblico dipendente».
Il divieto posto dall’art. 120, primo comma, Cost., d’altra parte, è stato sempre interpretato come riferito esclusivamente al divieto per la legge regionale di porre limiti alla possibilità per i cittadini di svolgere attività di lavoro nel territorio della Regione (cfr. sentenze n. 207 del 2001, n. 168 del 1987, n. 13 del 1961 e n. 6 del 1956) e non invece di individuare limitazioni all’interno di esso sulla base di specifiche esigenze.
 
3.2.5. "Governo del territorio"
Per quanto attiene alla materia «governo del territorio», la Corte si pronuncia, in due occasioni, sulla disciplina – già oggetto della sentenza n. 196 del 2004 – del condono edilizio straordinario.
La Corte ritorna sull’ambito di applicazione del «condono straordinario» (introdotto dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, e modificata con legge 24 dicembre 2003, n. 350), per respingere (sentenza n. 70) la questione sollevata dalla Regione Marche con cui si lamenta che l’art. 4, comma 125, della legge n. 350, escludendo dal condono non solo le opere realizzate sul demanio marittimo, ma anche quelle realizzate sul demanio lacuale e fluviale, nonché sui terreni gravati da diritti di uso civico, introdurrebbe una disciplina di dettaglio in violazione della competenza regionale residuale in materia di «edilizia» o in subordine di quella concorrente in materia di «governo del territorio».
Al riguardo, la Corte ricorda che nelle more giudizio è intervenuta la sentenza n. 196 del 2004, con cui si è ritenuto che solo alla legge statale spetta l’individuazione della portata massima del condono edilizio straordinario, attraverso la definizione sia delle opere abusive non suscettibili di sanatoria, sia del limite temporale di realizzazione delle opere condonabili, sia delle volumetrie massime sanabili. Pertanto le declaratorie di incostituzionalità contenute in quella decisione non hanno toccato la previsione delle tipologie di opere insuscettibili di sanatoria, e ciò coerentemente con l’assunto secondo il quale alle Regioni non può essere riconosciuto alcun potere di rimuovere i limiti massimi di ampiezza del condono individuati dal legislatore statale. La disposizione censurata, in quanto conforme alla ratio e alla funzione di una disposizione già scrutinata dalla Corte, non consente, quindi, di ravvisare alcuna ragione che possa indurre ad un mutamento di quanto già affermato nella sentenza n. 196 del 2004.
Nel giudizio concluso con la sentenza n. 71, la Regione Emilia-Romagna ha censurato l’art. 2, comma 70, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, che ha abrogato i commi 6, 9, 11 e 24 dell’art. 32 del decreto legge 30 settembre 2003, n. 269, i quali prevedevano il reperimento e la destinazione vincolata di risorse per effettuare interventi di riqualificazione dei nuclei urbani caratterizzati da abusivismo edilizio. In tal modo sarebbero state eliminate risorse finanziarie, cancellando qualsiasi possibilità concreta di attuazione degli interventi di riqualificazione resi necessari dal condono edilizio, violando le attribuzioni regionali e l’autonomia finanziaria delle Regioni stesse.
La Corte dichiara la inammissibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse poiché, nelle more del giudizio, è intervenuta la sentenza n. 196 del 2004, che ha radicalmente modificato la disciplina sul condono, soprattutto attraverso il riconoscimento alle Regioni del potere di modulare l’ampiezza del condono edilizio in relazione alla quantità ed alla tipologia degli abusi sanabili, ferma restando la spettanza al legislatore statale della potestà di individuare la portata massima del condono edilizio straordinario, attraverso la definizione sia delle opere abusive non suscettibili di sanatoria, sia del limite temporale massimo di realizzazione delle opere condonabili, sia delle volumetrie massime sanabili.
L’intervenuto mutamento del quadro normativo ha fatto venir meno l’attualità dell’interesse al ricorso, in quanto la ricorrente non potrebbe più, allo stato attuale, lamentare la mancata assegnazione, da parte dello Stato, delle risorse necessarie alla riqualificazione urbanistica, dal momento che rientra espressamente nel potere delle Regioni determinare – entro limiti fissati dalla legge statale – tipologie ed entità degli abusi condonabili. Tale potere, congiuntamente alla possibilità, prevista dall’art. 32 del decreto legge n. 269 del 2003, per la legge regionale di incrementare sia la misura dell’oblazione, fino al 10% (art. 32, comma 33), sia la misura degli oneri di concessione, fino al 100% (art. 32, comma 34), al fine di fronteggiare i maggiori costi che le amministrazioni comunali devono affrontare per la realizzazione delle opere di urbanizzazione, e, in generale, per gli interventi di riqualificazione delle aree interessate dagli abusi edilizi (si veda, ancora, sentenza n. 196 del 2004), consente alla Regione di valutare le conseguenze del condono sulle finanze regionali e locali e determinare, anche in ragione delle risorse necessarie agli eventuali interventi di riqualificazione, l’ampiezza della sanatoria.
Tale potere, peraltro, è già stato esercitato dalla Regione Emilia-Romagna con la legge regionale 21 ottobre 2004, n. 23, la quale ha individuato gli interventi edilizi suscettibili di sanatoria ed ha incrementato nella misura massima consentita sia l’entità dell’oblazione da corrispondere per la definizione degli illeciti edilizi, sia l’ammontare del contributo di concessione.
Di maggior rilievo è la sentenza n. 343, che reca la declaratoria di incostituzionalità della legge della Regione Marche 5 agosto 1992, n. 34 (Norme in materia urbanistica, paesaggistica e di assetto del territorio), per violazione del principio fondamentale dettato dall’art. 24 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie), nella parte in cui non prevede che copia dei piani attuativi, per i quali non è prevista l’approvazione regionale, sia trasmessa dai Comuni alla Regione.
La disposizione statale prevede che, in sede di piano territoriale di coordinamento, l’attuazione di strumenti urbanistici regionali non è soggetta ad approvazione regionale, fermo restando che i comuni sono comunque tenuti a trasmettere alla regione, entro sessanta giorni, copia degli strumenti attuativi, e che sulle eventuali osservazioni della regione i comuni devono esprimersi con motivazioni puntuali. Tale disposizione non è derogabile dalle leggi regionali: se, da una parte, si istituzionalizza il disegno di semplificazione delle procedure in materia urbanistica, eliminando l’approvazione degli strumenti attuativi, dall’altra, però, si accentuano le forme di pubblicità e di partecipazione dei soggetti pubblici e privati. In effetti, l’invio degli strumenti attuativi comunali alla Regione è chiaramente preordinato a soddisfare un’esigenza, oltre che di conoscenza per l’ente regionale, anche di coordinamento dell’operato delle amministrazioni locali e, in questo senso, la legge statale riserva alla Regione la potestà di formulare «osservazioni» sulle quali i Comuni devono «esprimersi».
Il contrappeso all’abolizione dell’approvazione regionale è costituito dall’obbligo imposto al Comune di inviare alla Regione il piano attuativo, al fine di sollecitarne osservazioni, riguardo alle quali il Comune stesso è tenuto a puntuale motivazione.
Il meccanismo istituito dall’art. 24 della legge n. 47 del 1985, dunque, in relazione allo scopo perseguito, assume il carattere di principio fondamentale.
La legge urbanistica della regione Marche abolisce l’approvazione regionale degli strumenti attuativi e, pur ammettendo opposizioni e osservazioni da parte di «chiunque», non prevede specificamente l’invio alla Regione al fine di sollecitare le osservazioni sulle quali la legge statale impone al Comune l’obbligo (non già di recepirle, ma) di motivare puntualmente (eventualmente, quindi, anche in senso difforme all’accoglimento): l’obbligo di invio, nell’impianto della legge statale, è un quid pluris rispetto alle forme partecipative consentite a soggetti privati e pubblici (art. 25), tanto da esigere una motivazione puntuale, che non è richiesta nei confronti delle osservazioni degli altri soggetti. È indubbio che la mancata previsione dell’obbligo di trasmissione contrasta con un principio fondamentale della legge statale e determina, conseguentemente, l’incostituzionalità delle norme denunciate, nella parte in cui non prevedono che copia dei piani attuativi, per i quali non è richiesta l’approvazione regionale, sia trasmessa dai Comuni alla Regione. Al riguardo, la Corte conclude che la materia edilizia rientra nel governo del territorio, ed è quindi oggetto di legislazione concorrente, per la quale le regioni debbono osservare i principî fondamentali ricavabili dalla legislazione statale.
La materia «governo del territorio» viene in considerazione, sia pure incidentalmente, anche nella sentenza n. 383, dove la Corte respinge la pretesa delle ricorrenti di utilizzare come autonomo parametro del giudizio sulla legislazione di riordino del sistema energetico la competenza regionale in tema di «governo del territorio», poiché l’ambito materiale cui ricondurre le competenze relative ad attività che presentano una diretta od indiretta rilevanza in termini di impatto territoriale va ricercato, non secondo il criterio dell’elemento materiale consistente nell’incidenza delle attività in questione sul territorio, bensì attraverso la valutazione dell’elemento funzionale, nel senso della individuazione degli interessi pubblici sottesi allo svolgimento di quelle attività, rispetto ai quali l’interesse riferibile al «governo del territorio» e le connesse competenze non possono assumere carattere di esclusività, dovendo armonizzarsi e coordinarsi con la disciplina posta a tutela di tali interessi differenziati.
 
3.2.6. "Valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali"
Nel 2005, la Corte si è pronunciata due volte in merito al titolo competenziale complesso, costituito dalla valorizzazione dei beni culturali e ambientali e dalla promozione ed organizzazione di attività culturali.
Con precipuo riguardo alla promozione della cultura, nella sentenza n. 160 la Corte dichiara l’incostituzionalità dell’art. 2, comma 38, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, che prevede finanziamenti per promuovere la diffusione della cultura italiana e sostenere lo sviluppo delle attività di ricerca e studio, destinati prioritariamente a favore degli istituti di cultura per la costruzione della propria sede principale.
La Corte, dopo aver ribadito che non sono consentiti finanziamenti a destinazione vincolata disposti con legge statale in materie la cui disciplina spetti alle Regioni (cfr. sentenze n. 370 del 2003, n. 16 del 2004, n. 51 del 2005), sottolinea che le funzioni attribuite alle Regioni ricomprendono pure la possibilità di erogazione di contributi finanziari a categorie di soggetti pubblici o privati, dal momento che, in numerose materie di competenza regionale, le politiche consistono appunto nella determinazione di incentivi economici ai diversi soggetti che vi operano e nella disciplina delle modalità per la loro erogazione (cfr. sentenza n. 320 del 2004).
Dal rilievo che la costruzione della sede principale di un istituto di cultura, finalità perseguita dal finanziamento disposto con la norma censurata, è strumentale alla «organizzazione di attività culturali», materia inclusa nell’art. 117, terzo comma, Cost., e quindi di competenza legislativa concorrente, consegue la illegittimità costituzionale della norma in questione, la quale non soltanto ha stabilito l’erogazione in oggetto, ma ha anche attribuito a un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri il compito di disciplinarne l’attuazione.
Del resto l’esiguità della somma stanziata esclude la necessità di una sua gestione unitaria in applicazione del principio c.d. di sussidiarietà ascendente ai sensi dell’art. 118, primo comma, della Costituzione.
La sentenza n. 205, invece, richiama sostanzialmente quanto statuito con la sentenza 255 del 2004 – e cioè che la materia concernente la «valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali», affidata alla legislazione concorrente di Stato e Regioni ricomprende nella sua seconda parte, e nell’ambito delle più ampie attività culturali, anche le azioni di sostegno degli spettacoli – per respingere la questione di costituzionalità, promossa dalla Regione Toscana, nei confronti dell’art. 10, comma 2, lettera e, della legge delega 6 luglio 2002, n. 137, che detta principî e criteri direttivi per il riordino del settore dello spettacolo, sollevata sul presupposto che la materia «spettacolo», non essendo menzionata tra quelle elencate nell’art. 117, secondo e terzo comma, rientrerebbe tra quelle di competenza residuale.
 
3.2.7. L'operare congiunto delle competenze in materia di "tutela della salute" e di "governo del territorio"
La sentenza n. 336 – in cui la Corte esamina i ricorsi delle Regioni Toscana e Marche con cui viene impugnato il decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259, che ha recepito la direttiva 2002/21/CE, istitutiva di un quadro normativo comune per le reti ed i servizi di comunicazione elettronica, che pone un preciso vincolo comunitario ad attuare un vasto processo di liberalizzazione del settore, armonizzando le procedure amministrative ed evitando ritardi nella realizzazione delle infrastrutture di comunicazione elettronica – pone in evidenza come tale disciplina si ponga al crocevia tra diversi titoli competenziali, tutti di tipo concorrente.
Le competenze più frequentemente evocate, nel loro operare congiunto, sono la «tutela della salute» ed il «governo del territorio».
Le prime censure formulate dalle ricorrenti coinvolgono l’intera disciplina contenuta nel Capo V del Titolo II del Codice, in quanto recherebbero «una disciplina dettagliata, autoapplicativa, non cedevole» e «direttamente operante nei confronti dei privati», tanto da non lasciare «alcuno spazio all’intervento legislativo regionale». In particolare, la disciplina di un procedimento unitario e dettagliato per l’autorizzazione all’installazione degli impianti, predeterminando anche i tempi di formazione degli atti e della volontà delle amministrazioni locali coinvolte, lederebbe la competenza legislativa delle Regioni.
A tal riguardo, osserva la Corte che l’analisi della censura presuppone che si chiarisca, in via preliminare, che l’ampiezza e l’area di operatività dei principî fondamentali – non avendo gli stessi carattere «di rigidità e di universalità» – non possono essere individuate in modo aprioristico e valido per ogni possibile tipologia di disciplina normativa. Esse, infatti, devono necessariamente essere calate nelle specifiche realtà normative cui afferiscono e devono tenere conto, in modo particolare, degli aspetti peculiari con cui tali realtà si presentano. È, dunque, evidente che, nell’individuare i principî fondamentali relativi al settore delle infrastrutture di comunicazione elettronica, non si può prescindere dalla considerazione che ciascun impianto di telecomunicazione costituisce parte integrante di una complessa ed unitaria rete nazionale, sicché non è neanche immaginabile una parcellizzazione di interventi nella fase di realizzazione di una tale rete (cfr. sentenza n. 307 del 2003). Nella relazione illustrativa al Codice, si legge, inoltre, che «la rete è unica a livello globale» e che la stessa «non ha senso se le singole frazioni non sono connesse tra di loro, quale che ne sia la proprietà e la disponibilità». Ciò comporta che i relativi procedimenti autorizzatori devono essere necessariamente disciplinati con carattere di unitarietà e uniformità per tutto il territorio nazionale, dovendosi evitare ogni frammentazione degli interventi. Alla luce di tali esigenze e finalità devono essere valutate ampiezza ed operatività dei principî fondamentali riservati alla legislazione dello Stato.
Nella fase di attuazione del diritto comunitario, la definizione del riparto interno di competenze tra Stato e Regioni in materie di legislazione concorrente e, dunque, la stessa individuazione dei principî fondamentali, non può prescindere dall’analisi dello specifico contenuto e delle stesse finalità ed esigenze perseguite a livello comunitario. In altri termini, gli obiettivi posti dalle direttive comunitarie, pur non incidendo sulle modalità di ripartizione delle competenze, possono di fatto richiedere una peculiare articolazione del rapporto norme di principio – norme di dettaglio. Nella specie, la puntuale attuazione delle prescrizioni comunitarie, secondo cui le procedure di rilascio del titolo abilitativo per la installazione degli impianti devono essere improntate al rispetto dei canoni della tempestività e della non discriminazione, richiede di regola un intervento del legislatore statale che garantisca l’esistenza di un unitario procedimento sull’intero territorio nazionale, caratterizzato, inoltre, da regole che ne consentano una conclusione in tempi brevi. Da questi rilievi si deduce l’infondatezza della questione sollevata dalle regioni.
La ulteriore censura, con la quale le ricorrenti lamentano che le disposizioni attribuirebbero direttamente l’esercizio di funzioni amministrative agli enti locali, disciplinando il relativo procedimento (laddove tali funzioni dovrebbero essere conferite con legge statale o regionale, sulla base delle rispettive competenze, secondo quanto prescritto dall’art. 118 della Costituzione), viene respinta perché basata su un erroneo presupposto interpretativo.
Al tal proposito, la Corte osserva che le norme impugnate, facendo generico riferimento agli «enti locali», non allocano direttamente funzioni amministrative ad un determinato livello di governo, bensì si limitano a formulare un principio fondamentale di disciplina, in forza del quale tutti i procedimenti relativi alla installazione delle infrastrutture di comunicazione elettronica devono essere «gestiti» dai predetti enti. Altrimenti detto, lo Stato, sul presupposto della preesistenza delle funzioni degli enti locali in materia, in base a normative da lungo tempo vigenti, ha solo disciplinato, con norme costituenti espressione di principî fondamentali, lo svolgimento di tali funzioni. Rimane ferma, pertanto, la facoltà delle Regioni di allocare le funzioni in esame ad un determinato livello territoriale subregionale, nel rispetto degli articoli 117, secondo comma, lettera p), e 118 della Costituzione. Non solo: le Regioni, nel quadro e nel rispetto dei principî fondamentali così fissati dalla legge statale, ben possono prescrivere, eventualmente, ulteriori modalità procedimentali rispetto a quelle previste dallo Stato, in vista di una più accentuata semplificazione delle stesse.
L’art. 86, comma 3, del Codice, che prevede che le infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione siano assimilate ad ogni effetto alle opere di urbanizzazione primaria (d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380), pur restando di proprietà dei rispettivi operatori, non risulta lesivo della competenza regionale relativa al governo del territorio, né pone norme di dettaglio senza lasciare alcuno spazio alla competenza concorrente regionale.
Ad avviso di una delle Regioni ricorrenti, la norma in esame introdurrebbe «una classificazione che incide in termini stringenti sulle possibilità delle Regioni di definire la disciplina di queste particolari infrastrutture». La Corte replica che la scelta di inserire le infrastrutture di reti di comunicazione tra le opere di urbanizzazione primaria esprime un principio fondamentale della legislazione urbanistica, cui le Regioni, nel legiferare, dovranno attenersi a norma dell’art. 117, terzo comma, ultima parte, della Costituzione.
Neppure l’art. 86, comma 7, il quale impone alle Regioni di uniformarsi ai limiti di esposizione ai valori di attenzione ed agli obiettivi di qualità stabiliti dall’art. 4, comma 2, lettera a), della legge 22 febbraio 2001, n. 36, viola le attribuzioni spettanti alle Regioni, e ciò sia per quanto concerne la materia del «governo del territorio», sia per quanto attiene a quella della «tutela della salute».
Al riguardo, la Corte rileva che è già stato riconosciuto (sentenza n. 307 del 2003), in linea con quanto prescritto dalla menzionata legge quadro, che spetta alla competenza delle Regioni la disciplina dell’uso del territorio in funzione della localizzazione degli impianti e quindi la indicazione degli obiettivi di qualità, consistenti in criteri localizzativi degli impianti di comunicazione (art. 3, comma 1, lettera d, numero 1).
Orbene, la norma impugnata rispetta l’indicato riparto di competenze. Essa, infatti, stabilisce che per gli obiettivi di qualità «si applicano le disposizioni di attuazione di cui all’articolo 4, comma 2, lettera a), della legge n. 36 del 2001», che opera, però, un rinvio al comma 1, lettera a), del medesimo art. 4, il quale riserva allo Stato le funzioni relative alla determinazione dei limiti di esposizione, dei valori di attenzione e anche degli obiettivi di qualità, solo «in quanto valori di campo come definiti dall’articolo 3, comma 1, lettera d), numero 2». Deve, dunque, ritenersi che rimanga ferma la competenza delle Regioni nella determinazione dei diversi «obiettivi di qualità», consistenti, appunto, negli indicati criteri localizzativi, standards urbanistici, prescrizioni ed incentivazioni per l’utilizzo delle migliori tecnologie disponibili.
Viene, poi, censurato dalle ricorrenti il primo comma dell’art. 87 del Codice, il quale prevede che l’installazione di infrastrutture per impianti radioelettrici, l’installazione di torri, di tralicci, di impianti radio-trasmittenti, di ripetitori di servizi di comunicazione elettronica, di stazioni radio base per reti di comunicazioni elettroniche mobili Gsm/Umts, per reti di diffusione, distribuzione e contribuzione dedicate alla televisione digitale terrestre sono autorizzate dagli enti locali, previo accertamento, da parte dell’organismo competente ad effettuare i controlli (Arpa), della compatibilità del progetto con i limiti di esposizione, i valori di attenzione e gli obiettivi di qualità.
La Corte respinge la doglianza, basata su una limitazione illegittima delle competenze regionali in ordine alla localizzazione dei siti, ribadendo, da un lato, che l’art. 87 vincola le Regioni al rispetto degli obiettivi di qualità, stabiliti uniformemente a livello nazionale in relazione al disposto della legge n. 36 del 2001, e, dall’altro, che attraverso il rinvio alla citata legge tale vincolo agisce limitatamente ai «valori di campo elettrico, magnetico ed elettromagnetico ai fini della progressiva minimizzazione dell’esposizione ai campi medesimi». In sostanza, la norma impugnata fa salvi, attribuendoli alla Regione, «i criteri localizzativi, gli standard urbanistici, le prescrizioni e le incentivazioni per l’utilizzo delle migliori tecnologie disponibili» (art. 3, comma 1, lettera d, numero 1). A ciò si aggiunge che, nel caso in esame, il mancato riferimento a questa seconda tipologia di obiettivi di qualità si giustifica anche in quanto la disposizione censurata richiama gli accertamenti svolti dall’organismo competente ad effettuare i controlli (Arpa), che attengono esclusivamente alla tutela sanitaria e ambientale.
La Corte opera, nel prosieguo, lo scrutinio dell’art. 87 del Codice, impugnato per quanto dispone nei commi 6, 7 e 8. In base al comma 6, in sede di esame delle istanze dirette all’adozione del provvedimento di autorizzazione all’installazione di un impianto di comunicazione elettronica, quando una amministrazione interessata abbia espresso motivato dissenso, il responsabile del procedimento deve convocare una conferenza di servizi; l’approvazione, adottata a maggioranza dei presenti, «sostituisce ad ogni effetto gli atti di competenza delle singole amministrazioni». Qualora, poi, il motivato dissenso, a fronte di una decisione positiva assunta dalla conferenza di servizi, sia espresso da un’amministrazione preposta alla tutela ambientale, alla tutela della salute o alla tutela del patrimonio storico-artistico, il comma 8 stabilisce che la decisione sia rimessa al Consiglio dei ministri.
La Corte respinge la doglianza secondo cui tale disciplina sarebbe illegittima nella parte in cui estende la regola della maggioranza all’adozione dell’atto finale, prevedendo una sola ipotesi di dissenso qualificato ed affidando al Consiglio dei ministri la relativa decisione. Motiva la Corte che l’istituto della conferenza di servizi costituisce, in generale, uno strumento di semplificazione procedimentale e di snellimento dell’azione amministrativa e che tale funzione, nel contesto dello specifico procedimento in esame e degli interessi allo stesso sottesi, consente di ritenere che la previsione contenuta nella disposizione censurata sia espressione di un principio fondamentale della legislazione.
A ciò si aggiunga che il comma 8 della disposizione impugnata prevede un meccanismo di operatività della conferenza nel caso in cui il dissenso sia espresso da un’amministrazione preposta alla tutela ambientale, alla tutela della salute o alla tutela del patrimonio storico-artistico, che assicura comunque un adeguato coinvolgimento delle Regioni.
Ancora in ordine all’art. 87 del Codice, viene censurata la disposizione del comma 9, che disciplina una ipotesi di silenzio-assenso, prevedendo che «le istanze di autorizzazione e le denunce di attività», «nonché quelle relative alla modifica delle caratteristiche di emissione degli impianti già esistenti, si intendono accolte qualora entro novanta giorni non sia stato comunicato un provvedimento di diniego». Il medesimo comma precisa che gli enti locali possono prevedere termini più brevi per la conclusione dei relativi procedimenti, ovvero ulteriori forme di semplificazione amministrativa, nel rispetto delle disposizioni stabilite dallo stesso comma.
Le ricorrenti deducono che la disciplina impugnata sarebbe di dettaglio e, non lasciando spazio alcuno alle Regioni per stabilire forme diverse di semplificazione amministrativa, impedirebbe al legislatore regionale di prevedere modalità di contemperamento delle esigenze di celerità del procedimento autorizzatorio con le imprescindibili garanzie di tutela dell’ambiente, della salute e di governo del territorio.
La Corte ritiene infondata anche tale questione, in quanto la disposizione in esame prevede moduli di definizione del procedimento, informati alle regole della semplificazione amministrativa e della celerità, espressivi in quanto tali di un principio fondamentale di diretta derivazione comunitaria. Nel caso di specie, la pluralità delle esigenze e dei valori di rilevanza costituzionale sottesi alle «materie» nel cui ambito rientrano le disposizioni censurate, in una con la finalità complessiva di garantire un rapido sviluppo dell’intero sistema delle comunicazioni elettroniche (cfr. sentenza n. 307 del 2003) secondo i dettami sanciti a livello comunitario, induce a ritenere che le norme in esame siano espressione di principî fondamentali. In definitiva, le norme impugnate perseguono il fine, che costituisce un principio dell’urbanistica, che la legislazione regionale e le funzioni amministrative in materia non risultino inutilmente gravose per gli amministrati e siano dirette a semplificare le procedure.
Sotto due diversi profili viene, poi, censurato l’art. 93, il quale, dopo aver previsto che le pubbliche amministrazioni non possono imporre, per l’impianto di reti o per l’esercizio dei servizi di comunicazione elettronica, oneri o canoni che non siano fissati per legge, stabilisce che gli operatori che forniscono reti di comunicazione elettronica hanno l’obbligo di tenere indenne l’ente locale, ovvero l’ente proprietario, dalle spese necessarie per le opere di sistemazione delle aree pubbliche coinvolte dagli interventi di installazione e manutenzione, nonché l’obbligo di ripristinare a regola d’arte le aree medesime nei tempi stabiliti dall’ente locale.
Le ricorrenti deducono che l’articolo de quo detterebbe, in ambiti materiali attribuiti alla competenza regionale, una disciplina «uniforme» delle infrastrutture per le quali, invece, si dovrebbe tener conto dello specifico contesto territoriale e normativo di ciascuna Regione. Vi sarebbe inoltre un contrasto con l’art. 119 Cost., nelle parti in cui si fissano in modo puntuale – per gli operatori – gli oneri connessi alle attività di installazione, scavo ed occupazione di suolo pubblico.
La Corte respinge le due censure, rilevando che la disposizione in esame deve ritenersi espressione di un principio fondamentale, in quanto persegue la finalità di garantire a tutti gli operatori un trattamento uniforme e non discriminatorio, attraverso la previsione del divieto di porre a carico degli stessi oneri o canoni. La finalità della norma è anche quella di «tutela della concorrenza», sub specie di garanzia di parità di trattamento e di misure volte a non ostacolare l’ingresso di nuovi soggetti nel settore. Quanto al presunto contrasto con l’art. 119 Cost., il legislatore statale si è limitato a porre a carico degli operatori di settore oneri che non gravano sui bilanci regionali, oneri strettamente funzionali alla copertura di costi, sostenuti per l’esercizio di un’attività riconducibile, non a «funzioni regionali» diverse da quelle «ordinarie», bensì all’operato di soggetti privati che svolgono attività di impresa, ancorché connessa all’erogazione del «servizio pubblico» di comunicazione elettronica.
 
3.2.8. L’operare congiunto delle competenze in materia di «governo del territorio» e di «ordinamento della comunicazione»
Una delle censure su cui la Corte si è pronunciata con la sentenza n. 336, in tema di comunicazioni elettroniche, è quella riferita all’art. 95, che, nel disciplinare gli impianti e le condutture di energia elettrica o tubazioni, prescrive che nessuna conduttura di energia elettrica, anche se subacquea, a qualunque uso destinata, può essere costruita, modificata o spostata senza che sul relativo progetto sia stato preventivamente ottenuto il nulla osta del Ministero delle comunicazioni. Lo stesso articolo, inoltre, subordina al preventivo consenso del Ministero l’esecuzione di qualsiasi lavoro sulle condutture subacquee di energia elettrica, e sui relativi atterraggi, e riconosce al Ministero il potere di esercitare la vigilanza e il controllo sulla esecuzione dei lavori.
La Corte non condivide il rilievo secondo cui la norma in esame conterrebbe una indebita disciplina di dettaglio in materie di competenza concorrente («ordinamento della comunicazione» e «governo del territorio»), in quanto il nulla osta ministeriale è diretto proprio a garantire il rispetto di quelle regole tecniche senza le quali l’esercizio della potestà legislativa regionale potrebbe produrre una elevata diversificazione della rete di distribuzione della energia elettrica, con notevoli inconvenienti sul piano tecnico ed economico. La norma impugnata, pertanto, costituisce una esplicitazione a livello tecnico dell’esigenza di assicurare uniformità e continuità alla rete delle infrastrutture di comunicazione elettronica.
 
3.3. Le materie di competenza residuale delle Regioni
In un numero non irrilevante di occasioni, la Corte ha individuato la sussistenza di materie annoverabili tra quelle che il quarto comma dell’art. 117 della Costituzione attribuisce alla competenza (residuale) delle Regioni. In particolare, è stata affermata tale qualifica in relazione alla formazione professionale, all’artigianato, al trasporto pubblico locale ed alla disciplina delle comunità montane.
 
3.3.1. "Formazione del personale"
Nella sentenza n. 50, la Corte chiarisce che «la competenza esclusiva delle Regioni in materia di istruzione e formazione professionale riguarda l’istruzione e la formazione professionale pubbliche che possono essere impartite sia negli istituti scolastici a ciò destinati, sia mediante strutture proprie che le singole Regioni possano approntare in relazione alle peculiarità delle realtà locali, sia in organismi privati con i quali vengano stipulati accordi», mentre non è compresa nell’ambito della suindicata competenza né in altre competenze regionali la formazione aziendale che rientra invece nel sinallagma contrattuale e quindi nelle competenze dello Stato in materia di ordinamento civile.
Sulla base di questo assunto la Corte dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera c) della legge n. 30 del 2003. Infatti la disposizione di cui alla lettera c), che prevede forme di apprendistato e di tirocinio di impresa tali da favorire «il subentro nell’attività di impresa», è norma destinata ad operare all’interno dei rapporti di lavoro, la cui disciplina è estranea alle competenze regionali (una analoga ratio decidendi è stata alla base della dichiarazione di infondatezza della censura relativa alle lettere d), e), f) e g).
Attiene, invece, alla competenza esclusiva delle Regioni in materia di formazione professionale la disciplina dei tirocini estivi di orientamento, dettata senza alcun collegamento con rapporti di lavoro, e non preordinata in via immediata ad eventuali assunzioni.
Sulla questa base,la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 60 del d.lgs. n. 276 del 2003, in tema di disciplina dei tirocini estivi di orientamento, che è stato dettato senza alcun collegamento con rapporti di lavoro, e che non è preordinato in via immediata ad eventuali assunzioni.
La materia «formazione professionale» viene in considerazione anche con la sentenza n. 51, dove si dichiara la incostituzionalità dell’art. 47 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, che prevede, al comma 1, che «nell’ambito delle risorse preordinate sul fondo per l’occupazione […] con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, sono determinati i criteri e le modalità per la destinazione dell’importo aggiuntivo di 1 milione di euro, per il finanziamento degli interventi in materia di formazione professionale».
La norma impugnata disciplina interventi destinati alla formazione professionale: questa materia appartiene, nell’assetto definito dal nuovo art. 117 della Costituzione, alla competenza residuale delle Regioni, in quanto non è inclusa nell’elenco delle materie attribuite dal secondo comma alla legislazione dello Stato ed è nel contempo espressamente esclusa dall’ambito della potestà concorrente in materia di istruzione, sancita dal successivo terzo comma (v. sentenza n. 13 del 2004).
Con riferimento ai finanziamenti disposti da leggi statali in favore di soggetti pubblici o privati (mediante la costituzione di appositi fondi o il rifinanziamento di fondi già esistenti), è stato più volte affermato che – dopo la riforma costituzionale del 2001 ed in attesa della sua completa attuazione in tema di autonomia finanziaria delle Regioni (cfr. sentenze numeri 320 e 37 del 2004) – l’art. 119 della Costituzione pone, sin d’ora, al legislatore statale precisi limiti in tema di finanziamento di funzioni spettanti al sistema delle autonomie (sentenza n. 423 del 2004).
Anzitutto, non è consentita l’erogazione di nuovi finanziamenti a destinazione vincolata in materie spettanti alla competenza legislativa, esclusiva o concorrente, delle Regioni (sentenze numeri 16 del 2004 e 370 del 2003). Infatti, il ricorso a questo tipo di finanziamento può divenire uno strumento indiretto, ma pervasivo, di ingerenza dello Stato nell’esercizio delle funzioni delle Regioni e degli enti locali, nonché di sovrapposizione di politiche e di indirizzi governati centralmente a quelli legittimamente decisi dalle Regioni negli ambiti materiali di propria competenza.
In secondo luogo – giacché «le funzioni attribuite alle Regioni ricomprendono pure la possibilità di erogazione di contributi finanziari a soggetti privati, dal momento che in numerose materie di competenza regionale le politiche pubbliche consistono appunto nella determinazione di incentivi economici ai diversi soggetti che vi operano e nella disciplina delle modalità per la loro erogazione» (sentenza n. 320 del 2004) – questa Corte ha ripetutamente chiarito che il tipo di ripartizione delle materie fra Stato e Regioni di cui all’art. 117 Cost., «vieta comunque che in una materia di competenza legislativa regionale, in linea generale, si prevedano interventi finanziari statali seppur destinati a soggetti privati, poiché ciò equivarrebbe a riconoscere allo Stato potestà legislative e amministrative sganciate dal sistema costituzionale di riparto delle rispettive competenze» (sentenze numeri 320, 423 e 424 del 2004).
 
3.3.2. "Artigianato"
La Corte, nella sentenza n. 162, dichiara non fondata la questione avente ad oggetto l’art. 4, commi 82 e 83, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, che dispone un incremento del fondo per agevolare i processi di internazionalizzazione ed i programmi di penetrazione commerciale promossi dalle imprese artigiane.
Preliminarmente, per rinvenire l’ambito di competenza della materia, la Corte esclude che la disposizione sia riconducibile alla materia «tutela della concorrenza», per la sua inidoneità ad incidere sull’equilibrio economico generale, ed anche per l’esiguità dei mezzi economici impegnati nel quadro della complessiva manovra finanziaria.
L’ambito materiale nel quale interviene la disposizione denunciata è l’artigianato. L’art. 117 della Costituzione, non annoverando l’artigianato tra le materie tassativamente riservate alla legislazione statale o a quella concorrente, implicitamente demanda questa materia alla potestà legislativa residuale delle Regioni, nella quale rientra l’adozione delle misure di sviluppo e sostegno del settore, e, in questo ambito, la disciplina dell’erogazione di agevolazioni, contributi e sovvenzioni di ogni genere.
Peraltro, ciò non comporta l’incostituzionalità dell’art. 4, comma 82, della legge n. 350 del 2003, in quanto la norma denunciata non istituisce un nuovo fondo a destinazione vincolata, ma si limita ad incrementare le disponibilità di un fondo preesistente alla modifica del Titolo V, Parte seconda, della Costituzione, in vista del raggiungimento di finalità ad esso già proprie.
Invero, l’art. 37 della legge n. 949 del 1952, nel contesto di un più ampio provvedimento per lo sviluppo dell’economia e l’incremento dell’occupazione, ha previsto la formazione di un fondo, presso la Cassa per il credito alle imprese artigiane, per il concorso nel pagamento degli interessi sulle operazioni di credito a favore delle imprese artigiane, effettuate dagli istituti e aziende di credito, rimettendo ad appositi comitati tecnici regionali l’attività di concessione dei contributi.
Provvedimenti legislativi successivi hanno di volta in volta conferito al fondo in questione ulteriori assegnazioni per i vari esercizi finanziari.
La legge 5 marzo 2001, n. 57, nel dettare disposizioni in materia di apertura e regolazione dei mercati, ha assegnato al fondo per il concorso nel pagamento degli interessi sulle operazioni di credito a favore delle imprese artigiane una nuova finalità, il sostegno all’internazionalizzazione. L’art. 21, comma 7, di tale legge prevede infatti che le disponibilità del fondo in questione «possono essere utilizzate anche per agevolare il sostegno finanziario ai processi esportativi delle imprese artigiane e ai programmi di penetrazione commerciale e di internazionalizzazione promossi dalle imprese stesse e dai consorzi export a queste collegati, secondo finalità, forme tecniche, modalità e condizioni da definire con decreto del Ministro del commercio con l’estero, di concerto con il Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica».
Su questa linea si pone il denunciato comma 82 dell’art. 4 della legge n. 350 del 2003: esso pertanto si giustifica, in via transitoria e fino all’attuazione del nuovo modello delineato dall’art. 119 della Costituzione, in conseguenza del principio di continuità dell’ordinamento, più volte richiamato da questa Corte dopo la modifica del Titolo V (cfr., da ultimo, sentenza n. 255 del 2004), attesa l’esigenza di non far mancare finanziamenti ad un settore rilevante e strategico dell’economia nazionale, quello dell’impresa artigiana, al quale la Costituzione (art. 45) guarda con particolare favore.
Le censure della ricorrente vanno invece accolte con riferimento al comma 83 dell’art. 4, là dove viene lamentata la mancanza di forme di raccordo e di leale collaborazione con le Regioni.
Il principio di continuità giustifica infatti, ancora in via provvisoria, ed in vista di una considerazione complessiva del settore dell’artigianato e delle iniziative da finanziare, l’attribuzione al Ministro delle attività produttive della potestà di definire, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, modalità, condizioni e forme tecniche delle attività ammesse al sostegno finanziario (cfr. sentenza n. 255 del 2004).
E tuttavia, l’articolazione della normativa esige forme di cooperazione con le Regioni e di incisivo coinvolgimento delle stesse, essendo evidente che l’intervento dello Stato debba rispettare la sfera di competenza spettante alle Regioni in via residuale.
La norma censurata, invece, non prende minimamente in considerazione le Regioni per ciò che attiene all’emanazione del decreto ministeriale di attuazione. Deve pertanto essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 83, della legge n. 350 del 2003, nella parte in cui, in contrasto con il principio di leale collaborazione, non prevede che il decreto del Ministro delle attività produttive sia emanato previa intesa con la Conferenza Stato-Regioni.
Quanto all’ulteriore denuncia concernente la mancanza di forme di raccordo con le Regioni nell’attività di gestione delle risorse, la Corte fa presente che il comma 83 del citato art. 4, infatti, non disciplina – per il tramite del decreto ministeriale di attuazione – anche l’attività di concreta gestione dell’intervento. Questa attività, unitamente a quella di concessione dei contributi e delle agevolazioni, rientra nella competenza delle Regioni, e tale competenza è fatta salva dalla norma censurata. Lo si ricava univocamente tanto dal fatto che il comma 82 individua lo strumento operativo di intervento nel fondo di cui all’art. 37 della legge n. 949 del 1952, che è un fondo a gestione regionale; quanto, più in generale, dalle disposizioni contenute negli articoli 12 e ss. del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112, le quali, prevedendo la competenza delle Regioni per tutto ciò che attiene all’erogazione di contributi in favore delle imprese artigiane, postulano che siano le Regioni stesse a vagliare in concreto i progetti da ammettere al finanziamento previsto dalla legge, e quindi a coordinare questo sostegno con le iniziative già finanziate con altri strumenti di intervento pubblico.
 
3.3.3. "Trasporto pubblico locale"
Con la sentenza n. 222, viene dichiarata la illegittimità costituzionale parziale dell’art. 4, comma 157, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, che prevede la costituzione di «un apposito fondo presso il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti» per il generico fine di assicurare il conseguimento di «risultati di maggiore efficienza e produttività dei servizi di trasporto pubblico locale». La disposizione prevedeva altresì che la ripartizione del fondi avvenisse tramite «decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, sentita la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281». Su quest’ultimo punto, è intervenuta la pronuncia caducatoria, che ha sostituito la (mera) consultazione della Conferenza con la necessità che il decreto «sia adottato previa intesa con la Conferenza stessa».
L’iter argomentativo sul quale la decisione si basa prende le mosse dalla preliminare constatazione secondo cui «non vi è dubbio che la materia del trasporto pubblico locale rientra nell’ambito delle competenze residuali delle Regioni di cui al quarto comma dell’art. 117 Cost.».
Ciò posto, si rileva, peraltro, come, nella perdurante situazione di mancata attuazione delle prescrizioni costituzionali in tema di garanzia dell’autonomia finanziaria di entrata e di spesa delle Regioni e degli enti locali, e del vigente finanziamento statale nel settore del trasporto pubblico locale, la disciplina di riferimento sia contenuta nel citato art. 20 del d.lgs. n. 422 del 1997, il cui comma 5 stabilisce le modalità di trasferimento delle risorse erogate dallo Stato. Il fondo previsto dalla disposizione oggetto di scrutinio risulta sostanzialmente analogo al meccanismo di finanziamento appena richiamato: ad avviso della Corte, «ciò appare, al momento, sufficiente a giustificare l’intervento finanziario dello Stato e la sua relativa disciplina legislativa».
Tuttavia, «proprio perché tale finanziamento interviene in un ambito di competenza regionale», viene sottolineata la necessità di assicurare il rispetto delle attribuzioni costituzionalmente riconosciute alle Regioni attraverso un loro pieno coinvolgimento nei processi decisionali concernenti il riparto dei fondi (sentenze numeri 49 e 16 del 2004); ciò tenendo altresì conto del «limite discendente dal divieto di procedere in senso inverso a quanto oggi prescritto dall’art. 119 della Costituzione, e così di sopprimere semplicemente, senza sostituirli, gli spazi di autonomia già riconosciuti dalle leggi statali in vigore alle Regioni e agli enti locali, o di procedere a configurare un sistema finanziario complessivo che contraddica i principî del medesimo art. 119» (sentenza n. 37 del 2004).
Sulla scorta di queste considerazioni, è stato ritenuto insufficiente il meccanismo previsto dalla disposizione censurata, rendendosi di contro necessario che il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri sia adottato sulla base di una vera e propria intesa con la Conferenza unificata.
Si noti che la materia «trasporto pubblico locale» è venuta in considerazione anche nella sentenza n. 432, nella quale, però, non si è posto un problema competenziale bensì di violazione dell’art. 3 della Costituzione (v. supra, cap. II, par. 2).
 
3.3.4. "Comunità montane"
La Corte, nella sentenza n. 244, dichiara infondati i dubbi di costituzionalità del Tribunale amministrativo regionale per il Molise in ordine alla legittimità dell’art. 17 della legge della Regione Molise 8 luglio 2002, n. 12, nella parte in cui attribuisce «ai poteri del Presidente della Giunta regionale lo scioglimento, la sospensione e il commissariamento del consiglio della Comunità montana».
Contrariamente a quanto ritiene il giudice rimettente, la previsione di un potere regionale di controllo sostitutivo sulle Comunità montane non è in contrasto con il riconoscimento «della parità di rango costituzionale tra Regione e Comuni» di cui all’art. 114 della Costituzione e con la «riserva di legge statale» in materia di legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali dei Comuni ex art. 117, secondo comma, lettera p) della Costituzione. Al riguardo, motiva la Corte, deve ritenersi inconferente il richiamo all’art. 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione in quanto la citata disposizione fa espresso riferimento ai Comuni, alle Province ed alle Città metropolitane; e l’indicazione deve ritenersi tassativa con la conseguenza che la disciplina delle Comunità montane, pur in presenza della loro qualificazione come enti locali contenuta nel d.lgs. n. 267 del 2000, rientra nella competenza legislativa residuale delle Regioni ai sensi dell’art. 117, quarto comma, della Costituzione. Allo stesso modo inconferente deve ritenersi il riferimento all’art. 114 della Costituzione, non contemplando quest’ultimo le Comunità montane tra i soggetti di autonomia destinatari del precetto in esso contenuto.
Anche la mancata previsione di un limite temporale di durata della supplenza dell’organo commissariale straordinario, nonché la mancanza di una «scansione procedimentale» e di «particolari garanzie» non risultano in contrasto con «il principio della riserva di legge in materia di organizzazione amministrativa» e con i principî di imparzialità e buon andamento, di cui all’art. 97 della Costituzione. Il commissario straordinario dovrà, infatti, esercitare i poteri conferitigli con il decreto di nomina entro il termine stabilito dalla stessa amministrazione regionale, ovvero, in sua assenza, entro il termine e secondo le modalità di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241 e successive modificazioni. Il sistema conosce, inoltre, rimedi attivabili da parte dei soggetti interessati in caso di mancata osservanza di tali termini (cfr. sentenze n. 220 e n. 176 del 2004). Una volta esercitate le attribuzioni e/o venute meno le cause di scioglimento si potrà procedere, nel rispetto della normativa di settore e dei tempi ivi previsti, al rinnovo del consiglio comunitario.
La norma impugnata, d’altra parte, affidando «ad un organo monocratico politico della Regione il controllo sugli organi collegiali di un ente territoriale di diritto pubblico, autonomo ed a base comunitaria, espressione dell’autonomia dei Comuni montani e del loro potere di associarsi per il perseguimento di fini comuni» non risulta, perciò stesso, in contrasto con i principî di ragionevolezza (art. 3 della Costituzione) e di autonomia degli enti locali (art. 5 della Costituzione). Motiva la Corte che gli evocati parametri costituzionali non sono violati dalla previsione di un controllo sostitutivo sugli organi, subordinato alla previsione tassativa di cause che oggettivamente impediscano all’ente di svolgere le funzioni allo stesso demandate. Sotto altro aspetto, rientra nella discrezionalità del legislatore regionale l’affidamento di tale funzione ad un organo monocratico anziché collegiale, rilevante essendo soltanto la circostanza che debba trattarsi di un organo politico della Regione.
Non fondata è, infine, la doglianza relativa alla mancata previsione della consultazione, ad opera della Regione, dei Comuni facenti parte della Comunità montana, in forza di quanto previsto dall’ultimo comma dell’art. 123 della Costituzione, prima dell’adozione del provvedimento di commissariamento.
La norma impugnata, infatti, prevede casi di scioglimento e di commissariamento degli organi comunitari, dai quali esula ogni profilo di discrezionalità, atteso il loro collegamento ad eventi oggettivamente rilevanti, quali: a) la mancata elezione del Presidente e della Giunta entro sessanta giorni dalla convalida degli eletti, dalla vacanza comunque verificatesi o, in caso di dimissioni, dalla data di presentazione delle stesse; b) le dimissioni contestuali o la decadenza di almeno la metà dei consiglieri comunitari nominati dai consigli comunali; c) la mancata approvazione del bilancio di previsione; d) la mancata approvazione dello statuto nei termini previsti dall’art. 8 della stessa legge.
Tenuto conto del contenuto della disposizione censurata, può ritenersi non necessaria la previsione di meccanismi di preventiva consultazione dei Comuni interessati, poiché il carattere oggettivo degli eventi cui la norma si riferisce è sufficiente a giustificare l’adozione dell’atto di controllo sostitutivo. Pertanto, l’accertamento in fatto della sussistenza di una o più delle fattispecie previste dalla norma comporta automaticamente l’adozione, in via vincolata, del provvedimento di commissariamento dell’ente.
La sentenza n. 456 torna sulla materia de qua. La Corte esamina i ricorsi proposti dal Presidente del Consiglio dei ministri avverso la legge della Regione Puglia 4 novembre 2004, n. 20, e la legge della Regione Toscana 29 novembre 2004, n. 68, che recano entrambe nuove norme in materia di riordino delle Comunità montane. Oggetto di impugnativa sono, per la legge della Regione Puglia, l’art. 16, comma 1, secondo periodo, il quale prevede l’incompatibilità della carica di presidente dell’organo esecutivo della Comunità montana con quella di parlamentare, di consigliere regionale e di sindaco e, per la legge della Regione Toscana, l’art. 1, il quale ha disposto che, in caso di rinnovo, l’organo rappresentativo (della Comunità montana) può essere insediato quando i rappresentanti dei Comuni raggiungono i quattro quinti dei componenti o il valore inferiore stabilito espressamente dallo statuto comunque tale da rappresentare la maggioranza dei Comuni, e l’art. 4, che detta «disposizioni transitorie per la Comunità montana Area Lucchese», prevedendo che quest’ultima continui ad operare fino all’individuazione del suo nuovo ambito territoriale. La normativa impugnata sarebbe invasiva – ad avviso del ricorrente – della competenza statale esclusiva in materia di «legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane» (art. 117, secondo comma, lettera p, Cost.) e lederebbe, inoltre, il «principio di equiordinazione tra Stato, Regioni ed Enti locali» (art. 114 Cost.).
Rifacendosi a quanto stabilito nella sentenza n. 244, la Corte afferma che, nel caso delle Comunità montane, si tratta di un caso speciale di unioni di Comuni, «create in vista della valorizzazione delle zone montane, allo scopo di esercitare, in modo più adeguato di quanto non consentirebbe la frammentazione dei comuni montani, “funzioni proprie”, “funzioni conferite” e funzioni comunali» (sentenza n. 229 del 2001) e che tale qualificazione pone in evidenza l’autonomia di tali enti (non solo dalle Regioni ma anche) dai Comuni, come dimostra, tra l’altro, l’espressa attribuzione agli stessi della potestà statutaria e regolamentare (art. 4, comma 5, della legge n. 131 del 2003).
La Corte ritiene, dunque, non conferente il richiamo alla disposizione costituzionale evocata dallo Stato, in quanto in essa si fa espresso riferimento ai Comuni, alle Province ed alle Città metropolitane; e l’indicazione deve ritenersi tassativa, con la conseguenza che la disciplina delle Comunità montane, pur in presenza della loro qualificazione come enti locali contenuta nel d.lgs. n. 267 del 2000, rientra ora nella competenza legislativa residuale delle Regioni, ai sensi dell’art. 117, quarto comma, della Costituzione. Allo stesso modo, inconferente deve ritenersi il riferimento all’art. 114 della Costituzione, non contemplando quest’ultimo le Comunità montane tra i soggetti di autonomia destinatari del precetto in esso contenuto
Pertanto, le disposizioni della legge della Regione Toscana n. 68 del 2004 (articoli 1 e 4) relative, da un lato, alla composizione dell’organo di governo delle Comunità montane e, dall’altro, alle norme transitorie specificamente dettate per quella dell’Area Lucchese, si sottraggono alla censura di violazione degli indicati parametri costituzionali.
Per le medesime ragioni deve ritenersi non fondata la questione relativa all’art. 16, comma 1, della legge della Regione Puglia n. 20 del 2004, la quale ha disposto la incompatibilità della carica di presidente dell’organo esecutivo delle Comunità montane pugliesi con quelle di consigliere regionale o sindaco.
La Corte dichiara, invece, incostituzionale l’art. 16, comma 1, secondo periodo, della legge della Regione Puglia, in quanto contrastante con la riserva di legge di cui all’art. 65 della Costituzione, in tema di elettorato passivo dei membri del Parlamento.
 
3.4. La "concorrenza di competenze"
Come si ricava già da alcune decisioni passate in rassegna, non sempre è agevole individuare, per le singole discipline, titoli competenziali unici. In taluni casi, addirittura, una siffatta individuazione risulta impossibile, venendo a creare una situazione di «concorrenza di competenze» di natura diversa.
Nella sentenza n. 50 del 2005 la Corte chiarisce che, nei casi di concorrenza di competenze, la Costituzione non prevede espressamente un criterio per la composizione delle interferenze e pertanto è necessario adottare due principî diversi. Quello di leale collaborazione, che per la sua elasticità consente di aver riguardo alle peculiarità delle singole situazioni, ma anche quello della prevalenza, cui pure la Corte ha fatto ricorso (v. sentenza n. 370 del 2003), qualora appaia evidente l’appartenenza del nucleo essenziale di un complesso normativo ad una materia piuttosto che ad altre.
Conseguentemente, «se è vero che la formazione all’interno delle aziende inerisce al rapporto contrattuale, sicché la sua disciplina rientra nell’ordinamento civile, e che spetta invece alle Regioni e alle Province autonome disciplinare quella pubblica, non è men vero che nella regolamentazione dell’apprendistato né l’una né l’altra appaiono allo stato puro, ossia separate nettamente tra di loro e da altri aspetti dell’istituto. Occorre perciò tener conto di tali interferenze». Sulla base di questa ricostruzione la Corte dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli 48, 49 e 50 del d.lgs n. 276 del 2003, precisando che in tale situazione di interferenza tra materie la previsione che le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano debbano regolamentare i profili formativi dell’apprendistato d’intesa con i ministeri del lavoro e delle politiche sociali e dell’istruzione, dell’università e della ricerca, sentite le associazioni dei datori di lavoro e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative (comma 4) non lede le competenze regionali e costituisce corretta attuazione del principio di leale collaborazione.
In applicazione dei principî posti nella sentenza n. 50, la Corte, nella sentenza n. 51, dichiara non fondata la questione sollevata nei confronti del comma 2 dell’art. 47, della legge 27 dicembre 2002, n. 289, che prevede una quota di finanziamento di 100 milioni di euro per il 2003 «per le attività di formazione nell’esercizio dell’apprendistato anche se svolte oltre il compimento del diciottesimo anno di età». Nella specie, si tratta delle iniziative di formazione esterne all’azienda, previste dai contratti collettivi nazionali di lavoro, che l’amministrazione pubblica competente propone all’impresa, ed i cui contenuti formativi sono definiti con decreto del Ministro del lavoro, sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale, le associazioni di categorie dei datori di lavoro e le Regioni.
Al riguardo, la Corte, dopo aver richiamato la sentenza n. 50 del 2005 con cui ha chiarito che nell’attuale assetto del mercato del lavoro la disciplina dell’apprendistato si colloca all’incrocio di una pluralità di competenze, ritiene che le molteplici interferenze di materie diverse non consentono la soluzione delle questioni sulla base di criteri rigidi per cui la riserva alla competenza legislativa regionale della materia «formazione professionale» non può escludere la competenza dello Stato a disciplinare l’apprendistato per i profili inerenti a materie di sua competenza.
I «fondi interprofessionali per la formazione continua» disciplinati dalla norma impugnata, pur operando in materia di formazione professionale, appartenente alla competenza residuale della Regione, dal punto di vista strutturale, (a) hanno carattere nazionale (pur se possono articolarsi regionalmente o territorialmente) e sono istituiti da soggetti privati attivi sul piano nazionale; (b) possono essere istituiti e conseguentemente agire, alternativamente, o come soggetto giuridico di natura associativa ai sensi dell’art. 36 cod. civ., o come soggetto dotato di personalità giuridica ai sensi degli articoli 1 e 9 del d.P.R. 10 febbraio 2000, n. 361. Inoltre essi, dal punto di vista funzionale, (c) gestiscono i contributi dovuti dai datori di lavoro ad essi aderenti, ai sensi della legislazione in materia di assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione.
Ne discende che, in relazione alla loro natura ed alle relative forme di costituzione di cui sub (a) e (b), la disciplina dell’istituzione dei fondi in esame incide sulla materia dell’«ordinamento civile» spettante alla competenza esclusiva dello Stato e in relazione all’attività indicata sub (c), sulla materia della «previdenza sociale», devoluta anch’essa alla medesima competenza esclusiva.
Perciò, la riserva alla competenza legislativa regionale residuale della «formazione professionale» non può precludere allo Stato la competenza di riconoscere a soggetti privati la facoltà di istituire, in tale materia, fondi operanti sull’intero territorio nazionale, di specificare la loro natura giuridica, di affidare ad autorità amministrative statali poteri di vigilanza su di essi, anche in considerazione della natura previdenziale dei contributi che vi affluiscono.
È evidente, peraltro, che un tale intervento legislativo dello Stato – a tutela di interessi specificamente attinenti a materie attribuite alla sua competenza legislativa esclusiva – deve rispettare la sfera di competenza legislativa spettante alle Regioni in via residuale (o, eventualmente, concorrente).
Nella specie, viceversa, la normativa impugnata è strutturata come se dovesse disciplinare una materia integralmente devoluta alla competenza esclusiva dello Stato.
Infatti, il sistema da essa delineato lascia le Regioni sullo sfondo, prendendo in considerazione la loro posizione (e le loro rispettive competenze) solo per proclamare un generico intento di «coerenza con la programmazione regionale» ovvero per riservare ad esse una posizione di mere destinatarie di comunicazioni.
Pertanto, il legislatore statale – qualora ritenga, nella sua discrezionalità, di prevedere che le organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori maggiormente rappresentative sul piano nazionale possano istituire fondi interprofessionali di formazione continua, a carattere nazionale – ben potrà regolare la loro natura giuridica, i poteri su di essi spettanti ad autorità amministrative statali, e i contributi ad essi affluenti. Ma dovrà articolare siffatta normativa in modo da rispettare la competenza legislativa delle Regioni a disciplinare il concreto svolgimento sul loro territorio delle attività di formazione professionale, e in particolare prevedere strumenti idonei a garantire al riguardo una leale collaborazione fra Stato e Regioni.
La norma impugnata viene quindi dichiarata costituzionalmente illegittima, nella parte in cui non prevede strumenti idonei a garantire una leale collaborazione fra Stato e Regioni.
La Corte, con la sentenza n. 219, dichiara la illegittimità costituzionale parziale dell’art. 3, commi 76 e 82, della legge 24 dicembre 2003, n. 350. La prima disposizione autorizza il Ministro del lavoro a prorogare per il 2004, rifinanziandole, le convenzioni già stipulate con i Comuni, anche in deroga alla normativa vigente relativa ai lavori socialmente utili, per lo svolgimento di attività di questo tipo e per l’attuazione di misure di politica attiva del lavoro in favore dei soggetti in esse utilizzati. La seconda autorizza il Ministero a stipulare nel 2004 direttamente con i Comuni nuove convenzioni (e contestualmente le finanziava) «per lo svolgimento di attività socialmente utili e per l’attuazione di misure di politica attiva del lavoro riferite a lavoratori impegnati in attività socialmente utili».
Ricostruita l’evoluzione normativa concernente la disciplina dei lavori socialmente utili, nella sentenza si evidenzia come questa, «concernendo la tutela del lavoro e le politiche sociali, nel contesto di particolari rapporti intersoggettivi di prestazione di attività», si collochi «all’incrocio di varie competenze legislative, di cui ai commi secondo, terzo e quarto dell’art. 117 della Costituzione».
In primo luogo, la disciplina dei lavori socialmente utili, «in quanto mira ad agevolare l’accesso all’occupazione, attiene in senso lato al collocamento, e quindi si inscrive nella tutela del lavoro attribuita alla competenza concorrente dello Stato e delle Regioni».
In secondo luogo, la normativa sui lavori socialmente utili tende «ad alleviare le difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro e a fronteggiare situazioni di bisogno conseguenti alla perdita dell’occupazione, prevedendo la corresponsione ai soggetti impiegati in lavori socialmente utili di somme di danaro […], che ben possono essere accostate, sotto il profilo della natura latamente previdenziale, all’indennità di disoccupazione o di mobilità o al trattamento di integrazione salariale»: di talché, viene in rilievo «sia la materia delle politiche sociali, di sicuro compresa nella competenza regionale residuale (sentenza n. 427 del 2004), sia quella della «previdenza sociale», attribuita invece alla competenza esclusiva dello Stato. Infine, i lavori socialmente utili si ricollegano alla competenza residuale regionale pure sotto l’ulteriore profilo della «formazione professionale» dei soggetti assegnati a questo tipo di lavori, nella misura in cui siffatta assegnazione persegua anche finalità formative.
Ora, constatata la «concorrenza di competenze», la Corte prende atto che «la Costituzione non prevede espressamente un criterio di composizione delle interferenze». In ragione di ciò, «ove, come nella specie, non possa ravvisarsi la sicura prevalenza di un complesso normativo rispetto ad altri, che renda dominante la relativa competenza legislativa», si rende necessario il ricorso «al canone della “leale collaborazione”, che impone alla legge statale di predisporre adeguati strumenti di coinvolgimento delle Regioni, a salvaguardia delle loro competenze (sentenza n. 50 del 2005)».
Da questa enunciazione di principio la Corte trae argomento per affermare la sussistenza del vizio di costituzionalità dei due commi dell’art. 3 sottoposti al suo scrutinio.
In tal senso, si rileva che, in un contesto costituzionale di accresciute competenze legislative regionali, le disposizioni in esame ammettono solo convenzioni stipulate dallo Stato direttamente con i Comuni ed escludono del tutto le Regioni.
A giustificare tale assetto normativo non possono addursi istanze unitarie che giustifichino l’attrazione in sussidiarietà della competenza in capo allo Stato, se è vero che «le funzioni amministrative relative all’assegnazione di soggetti a lavori socialmente utili ed alla loro stabilizzazione – lungi dal trascendere l’ambito regionale – si collegano al contrario ad esigenze decisamente locali, di dimensioni addirittura comunali».
Né, d’altro canto, può invocarsi il quinto comma dell’art. 119 della Costituzione, riferendosi la normativa in esame non a finanziamenti in favore di «determinati Comuni» bensì ad «un sistema generale di finanziamento», tale da riguardare potenzialmente tutti indistintamente i Comuni italiani.
In definitiva, i commi 76 e 82 dell’art. 3 della legge 24 dicembre 2003, n. 350, nel prevedere convenzioni stipulate dallo Stato direttamente con i Comuni per il finanziamento statale di attività rientranti (anche) in materie di competenza legislativa regionale, devono essere dichiarati costituzionalmente illegittimi nella parte in cui non contemplavano alcuno strumento idoneo a garantire una leale collaborazione fra Stato e Regioni. La Corte osserva altresì che l’individuazione della tipologia più congrua a garantire tale collaborazione compete alla discrezionalità del legislatore, sottolineando peraltro che – nelle varie fasi dell’evoluzione della disciplina dei lavori socialmente utili – il legislatore ha già fatto ricorso sia alla previa intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti Stato-Regioni, sia alla convenzione fra Stato e Regione interessata.
Un altro caso nel quale si riscontra una concorrenza di competenze normative è rappresentato dalla sentenza n. 231. In essa, viene decisa la questione avente ad oggetto l’art. 4, commi 112, 113, 114 e 115, della legge 24 dicembre 2003, n. 350. Il comma 112 prevede l’istituzione, presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, di un Fondo speciale per l’incentivazione della partecipazione dei lavoratori nelle imprese, che intervenga in sostegno di programmi, predisposti per l’attuazione di accordi sindacali o statuti societari, finalizzati a valorizzare la partecipazione dei lavoratori ai risultati o alle scelte gestionali delle imprese medesime. Il comma 113 stabilisce la costituzione, con decreto ministeriale, di un Comitato (composto di esperti che rappresentano in parte il Ministero, in parte e in modo paritario le associazioni sindacali di datori e di prestatori di lavoro), con il compito, tra l’altro, di predisporre il regolamento per il proprio funzionamento. Ai termini del comma 115, il Comitato è chiamato a redigere annualmente una relazione, da inviare al Ministro del lavoro e delle politiche sociali, alle competenti Commissioni parlamentari ed al Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro.
Con il predetto decreto ministeriale sono stabiliti i criteri fondamentali di gestione del fondo (comma 113), modificabili, con successivi decreti, sulla base del recepimento di eventuali accordi interconfederali o di avvisi comuni delle parti sociali, anche in attuazione degli indirizzi dell’Unione europea (comma 114).
La Corte ribadisce il principio secondo cui «la legittimità delle norme statali istitutive di nuovi fondi è condizionata di norma, per quanto riguarda la competenza ad emanarle, alla inerenza della destinazione dei finanziamenti a opere e servizi rientranti in materie di competenza statale».
D’altra parte, vero è che «la complessità della realtà sociale da regolare comporta che di frequente le discipline legislative non possano essere attribuite nel loro insieme ad un’unica materia, perché concernono posizioni non omogenee ricomprese in materie diverse sotto il profilo della competenza legislativa. In siffatti casi di concorso di competenze, la Corte ha fatto applicazione, «secondo le peculiarità dell’intreccio di discipline, del criterio della prevalenza di una materia sull’altra e del principio di leale cooperazione».
Operata questa premessa, e constatato che le disposizioni oggetto di scrutinio nel caso di specie trovavano il loro fondamento, sul piano interno, nell’art. 46 della Costituzione e, nel diritto comunitario, in una serie di provvedimenti susseguitisi nel tempo, la Corte ritiene che i finanziamenti in questione, «in quanto finalizzati a progetti inerenti alla costituzione di organi o alla regolamentazione di procedure di informazione o di mera consultazione dei lavoratori sulla vita delle aziende e sulle scelte di massima da compiere», attengano alla tutela del lavoro, esaurendosi essi nell’ambito di un rafforzato svolgimento delle relazioni industriali, senza modificare gestioni o assetti imprenditoriali e senza direttamente incidere sul rapporto di lavoro.
Viene parimenti sottolineato che le norme impugnate ed i progetti da esse previsti «si ricollegano anche ad atti comunitari che concernono lo statuto della società europea, con la previsione di organi decisionali e non solo destinatari di informazione o autori di atti consultivi»: sotto tale angolo visuale, dunque, «i progetti concernenti il coinvolgimento dei lavoratori nella gestione delle aziende finiscono per riguardare, da un lato, le strategie ed alcuni profili strutturali delle imprese, dall’altro, con l’attribuzione ai lavoratori componenti di determinati organi di garanzie assimilabili a quelle riconosciute ai rappresentanti sindacali, la stessa disciplina del rapporto di lavoro».
In ragione di questi rilievi, si constata che le disposizioni censurate non esauriscono la loro efficacia nella materia della tutela del lavoro, ma attengono anche – e in misura non secondaria – all’ordinamento civile, collocandosi «all’incrocio di materie rispetto alle quali la competenza legislativa è diversamente attribuita dalla Costituzione: esclusiva dello Stato in tema di ordinamento civile, concorrente in materia di tutela del lavoro».
Ora, se la competenza esclusiva giustifica «la legittimazione dello Stato a dettare norme primarie e quindi l’emanazione del decreto attuativo e di quelli successivi (comma 114) sotto il profilo dell’esigenza di un progetto unitario di disciplina della società europea», è parimenti da rilevare che l’esistenza della competenza concorrente «rende illegittima, anche ai sensi dell’art. 119 Cost., l’esclusione delle Regioni da ogni coinvolgimento, in violazione del principio di leale collaborazione».
Proprio su questo punto viene rintracciata una fattispecie di invalidità, che, nel condurre ad una pronuncia caducatoria dei commi 113 e 114 dell’art. 4 della legge 24 dicembre 2003, n. 350, chiama il legislatore ad intervenire onde predisporre «regole che comportino il coinvolgimento regionale». La Corte, in effetti, evidenzia l’impossibilità di emendare il vizio di costituzionalità attraverso una pronuncia manipolativa, dal momento che «il principio di leale collaborazione può essere diversamente modulato poiché nella materia in oggetto non si riscontra l’esigenza di specifici strumenti costituzionalmente vincolati di concretizzazione del principio stesso».
Nella sentenza n. 384, invece, la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 8, comma 3, del decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124, nella parte in cui non prevede che il decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, che definisce lo schema di convenzione, sia adottato sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano. La Corte sanziona il mancato coinvolgimento della Conferenza, in quanto l’art. 8, comma 3, che, per le finalità di cui ai primi due commi – e cioè al fine di promuovere l’osservanza delle norme in materia di lavoro e di previdenza, e in relazione agli stessi complessi normativi – prevede attività di aggiornamento e informazione da svolgere a cura e spese di enti, datori di lavoro e associazioni mediante la stipula di apposita convenzione, pur rientrando in materie di competenza statale, per i mezzi di cui stabilisce l’utilizzazione, riguarda anche la formazione, e viene quindi a trovarsi all’incrocio di un concorso di competenze, che rende necessario tale coinvolgimento.
Di contro, si esclude la concorrenza di competenze in ordine alle attività formative e di aggiornamento predisposte dal datore di lavoro per il personale dipendente, poiché esse non rientrano (anche) nell’ambito della formazione professionale, materia di competenza residuale delle regioni. Sulla base di questo assunto si dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 18 del decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124, che delinea i contenuti dei processi di formazione permanente destinati al personale ispettivo, lasciando alla direzione generale il compito di definire programmi di formazione e di aggiornamento.
 
3.5. Le "materie-valore"
Sulla base di precedenti statuizioni, la Corte, anche nel 2005, ha riscontrato l’esistenza di materie che, per loro natura, mal si prestano ad una scomposizione basata sui criteri di competenza fissati all’art. 117 della Costituzione.
Nella sentenza n. 31, in particolare, la Corte dichiara, con sentenza interpretativa, non fondata la questione sollevata nei confronti dell’art. 56 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, che istituisce il Fondo finalizzato al finanziamento di progetti di ricerca nei termini di seguito precisati.
La ricerca scientifica e tecnologica, nel nuovo testo dell’art. 117 della Costituzione, è inclusa tra le materie appartenenti alla competenza concorrente.
Tuttavia, la Corte, con la sentenza n. 423 del 2004, ha affermato che la ricerca scientifica deve essere considerata non solo una «materia», ma anche un «valore» costituzionalmente protetto (articoli 9 e 33 della Costituzione), in quanto tale in grado di rilevare a prescindere da ambiti di competenze rigorosamente delimitati.
Sulla base di tali premesse la Corte ha ritenuto, innanzitutto, ammissibile un intervento «autonomo» statale in relazione alla disciplina delle «istituzioni di alta cultura, università ed accademie», che «hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato» (art. 33, sesto comma, Cost.). Detta norma ha, infatti, previsto una «riserva di legge» statale (sentenza n. 383 del 1998), che ricomprende in sé anche quei profili relativi all’attività di ricerca scientifica che si svolge, in particolare, presso le strutture universitarie (art. 63 del decreto del Presidente della Repubblica 11 luglio 1980, n. 382, recante «Riordinamento della docenza universitaria, relativa fascia di formazione nonché sperimentazione organizzativa e didattica»).
Al di fuori di questo ambito lo Stato conserva, inoltre, una propria competenza in relazione ad attività di ricerca scientifica strumentale e intimamente connessa a funzioni statali, allo scopo di assicurarne un migliore espletamento, sia organizzando direttamente le attività di ricerca, sia promuovendo studi finalizzati (cfr. sentenza n. 569 del 2000).
Infine, il legislatore statale – come la Corte ha precisato con la sentenza n. 423 del 2004 – può sempre, nei casi in cui sussista «la potestà legislativa concorrente nella “materia” in esame, non solo ovviamente fissare i principî fondamentali, ma anche attribuire con legge funzioni amministrative a livello centrale, per esigenze di carattere unitario, e regolarne al tempo stesso l’esercizio – nel rispetto dei principî di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza – mediante una disciplina che sia logicamente pertinente e che risulti limitata a quanto strettamente indispensabile a tali fini» (vedi anche sentenze n. 6 del 2004 e n. 303 del 2003).
Alla luce delle osservazioni che precedono, la disposizione censurata deve essere interpretata nel senso che la stessa è finalizzata a finanziare esclusivamente quei progetti di ricerca in relazione ai quali è configurabile, nei limiti indicati, un autonomo titolo di legittimazione del legislatore statale. Da ciò consegue che tale disposizione, così interpretata, non determina alcun vulnus a competenze regionali.
 
3.6. Le materie attratte in sussidiarietà dallo Stato
Sulla scorta dei principî enucleati a far tempo dalla sentenza n. 303 del 2003, anche nel 2005 si sono verificati casi di «chiamata in sussidiarietà» relative a discipline che, non rientranti in ambiti di competenza esclusiva dello Stato, necessitino, comunque, di un esercizio unitario. In particolare, siffatte attrazioni hanno riguardato (a) la disciplina di fondi previdenziali, (b) la previsione di contributi per l’acquisto di tecnologie, (c) il potenziamento del capitale di imprese medio-grandi, (d) la normativa in materia di Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (Irccs), (e) il sostegno alle attività cinematografiche, (f) i porti e (g) l’energia elettrica.
a) Nella sentenza n. 50, la Corte dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12 (recante «Fondi per la formazione e l’integrazione del reddito») del d.lgs. n. 276 del 2003. Infatti, «la prevalenza e soprattutto l’indefettibilità della natura previdenziale del fondo a fronte di altre destinazioni puramente eventuali delle risorse, il carattere nazionale del medesimo, la necessità di tener conto della «sostenibilità finanziaria complessiva del sistema», giustificano l’attrazione alle competenze statali anche di funzioni amministrative.
b) Con la sentenza n. 151, la Corte respinge l’impugnativa proposta dalla Regione Emilia-Romagna avverso l’art. 4, commi 1-4, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, che prevede un contributo statale in favore di ciascun utente del servizio di radiodiffusione, per l’acquisto o il noleggio di un apparecchio idoneo a consentire la ricezione in chiaro dei segnali televisivi in tecnica digitale terrestre.
L’assunto secondo cui tali norme ineriscono a materie, quali l’innovazione tecnologica e l’ordinamento della comunicazione, nelle quali spetterebbe allo Stato la sola legislazione di principio, con la conseguente illegittimità dei previsti interventi di carattere amministrativo, non viene condiviso dalla Corte, sulla considerazione che le norme impugnate intendono favorire la diffusione della tecnica digitale terrestre di trasmissione televisiva, quale strumento di attuazione del principio del pluralismo informativo esterno, che rappresenta uno degli imperativi ineludibili in materia di emittenza televisiva (sentenza n. 466 del 2002), esprimendo l’informazione una condizione preliminare per l’attuazione dei principî propri dello Stato democratico (così le sentenze n. 312 del 2003 e n. 29 del 1996).
Ne deriva che le disposizioni impugnate attingono a una pluralità di materie e di interessi (tutela della concorrenza, sviluppo tecnologico, tutela del pluralismo di informazione), appartenenti alla competenza legislativa esclusiva o concorrente dello Stato, senza che alcuna tra esse possa dirsi prevalente così da attrarre l’intera disciplina.
Ciò posto, avuto anche riguardo all’eccezionalità della situazione caratterizzata dal passaggio alla tecnica digitale terrestre, l’assunzione diretta di una funzione amministrativa da parte dello Stato, nella forma dell’erogazione di un contributo economico in favore degli utenti, previa adozione di un regolamento che ne stabilisca criteri e modalità di attribuzione, appare giustificata – alla stregua del principio di sussidiarietà sancito dall’art. 118, primo comma, della Costituzione – da una evidente esigenza di esercizio unitario della funzione stessa, non potendo un intervento a sostegno del pluralismo informativo non essere uniforme sull’intero territorio nazionale.
L’intervento appare d’altro canto «ragionevole e proporzionato» in relazione al fine perseguito, a prescindere dalla sua relativa modestia dal punto di vista finanziario (cfr.sentenza n. 272 del 2004), atteso che l’incentivazione economica all’acquisto del decoder appare uno strumento non irragionevole di diffusione della tecnica digitale terrestre di trasmissione televisiva.
c) La sentenza n. 242 ha ad oggetto l’art. 4, commi da 106 a 111, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, che istituisce e disciplina un Fondo rotativo nazionale, affidato alla gestione della società Sviluppo Italia s.p.a., «per effettuare interventi temporanei di potenziamento del capitale di imprese medio-grandi che presentino nuovi programmi di sviluppo, anche attraverso la sottoscrizione di quote di minoranza di fondi immobiliari chiusi che investono in esse».
La normativa è stata impugnata, in primo luogo, per la sua non riconducibilità in ambiti di competenza normativa statale: la materia della «tutela della concorrenza», in particolare, non sarebbe invocabile in quanto la relativa modestia delle risorse previste escluderebbe che il Fondo istituito possa essere configurato «tra gli “strumenti di politica economica che attengono allo sviluppo dell’intero Paese”, “finalizzati ad equilibrare il volume di risorse finanziarie inserite nel circuito economico” e giustificati per la loro “rilevanza macroeconomica”».
In secondo luogo, dalla regolamentazione delle modalità di gestione delle misure previste emergerebbe una «pretermissione totale» delle Regioni, in violazione del principio di leale cooperazione.
La Corte costituzionale dichiara le questioni poste parzialmente fondate.
Basandosi sulla definizione delle competenze statali e regionali in tema di politica economica contenute nella sentenza n. 14 del 2004, la Corte sottolinea che, ferma restando la competenza regionale in ordine agli interventi sulla realtà produttiva regionale, «sussiste in generale una ineludibile responsabilità degli organi statali in tema di scelte di politica economica di sicura rilevanza nazionale, anche al di là della specifica utilizzabilità dei singoli strumenti elencati nel secondo comma dell’art. 117 Cost. (come appunto la «tutela della concorrenza»); peraltro, «in questi diversi casi, gli organi statali dovranno necessariamente utilizzare altri poteri riconosciuti allo Stato dal Titolo V della Costituzione».
Con riferimento al Fondo rotativo nazionale, si constata che «non si opera nell’ambito della “tutela della concorrenza”, poiché gli interventi previsti hanno una ricaduta necessariamente limitata e solo indiretta sull’attività economica nei tanti e diversi settori produttivi che potranno essere interessati».
Tuttavia, la Corte rileva che il legislatore statale può «considerare necessario che, anche in materie affidate alla competenza legislativa residuale o concorrente delle Regioni, si possano attrarre a livello centrale determinate funzioni amministrative “sulla base dei principî di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza” di cui al primo comma dell’art. 118 Cost., dettando la relativa disciplina della funzione amministrativa in questione». È in questa luce che va letta la disciplina oggetto del giudizio, la quale opera l’attribuzione al livello statale di «una funzione amministrativa di temporaneo sostegno finanziario a determinate imprese produttive per evidenti finalità di politica economica».
Con riferimento alla disciplina nella specie impugnata, «dirimente è la considerazione dell’esplicita finalizzazione del Fondo rotativo nazionale alla crescita e allo sviluppo del tessuto produttivo nazionale, in quanto per il raggiungimento di tale finalità appare strutturalmente inadeguato il livello regionale, al quale inevitabilmente sfugge una valutazione d’insieme». In questo senso, del resto, va sottolineato che il Fondo si riferisce «alle sole imprese medie e grandi “come qualificate dalla normativa nazionale e comunitaria”» e che le condizioni e le modalità di attuazione dei singoli interventi è affidato al Comitato interministeriale per la programmazione economica.
La rilevata dimensione sovraregionale delle funzioni si deve peraltro coniugare al necessario coinvolgimento sostanziale delle Regioni da parte dello Stato, «poiché l’esigenza di esercizio unitario che consente di attrarre, insieme alla funzione amministrativa, anche quella legislativa, può aspirare a superare il vaglio di legittimità costituzionale solo in presenza di una disciplina che prefiguri un iter in cui assumano il dovuto risalto le attività concertative e di coordinamento orizzontale, ovverosia le intese, che devono essere condotte in base al principio di lealtà» (sentenza n. 303 del 2003).
Di talché, ove non sussistano ancora adeguati strumenti di partecipazione delle Regioni ai procedimenti legislativi statali, quanto meno debbono essere previsti «adeguati meccanismi di cooperazione per l’esercizio concreto delle funzioni amministrative allocate in capo agli organi centrali» (sentenza n. 6 del 2004).
Sulla scorta di queste considerazioni, l’analisi della disciplina impugnata ha condotto al riconoscimento di un vizio di costituzionalità derivante dall’assenza di «alcun tipo di coinvolgimento delle Regioni nell’ambito dell’attività meramente gestoria affidata a Sviluppo Italia s.p.a.»: da ciò deriva la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 4, comma 110, della legge 24 dicembre 2003, n. 350.
La declaratoria si presenta, tuttavia, nella forma di una additiva di procedura, ed il ruolo normativo in materia riconosciuto al Cipe costituisce la sede idonea per un coinvolgimento delle Regioni, adeguato ad equilibrare le esigenze di leale collaborazione con quelle di esercizio unitario delle funzioni attratte in sussidiarietà al livello statale»: donde la necessità che i poteri del Cipe in materia di determinazione delle condizioni e delle modalità di attuazione degli interventi di gestione del Fondo rotativo nazionale per gli interventi nel capitale di rischio possano essere esercitati solo di intesa con la Conferenza Stato – Regioni.
d) Con la sentenza n. 270, la Corte affronta numerose questioni di costituzionalità sollevate avverso le disposizioni contenute nella legge di delega 16 gennaio 2003, n. 3 e nel decreto legislativo 16 ottobre 2003, n. 288, con cui si procede al riordino della disciplina degli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico.
Le Regioni ricorrenti, sostanzialmente, censurano l’eccessiva analiticità dei principî e criteri direttivi contenuti nelle disposizioni di delega, e l’inserimento in essa di disposizioni di dettaglio, fonti di conseguente compressione dei poteri legislativi regionali in materia; contestano, inoltre, l’attribuzione di numerosi e rilevanti poteri amministrativi ad organi statali in materie di competenza delle Regioni.
Preliminarmente, la Corte individua l’ambito materiale sul quale intervengono le disposizioni censurate nel contesto del riparto di competenze stabilito nel Titolo quinto della seconda parte della Costituzione, che ha esplicitamente attribuito alla competenza legislativa concorrente delle Regioni sia la «ricerca scientifica» sia la «tutela della salute»; ciò si rende necessario in quanto, fino ad allora, proprio la esclusiva competenza statale in materia di «ricerca scientifica» aveva legittimato la solo parziale riconduzione di questi enti pubblici, pur certamente operanti anche nell’area sanitaria, all’ambito delle istituzioni sanitarie di competenza delle Regioni.
Quanto appena esposto implicitamente esclude che la normativa oggetto del presente giudizio possa essere ricondotta al titolo di legittimazione della potestà legislativa statale costituito dall’art. 117, secondo comma, lettera g), Cost., con la conseguenza di una radicale esclusione delle Regioni dalla disciplina degli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico.
La competenza dello Stato a legiferare nella materia «ordinamento e organizzazione amministrativa degli enti pubblici nazionali», contemplata nella lettera g) del secondo comma dell’art. 117 Cost., non può assumere le caratteristiche di un titolo «trasversale» in grado di legittimare qualsivoglia intervento legislativo indipendentemente dalle specifiche funzioni che ad un determinato ente pubblico vengano in concreto attribuite e dalle materie di competenza legislativa cui tali funzioni afferiscano.
Come accennato, infatti, la profonda modificazione dei criteri di riparto fra le competenze legislative dello Stato e delle Regioni comporta, in via di principio, che la scelta di prevedere e disciplinare enti pubblici strumentali al conseguimento delle diverse finalità pubbliche perseguite spetti al legislatore competente a disciplinare le funzioni ad essi affidate e che, dunque, lo Stato possa prevedere e disciplinare enti pubblici nazionali in tutti i casi in cui disponga di una competenza legislativa non limitata ai principî fondamentali. In altre parole, il legislatore statale può istituire enti pubblici – e conseguentemente utilizzare la lettera g) del secondo comma dell’art. 117 Cost. per dettarne la relativa disciplina ordinamentale e organizzativa – solo allorché affidi a tali enti funzioni afferenti a materie di propria legislazione esclusiva, oppure nei casi in cui, al fine di garantire l’esercizio unitario di determinate funzioni che pur sarebbero di normale competenza delle Regioni o degli enti locali (avendole valutate come non utilmente gestibili a livello regionale o locale), intervenga in sussidiarietà proprio mediante la previsione e la disciplina di uno o più appositi enti pubblici nazionali. Peraltro, un intervento come quello appena accennato, al fine di evitare un improprio svuotamento delle nuove prescrizioni costituzionali, esige non solo l’attenta valutazione dell’effettiva sussistenza delle condizioni legittimanti (necessarietà dell’attrazione al livello statale della funzione e della relativa disciplina regolativa, nonché idoneità, pertinenza logica e proporzionalità di tale disciplina rispetto alle esigenze di regolazione della suddetta funzione), ma anche la previsione di adeguate forme di coinvolgimento delle Regioni interessate, secondo i moduli di leale collaborazione più volte indicati come ineliminabili da questa Corte (cfr., fra le altre, le sentenze. n. 6 del 2004 e n. 303 del 2003).
Il numero degli istituti pubblici di ricovero e cura a carattere scientifico attualmente esistenti, i loro risalenti rapporti con il sistema delle autonomie territoriali dovuti alla localizzazione sul territorio, nonché la relativa eterogeneità delle attività in concreto svolte, mettono in evidenza che in questo settore ben difficilmente potrebbe essere superato lo stretto controllo di ragionevolezza sulla effettiva esistenza di una situazione tale da giustificare la attrazione a livello statale delle funzioni e della relativa disciplina. Lo stesso legislatore statale non sembra aver compiuto una scelta del genere, dal momento che le disposizioni di delega rendono evidente che era consapevole di intervenire in una materia caratterizzata da un intreccio di competenze statali e regionali (cfr. art. 42, comma 1, lettera a, e comma 2 della legge n. 3 del 2003).
D’altra parte, queste valutazioni sono confermate anche dai lavori preparatori del decreto di attuazione della delega, che ha seguito il procedimento prescritto dal secondo comma dell’art. 42 della legge n. 3 del 2003.
Sempre in via preliminare, la Corte riafferma che, per ciò che riguarda la ricerca scientifica, l’inclusione di tale materia tra quelle appartenenti alla competenza concorrente non esclude che lo Stato conservi una propria competenza «in relazione ad attività di ricerca scientifica strumentale e intimamente connessa a funzioni statali, allo scopo di assicurarne un miglior espletamento» e neppure esclude che lo Stato possa – come nelle altre materie di competenza legislativa regionale – «attribuire con legge funzioni amministrative a livello centrale, per esigenze di carattere unitario, e regolarne al tempo stesso l’esercizio», attraverso una disciplina «che sia logicamente pertinente e risulti limitata a quanto strettamente indispensabile a tali fini». Ciò rende possibile allo Stato, nelle materie di legislazione concorrente, andare al di là di quanto possono disciplinare ordinariamente le leggi cornice, per tutelare al tempo stesso in modo diretto anche «esigenze di carattere unitario» ai sensi dell’art. 118, primo comma, Cost., seppur evidentemente nei limiti e con le necessarie forme collaborative.
La stessa titolazione dell’art. 42 della legge n. 3 del 2003 indica che la normativa di cornice delegata dal legislatore nazionale concerne «la trasformazione degli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico in fondazioni», e cioè un procedimento del tutto innovativo e che per di più opera con riferimento ad un nuovo tipo di soggetto giuridico (la Fondazione Irccs di diritto pubblico) che è nella esclusiva disponibilità del legislatore statale, dal momento che corrisponde ad una nuova tipologia di persona giuridica che esige necessariamente una disciplina uniforme della sua fondamentale caratterizzazione organizzativa.
In particolare, la delega legislativa contiene alcuni principî e criteri concernenti la previsione di fondamentali caratteristiche organizzative comuni di questo nuovo tipo di fondazioni, i rapporti fra di esse, necessitati dalla loro complessiva funzione di assicurare «la ricerca nazionale ed internazionale» nel settore sanitario, nonché il regime giuridico degli Irccs non trasformati.
La legittima disciplina da parte del legislatore statale del processo di trasformazione degli Irccs pubblici in apposite fondazioni di diritto pubblico a sua volta giustifica (diversamente da quanto asserito dalle ricorrenti) che venga prevista nella delega anche la disciplina dell’assetto giuridico degli Irccs non trasformati o degli Irccs di diritto privato, in quanto parte di un complessivo processo di trasformazione, che non può non riguardare anche le figure affini o residuali.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte ritiene non fondate le questioni che partono dalla premessa che sarebbe ingiustificabile, ai sensi degli articoli 117 e 118 Cost., la riserva ad organi statali di poteri amministrativi o normativi in materia di Irccs o che comunque essi, ove in ipotesi dovessero essere ammessi, dovrebbero essere accompagnati dalla previsione di adeguate forme di leale collaborazione.
Innanzitutto, motiva la Corte, la lettera a) del primo comma dell’art. 42 della legge 3 del 2003 individua nel «Ministro della salute, d’intesa con la Regione interessata» il soggetto preposto alla trasformazione degli Irccs esistenti in Fondazioni di rilievo nazionale: scelta non irragionevole, dal momento che occorre garantire una sostanziale uniformità di valutazione, mentre la necessità dell’intesa con la Regione assicura la partecipazione paritaria della Regione direttamente interessata.
Tanto permette anche di superare i dubbi rlativi alla lettera m) del primo comma dell’art. 42 della legge n. 3 del 2003, che delega il Governo a disciplinare «i criteri generali per il riconoscimento delle nuove fondazioni e le ipotesi e i procedimenti per la revisione e la eventuale revoca dei ricoscimenti già concessi»). Le disposizioni delegate, infatti, non potranno che riprodurre, negli specifici contesti previsti dalla delega legislativa, i ruoli fondamentali previsti dalla disposizione relativa alla trasformazione degli Irccs esistenti, con particolare riferimento al ruolo del Ministro ed alla necessaria intesa della Regione interessata.
Anche la previsione, contenuta nell’art. 43 della legge n. 3 del 2003, secondo cui spetta al Ministro della salute la determinazione dell’«organizzazione a rete degli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico dedicati a particolari discipline», seppur «sentita la Conferenza permanente per i rapporti fra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano», risponde ad una scelta non implausibile e compatibile con gli articoli 117 e 118 Cost., dal momento che responsabilità del genere sembrano spettare naturalmente ad un organo che riesca ad avere una visione d’insieme della complessiva capacità e specificità degli Irccs, anche in relazione alle mutevoli tendenze della ricerca scientifica in materia sanitaria a livello internazionale ed a livello comunitario. Tali considerazioni valgono a rendere ragione anche del motivo per il quale si prevede in materia una forma meno rigida di partecipazione regionale all’esercizio del potere del Ministro della salute.
Proprio in questo ruolo particolare riconosciuto al Ministro in tema di garanzia di una visione unitaria sul piano della ricerca scientifica dell’intera rete degli Irccs, trovano giustificazione sia il potere del Ministro di affidare «diversi e specifici progetti finalizzati di ricerca» ai diversi Irccs, sia il potere del Ministro di nominare, «sentita la Regione interessata», il «direttore scientifico responsabile della ricerca», tanto negli Irccs trasformati in fondazioni, quanto in quelli non trasformati.
Fondate risultano, invece, le censure concernenti l’art. 42, comma 1, lettera b) e lettera p), limitatamente alla parte in cui contengono vincoli relativi alla composizione del consiglio di amministrazione delle Fondazioni ed alla rappresentanza paritetica in questo Consiglio «del Ministero della salute e della Regione interessata», nonché alla composizione paritetica fra rappresentanti regionali e ministeriali del Consiglio di indirizzo degli Irccs non trasformati e alla nomina da parte del Ministro della salute del Presidente dell’Istituto non trasformato.
Infatti, il riconoscimento di una competenza legislativa di tipo concorrente delle Regioni sia in tema di «ricerca scientifica» che di «tutela della salute», non legittima una presenza obbligatoria per legge di rappresentanti ministeriali in ordinari organi di gestione di enti pubblici che non appartengono più all’area degli enti statali, né consente di giustificare, sotto il profilo del rispetto della competenza a dettare i principî fondamentali, che il legislatore statale determini quali siano le istituzioni pubbliche che possano designare la maggioranza del consiglio di amministrazione delle fondazioni.
La Corte disattende le censure essenzialmente incentrate su un eccesso di analiticità di molte disposizioni contenute nel decreto legislativo con specifico riferimento ai profili organizzativi delle Fondazioni e degli Irccs non trasformati in quanto la previsione di una nuova tipologia di persona giuridica, la Fondazione Irccs di diritto pubblico, esige necessariamente una disciplina uniforme della sua fondamentale caratterizzazione organizzativa, pur nel riconoscimento di una sua autonoma potestà statutaria, così come l’eventuale permanenza di alcuni IRCCS che non si possano trasformare in Fondazioni richiede che ad essi si dia comunque un sicuro assetto organizzativo.
Sono, invece, in parte fondate le questioni proposte avverso le disposizioni relative alla composizione e designazione dei consigli di amministrazione, dei Presidenti e dei collegi sindacali delle Fondazioni (art. 3, commi 2 e 3, e art. 4, comma 3, del d.lgs. n. 288 del 2003), le quali appaiono ingiustificatamente dettagliate e quindi invasive, ad un tempo, sia dell’area di autonomia statutaria riconosciuta alle Fondazioni, che dell’ambito lasciato all’eventuale esercizio della potestà legislativa regionale. Al tempo stesso, queste disposizioni sono incostituzionali nella parte in cui pretendono di riservare, mediante obblighi legislativi, alcune designazioni ministeriali in ordinari organi di gestione o di controllo di enti pubblici che non appartengono più all’area degli enti statali.
La Corte non condivide i rilievi prospettati in riferimento alle disposizioni che impongono particolari ed uniformi caratteristiche alle Fondazioni sul piano della loro organizzazione amministrativa, del raccordo fra di esse in rete, del finanziamento, del regime giuridico del loro personale (art. 1, comma 1, e articoli 8, 9, del d.lgs. n. 288 del 2003, nonché art. 43 della legge n. 3 del 2003). Infatti, ove si assuma come scelta caratterizzante del legislatore nazionale la necessità di un rinnovato modello di Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico come enti autonomi altamente specializzati sia sul piano della ricerca che del ricovero e cura, ma al tempo stesso capaci di operare in coordinamento tra loro anche su impulso a livello statale, possono ritenersi non implausibili e pienamente compatibili con il riparto di competenze definito negli articoli 117 e 118 Cost. le scelte innovative, imposte all’intera categoria di queste istituzioni.
La Corte respinge anche altre censure, riferite alla asserita insussistenza di esigenze unitarie che possano legittimare la attribuzione di una serie di funzioni amministrative ad organi statali ed alla carenza di idonee forme di coinvolgimento delle Regioni interessate in questi procedimenti. Al riguardo, la Corte riafferma la compatibilità costituzionale, ai sensi dell’art. 118 Cost., di un ruolo significativo riconosciuto al Ministro della salute nei processi di gestione della legge, al fine di garantire una adeguata uniformità e la tutela di alcuni interessi unitari esistenti, seppure a condizione che parallelamente siano configurati significativi istituti di partecipazione delle Regioni interessate. Peraltro, numerose disposizioni del decreto legislativo prevedono poteri ministeriali e procedure di leale collaborazione fra Stato e Regioni e ciò non solo nella fondamentale fase della adozione dello statuto, ma anche nel riconoscimento di nuovi Irccs, nella conferma o revoca del riconoscimento, nello scioglimento degli organi delle Fondazioni e degli Irccs non trasformati, nella nomina dei commissari, nelle procedure di devoluzione dei patrimoni degli Irccs estinti, nella conferma provvisoria del carattere scientifico degli Istituti esistenti (articoli 2, 3, 5, 14, 15, 16, 17, 19 del d.lgs n. 288 del 2003). Tali poteri, tuttavia, sono opportunamente affiancati dalla previsione di una necessaria intesa fra il Ministro ed il Presidente della Regione interessata.
Per quanto riguarda le funzioni amministrative affidate al Ministro della salute (art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 288 del 2003), la Corte ritiene in parte fondata la censura formulata limitatamente all’ampiezza ed eterogeneità dei compiti di vigilanza e di controllo, indistintamente affidati a livello ministeriale, e la conseguente sostanziale espropriazione delle corrispondenti funzioni regionali in relazione ad enti pubblici di ricerca operanti a livello regionale.
In effetti, il riconoscimento degli Irccs come enti autonomi, dotati di propri statuti ed organi di controllo interni, ed operanti nell’ambito della legislazione regionale di tipo concorrente, rende manifesto come non sia conforme a Costituzione attribuire al Ministro della salute veri e propri poteri di controllo amministrativo su di essi. In particolare, appare estranea alla ricostruzione della natura e della posizione giuridica degli Irccs la previsione (commi 1 e 2 dell’art. 16 del d.lgs. n. 288 del 2003) di un vero e proprio controllo amministrativo di tipo preventivo sugli atti fondamentali degli Irccs, controllo affidato ad appositi organi statali (i Comitati periferici di vigilanza) operanti su scala regionale.
Un controllo del genere, peraltro, è ormai escluso sia per le Regioni che per gli enti locali dalla intervenuta abrogazione degli stessi articoli 125 e 130 della Costituzione.
Infondata è, invece, la censura concernente l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 288 del 2003, con cui si lamenta la totale compressione della potestà legislativa regionale in tema di disciplina delle Fondazioni Irccs, che scaturirebbe dalla disposizione impugnata, la quale stabilisce, che «alle Fondazioni Irccs si applicano, per quanto compatibili con le disposizioni del presente decreto legislativo, le disposizioni di cui al Libro I, Titolo II del Codice civile».
Di quest’ultima disposizione, sottolinea la Corte, deve darsi il significato di una norma che legittima, in assenza di una esplicita disciplina, statale o regionale, la applicazione della normativa generale dettata dal codice civile a proposito delle persone giuridiche.
Quanto alla censura concernente l’art. 5, comma 1, nella parte in cui prevede che l’atto di intesa, da assumere in sede di Conferenza fra Stato, Regioni e Province autonome di Trento e di Bolzano, deve determinare «le modalità di organizzazione, di gestione e di funzionamento degli Irccs non trasformati in Fondazioni», una Regione ricorrente, considerando questa intesa come una vera e propria fonte normativa, ne rileva la profonda anomalia e comunque rivendica in alternativa la possibilità di disciplinare la materia mediante la legge regionale.
Replica la Corte che, mentre non vi sono dubbi che un atto di intesa non possa produrre una vera e propria fonte normativa, della disposizione si può però dare una diversa interpretazione compatibile con la disciplina costituzionale. Infatti, l’interpretazione dei decreti legislativi deve essere compiuta anche considerando quanto contenuto nelle disposizioni di delega legislativa (cfr. sentenze n. 125 del 2003 e n. 15 del 1999); applicando questo criterio interpretativo e quindi considerando anche quanto stabilito nella lettera p) del comma 1 dell’art. 42 della legge n. 3 del 2003, emerge che sono gli Irccs non trasformati in fondazioni i soggetti che devono comunque adeguare la loro organizzazione ed il loro funzionamento ad alcuni principî della delega e che quindi l’intesa di cui all’art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 288 del 2003 rappresenta semplicemente una modalità di determinazione, condivisa fra Stato e Regioni ed uniforme sull’intero territorio nazionale, di quali debbano essere le caratteristiche comuni di questa categoria residuale di istituti, ovviamente nel rispetto di quanto determinato a livello delle fonti primarie statali. Ciò non esclude che in ambiti ulteriori ciascuna Regione possa esercitare il proprio potere legislativo anche in questo particolare settore.
Immune da censure, infine, risulta l’art. 4, comma 236, della legge n. 350 del 2003, nella parte in cui autorizza le Fondazioni Irccs e gli Istituti non trasformati ad alienare i beni immobili del proprio patrimonio al fine di ripianare i debiti pregressi, stabilendo che «le modalità di attuazione sono autorizzate con decreto del Ministero della salute, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze». Per la Corte la disposizione in questione va qualificata come principio fondamentale in ordine alla gestione del patrimonio degli IRCCS, ed il potere ministeriale circa le modalità di attuazione delle operazioni di alienazione si configura come potere amministrativo di autorizzazione da esercitare nei confronti del singolo ente e fondato sulle più volte richiamate esigenze unitarie e non come potere normativo in deroga al riparto delle competenze regolamentari di cui all’art. 117, sesto comma, Cost.
e) Con la sentenza n. 285, la Corte esamina le doglianze delle Regioni Emilia-Romagna e Toscana, che hanno impugnato numerose disposizioni del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 28 (Riforma della disciplina in materia di attività cinematografiche), evocando la violazione di molteplici parametri costituzionali essenzialmente incentrati su indebite invasioni di competenze regionali.
In via preliminare, la Corte chiarisce gli ambiti materiali in cui ricondurre, in via generale, le disposizioni del d.lgs. n. 28 del 2004, ed allo scopo riafferma (sentenza n. 255 del 2004) che «le attività di sostegno degli spettacoli», tra i quali rientrano le attività cinematografiche, sono ascrivibili alla materia «promozione ed organizzazione di attività culturali», affidata alla legislazione concorrente di Stato e Regioni. Tale constatazione vale a respingere la tesi secondo cui la disciplina dettata dal d.lgs. n. 28 del 2004 rientrerebbe nella competenza di tipo residuale delle Regioni, in ragione del fatto che si tratterebbe di materie di volta in volta definibili come «cinematografia», «spettacolo», «industria», «commercio».
Ad avviso della Corte, le prime due materie citate non sono scorporabili dalle «attività culturali» di cui all’art. 117, terzo comma, Cost., che «riguardano tutte le attività riconducibili alla elaborazione e diffusione della cultura, senza che vi possa essere spazio per ritagliarne singole partizioni come lo spettacolo»; ed impropri appaiono anche i richiami alle materie dell’industria e del commercio, poiché la disciplina in esame si connota come strumentale alla realizzazione di attività consistenti in rappresentazioni artistiche e di comunicazione culturale propriamente riconducibili al settore della cultura.
Con particolare riferimento alla disciplina concernente l’apertura di sale cinematografiche, continua la Corte, è agevole riferirsi, invece, a materie espressamente contemplate tra quelle di competenza ripartita fra Stato e Regioni, e segnatamente al «governo del territorio». Una siffatta qualificazione è da ritenersi prevalente anche a fronte di profili attinenti alla «promozione ed organizzazione di attività culturali», nonché alle attività commerciali (solo per quest’ultimo profilo, peraltro marginale, ci si troverebbe dinanzi ad una materia di cui all’art. 117, quarto comma, Cost.).
In altre parole, ritiene la Corte che le disposizioni che prevedono il sostegno finanziario ad opere cinematografiche che presentino particolari qualità culturali ed artistiche si connotano semmai per il fatto di incidere sulla collocazione dell’offerta cinematografica sul mercato, nell’ottica della tutela dell’interesse, costituzionalmente rilevante, della promozione e dello sviluppo della cultura (art. 9 Cost.).
Del pari infondata è l’affermazione secondo la quale, in relazione al livello di rappresentatività degli interessi pubblici della materia, continua ad operare l’interesse nazionale, imponendo il superamento della ripartizione costituzionale delle materie attraverso un trattamento uniforme su tutto il territorio dello Stato. Una tesi del genere, sottolinea la Corte, urta palesemente con il vigente dettato costituzionale, caratterizzato dalla necessità che i limiti alle potestà regionali siano espressi, ed al riguardo si ricorda quanto affermato nella sentenza n. 303 del 2003: «nel nuovo Titolo V l’equazione elementare interesse nazionale = competenza statale, che nella prassi legislativa precedente sorreggeva l’erosione delle funzioni amministrative e delle parallele funzioni legislative delle Regioni, è divenuta priva di ogni valore deontico, giacché l’interesse nazionale non costituisce più un limite, né di legittimità, né di merito, alla competenza legislativa regionale».
Passando all’esame delle specifiche censure, viene respinta quella formulata nei confronti dell’art. 6 del d.lgs. n. 28 del 2004, che configurerebbe gli accordi internazionali in materia di coproduzioni come accordi solo statali, «in violazione dell’art. 117, nono comma, Cost., che attribuisce alle Regioni il potere di concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali interni ad altro Stato». Motiva la Corte che la disposizione costituzionale richiamata si limita a facoltizzare le Regioni a concludere accordi internazionali nelle materie di loro competenza, ma non esclude affatto che lo Stato eserciti il potere estero nelle medesime materie.
La Corte affronta quindi il problema fondamentale, relativo alla conformità del d.lgs. n. 28 del 2004 rispetto al riparto competenziale previsto nel Titolo V della Costituzione.
Al riguardo rileva che, per la maggior parte, le disposizioni impugnate del decreto legislativo riguardano una materia di competenza legislativa ripartita fra Stato e Regione, di talché la legislazione statale dovrebbe limitarsi a definire i soli principî fondamentali della materia, mentre le funzioni amministrative dovrebbero essere attribuite normalmente ai livelli di governo substatali in base ai principî di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza indicati nell’art. 118 Cost. La disciplina in esame, invece, appare essenzialmente caratterizzata, sul piano legislativo, da una normativa completa ed autoapplicativa, senza distinzione tra principî e dettagli, e, sul piano amministrativo, da un modello di gestione accentuatamente statalistico ed essenzialmente fondato su poteri ministeriali, con una presenza del tutto marginale di rappresentanti delle autonomie territoriali.
Tutto ciò parrebbe contrastante, non solo con l’art. 117, terzo comma, Cost., ma anche con il primo comma dell’art. 118 Cost., dal momento che, ove si fosse voluto intervenire in questa particolare materia mediante una «chiamata in sussidiarietà» delle funzioni amministrative da parte dello Stato, ciò avrebbe richiesto, ormai per consolidata giurisprudenza, quanto meno «una disciplina che prefiguri un iter in cui assumano il dovuto risalto le attività concertative e di coordinamento orizzontale, ovverosia le intese, che devono essere condotte in base al principio di lealtà» (sentenza n. 303 del 2003; sentenze n. 242 del 2005, n. 255 e n. 6 del 2004).
Deve tuttavia essere considerato come il livello di governo regionale – e, a maggior ragione, quello infraregionale – appaiano strutturalmente inadeguati a soddisfare, da soli, lo svolgimento di tutte le tipiche e complesse attività di disciplina e sostegno del settore cinematografico. Ciò in quanto tali attività – diversamente opinando – risulterebbero esposte al rischio di eccessivi condizionamenti localistici nella loro gestione, a fronte, invece, della necessità di sostenere anche iniziative di grande rilevanza culturale prescindendo da questi ultimi. In tal senso depone, altresì, la stessa preesistenza, rispetto alla riforma di cui al decreto impugnato, di una organizzazione operante, almeno in larga parte, a livello nazionale.
Ciò giustifica, di conseguenza, un intervento dello Stato che si svolga, anzitutto, mediante la posizione di norme giuridiche che siano in grado di guidare – attraverso la determinazione di idonei principî fondamentali – la successiva normazione regionale, soddisfacendo quelle esigenze unitarie cui si è fatto riferimento (e a questo riguardo assume specifico rilievo la collocazione della materia de qua tra quelle a competenza ripartita), ma anche, là dove necessario, mediante la avocazione in sussidiarietà sia di funzioni amministrative che non possano essere adeguatamente svolte ai livelli inferiori, sia della relativa potestà normativa per l’organizzazione e la disciplina di tali funzioni.
Del resto, la sussistenza, nel settore del sostegno alle attività culturali, di esigenze che rendevano costituzionalmente legittima la allocazione allo Stato di alcune delle funzioni ad esso relative era già stata espressamente segnalata nella sentenza n. 255 del 2004, relativa al Fondo unico per lo spettacolo.
Se, quindi, il legislatore statale – in un settore di competenza legislativa ripartita, nel quale però esistono forti e sicuri elementi che esigono una gestione unitaria a livello nazionale – in astratto può realizzare una pluralità di modelli istituzionali per dare, nel rispetto sostanziale del Titolo V, concretizzazione alla scelta di un modello diverso da quello ordinariamente deducibile dagli articoli 117 e 118 Cost., la Corte, chiamata a giudicare della compatibilità costituzionale di molte disposizioni del d.lgs. n. 28 del 2004, può semplicemente operare per ricondurre tale decreto legislativo al modello (prima definito come costituzionalmente compatibile) della «chiamata in sussidiarietà», affinché la attrazione a livello statale delle funzioni amministrative nel settore delle attività cinematografiche avvenga nel rispetto delle attribuzioni costituzionalmente spettanti alle Regioni. Ciò, tuttavia, in un quadro complessivo in cui le determinazioni operate direttamente dal legislatore delegato appaiono per lo più compatibili con i differenziati titoli di competenza di volta in volta adducibili: in parte, come soggetto legittimato a determinare i principî fondamentali ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost.; in parte, come soggetto titolare di poteri legislativi esclusivi ai sensi dell’art. 117, secondo comma, Cost.; in parte, come soggetto chiamato a disciplinare legislativamente l’ambito nel quale opera la «chiamata in sussidiarietà», ai sensi dell’art. 118, primo comma, Cost.
Dal punto di vista del recupero in termini di strumenti concertativi del ruolo delle Regioni, è anzitutto indispensabile ricondurre ai moduli della concertazione necessaria e paritaria fra organi statali e Conferenza Stato-Regioni tutti quei numerosi poteri di tipo normativo o programmatorio che caratterizzano il nuovo sistema di sostegno ed agevolazione delle attività cinematografiche, ma che nel decreto legislativo sono invece riservati solo ad organi statali.
In particolare, l’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 28 del 2004, prevede che un decreto ministeriale definisca «gli indicatori ed i rispettivi valori» relativi ai parametri indicati dal decreto legislativo medesimo per determinare il punteggio da attribuire alle imprese cinematografiche di produzione ai fini della individuazione della categoria di appartenenza sulla cui base viene determinato il finanziamento delle imprese medesime.
L’art. 4, comma 3, prevede che il Ministro per i beni e le attività culturali approvi il «programma triennale» predisposto dalla Consulta territoriale per le attività cinematografiche; programma che – tra l’altro – individua le aree geografiche di intervento e individua gli obiettivi per la promozione delle attività cinematografiche.
L’art. 12, comma 4, prevede che, «con decreto ministeriale, sentita la Consulta, sono stabilite annualmente le quote percentuali» del Fondo per la produzione, la distribuzione, l’esercizio e le industrie tecniche, «in relazione alle finalità di cui al comma 3».
L’art. 17, comma 4, prevede che «con decreto ministeriale sono stabilite le quote percentuali di ripartizione del premio di cui al comma 3» fra le diverse categorie di soggetti che possono aspirare ai «premi di qualità».
L’art. 19, comma 3, prevede che il Ministro definisca annualmente gli obiettivi che contribuiscono a far deliberare l’erogazione dei contributi alle attività cinematografiche.
L’art. 19, comma 5, prevede che «con decreto ministeriale, sentita la Consulta, sono definiti i criteri per la concessione di premi alle sale d’essai e alle sale delle comunità ecclesiali o religiose».
In tutti questi casi appare ineludibile che i previsti atti vengano adottati di intesa con la Conferenza Stato-Regioni, in modo da permettere alle Regioni (in materie che sarebbero di loro competenza) di recuperare quantomeno un potere di codecisione nelle fasi delle specificazioni normative o programmatorie. Pertanto, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale delle disposizioni ora richiamate, nella parte in cui non prevedono che gli atti indicati siano adottati previa intesa con la Conferenza Stato-Regioni.
In altri casi, caratterizzati dalla natura tecnica del potere normativo previsto o dall’esercizio di poteri di nomina di particolare delicatezza, il coinvolgimento della Conferenza Stato-Regioni può limitarsi all’espressione di un parere obbligatorio.
Fondate sono anche le censure concernenti l’art. 22, comma 5, e l’art. 4, comma 5, del decreto legislativo n. 28 del 2004, relativi all’autorizzazione all’apertura «di multisale con un numero di posti superiori a milleottocento», che la disciplina in esame riserva al Direttore generale competente del Ministero, mentre alla Consulta territoriale è attribuito in materia un potere consultivo. Al riguardo, la Corte, premessa la già chiarita afferenza della disciplina in esame alla materia del «governo del territorio», osserva come appaia evidente la mancanza di esigenze unitarie tali da far ritenere inadeguato il livello regionale di governo allo svolgimento della funzione amministrativa in questione. Ciò rende del tutto ingiustificata l’attrazione di tale funzione in favore di organi amministrativi dello Stato operata dalla disposizione impugnata.
f) Le questioni poste all’attenzione della Corte nei giudizi definiti con la sentenza n. 378 concernono tutte la legittimità costituzionale di norme che, incidendo sulla disciplina di cui all’art. 8 della legge 28 gennaio 1994, n. 84 (Riordino della legislazione in materia portuale), mirano a creare meccanismi volti a superare la situazione di stallo che si crea quando, in fatto, non si realizza l’intesa che, per la nomina del Presidente dell’Autorità portuale, il citato art. 8 prevede debba raggiungersi tra Ministro delle infrastrutture e dei trasporti e Regione interessata nell’ambito di una terna di esperti di massima e comprovata qualificazione professionale nei settori dell’economia dei trasporti e portuale, designati rispettivamente dalla provincia, dai comuni e dalle camere di commercio. Qualora non pervenga nei termini alcuna designazione, recita sempre l’art. 8, il Ministro nomina il presidente, previa intesa con la Regione interessata, comunque tra personalità che risultano esperte e di massima e comprovata qualificazione professionale nei settori dell’economia dei trasporti e portuale.
Quest’ultima norma – richiedendo l’intesa con la Regione interessata sia nell’ipotesi di nomina effettuata a seguito della formulazione della terna sia nell’ipotesi di mancata designazione – esige che la nomina del Presidente sia frutto in ogni caso di una codeterminazione del Ministro e della Regione.
La inequivoca volontà originaria della legge non può essere misconosciuta – qualificando come «debole» l’intesa in questione – dopo che la riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione ha inserito la materia dei «porti e aeroporti civili» tra quelle di «legislazione concorrente» previste dall’art. 117, terzo comma, Cost.: anzi, deve dirsi che la norma statale de qua, in quanto attributiva al Ministro di funzioni amministrative in materia contemplata dall’art. 117, terzo comma, Cost., è costituzionalmente legittima proprio perché prevede una procedura che, attraverso strumenti di leale collaborazione, assicura adeguatamente la partecipazione della Regione all’esercizio in concreto della funzione amministrativa da essa allocata a livello centrale (sentenza n. 6 del 2004).
Ne discende che ab origine l’art. 8 della legge n. 84 del 1994 esigeva, ed a fortiori esige oggi – alla luce della sopravvenuta legge costituzionale n. 3 del 2001 – «una paritaria codeterminazione del contenuto dell’atto» di nomina, quale «forma di attuazione del principio di leale cooperazione tra lo Stato e la Regione», ed esclude ogni «possibilità di declassamento dell’attività di codeterminazione connessa all’intesa in una mera attività consultiva non vincolante» (sentenza n. 27 del 2004); con la conseguenza che il mancato raggiungimento dell’intesa, quale prevista dalla norma, costituiva e costituisce «ostacolo insuperabile alla conclusione del procedimento» (sentenza n. 6 del 2004).
In presenza di tale situazione normativa, sia lo Stato sia la Regione Friuli-Venezia Giulia, hanno posto in essere norme volte a superare la situazione di stallo che si determina – come, in concreto, si è determinata relativamente all’Autorità portuale di Trieste – in caso di mancato raggiungimento dell’intesa.
A tale proposito, la Corte ritiene che l’esigenza di leale cooperazione, insita nell’intesa, non esclude a priori la possibilità di meccanismi idonei a superare l’ostacolo che, alla conclusione del procedimento, oppone il mancato raggiungimento di un accordo sul contenuto del provvedimento da adottare; anzi, la vastità delle materie oggi di competenza legislativa concorrente comporta comunque, specie quando la rilevanza degli interessi pubblici è tale da rendere imperiosa l’esigenza di provvedere, l’opportunità di prevedere siffatti meccanismi, fermo il loro carattere sussidiario rispetto all’impegno leale delle parti nella ricerca di una soluzione condivisa.
Tali meccanismi, quale che ne sia la concreta configurazione, debbono in ogni caso essere rispettosi delle esigenze insite nella scelta, operata dal legislatore costituzionale, con il disciplinare la competenza legislativa in quella data materia: e pertanto deve trattarsi di meccanismi che non stravolgano il criterio per cui alla legge statale compete fissare i principî fondamentali della materia, che non declassino l’attività di codeterminazione connessa all’intesa in una mera attività consultiva, che prevedano l’allocazione delle funzioni amministrative nel rispetto dei principî di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza di cui all’art. 118 Cost.
La legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 24 maggio 2004, n. 17, dopo aver pedissequamente trascritto l’art. 8, comma 1, della legge statale n. 84 del 1994 – ma attribuendo al Presidente della Regione i poteri che la norma statale riconosce al Ministro – prevede che, «qualora nei termini previsti non pervenga alcuna designazione, il Presidente della Regione, previa intesa con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, nomina comunque il Presidente dell’Autorità portuale di Trieste tra personalità che risultano esperte e di massima e comprovata qualificazione professionale nei settori dell’economia, dei trasporti e portuale».
Al riguardo, la Corte ritiene che il ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri con il quale si lamenta la violazione dell’art. 117, comma terzo, Cost., essendo tale materia governata, in assenza di qualsiasi disciplina speciale contenuta nello statuto della Regione, dalla norma costituzionale ex art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001 – sia fondato.
Motiva la Corte che la legge n. 84 del 1994 costituisce la legge-quadro in materia di porti, dal momento che essa ne disciplina compiutamente, sulla base della loro classificazione (che non può che essere ispirata a principî uniformi per tutto il territorio nazionale), tra l’altro, l’organizzazione amministrativa, i compiti affidati ai singoli organi, la composizione di questi, i loro rapporti con le autorità statali sia centrali che periferiche.
È in tale contesto che va inquadrata la previsione normativa circa la spettanza al Ministro del potere di nomina del Presidente dell’Autorità portuale, la cui costituzione è prevista per i porti aventi rilevanza economica internazionale o nazionale.
Il Presidente, in sintesi, è posto al vertice di una complessa organizzazione che vede coinvolti, e soggetti al suo coordinamento, anche organi schiettamente statali, e gli è assegnato un ruolo fondamentale, anche di carattere propulsivo, perché il porto assolva alla sua funzione comunque interessante l’economia nazionale.
Ne discende che, se la scelta, operata dal legislatore statale nel 1994, di coinvolgere la Regione nel procedimento di nomina del Presidente costituisce riconoscimento del ruolo del porto nell’economia regionale e, prima ancora, locale (donde il potere di proposta riconosciuto alla Provincia, al Comune ed alla Camera di commercio), la scelta del legislatore costituzionale del 2001 – di inserire la materia «porti e aeroporti civili» nel terzo comma dell’art. 117 Cost. – non può essere intesa quale «declassamento» degli interessi dell’intera comunità nazionale connessi all’attività dei più importanti porti: interessi, la cui cura è, con la vastità dei compiti assegnatigli ed il ruolo riconosciutogli, affidata in primo luogo al Presidente.
In breve, l’originaria previsione in tema di potere di nomina si coordina con l’insieme della legge contribuendo, quale sua organica articolazione, all’equilibrio che essa realizza tra istanze centrali, regionali e locali; sicché tale previsione continua a costituire principio fondamentale della materia, alla pari delle altre sulla composizione degli organi e sui loro compiti e poteri.
Nulla, peraltro, si oppone a che, laddove vi sia un intreccio di interessi locali, regionali, nazionali ed internazionali, armonicamente coordinati in un sistema compiuto, possa qualificarsi principio fondamentale della materia anche l’allocazione, ex lege statale, a livello centrale del potere di nomina di chi tali interessi deve coordinare e gestire.
Ciò è sufficiente per dichiarare costituzionalmente illegittimo l’art. 9, comma 2, della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia, in quanto contrastante con il principio fondamentale secondo il quale il potere di nomina del Presidente dell’Autorità portuale (qui, di Trieste) compete, previa intesa con la Regione, al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti.
La Corte passa, poi, ad esaminare il ricorso della Regione Friuli – Venezia Giulia avverso l’art. 6 del decreto legge n. 136 del 2004, che ha aggiunto, all’art. 8, comma 1, della legge n. 84 del 1994, un comma 1-bis a tenore del quale, «esperite le procedure di cui al comma 1, qualora entro trenta giorni non si raggiunga l’intesa con la Regione interessata, il Ministro può chiedere al Presidente del Consiglio dei ministri di sottoporre la questione al Consiglio dei ministri, che provvede con deliberazione motivata».
La Regione Friuli – Venezia Giulia sollecita la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma, per contrasto con gli articoli 117, comma terzo, e 118 Cost., per l’ipotesi che essa pretenda di ripristinare nella Regione la competenza del Ministro viceversa attribuita, dalla legge regionale n. 17 del 2004, al Presidente della Regione stessa; in subordine, in quanto la norma elimina l’intesa con la Regione, attribuisce alla parte ministeriale la prevalenza sulla Regione in caso di mancata intesa e ciò, peraltro, sulla base del mero decorso del breve termine di trenta giorni.
La Corte ritiene il primo motivo di ricorso, con il quale si censura la pretesa della legge statale di ripristinare nella Regione una competenza ministeriale che legittimamente la legge regionale n. 17 del 2004 ha attribuito al Presidente della Regione, infondato per le ragioni in forza delle quali è stata dichiarata costituzionalmente illegittima la legge regionale.
Fondati sono, viceversa, gli altri motivi di ricorso. Infatti, la norma impugnata si risolve nel rompere, a danno della Regione, l’equilibrio tra istanze ed esigenze di vario livello assicurato dalla legge n. 84 del 1994, nella sua originaria formulazione, e nel degradare l’intesa, prevista dall’art. 8, comma 1, della medesima legge, al rango di mero parere non vincolante, in quanto attribuisce al Ministro il potere – quali che siano le ragioni del mancato raggiungimento dell’intesa e per ciò solo che siano decorsi trenta giorni – di chiedere che la nomina sia effettuata dal Consiglio dei ministri, e cioè da un organo del quale il Ministro fa parte.
Il meccanismo escogitato è tale da svilire il potere di codeterminazione riconosciuto alla Regione, dal momento che la mera previsione della possibilità per il Ministro di far prevalere il suo punto di vista, ottenendone l’avallo dal Consiglio dei ministri, è tale da rendere quanto mai debole, fin dall’inizio del procedimento, la posizione della Regione che non condivida l’opinione del Ministro e da incidere sulla effettività del potere di codeterminazione che, ma (a questo punto) solo apparentemente, l’art. 8, comma 1, continua a riconoscere alla Regione.
Conseguentemente, la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 117, comma terzo, Cost., dell’art. 1, comma 2, della legge n. 186 del 2004, e dell’art. 6 del decreto legge n. 136 del 2004.
g) Di particolare rilievo è, infine, la sentenza n. 383, resa dalla Corte in occasione dei ricorsi proposti dalla Regione Toscana e dalla Provincia autonoma di Trento avverso numerose disposizioni contenute nel decreto legge 29 agosto 2003, n. 239, convertito, con modificazioni, nella legge 27 ottobre 2003, n. 290,concernenti la sicurezza ed il risparmio di energia elettrica, e nella legge 23 agosto 2004, n. 239, che riordina il sistema elettrico nazionale. I rilievi di costituzionalità riguardano precipuamente la ripartizione di competenze legislative tra lo Stato e le regioni in materia di energia elettrica, ulteriormente integrati dalle doglianze della Provincia di Trento, che evoca la violazione dei parametri statutari e delle relative norme di attuazione nonché dell’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3. Altre doglianze riguardano l’intervento del legislatore statale nella allocazione di funzioni amministrative presso organi dello Stato, che sarebbe avvenuto in assenza dei presupposti costituzionali richiesti. Oggetto di contestazione anche la previsione di un potere sostitutivo statale in affermato contrasto con i presupposti costituzionali per l’attribuzione e l’esercizio di un simile potere.
In via preliminare, la Corte risolve il problema di quali siano gli ambiti materiali individuati dal Titolo V della Costituzione a cui possano essere ricondotte le disposizioni impugnate e, richiamando un suo recente precedente giurisprudenziale (sentenza n. 6 del 2004), ritiene che possano essere ascritte, almeno nella grande maggioranza, alla materia «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia», di cui al terzo comma dell’art. 117 Cost.
Affrontando le questioni sollevate dalla Regione Toscana con riferimento ad alcune disposizioni della legge n. 239 del 2004, la Corte non condivide la tesi secondo cui il legislatore statale avrebbe illegittimamente disciplinato alcuni ambiti materiali che sarebbero da considerare estranei alla materia «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia», di cui al terzo comma dell’art. 117 Cost.; si tratterebbe, in particolare, della «distribuzione locale di energia», dello «stoccaggio del gas naturale in giacimento» e della «lavorazione e stoccaggio di oli minerali», che costituirebbero autonome materie affidate alla competenza legislativa residuale delle Regioni, ai sensi del quarto comma dell’art. 117 Cost.
Al riguardo, motiva la Corte, l’espressione utilizzata nel terzo comma dell’art. 117 Cost. deve ritenersi corrispondere alla nozione di «settore energetico» di cui alla legge n. 239 del 2004, che, nel riordinare l’intero settore energetico e determinando i principî fondamentali, si riferisce anche alle attività relative agli oli minerali ed al gas naturale, nonché genericamente alla distribuzione dell’energia elettrica.
In secondo luogo, la «distribuzione locale dell’energia» è nozione utilizzata dalla normativa comunitaria e nazionale, ma solo come possibile articolazione a fini gestionali della rete di distribuzione nazionale. Si tratta quindi di una nozione rilevante a livello amministrativo e gestionale, ma che non può legittimare l’individuazione di una autonoma materia legislativa sul piano del riparto costituzionale delle competenze fra Stato e Regioni.
Il problema fondamentale attiene alla relazione intercorrente fra le disposizioni impugnate ed i modelli di rapporto fra Stato e Regioni configurabili in base al Titolo V della Costituzione, nella consapevolezza che la disciplina legislativa oggetto di censura è riferibile prevalentemente alla materia «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia», di cui al terzo comma dell’art. 117 Cost.
Le norme legislative in esame sono il frutto, per ciò che riguarda il decreto legge n. 239 del 2003 e la relativa legge di conversione n. 290 del 2003, di un intervento normativo originato da alcune urgenti necessità di sviluppo del sistema elettrico nazionale e di recupero di potenza, con una considerazione solo parziale del ruolo delle Regioni in materia, peraltro accresciuta nella fase della conversione in legge dell’originario decreto legge. La legge n. 239 del 2004 si configura, invece, come una legge di generale riordino dell’intero settore energetico, necessaria anche per dare attuazione allo stesso art. 117, terzo comma, Cost. in un settore in precedenza largamente di competenza statale. In tutte queste norme, per l’area appartenente alla competenza legislativa regionale di tipo concorrente, il legislatore statale dispone la «chiamata in sussidiarietà» di una buona parte delle funzioni amministrative concernenti il settore energetico, con l’attribuzione di rilevanti responsabilità ad organi statali e quindi con la parallela disciplina legislativa da parte dello Stato di settori che di norma dovrebbero essere di competenza regionale ai sensi del terzo comma dell’art. 117 Cost.
D’altra parte, ciò emerge espressamente anche dallo stesso art. 1, comma 1, della legge n. 239 del 2004, il quale afferma che «gli obiettivi e le linee della politica energetica nazionale, nonché i criteri generali per la sua attuazione a livello territoriale, sono elaborati e definiti dallo Stato che si avvale anche dei meccanismi di raccordo e di cooperazione con le autonomie regionali previsti dalla presente legge».
La Corte, nella sentenza n. 6 del 2004, ha preso atto che in un segmento di questa materia si è già di recente intervenuti tramite il decreto legge n. 7 del 2002, convertito in legge dalla legge n. 55 del 2002, in termini giustificabili dal punto di vista costituzionale solo per una allocazione in capo ad organi dello Stato di alcune funzioni amministrative relative alla ridefinizione in modo unitario ed a livello nazionale dei «procedimenti di modifica o di ripotenziamento dei maggiori impianti di produzione dell’energia elettrica, in base all’evidente presupposto della necessità di riconoscere un ruolo fondamentale agli organi statali nell’esercizio delle corrispondenti funzioni amministrative».
In quella occasione, la valutazione da parte di questa Corte della effettiva sussistenza dei presupposti che giustificassero la chiamata in sussidiarietà dell’amministrazione statale fu positiva, sulla base del riconoscimento della preminente esigenza di evitare il pericolo di interruzione della fornitura dell’energia elettrica a livello nazionale, attraverso una accentuata semplificazione del procedimento necessario per «la costruzione e l’esercizio degli impianti di energia elettrica di potenza superiore ai 300 MW termici» ed opere connesse.
Esigenze analoghe sono sicuramente individuabili anche per le impugnate disposizioni del decreto legge n. 239 del 2003, quale convertito nella legge n. 290 del 2003 (si veda, in particolare, l’art. 1-sexies, nella parte in cui si riferisce alla riforma e semplificazione del procedimento di «autorizzazione alla costruzione ed all’esercizio degli elettrodotti, degli oleodotti, dei gasdotti, facenti parti delle reti nazionali di trasporto dell’energia»).
Esaminando la legge n. 239 del 2004, la Corte rileva che il riordino dell’intero settore energetico, mediante una legislazione di cornice, ma anche la nuova disciplina dei numerosi settori contermini di esclusiva competenza statale, appare caratterizzato, sul piano del modello organizzativo e gestionale, dalla attribuzione dei maggiori poteri amministrativi ad organi statali, in quanto evidentemente ritenuti gli unici cui naturalmente non sfugge la valutazione complessiva del fabbisogno nazionale di energia e quindi idonei ad operare in modo adeguato per ridurre eventuali situazioni di gravi carenze a livello nazionale.
La Corte ritiene che non vi siano problemi al fine di giustificare in linea generale disposizioni legislative come quelle in esame dal punto di vista della ragionevolezza della chiamata in sussidiarietà, in capo ad organi dello Stato, di funzioni amministrative relative ai problemi energetici di livello nazionale, al fine di assicurare il loro indispensabile esercizio unitario, e procede a verificare la sussistenza delle altre condizioni che la giurisprudenza ha individuato come necessarie perché possa essere costituzionalmente ammissibile un meccanismo istituzionale del genere, che oggettivamente incide in modo significativo sull’ambito dei poteri regionali. In particolare, la disciplina in esame deve prefigurare un iter in cui assumano il dovuto risalto le attività concertative e di coordinamento orizzontale, ovverosia le intese, che devono essere condotte in base al principio di lealtà». Al riguardo, prosegue la Corte, dovendosi individuare un organo adeguatamente rappresentativo delle Regioni, ma anche degli enti locali, a loro volta titolari di molteplici funzioni amministrative senza dubbio condizionate od incise dalle diverse politiche del settore energetico, emerge come naturale organo di riferimento la Conferenza unificata.
Sulla base delle esposte premesse, la Corte esamina l’impugnativa della Regione Toscana avverso i commi 1 e 3 dell’art. 1 del decreto legge n. 239 del 2003, quale convertito, con modificazioni, nella legge n. 290 del 2003, nella parte in cui attribuiscono al Ministro delle attività produttive, di concerto con il Ministro dell’ambiente, la competenza ad autorizzare, al fine di garantire la sicurezza di funzionamento del sistema elettrico nazionale, l’esercizio temporaneo di singole centrali termoelettriche di potenza termica superiore a 300 MW, anche in deroga sia ai normali valori delle emissioni in atmosfera e di qualità dell’aria, sia ai limiti di temperatura degli scarichi termici.
Queste disposizioni, sul presupposto della loro riconducibilità alla materia di legislazione concorrente «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia», priverebbero le Regioni della potestà di esercitare le proprie competenze legislative in materia. Sarebbe altresì violato l’art. 118 Cost., perché, trattandosi di materia rientrante nella competenza legislativa concorrente, spetterebbe alla Regione e non già all’amministrazione centrale allocare l’esercizio delle funzioni amministrative. In secondo luogo, anche ove si ritenessero sussistenti esigenze unitarie tali da consentire l’attrazione delle funzioni in capo allo Stato, non sarebbe prevista alcuna forma di intesa, in violazione del principio di leale collaborazione.
La Corte dichiara non fondate le questioni in quanto i previsti poteri di deroga temporanei ineriscono alla materia della «tutela dell’ambiente» di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., senza che ricorra la necessità di meccanismi di collaborazione con le Regioni indispensabili nelle ipotesi della «chiamata in sussidiarietà». Quanto, poi, alla concreta allocazione in capo ad organi statali dei poteri di deroga contemplati dalle norme impugnate, starà al normale ed opportuno coordinamento fra le diverse istituzioni che sono chiamate ad operare nei medesimi settori, pur nella diversità delle rispettive competenze, la creazione di idonei strumenti di reciproca informazione, nella specie fra Ministero e Regione interessata.
In ordine alla impugnativa della Provincia autonoma di Trento avverso l’art. 1-ter, comma 2, del decreto legge n. 239 del 2003, nel testo risultante dalla conversione nella legge n. 290 del 2003, il quale stabilisce che «il Ministro delle attività produttive emana gli indirizzi per lo sviluppo delle reti nazionali di trasporto dell’energia elettrica e di gas naturale e approva i relativi piani di sviluppo predisposti, annualmente, dai gestori delle reti di trasporto», la Corte ritiene senza dubbio che la disposizione impugnata intervenga nell’ambito della materia «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia», ma che, al tempo stesso, la «chiamata in sussidiarietà» da parte dello Stato del potere di determinare gli indirizzi può essere giustificata sulla base della necessità che in questa materia sia assicurata una visione unitaria per l’intero territorio nazionale. Peraltro, la rilevanza del potere di emanazione degli indirizzi per lo sviluppo delle reti nazionali di trasporto dell’energia elettrica e di gas naturale sulla materia energetica e la sua sicura (indiretta) incidenza sul territorio e quindi sui relativi poteri regionali, rende costituzionalmente obbligata la previsione di un’intesa in senso forte fra gli organi statali e il sistema delle autonomie territoriali rappresentato in sede di Conferenza unificata; di talché, la disposizione impugnata viene dichiarata costituzionalmente illegittima nella parte in cui l’atto ministeriale non è preceduto dall’intesa con la Conferenza unificata. Al contrario, l’attività di approvazione dei piani di sviluppo annuali dei gestori delle reti di trasporto, – risolvendosi sostanzialmente nell’esercizio di un potere di controllo, a limitata discrezionalità, che si esplica a valle dell’attività di selezione e disciplina degli interessi pubblici operata in sede di elaborazione congiunta tra Stato ed autonomie di quegli indirizzi – può ritenersene giustificata l’attribuzione al solo Ministro preposto alla gestione amministrativa del settore.
Non fondata risulta, invece, l’impugnativa della Provincia di Trento avverso il comma 5 dell’art. 1-sexies del decreto legge n. 239 del 2003, nel testo risultante dalla conversione nella legge n. 290 del 2003, nella parte in cui stabilisce che «le Regioni disciplinano i procedimenti di autorizzazione alla costruzione ed all’esercizio di reti energetiche di competenza regionale in conformità ai principî e ai termini temporali di cui al presente articolo, prevedendo che, per le opere che ricadono nel territorio di più Regioni, le autorizzazioni siano rilasciate d’intesa tra le Regioni interessate».
Ritiene la Corte che, quanto alla addotta limitazione delle competenze regionali sui procedimenti autorizzatori alle reti di carattere non nazionale, la «chiamata in sussidiarietà» in capo allo Stato dei poteri autorizzatori concernenti le reti nazionali è giustificata dalla sussistenza di esigenze unitarie e che la previsione di un termine entro cui il procedimento deve concludersi può senz’altro qualificarsi come principio fondamentale della legislazione in materia, essendo espressione di una generale esigenza di speditezza volta a garantire uniformemente su tutto il territorio nazionale il celere svolgimento del procedimento autorizzatorio (cfr. sentenza n. 336 del 2005).
Infondata risulta l’impugnativa della Regione Toscana avverso l’art. 1, comma 4, lettera c), della legge n. 239 del 2004, il quale, nel prevedere che Stato e Regioni assicurano l’omogeneità delle modalità di fruizione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti l’energia e dei criteri di formazione delle tariffe e dei prezzi conseguenti, stabilisce che essi garantiscono – tra l’altro – «l’assenza di oneri di qualsiasi specie che abbiano effetti economici diretti o indiretti ricadenti al di fuori dell’ambito territoriale delle autorità che li prevedono». Tale disposizione contrasterebbe con gli articoli 117 e 118 Cost., in quanto la nozione di «effetto economico indiretto» sarebbe così ampia e vaga da impedire ogni politica regionale nel settore energetico e bloccherebbe o limiterebbe fortemente l’esercizio delle competenze regionali in materia di energia.
Motiva la Corte che sul piano della potestà legislativa, la disposizione censurata (peraltro riferita sia allo Stato che alle Regioni) si configura senz’altro come un principio fondamentale di per sé non irragionevole, né tale da limitare in modo eccessivo i poteri del legislatore regionale.
Se dunque lo Stato ha legittimamente posto un principio fondamentale della materia, l’asserita illegittima limitazione dei poteri amministrativi della Regione potrebbe derivare soltanto da un illegittimo esercizio in concreto delle competenze amministrative spettanti agli organi dello Stato; rischio solo eventuale, e, nell’ipotesi che si concretizzasse in termini ritenuti contrastanti con le disposizioni costituzionali in tema di autonomia regionale, non mancherebbero alle Regioni interessate idonee forme di tutela, anche in sede giurisdizionale.
Illegittimo si rivela l’art. 1, comma 4, lettera f), della legge n. 239 del 2004, impugnato dalla Regione Toscana, il quale esclude gli impianti alimentati da fonti rinnovabili dalle misure di compensazione e di riequilibrio ambientale e territoriale, qualora esigenze connesse agli indirizzi strategici nazionali richiedano concentrazioni territoriali di attività, impianti ed infrastrutture ad elevato impatto territoriale.
Ad avviso della Corte, la disposizione in questione si risolve, infatti, nella imposizione al legislatore regionale di un divieto di prendere in considerazione una serie di differenziati impianti, infrastrutture ed attività per la produzione energetica, ai fini di valutare il loro impatto sull’ambiente e sul territorio regionale (che, in caso di loro concentrazione sul territorio, può anche essere considerevole) solo perché alimentati da fonti energetiche rinnovabili. Tale previsione eccede il potere statale di determinare soltanto i principî fondamentali della materia e determina una irragionevole compressione della potestà regionale di apprezzamento dell’impatto che tali opere possono avere sul proprio territorio, in quanto individua puntualmente una categoria di fonti di energia rispetto alla quale sarebbe preclusa ogni valutazione da parte delle Regioni in sede di esercizio delle proprie competenze costituzionalmente garantite.
La Corte esamina l’impugnativa della Regione Toscana avverso le lettere g) e h) dell’art. 1, comma 7, della legge n. 239 del 2004, che, nell’elencare i compiti e le funzioni amministrative spettanti allo Stato, indica la competenza in tema di identificazione delle linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale, con riferimento all’articolazione territoriale delle reti infrastrutturali energetiche dichiarate di interesse nazionale (nonché la loro programmazione), ma non prevede adeguate forme di leale collaborazione.
La Corte accoglie la censura sottolineando che se appare giustificabile una chiamata in sussidiarietà da parte dello Stato dei fondamentali poteri amministrativi nella materia «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia» che esigono una unitaria visione a livello nazionale ed un loro efficace coordinamento con gli altri connessi poteri in materie di esclusiva competenza legislativa dello Stato, appare peraltro costituzionalmente necessario che l’esercizio dei poteri attribuiti dalle norme impugnate venga ricondotto a moduli collaborativi con il sistema delle autonomie territoriali nella forma dell’intesa in senso forte fra gli organi statali e la Conferenza unificata.
Parimenti, viene dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 7, lettera i), della legge n. 239 del 2004, nella parte in cui non prevede che l’individuazione delle infrastrutture e degli insediamenti strategici, al fine di garantire la sicurezza strategica, ivi inclusa quella degli approvvigionamenti energetici e del relativo utilizzo, avvenga d’intesa con le Regioni e le Province autonome interessate. Al riguardo, la Corte ritiene che la predisposizione di un programma di grandi infrastrutture implica necessariamente una forte compressione delle competenze regionali non soltanto nel settore energetico ma anche nella materia del governo del territorio, di talché è condizione imprescindibile per la legittimità costituzionale dell’attrazione in sussidiarietà a livello statale di tale funzione amministrativa, la previsione di un’intesa in senso forte con le Regioni nel cui territorio l’opera dovrà essere realizzata.
Egualmente illegittima risulta le disposizione, impugnata dalla Regione Toscana, di cui all’art. 1, comma 8, lettera a), punto 3, della legge n. 239 del 2004, che attribuisce allo Stato i poteri amministrativi di determinazione delle linee generali di sviluppo della rete di trasmissione nazionale dell’energia elettrica, poiché non vi è dubbio che tali disposizioni ineriscano alla materia «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia» e che la chiamata in sussidiarietà da parte dello Stato delle funzioni amministrative debba essere accompagnata dalla previsione di idonei moduli collaborativi nella forma dell’intesa in senso forte fra gli organi statali e la Conferenza unificata, rappresentativa dell’intera pluralità degli enti regionali e locali. Analogamente, si deve ritenere per i poteri statali di cui all’art. 1, comma 8, lettera a), punto 7, della legge n. 239 del 2004 concernenti la determinazione dei criteri generali per le nuove concessioni di distribuzione dell’energia elettrica e per il rilascio delle autorizzazioni relative alle grandi centrali di produzione, per i quali non può essere ritenuto sufficiente il semplice parere della Conferenza unificata previsto dalla norma impugnata.
Illegittimo è anche l’art. 1, comma 8, lettera b), punto 3, della legge n. 239 del 2004, impugnato sempre dalla Regione Toscana, il quale prevede che lo Stato assuma le «determinazioni inerenti lo stoccaggio di gas naturale in giacimento». Anche qui la chiamata in sussidiarietà da parte dello Stato di un delicato potere amministrativo, per di più connesso con una molteplicità di altre funzioni regionali, quanto meno in tema di tutela della salute e di governo del territorio, deve essere accompagnato dalla previsione di un’intesa in senso forte fra gli organi statali e le Regioni e le Province autonome direttamente interessate.
Parzialmente fondate sono, poi, le questioni sollevate dalla Regione Toscana e dalla Provincia autonoma di Trento avverso l’art. 1, comma 24, lettera a), della legge n. 239 del 2004, che (1) ha mantenuto al Ministro delle attività produttive l’emanazione degli «indirizzi per lo sviluppo delle reti nazionali di trasporto di energia elettrica e di gas naturale», disponendo inoltre che (2) il Ministro «verifica la conformità dei piani di sviluppo predisposti, annualmente, dai gestori delle reti di trasporto con gli indirizzi medesimi».
Per un verso, la Corte ritiene che non è dubbio che la disposizione impugnata intervenga nell’ambito della materia «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia», ma che, al tempo stesso, la «chiamata in sussidiarietà» da parte dello Stato del potere di determinare gli indirizzi può essere giustificata sulla base della necessità che in questa materia sia assicurata una visione unitaria per l’intero territorio nazionale. Peraltro, il potere ministeriale di emanazione degli indirizzi ha una sicura indiretta incidenza sul territorio e quindi sui relativi poteri regionali, ciò che rende costituzionalmente obbligata la previsione di un’intesa in senso forte fra gli organi statali ed il sistema delle autonomie territoriali rappresentato in sede di Conferenza unificata. Al contrario, la seconda disposizione è immune da censure, trattandosi dell’esercizio di un potere di controllo, a limitata discrezionalità, che si esplica a valle dell’attività di selezione e disciplina degli interessi pubblici operata in sede di elaborazione – congiunta tra Stato ed autonomie – di quegli indirizzi cui i suddetti piani debbono conformarsi.
La Corte accoglie l’impugnativa della Regione Toscana e della Provincia autonoma di Trento avverso l’art. 1, comma 26, della legge n. 239 del 2004, là dove dispone che in caso di mancato conseguimento dell’intesa con la Regione o le Regioni interessate nel termine prescritto per il rilascio dell’autorizzazione alla costruzione ed esercizio degli elettrodotti, «lo Stato esercita il potere sostitutivo ai sensi dell’art. 120 della Costituzione, nel rispetto dei principî di sussidiarietà e leale collaborazione ed autorizza le opere, con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro per le attività produttive previo concerto con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio». La Corte condivide le censure secondo cui si disciplinerebbe una ipotesi di potere sostitutivo statale al di fuori dei presupposti costituzionali. Al riguardo, si sottolinea che il secondo comma dell’art. 120 Cost. non può essere applicato ad ipotesi, come quella prevista dalla disciplina impugnata, nelle quali l’ordinamento costituzionale impone il conseguimento di una necessaria intesa fra organi statali e organi regionali per l’esercizio concreto di una funzione amministrativa attratta in sussidiarietà al livello statale in materie di competenza legislativa regionale e nella perdurante assenza di adeguati strumenti di coinvolgimento delle Regioni nell’ambito dei procedimenti legislativi dello Stato.
Nell’attuale situazione, infatti, tali intese costituiscono condizione minima e imprescindibile per la legittimità costituzionale della disciplina legislativa statale che effettui la «chiamata in sussidiarietà» di una funzione amministrativa in materie affidate alla legislazione regionale, con la conseguenza che deve trattarsi di vere e proprie intese «in senso forte», ossia di atti a struttura necessariamente bilaterale, come tali non superabili con decisione unilaterale di una delle parti. In questi casi, pertanto, deve escludersi che, ai fini del perfezionamento dell’intesa, la volontà della Regione interessata possa essere sostituita da una determinazione dello Stato, il quale diverrebbe in tal modo l’unico attore di una fattispecie che, viceversa, non può strutturalmente ridursi all’esercizio di un potere unilaterale.
L’esigenza che il conseguimento di queste intese sia non solo ricercato in termini effettivamente ispirati alla reciproca leale collaborazione, ma anche agevolato per evitare situazioni di stallo, potrà certamente ispirare l’opportuna individuazione, sul piano legislativo, di procedure parzialmente innovative volte a favorire l’adozione dell’atto finale nei casi in cui siano insorte difficoltà a conseguire l’intesa, ma tali procedure non potranno in ogni caso prescindere dalla permanente garanzia della posizione paritaria delle parti coinvolte. E nei casi limite di mancato raggiungimento dell’intesa, potrebbe essere utilizzato, in ipotesi, lo strumento del ricorso alla Corte in sede di conflitto di attribuzione fra Stato e Regioni.
Non fondata risulta la questione sollevata dalla Provincia autonoma di Trento nei confronti dell’art. 1, comma 26, della legge n. 239 del 2004, secondo cui il soggetto che ha richiesto la autorizzazione può chiedere di concludere il procedimento autorizzatorio secondo la normativa previgente, fatta eccezione per i procedimenti per i quali sia completata la procedura di Via, ovvero il relativo procedimento risulti in fase di conclusione».
Motiva la Corte che la disposizione impugnata contiene una normale disciplina transitoria, che regola in modo non irragionevole i procedimenti già iniziati sotto il regime giuridico precedente, salvo quelli che ormai si trovano in una fase particolarmente avanzata, evidentemente al fine di estendere il regime generale di semplificazione dei procedimenti autorizzatori introdotto dalle nuove disposizioni di cui ai commi 1, 2, 3 e 4 dello stesso art. 1-sexies del decreto legge n. 239 del 2003, che la stessa ricorrente riconosce conformi, nel testo attuale, alle proprie attribuzioni costituzionali.
Viene altresì respinta l’impugnativa della Regione Toscana avverso l’art. 1, comma 33, della legge n. 239 del 2004, il quale prevede che «sono fatte salve le concessioni di distribuzione di energia elettrica in essere, ed aggiunge che «il Ministro delle attività produttive, sentita l’Autorità per l’energia elettrica ed il gas, anche al fine di garantire la parità di condizioni, può proporre modifiche e variazioni delle clausole contenute nelle relative convenzioni».
Per la Corte, le doglianze della Regione si rivolgono alla contestazione di una norma transitoria relativa alla mera gestione della fase di passaggio dal precedente regime all’attuale, norma che non risulta di per sé irragionevole. Infatti, a prescindere dal fatto che le concessioni di distribuzione di energia elettrica cui si riferisce la disposizione censurata sono relative ad ambiti territoriali largamente eccedenti quelli delle singole Regioni, la norma in questione mira semplicemente a garantire la certezza dei rapporti giuridici già instaurati dai concessionari dell’attività di distribuzione dell’energia. Le eventuali modifiche alle clausole delle convenzioni esistenti sono oggetto soltanto di un potere di «proposta» da parte del Ministro e di un potere consultivo dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas, dovendo pertanto incontrare, per divenire effettive, il necessario consenso delle parti titolari del rapporto. Non v’è dunque alcuna ragione di ritenere che tali poteri debbano necessariamente essere esercitati previa intesa con la Regione interessata.
La Corte respinge l’impugnativa della Regione Toscana avverso i commi 56, 57 e 58 dell’art. 1 della legge n. 239 del 2004, che disciplinano le attività di lavorazione e stoccaggio di oli minerali. In particolare, il comma 56 individua le attività soggette ad autorizzazione di competenza delle Regioni; il comma 57 indica i parametri alla stregua dei quali va esercitato il potere autorizzatorio, mentre il comma 58 espressamente esclude la necessità di autorizzazione per le modifiche degli stabilimenti di lavorazione o dei depositi di oli minerali che non incidano sulla capacità complessiva di lavorazione o non determinino una variazione della capacità di stoccaggio superiore a quella indicata dalla legge.
La Corte ritiene che l’individuazione delle attività soggette ad autorizzazione costituisce una disciplina qualificabile come principio fondamentale della materia, dal momento che attraverso di essa viene stabilito quando si renda necessaria la sottoposizione al peculiare regime amministrativo relativo agli stabilimenti di lavorazione e stoccaggio degli oli minerali: tale scelta, come è evidente, dipende anche da variabili e parametri tendenzialmente insensibili alla specificità territoriale, in quanto legati alla obiettiva rilevanza – non frazionabile geograficamente – di tali attività rispetto agli interessi pubblici che ne impediscono uno svolgimento liberalizzato. In quest’ottica, la stessa soglia quantitativa, individuata in relazione alla complessiva capacità di stoccaggio, non appare irragionevole rispetto al bilanciamento fra i diversi interessi in gioco.
Quanto alle specifiche censure concernenti le previsioni di cui ai commi 57 e 58, occorre prendere atto della ineludibilità dell’evidente impatto sul territorio di molte delle scelte che caratterizzano il settore delle politiche riconducibili alla materia dell’energia. Tali conseguenze, tuttavia, debbono ritenersi adeguatamente bilanciate dal doveroso coinvolgimento delle Regioni e degli enti locali all’interno dei processi decisionali di elaborazione e realizzazione delle politiche energetiche.
Non fondata anche l’impugnativa della Regione Toscana avverso i commi 77, 78, 79, 80, 81, 82 e 83 dell’art. 1 della legge n. 239 del 2004, che prevedono il procedimento di rilascio del permesso di ricerca e della concessione degli idrocarburi, e che ciò avvenga in seguito a un procedimento unico, nel rispetto dei principî di semplificazione e con le modalità di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241.
La ricorrente, pur rilevando che le disposizioni impugnate non escludono espressamente la necessità dell’intesa della Regione interessata, tuttavia sostiene che il mancato richiamo dell’intesa potrebbe essere interpretato come espressione della volontà del legislatore di disciplinare il settore in modo diverso. In particolare, la norma non chiarirebbe le modalità con cui dovrebbe essere acquisita l’intesa, e non chiarirebbe se l’intesa debba essere acquisita in sede di conferenza di servizi, né quali siano le conseguenze del suo mancato raggiungimento.
L’interpretazione prospettata appare, ad avviso della Corte, errata, poiché essa condurrebbe anche a negare irragionevolmente lo stesso potere ministeriale di autorizzazione in questo specifico settore. D’altra parte, per quanto concerne il rapporto tra intesa e richiamo delle norme sul procedimento amministrativo di cui alla legge n. 241 del 1990, ed in particolare alla conferenza di servizi, osserva che lo stesso art. 1-sexies del decreto legge n. 239 del 2003 stabilisce che l’autorizzazione alla costruzione ed esercizio degli elettrodotti facenti parte della rete nazionale di trasporto dell’energia elettrica sia rilasciata dal Ministro delle attività produttive d’intesa con la Regione interessata, e dispone che il relativo procedimento si svolga «nel rispetto dei principî di semplificazione e con le modalità di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241». Pertanto, i commi impugnati devono essere interpretati come semplicemente specificativi delle caratteristiche della fase istruttoria e degli effetti della autorizzazione – che resta peraltro disciplinata dall’art. 1, comma 7, lettera n), della stessa legge n. 239 del 2004, il quale prevede la necessità dell’intesa con le Regioni interessate – con la conseguente assenza delle lamentate lesioni delle competenze regionali.
La Corte esamina, poi, l’impugnativa della Regione Toscana avverso l’art. 1, comma 84, della legge n. 239 del 2004, il quale prevede che la misura massima del «contributo compensativo per il mancato uso alternativo del territorio», che può essere stabilito «a seguito di specifici accordi tra la Regione e gli enti locali interessati ed i titolari di concessioni di coltivazione di idrocarburi in terraferma non ancora entrate in produzione», non possa «eccedere il valore complessivo del quindici per cento di quanto comunque spettante alla Regione e agli enti locali per le aliquote di prodotto della coltivazione»; inoltre prevede che «la mancata sottoscrizione degli accordi non costituisce motivo per la sospensione dei lavori necessari per la messa in produzione dei giacimenti di idrocarburi o per il rinvio dell’inizio della coltivazione».
La ricorrente ritiene che queste disposizioni inciderebbero, con disposizioni di dettaglio, in materia sia di «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia», sia di «governo del territorio», di competenza legislativa concorrente.
La Corte ritiene la censura solo parzialmente fondata. Infatti, la determinazione dell’ammontare massimo del contributo compensativo può essere agevolmente ricondotta ad una normativa di principio, necessaria anche al fine di garantire sull’intero territorio nazionale una relativa uniformità dei costi per le imprese di coltivazione degli idrocarburi sulla terraferma.
Al contrario, la determinazione nella legge statale delle conseguenze della mancata sottoscrizione degli accordi e, in particolare, l’esclusione che quest’ultima possa fondare la sospensione dei lavori necessari per la messa in produzione dei giacimenti o per il rinvio dell’inizio della coltivazione, restringe impropriamente la discrezionalità legislativa regionale attraverso la previsione di una normativa che non può in alcun modo essere qualificata come principio fondamentale.
La Corte, infine, esamina l’impugnativa della Regione Toscana avverso l’art. 1, comma 121, della legge n. 239 del 2004, il quale delega il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi per il riassetto delle disposizioni vigenti in materia di energia, ai sensi e secondo i principî e criteri di cui all’art. 20 della legge 15 marzo 1997, n. 59. Questa disposizione violerebbe l’art. 117, terzo comma, Cost., in quanto lo Stato potrebbe esercitare competenze legislative in materia di energia solo dettando principî fondamentali, ovvero mediante la redazione di testi unici meramente ricognitivi.
La Corte ritiene la questione non fondata in quanto i principî e criteri direttivi della delega legislativa contenuta nella disposizione impugnata non appaiono di per sé contrastanti con i limiti posti dall’art. 117, terzo comma, Cost., alla legislazione statale nell’ambito delle materie attribuite alla potestà concorrente: al di là del fatto che il rispetto delle disposizioni costituzionali non deve essere necessariamente espresso, nella lettera b) del comma 121 si afferma esplicitamente la necessità del «rispetto delle competenze conferite alle amministrazioni centrali e regionali». Al tempo stesso, i criteri direttivi contenuti nel comma 121, attengono non solo al settore energetico, ma anche a materie di sicura competenza esclusiva dello Stato.
 
4. Il principio cooperativo
Il principio di leale cooperazione connota fortemente il regionalismo italiano: nella disamina relativa al riparto competenziale se ne sono avute molteplici conferme, segnatamente in riferimento agli ambiti normativi caratterizzati da una «concorrenza di competenze» e da quelli «attratti in sussidiarietà» dallo Stato (con riferimento alla compenetrazione tra contenuti della normazione ed applicazione del principio cooperativo, può ulteriormente menzionarsi, a titolo esemplificativo, la sentenza n. 50, in cui la Corte dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 276 del 2003 – che prevede disposizioni in materia di cooperative sociali e inserimento lavorativo dei lavoratori svantaggiati – in quanto, da una parte, contiene norme di principio, quale la previsione di una convenzione quadro, dall’altra assicura il coinvolgimento delle Regioni mediante la previsione che le convenzioni «devono essere validate da parte delle Regioni»).
Rinviando a quanto sin qui detto per l’analisi dell’incidenza del principio sulla ripartizione delle funzioni tra i livelli territoriali, giova qui soffermarsi su alcune statuizioni che hanno avuto precipuamente riguardo allo scrutinio inerente ad aspetti procedimentali.
A tal riguardo, di particolare importanza è la sentenza n. 272, nella quale, ribadendo quanto affermato nella sentenza n. 196 del 2004, la Corte ritiene non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione ai decreti legge ed alle relative leggi di conversione adottati senza il previo parere della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome: «ciò in quanto non è individuabile un fondamento costituzionale all’obbligo di procedure legislative ispirate alla leale collaborazione tra lo Stato e le Regioni». Peraltro, la Corte sottolinea che l’art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 281 del 1997, che pure era stato richiamato dalle Regioni ricorrenti, prevede obbligatoriamente l’intervento consultivo della Conferenza Stato Regioni in sede di predisposizione dei disegni di legge governativi e dei decreti legislativi, non anche in quella dei decreti legge e delle relative leggi di conversione, salvo quanto previsto dal comma 5 del medesimo articolo per la c.d. «consultazione successiva (nella sentenza n. 384 la Corte ribadirà che, «in linea di principio», il mancato parere della Conferenza non determina l’illegittimità costituzionale di decreto legislativo, quanto meno alla luce del fatto che, in concreto, il decreto in larga prevalenza attiene a materie di competenza statale).
Sempre per quanto riguarda il principio di leale cooperazione, la Corte ritiene che l’istituzione di una Commissione di garanzia con il compito di verificare la conformità alla vigente legislazione delle procedure e delle operazioni effettuate per la determinazione della quantità di latte prodotta e commercializzata nei periodi 1995-1996 e 1996-1997, senza alcun tipo di coinvolgimento delle regioni, si giustifica grazie al carattere di terzietà che deve riconoscersi alla Commissione e alla tipologia di attività ad essa attribuite.
Allo stesso modo si giustifica la scelta statale, effettuata senza un coinvolgimento delle Regioni, di escludere dall’assegnazione di quote i produttori che in precedenza hanno venduto, ovvero affittato, in tutto o in parte, la quota di propria spettanza. Infatti, sottolinea la Corte, «si tratta di previsione ed attuazione di criteri non discrezionali che prescindono dalla necessità di valutare eventuali interessi afferenti a specifici ambiti territoriali».
Anche per la rideterminazione delle quote, a seguito della verificata non compatibilità tra la quantità di latte commercializzato e la consistenza di stalla accertata, la Corte non reputa necessaria l’attivazione di procedure di concertazione con le Regioni, poiché «la normativa censurata –stabilendo che occorre tener conto della media provinciale per capo elaborata dall’Associazione italiana allevatori, con un margine ragionevole di tollerabilità del 20 per cento – non prevede una generalizzata rideterminazione degli effettivi quantitativi di latte prodotto, bensì garantisce, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, una adeguata considerazione delle specificità territoriali».
Parimenti, la Corte ritiene che non sia costituzionalmente necessario il coinvolgimento delle Regioni mediante strumenti di concertazione nell’attività svolta dalla Commissione governativa di indagine in ordine alla individuazione delle tipologie contrattuali di circolazione delle quote latte da considerarsi anomale ai fini della determinazione degli effettivi quantitativi di latte prodotto e commercializzato. Infatti, nella specie, non sussistono implicazioni connesse alle specificità delle singole realtà regionali.
Non è costituzionalmente necessario garantire un coinvolgimento delle Regioni neppure in relazione alla possibilità attribuita all’AIMA di valutare comparativamente i risultati della compensazione nazionale e per APL. Secondo la Corte, infatti, si tratta, di un procedimento caratterizzato da una disamina obiettiva dei dati acquisiti dall’ente statale – cui sono attribuiti poteri discrezionali – che consente di raggiungere un risultato oggettivamente verificabile.
La Corte, ribadendo quanto già affermato nella sentenza n. 398 del 1998, rileva che «non può essere revocato in dubbio che la competenza alla determinazione dei criteri di compensazione appartenga allo Stato e non alle Regioni, così pure non è dubitabile che spetti allo Stato l’applicazione dei criteri della compensazione. Ciò in quanto “si tratta di attività che trascendono la sfera delle Regioni e delle Province autonome e che per definizione non possono essere compiute in ambito locale”(sentenza n.398 del 1998)». Tuttavia, precisato ancora la Corte, essendo coinvolto lo sviluppo della produzione lattiera in zone determinate del territorio a scapito delle altre e, di riflesso, la programmazione regionale, «i criteri non avrebbero potuto essere stabiliti se non dopo avere acquisito in maniera formale il parere delle Regioni e delle Province espresso nella sede appropriata». Nella specie, peraltro, la questione di legittimità costituzionale sollevata su alcune disposizioni statali che determinano i criteri della compensazione statale senza alcun coinvolgimento delle Regioni viene dichiarata non fondata, in quanto, dalla disamina della documentazione prodotta a seguito dell’ordinanza istruttoria del 15 dicembre 1999, risulta che sul disegno di legge, il cui contenuto è stato poi trasfuso nelle disposizioni censurate, la Commissione permanente ha formulato apposito parere.
L’acquisizione di tale parere in ordine ai criteri di priorità individuati permette alla Corte di ritenere esente dai profili di incostituzionalità anche un’altra disposizione censurata, con la quale il legislatore, «nell’esercizio non irragionevole della sua discrezionalità modulata in attuazione degli obblighi comunitari, ha esteso la validità di tali criteri anche al periodo 1999-2000».
Sempre in tema di compensazione, la Corte dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata sulla norma che prevede che l’AIMA effettui la compensazione sulla base di dati certi per il periodo 1997-1998 entro 30 giorni dalle determinazioni definitive da parte delle Regioni e delle Province autonome e comunque entro e non oltre il 30 settembre, sottolineando che, «a prescindere dalla sussistenza della effettiva necessità di prevedere, nel caso di specie, strumenti di concertazione con le Regioni, la norma in esame garantisce il coinvolgimento delle Regioni stesse, e dunque il rispetto del principio di leale collaborazione, prevedendo che la compensazione venga effettuata tenendo conto di quelle determinazioni definitive formulate da Regioni (e Province autonome), le cui modalità procedurali sono fissate con decreto del Ministro per le politiche agricole da emanarsi d’intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome».
Problematiche concernenti l’applicazione del principio di leale cooperazione sono state affrontate anche in sede di conflitto intersoggettivo, ciò che è testimoniato dalle sentenze numeri 133 e 339.
Nella sentenza n. 133, la Corte rileva, preliminarmente, che la Provincia autonoma di Trento non può invocare le norme di attuazione dello statuto speciale (decreto legislativo 16 marzo 1999, n. 79 e decreto legislativo 11 novembre 1999, n. 463), con cui lo Stato ha trasferito alla Regione il demanio idrico, delegando altresì alle Province autonome di Trento e di Bolzano, per il rispettivo territorio, l’esercizio delle funzioni statali in materia di concessioni di grandi derivazioni a scopo idroelettrico ai fini della loro applicabilità anche al di fuori del territorio della Regione Trentino-Alto Adige.
Tale normativa, rileva la Corte, riguarda i rapporti tra le due Province della Regione Trentino-Alto Adige, e certamente non può trovare applicazione nei confronti della finitima ricorrente Regione Veneto.
L’autonomia speciale è infatti limitata al territorio regionale, e sarebbe contrastante con l’impianto costituzionale e con i principî ad esso sottesi di parità istituzionale e di leale collaborazione tra gli enti territoriali l’attribuzione di effetti extraterritoriali ad una norma di attuazione dello statuto regionale (cfr. sentenze n. 743 del 1988 e n. 55 del 1997).
È viceversa conforme ai principî costituzionali ritenere che nei casi di Regioni finitime trovi applicazione il d.lgs. n. 112 del 1998, che ha conferito alle regioni competenti per territorio l’intera gestione del demanio idrico, comprensivo di tutte le funzioni amministrative relative alle derivazioni di acqua pubblica, ed ha previsto, all’art. 89, comma 2, che le concessioni che interessano il territorio di più regioni sono rilasciate d’intesa tra le regioni coinvolte.
Si tratta di una norma che risponde ad esigenze unitarie ed al principio di leale collaborazione, e che certamente è applicabile anche ai rapporti tra Regioni ordinarie e Regioni a statuto speciale (sentenza n. 353 del 2001).
In relazione alla Provincia di Trento, occorre inoltre sottolineare che si tratta di funzioni delegate e non di una competenza statutaria, sicché ancora più agevole diventa l’estensione a detta Provincia di una norma originariamente prevista per le Regioni a statuto ordinario.
In conclusione, la Provincia di Trento, per un verso, ha agito senza poteri, essendo la norma del citato d.lgs. n. 463 del 1999, applicabile soltanto nell’ambito del territorio della Regione Trentino-Alto Adige, e, per altro verso, ha leso le competenze della Regione Veneto, avendo provveduto ad emanare gli atti impugnati senza aver prima raggiunto l’intesa, la quale attiene ad ogni aspetto della funzione concessoria e si riferisce anche all’individuazione dei canoni e ad eventuali regole per il loro riparto tra gli enti interessati.
Pertanto, non spetta alla Provincia di Trento, in difetto della necessaria intesa di cui all’art. 89, comma 2, del d.lgs. n. 112 del 1998, l’esercizio delle funzioni relative alle concessioni di derivazioni di acqua pubblica che interessino, oltre alla Provincia di Trento, anche la Regione Veneto, e conseguentemente devono essere annullati gli atti oggetto di conflitto, i quali sono stati adottati dalla Provincia di Trento sull’infondato presupposto di tale unilaterale ed esclusivo potere.
Con la sentenza n. 339 la Corte accoglie il conflitto di attribuzione proposto dalla Regione Toscana nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri e del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, dichiarativa della non spettanza a quest’ultimo a provvedere alla nomina del Commissario dell’Autorità portuale di Livorno in mancanza della intesa con la Regione, prevista dall’art. 8 della legge 28 gennaio 1994, n. 84.
Motiva, in proposito la Corte che, in base alla citata legge, la nomina del Presidente dell’Autorità portuale avviene nell’ambito di una terna di persone designate dalla Provincia, dai Comuni interessati e dalle Camere di commercio; e in una seconda eventuale fase – che si apre ove il Ministro, con atto motivato, richieda di comunicare una seconda terna di candidati – la individuazione del nominativo del designando diviene libera, qualora non pervenga alcuna indicazione nel termine di trenta giorni dalla richiesta. Peraltro, per la nomina del Presidente è comunque richiesta l’intesa con la Regione interessata. Tale quadro normativo di riferimento non risulta svilito a seguito della introduzione (ad opera dell’art. 6 del d.l. n. 136 del 2004, convertito, con modificazioni, nella legge n. 186 del 2004), nel medesimo art. 8 della legge n. 84 del 1994, del comma 1-bis, il quale prevede una terza eventuale fase procedimentale, per l’ipotesi in cui non venga comunque raggiunta l’intesa con la Regione interessata, in quanto essa non soltanto non preclude, ma anzi presuppone che la ricerca di una intesa prosegua, specie laddove si versi – come nella vicenda in esame – in una situazione interinale ed extra ordinem, quale certamente è quella riconducibile ad una gestione commissariale.
L’intesa è, dunque, procedimento intermedio e strumentale all’adozione dell’atto deliberativo, il quale rappresenta il frutto di una necessaria compartecipazione fra gli enti od organi tra i quali l’intesa stessa deve svilupparsi, anche – ove occorra – attraverso reiterate trattative volte a superare le divergenze che ostacolino il raggiungimento di un accordo.
La Corte, dopo aver ricordato che al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti spetta il potere di nomina del relativo Commissario straordinario, onde assicurare il soddisfacimento delle esigenze di continuità della azione amministrativa ed al fine impedire stasi connesse alla decadenza degli organismi ordinari (sentenze numeri 27 del 2004 e 208 del 1992), sottolinea che la adozione del provvedimento presuppone l’avvio e lo sviluppo – in termini di leale cooperazione – di reiterate trattative volte a raggiungere l’intesa; e che qualora questa non sia stata conseguita, le trattative devono proseguire anche dopo la nomina del Commissario, rappresentando, questo, un epilogo interinale, che non arresta né impedisce l’ordinario procedimento di nomina; ma ne richiede un’effettiva prosecuzione. Conseguentemente, la natura necessariamente transitoria della gestione commissariale e l’esigenza di non frustrare il pronto ripristino della autorità ordinaria comportano che essa abbia una durata ragionevole.
Nel caso di specie, «l’illegittimità della condotta dello Stato non risiede […] nella nomina in sé di un Commissario straordinario senza la previa intesa con il Presidente della Regione Toscana», ma nel mancato concreto sviluppo della procedura della intesa per la nomina del Presidente dell’Autorità portuale di Livorno: procedura la quale esige «lo svolgimento di reiterate trattative volte a superare, nel rispetto del principio di leale cooperazione tra Stato e Regione, le divergenze che ostacolino il raggiungimento di un accordo e che sole legittimano la nomina del primo» (sentenza n. 27 del 2004).
Come, infatti, evidenzia il ricorso, il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, con nota del 10 marzo 2003, ricevute le designazioni dei vari enti, richiedeva alla Regione Toscana la prescritta intesa sul nominativo proposto dalla Camera di Commercio, quale candidato all’incarico di Presidente della Autorità portuale di Livorno. La Regione Toscana, con nota del 27 marzo 2003, esprimeva il proprio motivato dissenso sul nominativo indicato dal Ministro, sottolineando, peraltro, la opportunità di «uno specifico incontro», quale «ulteriore occasione per sperimentare il metodo della concertazione.
Tale richiesta di incontro, peraltro ignorata, veniva reiterata con successiva nota del Presidente della Regione Toscana del 7 maggio 2003, ove si rappresentava l’urgenza in vista della prossima scadenza del mandato del Presidente in carica. Anche tale richiesta rimaneva, però, priva di effetti.
A questo punto, il Ministro designava, quale Commissario della Autorità portuale di Livorno, il candidato sul quale la Regione aveva già manifestato il proprio dissenso. In sostanza, non soltanto venivano eluse le procedure volte a ricercare una effettiva intesa, ma venivano a realizzarsi le premesse per una designazione sine die di un organo «sostitutivo» di quello designando ex lege.
Da ciò la giusta doglianza relativa alla sostanziale elusione della procedura della intesa, con il corollario della illegittimità di una procedura «alternativa» destinata a consentire, nei fatti, alla amministrazione statale la scelta unilaterale della persona cui affidare la presidenza della Autorità portuale di Livorno.
 
5. Il potere estero delle Regioni
Con riferimento ai limiti entro i quali le Regioni possono svolgere attività che si proiettino oltre i confini nazionali, è da sottolineare la sentenza n. 387, nella quale la Corte non ravvisa una esorbitanza dai limiti assegnati dalla Costituzione alle regioni in materia di politica estera nell’art. 13 della legge della Regione Veneto 9 gennaio 2003, n. 2, il quale prevede che la Giunta regionale, nel caso si verifichino all’estero calamità naturali o particolari eventi sociali, economici o politici, può stipulare accordi con il Governo interessato che prevedano prestazioni di tipo socio-sanitario a favore dei cittadini italiani emigrati nati nel Veneto. Al riguardo, osserva la Corte che la questione è stata sollevata sul presupposto della mancanza – al momento della pubblicazione della legge regionale – di una disciplina statale di dettaglio e del carattere autoapplicativo (in senso marcatamente restrittivo) del nono comma dell’art. 117 Cost.; successivamente alla proposizione del ricorso, peraltro, è entrata in vigore la legge statale per l’esercizio del potere estero regionale riconosciuto direttamente dalla Costituzione (art. 6 della legge 5 giugno 2003, n. 131), in relazione alla quale, nella sentenza n. 238 del 2004, si è affermato che le nuove disposizioni costituzionali non si discostano dalle linee fondamentali già enunciate in passato, consistenti nella riserva allo Stato della competenza sulla politica estera, nell’ammissibilità di un’attività internazionale delle Regioni e nella subordinazione di questa alla possibilità effettiva di un controllo statale sulle iniziative regionali, al fine di evitare contrasti con le linee della politica estera nazionale, fermo restando l’espresso riconoscimento di un «potere estero» delle Regioni, cioè della potestà, nell’ambito delle proprie competenze, di stipulare, oltre ad intese con enti omologhi esteri, anche veri e propri accordi con Stati, sia pure nei casi e nelle forme determinati da leggi statali. In conclusione, la Corte ritiene che la sopravvenuta emanazione della legge statale per l’esercizio del potere estero regionale riconosciuto direttamente dalla Costituzione fa venir meno i dubbi di legittimità sollevati col ricorso del Governo.
 
6. Le funzioni amministrative
Nelle decisioni passate in rassegna relativamente al riparto di competenze legislative sono presenti numerose, anche significative, affermazioni precipuamente concernenti le funzioni amministrative (si pensi, ad esempio, alla attrazione in sussidiarietà).
Non mancano, tuttavia, passaggi argomentativi che possono in questa sede essere analizzati, anche per la loro «autonomia» rispetto al riparto di competenze normative.
A tal proposito, viene in particolare rilievo il principio di continuità nell’esercizio delle funzioni amministrative. Nella sentenza n. 50, la Corte chiarisce che, se è vero che «l’allocazione delle funzioni amministrative nelle materie, come quella di cui si tratta [tutela e sicurezza del lavoro], di competenza concorrente, non spetta, in linea di principio, allo Stato», è però altresì vero che «vi sono funzioni e servizi pubblici che non possono subire interruzioni se non a costo di incidere su diritti che non possono essere sacrificati». Tali rilievi comportano che le funzioni delle Province continueranno a svolgersi secondo le disposizioni vigenti fin quando le Regioni non le avranno sostituite con una propria disciplina. La normativa va intesa, quindi, nel senso che le funzioni amministrative sono mantenute in capo alle Province senza precludere la possibilità di diverse discipline da parte delle Regioni. Sulla base di questa ratio è stata dichiarata non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, lettera e), della legge n. 30 del 2003, che stabilisce, come principio e criterio direttivo da seguire nella nuova disciplina del collocamento, il «mantenimento da parte delle province delle funzioni amministrative, attribuite dal decreto legislativo 23 dicembre 1997, n. 469».
In applicazione dei medesimi principî, la sentenza n. 384 ha dichiarato non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, lettera d), prima parte, della legge 14 febbraio 2003, n. 30, il quale enuncia tra i principî e criteri direttivi della delega di cui al comma 1 dello stesso articolo «il mantenimento da parte dello Stato delle funzioni amministrative relative alla vigilanza in materia di lavoro».
Precipuamente riguardanti l’esercizio di funzioni amministrative sono anche le questioni decise con la sentenza n. 388. In essa si esaminano le doglianze dello Stato avverso la legge della Regione Puglia 23 dicembre 2003, n. 29, che disciplina le funzioni amministrative in materia di tratturi. Nel ricorso si rileva che i tratturi, per la loro qualità di beni di interesse archeologico, rientrerebbero nella materia «tutela dei beni culturali» di competenza esclusiva statale. La Corte, dopo aver evidenziato che il demanio armentizio, nel quale rientrano i tratturi, è stato trasferito alle regioni, unitamente alle funzioni, ad opera dell’art. 66 del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, ricorda che la legislazione della Regione Puglia ha stabilito che i tratturi vanno considerati alla stregua di un monumento della storia economica e sociale del territorio pugliese interessato dalle migrazioni stagionali degli armenti e testimonianza archeologica di insediamenti di varia epoca, che costituiscono il «Parco dei tratturi della Puglia». Tanto premesso, la Corte rileva che il Governo ricorrente, pur richiamando la competenza esclusiva dello Stato riguardo alla tutela dei beni culturali, non contesta in radice la legittimazione della Regione Puglia a stabilire la disciplina dei tratturi, quanto piuttosto si duole del modo in cui la Regione ha esercitato i propri poteri.
In particolare, il ricorrente censura anzitutto le disposizioni che disciplinano la formazione e i contenuti del piano dei tratturi, assumendo che tale normativa «si pone in contrasto con gli articoli 9 e 117, secondo comma, lettera s), Cost., in quanto può determinare una utilizzazione delle aree tratturali in deroga al regime di tutela loro imposto ed una conseguente successiva alienazione o destinazione ad altri fini pubblici non precisati», e che «l’esercizio della tutela è prerogativa dello Stato e può essere oggetto di intesa e coordinamento con le regioni solo entro i limiti fissati dalla legge statale, che nel caso è stata violata con l’effetto che la disposizione risulta in contrasto anche con l’art. 118, terzo comma, Cost.».
Le disposizioni regionali vengono, inoltre, censurate perché consentono la realizzazione di opere in zone di interesse archeologico e sottoposte a vincolo paesaggistico senza le prescritte autorizzazioni, mediante il solo parere della Soprintendenza, ed inoltre perché prevedono la regolarizzazione di opere edilizie abusive, in violazione dell’art. 117, secondo comma, lettere l) e s), Cost., «potendo la sanatoria comportare il venir meno delle sanzioni penali collegate all’abuso».
Tutto ciò, secondo il ricorrente, sul presupposto che la normativa attenga alla tutela dei beni culturali in questione, ma – sempre ad avviso del ricorrente – se si volesse far riferimento alla materia di competenza ripartita della valorizzazione dei detti beni, le disposizioni sarebbero egualmente illegittime perché in contrasto con il principio fondamentale fissato nell’art. 97 del t.u. n. 490 del 1999, secondo il quale le norme sulla valorizzazione dei beni culturali devono essere in armonia con quelle sulla loro tutela.
La Corte, nel dichiarare le censure non fondate, sottolinea che il ricorrente, pur evocando il secondo comma, lettera s), dell’art. 117 Cost., non solo non contesta la competenza legislativa in materia della Regione, ma neppure ha impugnato la legge regionale là dove stabilisce che i tronchi tratturali sono conservati e tutelati dalla Regione Puglia, che ne promuove la valorizzazione anche per mezzo di forme indirette di gestione.
Se dunque ciò di cui il ricorrente si duole non è il fatto in sé che la Regione abbia legiferato sui tratturi e sulla loro valorizzazione quali testimonianze del passato, resta anzitutto privo di fondamento il richiamo agli articoli 9 e 117 Cost.
Sulle censure relative al contenuto specifico delle disposizioni, la Corte rileva che il piano dei tratturi, proposto dal Comune, viene discusso in una Conferenza di servizi nel cui ambito non soltanto la Soprintendenza archeologica ma anche quella per i beni architettonici e per il paesaggio esprimono parere vincolante. Alle Soprintendenze spetta quindi un potere che va molto al di là di una funzione meramente consultiva, in quanto i loro pareri non possono essere disattesi. Gli atti degli organi statali, ancorché assumano la forma del parere, svolgono una funzione determinante per il contenuto del Piano dei tratturi, tanto da potersi rilevare che spetta alle Soprintendenze esprimersi in modo vincolante per gli altri enti sulla individuazione e sulla perimetrazione dei tratturi che conservano l’originaria consistenza o possono in questa essere reintegrati.
Il Piano dei tratturi, nella cui formazione lo Stato, mediante il giudizio vincolante dei suoi organi a ciò deputati per la loro competenza, ha una parte decisiva, costituisce la base dell’ulteriore disciplina dei tratturi, distinti nel modo che si è detto.
La previsione della costruzione di opere pubbliche e di pubblico interesse da parte di enti pubblici, disciplinata dall’art. 3, comma 2, della legge regionale n. 29 del 2003, per quanto riguarda i tronchi tratturali va messa in relazione con quanto disposto dal comma 1 dello stesso articolo (non impugnato), nella parte in cui attribuisce alla Regione la valorizzazione dei detti beni anche mediante forme di gestione indiretta.
Ma ciò che più conta è che la costruzione delle suindicate opere è subordinata al parere favorevole della Soprintendenza, alla quale perciò spetta il potere di impedirla qualora ne possa venir compromessa la consistenza originaria del tratturo.
A conclusioni simili si deve pervenire riguardo alla regolarizzazione delle opere già esistenti, ma successive alla imposizione del vincolo.
È vero che in questo caso il parere della Soprintendenza non è definito «né vincolante né favorevole», ma la lettura corretta della disposizione nel contesto della complessa normativa in cui è inserita – e nella quale i pareri finora esaminati sono tutti da considerare «vincolanti» (il termine «favorevole» assume lo stesso significato) – comporta che anche per la regolarizzazione delle opere già edificate, come per quelle da costruire, il parere della Soprintendenza deve ritenersi vincolante. Sarebbe illogico ritenere che la Soprintendenza sia competente a giudicare se una nuova opera sia compatibile con la natura del bene da tutelare e non lo sia invece – dovendosi limitare in ipotesi a manifestare una mera opinione riguardo ad una costruzione già esistente – quando anche da questa possa derivare una compromissione della peculiare natura del bene. Si deve ribadire, con riguardo alla disposizione in esame, il principio secondo il quale, tra diverse possibili interpretazioni, è necessario scegliere quella che non dà luogo a contrasti con principî costituzionali.
A quanto detto la Corte aggiunge che il comma 3 dell’art. 3, relativo all’apposizione del vincolo, si apre con l’espressione «fermi restando tutti gli altri vincoli territoriali», e condiziona inoltre esplicitamente la regolarizzazione alla conformità «alla vigente normativa». Ciò significa che le particolarità della disposizione, con l’espressa previsione del parere della Soprintendenza, da intendersi vincolante, si aggiungono alla disciplina generale sulle sanatorie (come dimostra il rinvio finale alla legge 28 febbraio 1985, n. 47, di cui al comma 4 dello stesso articolo) e la sostituiscono soltanto per quanto concerne il prezzo (v. art. 3, comma 3, lettera b, e art. 4). E tanto esclude in radice la lamentata interferenza con la «materia penale», prospettata dal ricorrente evocando l’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione.
Non fondata, infine, è altresì la censura che si appunta sul comma l, lettera b), dell’art. 4 della stessa legge regionale, che disciplina l’alienazione all’utilizzatore possessore di tronchi tratturali inclusi sotto le lettere b) e c) del comma 2 dell’art. 2.
Trattasi, infatti, di tronchi dei quali, con il parere vincolante delle Soprintendenze, è stata già accertata la perdita irreversibile della originaria consistenza, cioè della loro caratteristica di tratturi e, come tale, di beni di interesse archeologico, per i quali l’alienazione è subordinata alla sdemanializzazione.
 
7. L'autonomia finanziaria
La Corte è ripetutamente intervenuta, nel corso del 2005, sulla tematica dell’autonomia finanziaria delle Regioni e degli enti locali. Molte statuizioni sono già state prese in considerazione nei paragrafi precedenti, dal momento che ai profili dell’autonomia finanziaria si associavano problemi connessi al riparto di competenze normative. Di seguito si riportano, dunque, le decisioni che hanno avuto precipuo riguardo all’applicazione dell’art. 119 della Costituzione.
 
7.1. La potestà normativa in tema di «armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario»
In varie occasioni, la Corte ha avuto modo di fornire indicazioni relative alla ripartizione di competenze normative in materia di «finanza pubblica» (articoli 117, terzo comma, e 119 della Costituzione).
Sulla base della giurisprudenza pregressa, la Corte, nella sentenza n. 64, rileva che «non è contestabile il potere del legislatore statale di imporre agli enti autonomi, per ragioni di coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali, condizionati anche dagli obblighi comunitari, vincoli alle politiche di bilancio, pur se questi si traducono, inevitabilmente, in limitazioni indirette all’autonomia di spesa degli enti»; ma «se rientra nei limiti delle norme che lo Stato ha la competenza ad emanare nella materia del coordinamento della finanza pubblica, la previsione di un’ingerenza, nell’attività di Regioni ed enti locali, esercitata da un organo dello Stato, a maggior ragione deve ritenersi legittimo il controllo svolto da un organo terzo quale è la Corte dei conti» (l’eliminazione dei controlli di legittimità sugli atti amministrativi degli enti locali, a seguito dell’abrogazione del primo comma dell’art. 125 e dell’art. 130 della Costituzione, non esclude «la persistente legittimità, da un lato, dei c.d. controlli interni […] e, dall’altro, dell’attività di controllo esercitata dalla Corte dei conti». Alla luce di tali considerazioni, viene stabilito che l’art. 23, comma 5, della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (secondo cui i provvedimenti di riconoscimento di debito posti in essere dalle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 sono trasmessi agli organi di controllo ed alla competente procura della Corte dei conti), è espressione di un principio fondamentale in materia di «armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica», tendente a soddisfare esigenze di contenimento della spesa pubblica e di rispetto del patto di stabilità interno.
La Corte riconosce – con la sentenza n. 417 – la natura di principî fondamentali di coordinamento della finanza pubblica alle disposizioni dettate, per il contenimento della spesa pubblica, dall’art. 1, comma 4, del decreto legge 12 luglio 2004, n. 168, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2004, n. 191, che attribuiscono alle amministrazioni pubbliche la facoltà di scegliere tra il ricorso alle convenzioni stipulate dal Ministero del tesoro, cosiddette convenzioni Consip e, in alternativa, l’utilizzazione dei parametri di prezzo-qualità, come limiti massimi, per l’acquisto di beni e servizi comparabili e che fissano l’obbligo di trasmissione alle strutture e agli uffici interni preposti al controllo di gestione dei provvedimenti con cui le amministrazioni pubbliche deliberano di procedere in modo autonomo a singoli acquisti di beni e servizi.
Ribadisce, infatti, la Corte (sentenza n. 36 del 2004) che «non può contestarsi la legittimità costituzionale della norma che consente agli enti autonomi di aderire alle convenzioni statali, trattandosi di previsione meramente facoltizzante. Ma anche l’obbligo imposto di adottare i prezzi delle convenzioni come base d’asta al ribasso per gli acquisti effettuati autonomamente, pur realizzando un’ingerenza non poco penetrante nell’autonomia degli enti quanto alla gestione della spesa, non supera i limiti di un principio di coordinamento adottato entro l’ambito della discrezionalità del legislatore statale».
Anche le norme che fissano l’obbligo di trasmissione agli organi interni di revisione contabile delle delibere di acquisto in via autonoma vanno ricondotte agli stessi principî fondamentali di coordinamento, in ragione del loro «carattere strumentale» rispetto al suddetto obbligo di adottate i parametri previsti da dette convenzioni.
Non viene, inoltre, ravvisato alcun contrasto con le norme statutarie che attribuiscono alla ricorrente Regione Valle d’Aosta la potestà legislativa esclusiva e le correlative funzioni amministrative nelle materie dell’«ordinamento degli uffici e degli enti dipendenti dalla regione» e «dell’ordinamento degli enti locali» (articoli 2, primo comma, lettere a e b, e 4 dello statuto speciale), poiché le attività dirette all’acquisto di beni o servizi da parte delle amministrazioni non sono riconducibili a tali materie, dovendo esse considerarsi, al più, strumentali al funzionamento di detti uffici ed enti.
La disposizione secondo la quale, nell’ambito dei sistemi di controllo di gestione sugli enti locali, la struttura operativa cui è assegnata la funzione del controllo di gestione fornisce la conclusione del controllo stesso, oltre che agli amministratori e ai responsabili dei servizi, anche alla Corte dei conti, non crea, contrariamente a quanto sostiene la Regione Campania, un’irragionevole interferenza fra controllo interno di gestione e accertamenti della Corte dei conti, poiché secondo la Corte, un tale obbligo non è di per sé idoneo a pregiudicare l’autonomia delle regioni e degli enti locali, in quanto esso deve essere considerato «espressione di un coordinamento meramente informativo».
La Corte ricorda, poi, la sua costante giurisprudenza sulla legittimità costituzionale delle norme che disciplinano gli obblighi di trasmissione di dati finalizzati a consentire il funzionamento del sistema dei controlli sulla finanza di regioni ed enti locali, riconducendole ai principî fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, con funzione regolatrice della cosiddetta «finanza pubblica allargata», allo scopo di assicurare il rispetto del patto di stabilità.
A tale finalità dell’azione di coordinamento finanziario consegue che «a livello centrale si possono collocare non solo la determinazione delle norme fondamentali che reggono la materia», ma altresì la determinazione di norme e puntuali, quali quelle relative alla disciplina degli obblighi di invio di informazioni sulla situazione finanziaria dalle regioni e dagli enti locali alla Corte dei conti. La fissazione di dette norme da parte del legislatore statale è diretta, infatti, a realizzare in concreto la finalità del coordinamento finanziario – che per sua natura eccede le possibilità di intervento dei livelli territoriali sub-statali – e, proprio perché viene «incontro alle esigenze di contenimento della spesa pubblica e di rispetto del patto di stabilità interno», è idonea a realizzare l’ulteriore finalità del buon andamento delle pubbliche amministrazioni (sentenza n. 64 del 2005).
Pertanto, va escluso che la norma impugnata, determinando un puntuale obbligo di comunicazione di dati a carico degli enti locali, si ponga in contrasto con gli evocati parametri costituzionali.
Ne discende che non sussiste alcuna irragionevole interferenza tra controllo interno di gestione e accertamenti della Corte dei conti, perché proprio la finalità del coordinamento finanziario giustifica il raccordo tra i due tipi di controllo, operato dalla norma censurata attraverso la fissazione dell’obbligo di comunicazione alla Corte dei conti dell’esito del controllo interno, realizzando così quella finalità collaborativa cui fa espresso riferimento l’art. 7, comma 7, della legge n. 131 del 2003.
Sempre nella sentenza n. 417, la Corte viene chiamata a giudicare della legittimità costituzionale dei commi 9, 10, 11 dell’art. 1 del decreto legge n. 168 del 2004, i quali introducono puntuali vincoli riguardanti le spese per studi e incarichi di consulenza conferiti a soggetti estranei all’amministrazione, missioni all’estero, rappresentanza, relazioni pubbliche e convegni, nonché le spese per l’acquisto di beni e servizi.
In particolare, il comma 9 limita, per l’anno 2004, la spesa di Regioni ed enti locali, relativa a «studi ed incarichi di consulenza conferiti a soggetti estranei all’amministrazione»; prevede che «l’affidamento di incarichi di studio o di ricerca, ovvero di consulenze a soggetti estranei all’amministrazione in materie e per oggetti rientranti nelle competenze della struttura burocratica dell’ente, deve essere adeguatamente motivato» e limitato ai soli casi previsti dalla legge o all’ipotesi di eventi straordinari, previa comunicazione – a pena di illecito disciplinare e conseguente responsabilità erariale – agli organi di controllo ed agli organi di revisione di ciascun ente; stabilisce che le pubbliche amministrazioni adottano le direttive – comunicate in via preventiva alla Corte dei conti – conseguenti all’applicazione dei suddetti vincoli di spesa, «nell’esercizio dei diritti dell’azionista nei confronti delle società di capitali a totale partecipazione pubblica».
Ad avviso delle ricorrenti, che le norme in questione non si limiterebbero a fissare l’entità massima del disavanzo o del complesso della spesa corrente di Regioni ed enti locali, ma specificando ed elencando le singole tipologie delle spese che gli enti territoriali devono contenere nell’ambito delle percentuali previste dalle stesse norme, porrebbero vincoli non riconducibili a principî fondamentali di coordinamento della finanza pubblica.
Nel dichiarare le questioni fondate, la Corte ribadisce il principio costantemente affermato, per cui le norme che fissano vincoli puntuali relativi a singole voci di spesa dei bilanci delle regioni e degli enti locali non costituiscono principî fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, e ledono pertanto l’autonomia finanziaria di spesa garantita dall’art. 119 della Costituzione.
Secondo tale giurisprudenza, il legislatore statale può legittimamente imporre agli enti autonomi vincoli alle politiche di bilancio (ancorché si traducano, inevitabilmente, in limitazioni indirette all’autonomia di spesa degli enti), ma solo, con «disciplina di principio», «per ragioni di coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali, condizionati anche dagli obblighi comunitari». Perchè detti vincoli possano considerarsi rispettosi dell’autonomia delle Regioni e degli enti locali debbono avere ad oggetto o l’entità del disavanzo di parte corrente oppure – ma solo «in via transitoria ed in vista degli specifici obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica perseguiti dal legislatore statale» – la crescita della spesa corrente degli enti autonomi; in altri termini, la legge statale può stabilire solo un «limite complessivo, che lascia agli enti stessi ampia libertà di allocazione delle risorse fra i diversi ambiti e obiettivi di spesa» (sentenza n. 36 del 2004).
Nella specie, la Corte constata che le disposizioni censurate – introducendo limiti alle spese per studi e incarichi di consulenza conferiti a soggetti estranei all’amministrazione, alle spese per missioni all’estero, rappresentanza, relazioni pubbliche e convegni, nonché alle spese per l’acquisto di beni e servizi – stabiliscono vincoli che, riguardando singole voci di spesa, non costituiscono principî fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, ma comportano una inammissibile ingerenza nell’autonomia degli enti quanto alla gestione della spesa.
Infine, sulla base di principî giurisprudenziali ormai consolidati, la Corte dichiara, con la sentenza n. 449, la incostituzionalità dell’art. 3, comma 75, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, nella parte in cui stabilisce che al «personale delle amministrazioni che si reca all’estero per ragioni di servizio nell’ambito dell’Unione europea spetta il pagamento delle sole spese di viaggio aereo nella classe economica».
La Corte ribadisce che la previsione, da parte della legge statale, di limiti all’entità di una singola voce di spesa della Regione non può essere considerata un principio fondamentale in materia di armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica, perché pone un precetto specifico e puntuale sull’entità della spesa e si risolve perciò in una indebita invasione dell’area riservata dall’art. 119 della Costituzione alle autonomie regionali e degli enti locali, alle quali la legge statale può prescrivere criteri ed obiettivi (ad esempio, contenimento della spesa pubblica), ma non imporre nel dettaglio gli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere quegli obiettivi. Pertanto, il vincolo puntuale di spesa deve essere dichiarato illegittimo, nella parte in cui si applica al personale delle Regioni.
La distinzione tra «principî fondamentali» e «norme di dettaglio», che disegna il riparto di competenze nelle materie di legislazione concorrente, peraltro, non sempre è agevolmente percepibile. In tal senso, giova dar conto dell’iter argomentativo seguito dalla Corte nella sentenza n. 30, là dove sono state rintracciate entrambe le due categorie di norme. L’art. 25 della legge 23 dicembre 2002, n. 289, oggetto del giudizio, che disciplina il pagamento e la riscossione delle somme di modesto ammontare, operando anche un rinvio a regolamenti ministeriali, di cui fissa il contenuto «in modo specifico e preciso», viene ricondotto pianamente all’ambito competenziale del «coordinamento della finanza pubblica».
Atteso che, con riferimento ai destinatari, la disciplina dettata dalla norma è applicabile a tutte le amministrazioni pubbliche, la Corte evidenzia che «la normativa impugnata è pienamente legittima per quanto riguarda gli uffici statali dal momento che lo Stato può legiferare, anche con le modalità previste dall’art. 25, riguardo ai propri uffici, rientrando, oltretutto, tale incombenza, nella competenza esclusiva prevista dall’art. 117, secondo comma, lettera g), Cost.».
A diverse conclusioni si perviene per la parte in cui la norma si indirizza anche ad enti non statali (Regioni, Province, Comuni, Comunità montane). A tal proposito, si è opera una distinzione tra la disciplina rimessa ai regolamenti e la disciplina positiva direttamente dettata.
La disposizione legislativa rinvia alla normazione secondaria, della quale al primo comma si indica l’oggetto, che è appunto quello della «disciplina del pagamento e della riscossione di crediti di modesto ammontare e di qualsiasi natura, anche tributaria», e al secondo comma se ne fissa il contenuto imprescindibile, costituito da: a) gli importi corrispondenti alle somme considerate di modesto ammontare; b) le modalità di considerazione di detti importi (nel senso che occorrerà stabilire quali somme dovranno considerarsi onnicomprensive di interessi o sanzioni comunque denominate); c) le norme riguardanti l’esclusione di qualsiasi azione cautelativa, ingiuntiva ed esecutiva. Per quanto riguarda questa disciplina, rimessa a regolamenti di delegificazione, si sottolinea che la legge «non può spogliarsi della funzione regolativa affidandola a fonti subordinate, neppure predeterminandone i principî che orientino l’esercizio della potestà regolamentare per circoscriverne la discrezionalità […], con la conseguente illegittimità costituzionale della norma che prevede l’applicabilità degli emanandi regolamenti anche alle Regioni».
Per altro verso, la norma reca disposizioni direttive per le emanande norme secondarie, stabilendo che: a) esse possono riguardare anche periodi d’imposta precedenti; b) non devono in ogni caso intendersi come franchigia, nel senso che, per debiti di maggior ammontare rispetto agli importi fissati come modesti, l’importo modesto non può essere previsto come riduzione del debito o del credito (ultima parte del secondo comma); c) gli importi vanno arrotondati all’unità euro (quarto comma, prima parte); d) in sede di prima applicazione dei decreti, l’importo minimo non può essere inferiore a 12 euro; e) non possono ricomprendersi tra le somme considerate di modesto ammontare i corrispettivi per servizi resi dalle pubbliche amministrazioni a pagamento (terzo comma). Ad avviso della Corte, «la disciplina positiva introdotta deve essere intesa non soltanto come complesso di direttive per la redazione della normativa secondaria, che riguarderà la sola organizzazione statale, ma anche come nucleo di principî fondamentali cui deve ispirarsi l’esercizio della legislazione concorrente delle Regioni». Per quanto il carattere della «modestia» del credito debba essere stabilito caso per caso – e questo può essere oggetto d’intervento regolamentare per lo Stato e di legislazione concorrente per le Regioni – la seconda parte dell’art. 25 pone regole di cui, pur nell’applicabilità a quanto sarà via via considerato «somma di modesto ammontare», non si può non riconoscere il carattere di legislazione di principio.
Dalla così ricostruita compenetrazione di principî e norme di dettaglio, la Corte deduce la necessità di dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 25, «nella parte in cui prevede che, con uno o più decreti, il Ministro dell’economia e delle finanze adotti, ai sensi dell’art. 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, disposizioni relative alla disciplina del pagamento e della riscossione di crediti di modesto ammontare e di qualsiasi natura, anche tributaria, applicabili alle Regioni, valendo tuttavia le disposizioni direttive positivamente dettate, come nucleo di principî fondamentali cui deve ispirarsi l’esercizio della legislazione concorrente delle Regioni».
Dalla giurisprudenza costituzionale, emerge una frequente compenetrazione del titolo competenziale inerente al coordinamento della finanza pubblica con altri. In particolare, nella sentenza n. 35 viene in rilievo il collegamento con la competenza relativa al «coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale» (art. 117, secondo comma, lettera r). Oggetto del giudizio della Corte è l’art. 28 della legge 27 novembre 2002, n. 289, che disciplina l’attività di acquisizione, da parte del Ministero dell’economia, delle informazioni concernenti la gestione finanziaria delle amministrazioni pubbliche, mirando in tal modo ad assicurare al Ministero gli strumenti conoscitivi necessari per seguire le complessive dinamiche della finanza pubblica, così da facilitare la verifica del rispetto degli obblighi derivanti, in via diretta (art. 104 TCE) o mediata (alla stregua del cosiddetto «Patto di stabilità interno»), dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea (commi 1-4). Il medesimo articolo, ai commi 5 e 6, abilita lo Stato, con decreti ministeriali, a determinare le caratteristiche uniformi nella rappresentazione dei dati contabili delle amministrazioni pubbliche, nonché le modalità di invio dei bilanci da parte degli enti locali alla competente sezione di controllo della Corte dei conti.
I primi quattro commi dell’articolo impugnato sono ritenuti espressione della competenza legislativa concorrente in tema di «coordinamento della finanza pubblica»; materia che, «come [la] Corte ha avuto modo di chiarire (sentenza n. 36 del 2004), legittima l’imposizione di vincoli agli enti locali quando lo rendano necessario ragioni di coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali (comprensivi, dunque, della cosiddetta “finanza pubblica allargata”), a loro volta condizionati dagli obblighi comunitari». I poteri di determinazione, rispettivamente, della cosiddetta «codificazione» dei dati contabili e delle modalità di invio da parte degli enti locali dei propri bilanci alla Corte dei conti sono, in tal senso, pienamente partecipi della finalità di coordinamento e insieme di regolazione tecnica, rilevazione dati e controllo, che connotano la legislazione in tema di coordinamento della finanza pubblica.
In ordine al denunciato carattere puntuale della disciplina statale, la Corte ribadisce quanto affermato nella sentenza n. 376 del 2003, onde precisare che «il coordinamento finanziario “può richiedere, per la sua stessa natura, anche l’esercizio di poteri di ordine amministrativo, di regolazione tecnica, di rilevazione di dati e di controllo”, e che il carattere “finalistico” dell’azione di coordinamento postula che “a livello centrale si possano collocare non solo la determinazione delle norme fondamentali che reggono la materia, ma altresì i poteri puntuali eventualmente necessari perché la finalità di coordinamento”, per sua natura eccedente le possibilità di intervento dei livelli territoriali sub-statali, “possa essere concretamente realizzata”».
Con specifico riguardo ai commi 5 e 6 (relativi, rispettivamente, alla predisposizione di modalità uniformi di codificazione di dati di rilievo contabile e di trasmissione dei bilanci degli enti locali alla competente sezione della Corte dei conti), viene individuato un puntuale titolo di competenza legislativa esclusiva dello Stato nel coordinamento statistico ed informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale: la predisposizione di modalità uniformi di rappresentazione (comma 5) e di trasmissione (comma 6) di dati contabili (incassi e pagamenti) ha la funzione di rendere omogenei e, quindi, di aggregare questi dati, «per poter così predisporre la base informativa necessaria al controllo delle dinamiche reali della finanza pubblica».
Ora, versandosi in un ambito riservato alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, deve dichiararsi non fondata la denunciata violazione del riparto costituzionale della potestà regolamentare, per avere le disposizioni impugnate affidato a decreti ministeriali la concreta predisposizione delle modalità di «codificazione»: «in una materia rimessa alla propria competenza legislativa esclusiva, lo Stato ben può, infatti, esercitare, nelle forme che ritenga più opportune, la potestà regolamentare».
«Neppure – prosegue la sentenza – si può sostenere che, pur in una materia ascritta alla competenza legislativa esclusiva, il rispetto del principio di leale collaborazione imporrebbe allo Stato di garantire alle Regioni, quando esso regoli attività di queste ultime, una forma di codeterminazione paritaria del contenuto dell’atto». Peraltro, la previsione, nel comma 5, di un parere della Conferenza unificata «appare del tutto idonea ad assicurare il necessario coinvolgimento delle Regioni e degli enti locali, tanto più in considerazione della natura eminentemente tecnica della disciplina di coordinamento statale».
L’autonomia finanziaria degli enti infrastatuali conosce limitazioni in relazione agli interessi che sono in gioco in determinate discipline. Ciò è particolarmente evidente nella sentenza n. 36, concernente alcune disposizioni in materia di sanità pubblica.
Il comma 4 dell’art. 52 della legge n. 289 del 2002, il quale prevede un adeguamento del finanziamento del servizio sanitario nazionale per gli anni 2003, 2004, 2005, cui le Regioni possono accedere subordinatamente a specifici adempimenti e condizioni, non risulta – ad avviso della Corte –lesivo dell’autonomia regionale, né determina, in violazione dell’art. 119, comma quarto, della Costituzione, uno «squilibrio strutturale» tra risorse finanziarie ed obbligazioni di spesa delle Regioni, incompatibile con il principio dell’integrale finanziamento delle funzioni pubbliche attribuite alle Regioni.
Al riguardo, la Corte ricorda che già in precedenti accordi tra Governo e Regioni e province autonome – finalizzati a definire «un quadro stabile di evoluzione delle risorse pubbliche destinate al finanziamento del servizio sanitario nazionale che, tenendo conto degli impegni assunti con il patto di stabilità e crescita, consenta di migliorarne l’efficienza razionalizzando i costi»– lo Stato si era espressamente impegnato ad integrare, nei termini fissati nello stesso accordo, il finanziamento del servizio stesso, condizionatamente all’adozione di una serie di adempimenti da parte delle Regioni, al fine di conseguire la migliore efficienza e qualità del servizio sanitario, il cui mancato rispetto comportava per la Regione inadempiente il ripristino del livello di finanziamento stabilito nel precedente accordo.
La disposizione in esame va dunque inserita in questo articolato quadro normativo, dal quale emerge costante il carattere «incentivante» del finanziamento statale ai fini del conseguimento degli obiettivi di programmazione sanitaria e del connesso miglioramento del livello di assistenza. Pertanto, gli ulteriori adempimenti richiesti alle Regioni costituiscono condizione necessaria per «l’accesso all’adeguamento del finanziamento del S.s.n.», in conformità al consolidato schema – perdurando l’attuale regime transitorio di applicazione dell’art. 119 della Costituzione (cfr. sentenza n. 36 del 2004) – di regolazione finanziaria tra Stato e Regioni nel settore sanitario.
Altresì non fondata risulta la censura concerne concernente l’art. 52, comma 4, lettera c), della legge n. 289 del 2002, nella parte in cui subordina l’accesso delle Regioni al finanziamento integrativo alla condizione che siano eliminate o significativamente contenute le liste di attesa, mediante lo svolgimento, presso gli ospedali pubblici, degli accertamenti diagnostici in maniera continuativa, fino alla copertura del servizio per i sette giorni della settimana.
Rileva la Corte che la previsione della legge statale concernente «adeguate iniziative» regionali per favorire lo svolgimento continuativo degli accertamenti diagnostici non impone obblighi lesivi della competenza legislativa regionale, ma costituisce la prefissione di un principio in termini di risultato, che lascia alla discrezionalità delle Regioni la scelta delle misure organizzative più appropriate per la realizzazione degli scopi indicati. È infatti evidente che l’individuazione delle prestazioni essenziali, cui hanno diritto gli assistiti del servizio sanitario nazionale, rientra tra i compiti specifici del legislatore e della programmazione statali, anche per rendere confrontabili, nell’ambito dell’unitarietà del servizio sanitario, le prestazioni rese (sentenze numeri 507 e 63 del 2000).
Né la norma impugnata vincola l’autonomia regionale nel settore dell’organizzazione sanitaria, tenendo, a tale scopo, presenti (cfr. sentenza n. 88 del 2003) gli accordi in materia, sulle modalità di accesso alle prestazioni diagnostiche e indirizzi applicativi sulle liste di attesa, iniziative dirette al conseguimento di obiettivi, senza maggiori oneri per lo Stato e neppure per le Regioni, dovendosi fare fronte a tali spese con il recupero di risorse inutilizzate e conseguenti forme di risparmio.
La Corte non ritiene inoltre che l’art. 52, comma 4, lettera d) della legge n. 289 del 2002 – nella parte in cui subordina l’accesso delle Regioni al finanziamento integrativo del servizio sanitario nazionale alla condizione che esse adottino provvedimenti diretti a prevedere la decadenza automatica dei direttori generali nell’ipotesi di mancato raggiungimento dell’equilibrio economico delle aziende sanitarie ed ospedaliere – sia lesiva dell’autonomia legislativa e finanziaria regionale.
Rileva, in proposito, la Corte che la norma impugnata non può essere considerata, per il suo tenore letterale, come impositiva di un obbligo cogente, che elimini in materia ogni spazio di autonomia legislativa ed organizzativa regionale, spettando, comunque, al legislatore regionale la competenza a determinare i presupposti sostanziali e le forme procedimentali per infliggere la predetta sanzione ai direttori generali. Pertanto, la norma in esame deve essere letta come recante un principio che «sollecita» le Regioni a configurare, per le ipotesi di mancato conseguimento dell’equilibrio economico delle aziende sanitarie, un’apposita disciplina relativa all’irrogazione della misura della decadenza dei rispettivi direttori generali.
Non fondata risulta pure la censura avente ad oggetto il medesimo art. 52, comma 19, della legge n. 289 del 2002, nella parte in cui limita la possibilità per le imprese farmaceutiche di contribuire ad organizzare, mediante finanziamenti anche indiretti, convegni, congressi o riunioni, nella misura massima del 50% di quelli notificati al Ministro della salute, esonerando da tale limitazione solo gli eventi espressamente autorizzati dalla Commissione nazionale per la formazione continua.
La norma in esame, sottolinea la Corte, contiene un principio di razionalizzazione e contenimento della spesa farmaceutica a carico del servizio sanitario nazionale, dato il concreto rischio che i predetti oneri organizzativi delle imprese farmaceutiche possano trasferirsi sui prezzi anche dei medicinali forniti dalle stesse al servizio sanitario, con conseguente aumento dei costi da esso sopportati. In ogni caso, le eventuali limitazioni alle iniziative «promozionali» delle imprese farmaceutiche non possono pregiudicare in alcun modo l’autonomia organizzativa della Regione.
 
7.2. La disciplina dei tributi
In ordine alla disciplina dei tributi, si segnalano due decisioni, entrambe relative a disposizioni legislative regionali o provinciali.
La sentenza n. 431, nell’ambito del giudizio sulla legge della Provincia autonoma di Bolzano 19 ottobre 2004, n. 7, recante disposizioni per la valorizzazione nella Provincia del servizio civile, la Corte respinge la doglianza avverso l’art. 6, comma 7, secondo cui la Giunta provinciale determina le esenzioni o riduzioni sui tributi locali a favore dei volontari e degli enti di servizio civile. La censura è stata avanzata dal Governo sul presupposto della genericità di tali benefici fiscali, che non indicherebbe se si tratti di tributi propri o attribuiti dallo Stato. La Corte replica che la disposizione si riferisce solo a quelli che possono definirsi a pieno titolo «propri» delle Province o degli enti locali, nel senso che essi sono frutto di una loro autonoma potestà impositiva, e quindi possono essere disciplinati da leggi o regolamenti della Provincia, nel rispetto solo dei principî di coordinamento.
Nella sentenza n. 455, la Corte dichiara la illegittimità costituzionale dell’art. 10, comma 1, e dell’art. 11 della legge della Regione Liguria 4 febbraio 2005, n. 3, dove si prevedono casi di esenzione dalla tassa automobilistica, non contemplati dalla norma statale, per i veicoli di particolare interesse storico o collezionistico, e si dispone che per i veicoli adibiti al trasporto merci con massa complessiva sino a 6 tonnellate non è dovuta la maggiorazione della tassa automobilistica in relazione alla massa rimorchiabile.
Al riguardo, la Corte ricorda che, in tema di ripartizione delle competenze legislative concernenti la cosiddetta tassa automobilistica regionale, il legislatore statale, pur attribuendo alle Regioni ad autonomia ordinaria il gettito della tassa ed un limitato potere di variazione dell’importo originariamente stabilito, oltre che l’attività amministrativa concernente la riscossione, i rimborsi, il recupero della tassa stessa e l’applicazione delle sanzioni, non ha tuttavia fino ad ora sostanzialmente mutato gli altri elementi costitutivi del tributo. Quindi, la tassa automobilistica non può oggi definirsi come un «tributo proprio della Regione» ai sensi dell’art. 119, secondo comma, della Costituzione, dal momento che la tassa stessa è stata «attribuita» alle Regioni, ma non rientra nella asserita competenza legislativa residuale delle stesse ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost. Si deve quindi confermare il principio per cui «allo stato della vigente legislazione, la disciplina delle tasse automobilistiche rientra nella competenza esclusiva dello Stato in materia di tributi erariali», ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione (sentenze numeri 311, 297 e 296 del 2003).
Sulla base di tale principio, conclude la Corte, la norme regionali impugnate sono illegittime, perché intervengono su aspetti della disciplina sostanziale del tributo riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.
 
7.3. Gli interventi finanziari diretti dello Stato
Uno dei temi sui quali la Corte costituzionale è stata più frequentemente chiamata ad intervenire è quello relativo ai finanziamenti diretti da parte dello Stato a favore di enti infrastatuali o di privati. Le relative decisioni sono già state esaminate in relazione alla ripartizione delle competenze normative, ché è sulla base del titolo competenziale adducibile che tali finanziamenti possono dirsi legittimi o meno.
In due occasioni, peraltro, più che sulla precisa individuazione della competenza materiale, la Corte – una volta constatata la competenza regionale in merito alla disciplina dettata – si è concentrata essenzialmente sul tipo di finanziamento previsto dalle disposizioni legislative statali, onde escludere la loro legittimità.
Con la sentenza n. 77, si accolgono le doglianze della regione ricorrente avverso l’art. 4, commi 209, 210 e 211, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, che reca incentivi agli investimenti delle imprese marittime per il rinnovo e l’ammodernamento della flotta nonché per la costruzione e trasformazione di unità navali.
Motiva la Corte che è stato più volte affermato che – dopo la riforma costituzionale del 2001 ed in attesa della sua completa attuazione in tema di autonomia finanziaria delle Regioni – l’art. 119 della Costituzione pone, sin d’ora, al legislatore statale precisi limiti in tema di finanziamenti in materie di competenza legislativa regionale, residuale o concorrente.
In primo luogo, la legge statale non può – in tali materie – prevedere nuovi finanziamenti a destinazione vincolata, che possono divenire strumenti indiretti, ma pervasivi, di ingerenza dello Stato nell’esercizio delle funzioni delle Regioni e degli enti locali, nonché di sovrapposizione di politiche e di indirizzi governati centralmente a quelli legittimamente decisi dalle Regioni negli ambiti materiali di propria competenza.
In secondo luogo – poiché le funzioni attribuite alle Regioni comprendono la possibilità di erogazione di contributi finanziari a soggetti privati, dal momento che in numerose materie di competenza regionale le politiche pubbliche consistono appunto nella determinazione di incentivi economici ai soggetti in esse operanti e nella disciplina delle modalità per loro erogazione – il tipo di ripartizione delle materie fra Stato e Regioni di cui all’art. 117 Cost. vieta comunque che in una materia di competenza legislativa regionale, in linea generale, si prevedano interventi finanziari statali seppur destinati a soggetti privati, poiché ciò equivarrebbe a riconoscere allo Stato potestà legislative e amministrative sganciate dal sistema costituzionale di riparto delle rispettive competenze.
I finanziamenti in esame non concernono materie rientranti nella competenza esclusiva dello Stato.
Non si può invocare, al riguardo, la giurisprudenza di questa Corte sulla portata della «tutela della concorrenza», attribuita alla competenza esclusiva dello Stato dall’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione (sentenze numeri 14 e 272 del 2004).
Questa norma, infatti, «evidenzia l’intendimento del legislatore costituzionale del 2001 di unificare in capo allo Stato strumenti di politica economica che attengono allo sviluppo dell’intero Paese; strumenti tutti finalizzati ad equilibrare il volume di risorse finanziarie inserite nel circuito economico. L’intervento statale si giustifica, dunque, per la sua rilevanza macroeconomica: solo in tale quadro è mantenuta allo Stato la facoltà di adottare sia specifiche misure di rilevante entità, sia regimi di aiuto ammessi dall’ordinamento comunitario (fra i quali gli aiuti de minimis), purché siano in ogni caso idonei ad incidere sull’equilibrio economico generale» (sentenza n. 14 del 2004).
L’esame delle norme impugnate dimostra invece che i finanziamenti in questione sono inidonei «ad incidere sull’equilibrio economico generale», essendo privi tanto del requisito soggettivo dell’«accessibilità a tutti gli operatori», quanto di quello oggettivo dell’«impatto complessivo».
Il primo requisito manca per la limitatezza dell’ambito dei soggetti beneficiari, circoscritto alle sole imprese che abbiano effettuato investimenti di un certo tipo nell’anno 2003; il secondo per l’esiguità dei mezzi economici impegnati nel quadro della complessiva manovra disposta con la legge finanziaria del 2004.
La manovra mira piuttosto ad incentivare, con misure di carattere straordinario e transitorio, non tutto il sistema armatoriale ma taluni investimenti effettuati dalle imprese marittime, per il rinnovo e l’ammodernamento della flotta, nonché per la costruzione e la trasformazione delle unità navali.
Le norme in esame non possono neppure essere ricondotte alla materia della «tutela dell’ambiente», evocata dall’Avvocatura nel senso che gli interventi in esame sarebbero giustificati (anche) dalla finalità di promuovere la costruzione di navi cisterna a basso impatto ambientale.
Infatti la «tutela dell’ambiente» è estranea (o, comunque, assolutamente marginale) rispetto alle specifiche finalità dei finanziamenti in esame, che quindi non possono, sotto tale profilo, essere ricondotti ad una materia di competenza statale.
Pertanto le norme impugnate – non essendo riconducibili alle materie attribuite dall’art. 117, secondo comma, della Costituzione alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, ed essendo come tali lesive della sfera di competenza costituzionalmente garantita alle Regioni – devono essere dichiarate costituzionalmente illegittime.
Nella sentenza n. 107, si dichiaral’illegittimità costituzionale, in riferimento all’art. 117 della Costituzione, dell’art. 4, commi 215, 216 e 217, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, in quanto non è dato rinvenire un titolo di attribuzione della materia alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.
La Corte, dopo aver descritto il contenuto delle norme – nelle quali a) è prevista l’istituzione di un apposito fondo (con dotazione di 1 milione di euro per l’anno 2004, 1 milione di euro per l’anno 2005 e 1 milione di euro per l’anno 2006), al fine di sostenere le attività dei distretti industriali della nautica da diporto; b) si stabilisce che il fondo è «destinato all’assegnazione di contributi, per l’abbattimento degli oneri concessori, a favore delle imprese o dei consorzi di imprese operanti nei distretti industriali dedicati alla nautica da diporto, che insistono in aree del demanio fluviale e che ospitano in approdo almeno cinquecento posti barca»; c) è rimessa ad un decreto del Ministro dell’economia e delle finanze la individuazione delle aree di cui innanzi e la definizione delle modalità di assegnazione dei contributi – respinge la tesi dell’Avvocatura dello Stato, secondo la quale le disposizioni impugnate prevedrebbero un abbattimento dei canoni di concessione demaniale e sarebbero, pertanto, di natura «parafiscale», per l’evidente incompatibilità tra l’asserita natura e la peculiarità e selettività dei requisiti richiesti ai potenziali beneficiari delle c.d. misure agevolative.
In definitiva, la peculiarità dei requisiti e l’esiguità delle somme globalmente stanziate escludono in radice la possibilità di qualificare le disposizioni impugnate come volte a favorire la concorrenza ovvero anche di ricondurle alla facoltà, riconosciuta allo Stato dall’art. 119, comma quinto, Cost., di destinare risorse al fine di promuovere lo sviluppo economico; tanto meno è possibile sostenere che il finanziamento di «imprese operanti nei distretti industriali dedicati alla nautica da diporto, che insistono in aree del demanio fluviale e che ospitano in approdo almeno cinquecento posti barca» rientri in taluna delle materie di cui all’art. 117, comma secondo, della Costituzione.
Consegue da ciò che va dichiarata l’illegittimità costituzionale delle disposizioni impugnate.
 
7.4. Il demanio regionale
Nella sentenza n. 302, la Corte dichiara che spetta allo Stato, e per esso al Provveditorato regionale alle opere pubbliche – Magistrato alle acque di Venezia – invitare le Agenzie del demanio a non procedere al trasferimento degli immobili adibiti a casello e/o magazzino idraulico, funzionali ad assicurare il servizio di piena nella tratta del torrente Judrio che delimita il confine di Stato e nelle tratte dei fiumi Livenza e Tagliamento che delimitano il confine tra le Regioni Veneto e Friuli – Venezia Giulia. La tesi della Regione Friuli – Venezia Giulia, ricorrente – che intende attribuire alla stessa le funzioni amministrative, diverse dai «compiti nazionali» di cui all’art. 88 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, sui beni del demanio idrico restati allo Stato –, non è condivisibile alla luce del chiaro parallelismo tra titolarità del bene demaniale (e relative pertinenze) ed esercizio delle relative funzioni amministrative di gestione e cura, posto dagli articoli 1 e 2 del decreto legislativo 25 maggio 2001, n. 265.
In quest’ambito, infatti, lungi dal configurare competenze accessorie o ulteriori della ricorrente, come dalla ricorrente dedotto sulla base di una errata interpretazione dell’art. 3, comma 1, del decreto legislativo n. 265 del 2001, viene, dalla medesima norma, specificato il contenuto delle funzioni trasferite alla Regione speciale ai sensi del precedente art. 2, salvaguardando, non diversamente da quanto è avvenuto in relazione alle Regioni a statuto ordinario, l’esercizio unitario dei compiti di indirizzo e di programmazione.
 
8. I poteri sostitutivi
L’esercizio di poteri sostitutivi nei confronti degli enti territoriali minori è stato oggetto di due importanti statuizioni, l’una relativa al potere disciplinato all’art. 120, secondo comma, della Costituzione, l’altra ad una fattispecie in esso non contemplata.
Con la sentenza n. 383, la Corte decide – tra l’altro – l’impugnativa della Provincia di Trento avverso l’art. 1-sexies, comma 5, del decreto legge n. 239 del 2003, nella parte in cui prevede che «in caso di inerzia o mancata definizione dell’intesa» (che deve intervenire fra le diverse Regioni interessate ad adottare le autorizzazioni alla costruzione ed esercizio delle reti di competenza regionale allorché le relative opere ricadono nel territorio di più Regioni), «lo Stato esercita il potere sostitutivo ai sensi dell’art. 120 della Costituzione».
Contrariamente all’assunto della ricorrente, secondo cui si estenderebbe il potere sostitutivo statale al di là delle ipotesi previste dalla norma costituzionale, la Corte ritiene che il secondo comma dell’art. 120 Cost. individua una serie di situazioni che legittimano l’esercizio dei poteri sostitutivi da parte del Governo per garantire taluni interessi essenziali, situazioni entro le quali potrebbe essere ricondotta – nell’ambito di specifici contesti definiti in via legislativa – la situazione di mancato conseguimento dell’intesa fra le Regioni cui si riferisce il comma 5 dell’art. 1-sexies. La disposizione censurata non pone un obbligo generalizzato di esercizio del potere governativo e proprio attraverso l’esplicito rinvio all’art. 120 Cost., non configura una autonoma e, diversa fattispecie di potere sostitutivo, il cui esercizio in concreto dovrà comunque fondarsi su una specifica verifica della sussistenza dei presupposti sostanziali contemplati nella norma costituzionale, nonché sul rispetto delle condizioni procedimentali previste dall’art. 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3).
Nella sentenza n. 167, invece, la Corte dichiara la illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge della Regione Abruzzo 23 gennaio 2004, n. 4, che detta disposizioni sul controllo sostitutivo sugli atti degli enti locali e degli enti dipendenti dalla Regione. Al riguardo, la Corte rileva che l’art. 120, secondo comma, della Costituzione non preclude, in linea di principio, la possibilità che la legge regionale, nel disciplinare materie di propria competenza, disponga l’esercizio di poteri sostitutivi in capo ad organi regionali, in caso di inerzia o di inadempimento da parte dell’ente locale ordinariamente competente (sentenze numeri 43, 69, 70, 71, 72, 73, 112 e 173 del 2004). Tuttavia, nel prevedere ipotesi di interventi sostitutivi, la legge regionale è tenuta al rispetto di alcuni principî connessi all’esigenza di salvaguardare il valore costituzionale dell’autonomia degli enti locali. Tra tali principî emerge, in particolare, quello secondo cui l’esercizio del potere sostitutivo deve essere affidato in ogni caso ad un organo di governo della Regione o almeno deve essere attuato sulla base di una decisione di questi (cfr. sentenze numeri 112 del 2004, 313 del 2003 e 342 del 1994), in considerazione dell’incidenza dell’intervento sull’ordine delle competenze e sull’autonomia costituzionale dell’ente sostituito.
Al contrario, la Regione Abruzzo delinea una disciplina del potere sostitutivo regionale incentrata totalmente sul difensore civico regionale, e proprio sotto questo profilo non appare conforme al principio individuato, giacché la predetta figura non può considerarsi organo di governo della Regione. La Corte, infatti, ha avuto modo di argomentare (cfr. sentenze numeri 173 e n. 112 del 2004) che il difensore civico generalmente è titolare soltanto di funzioni connesse alla tutela della legalità e della regolarità dell’azione amministrativa; un soggetto essenzialmente preposto alla vigilanza sull’operato dell’amministrazione regionale, con limitati compiti di intervento sulle disfunzioni amministrative, al quale non può pertanto essere riconosciuta la qualificazione di organo di governo regionale, qualificazione necessaria per consentire, a date condizioni, il legittimo esercizio, nei confronti degli enti locali inadempienti, di poteri sostitutivi. Tali poteri, infatti, determinando spostamenti, anche se in via eccezionale, nell’ordine delle competenze ed incidendo direttamente sull’autonomia costituzionale di enti politicamente rappresentativi, postulano che alla loro adozione siano legittimati i soli organi di vertice regionali cui istituzionalmente competono le determinazioni di politica generale e delle quali essi assumono la responsabilità.
 
9. I ricorsi decisi sulla base del Titolo V nel testo anteriore alla riforma del 2001
Nel corso del 2005 si è esaurito il contenzioso tra Stato e Regioni radicatosi anteriormente alla riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione, contenzioso che ha visto l’applicazione – per le ultime volte – dei parametri costituzionali nella formulazione oggi non più vigenti.
Vengono in rilievo, in questa sede, tre decisioni, di cui due rese in giudizi di legittimità costituzionale in via principale ed una in sede di conflitto intersoggettivo.
Con la sentenza n. 33, la Corte disattende le doglianze avanzate dalla Regione Lombardia avverso la legge 10 marzo 2000, n. 62 (che detta nuove norme sulla parità scolastica e sul diritto all’istruzione), fondate sul presupposto di una pretesa invasione o di un preteso mancato coinvolgimento delle regioni. La motivazione su cui si basa il rigetto di tutte le questioni viene per tutte dedotta dalla finalità che la legge impugnata del tutto chiaramente intende perseguire.
In particolare, viene ritenuta non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 4, della legge 10 marzo 2000, n. 62, censurato in quanto detterebbe criteri irragionevolmente ristretti e incongruamente vincolanti per il riconoscimento della parità scolastica, impingendo sulla capacità di programmazione della rete scolastica delle Regioni, e non coinvolgerebbe la Conferenza Stato-Regioni nella definizione dei requisiti per il riconoscimento della parità alle scuole non statali. Al riguardo, la Corte sottolinea che la legge n. 62 del 2000 non ha tra le sue finalità quella di intervenire sul sistema di riparto di attribuzioni tra Stato e Regioni, ma unicamente quella di delineare il sistema nazionale di istruzione, anche individuando i requisiti che le scuole devono possedere per poter ottenere il riconoscimento della parità ed essere inserite nel sistema nazionale di istruzione. Pertanto, tali disposizioni costituiscono esercizio della potestà legislativa statale in materia di istruzione, in relazione al quale non può configurarsi un obbligo di concertazione con le Regioni, non essendo individuabile un fondamento costituzionale dell’obbligo di adottare procedure legislative ispirate alla leale collaborazione tra Stato e Regioni; né la disposizione censurata incide sulle funzioni delegate alle Regioni dall’art. 138, lettera b), del decreto legislativo n. 112 del 1998, in ordine alla programmazione, sul piano regionale, della rete scolastica, potendo tali funzioni – che non abilitano le Regioni ad interferire con la individuazione, da parte dello Stato, dei requisiti che le scuole debbono possedere per ottenere il riconoscimento della parità – essere esercitate dalle Regioni solo con riferimento ai soggetti che, in base alla legge statale, siano in possesso dei requisiti per essere inseriti nel sistema nazionale di istruzione.
Non fondata risulta anche la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 9 e 10, della legge 10 marzo 2000, n. 62, censurato nella parte in cui (comma 9) prevede un piano straordinario di finanziamento delle Regioni e delle Province autonome a sostegno della spesa sostenuta e documentata dalle famiglie per l’istruzione mediante l’assegnazione di borse di studio, affidando al Presidente del Consiglio dei ministri il potere di stabilire con decreto i criteri per la ripartizione di tali somme tra le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, i criteri per l’individuazione dei beneficiari e le modalità per la fruizione dei benefici e per la indicazione del loro utilizzo, e nella parte in cui (comma 10) stabilisce direttamente una delle modalità di fruizione dei benefici, disponendo che i soggetti aventi i requisiti individuati con decreto del Presidente del Consiglio, di cui al comma 9, possono fruire della borsa di studio mediante detrazione di una somma equivalente dall’imposta lorda riferita all’anno in cui la spesa è stata sostenuta, ed attribuendo alle Regioni e alle Province autonome il compito di disciplinare le modalità con cui sono annualmente comunicati al Ministero delle finanze e al Ministero del tesoro, del bilancio e della programmazione economica i dati relativi ai soggetti che intendono avvalersi della detrazione fiscale. Dalla mancata previsione di una consultazione in sede di adozione del decreto previsto dall’art. 1, comma 9, non può farsi discendere automaticamente la illegittimità della disposizione censurata, trovando comunque applicazione le disposizioni generali che quella consultazione impongono prima dell’esercizio delle funzioni di competenza dello Stato in materie di concorrente interesse delle Regioni e delle autonomie locali; né la ricorrente ha dedotto la lesione delle proprie competenze a causa della intervenuta consultazione della Conferenza unificata in luogo della Conferenza permanente, essendosi limitata ad osservare in proposito che il Governo ha ritenuto sussistente in materia anche un concorrente interesse delle autonomie locali. La disposizione censurata, inoltre, non contiene norme di dettaglio invasive delle competenze regionali, poiché, al contrario, stabilisce un principio fondamentale della materia, valido per tutte le scuole inserite nel sistema nazionale di istruzione, volto a rendere effettivo il diritto allo studio anche per gli alunni iscritti alle scuole paritarie, da essa legge disciplinate.
Nella sentenza n. 272 la Corte si occupa delle cosiddette quote-latte e del relativo prelievo supplementare, esaminando le questioni di legittimità costituzionale sollevate nei ricorsi proposti dalla regione Lombardia e dalla Sicilia (il Veneto ha rinunciato al ricorso e lo Stato ha accettato la rinuncia, pertanto è stata dichiarata l’estinzione del giudizio) su numerose disposizioni contenute nei decreti legge n. 11 del 1997, n. 411 del 1997, n. 43 del 1999 e nelle relative leggi di conversione, testi normativi che rappresentano un segmento della disciplina adottata nel tempo dal legislatore italiano per regolare il settore delle quote latte secondo quanto prevede la normativa comunitaria.
Nella sentenza si affrontano molteplici aspetti della disciplina.
La Corte ribadisce, innanzi tutto, come già chiarito in precedenti pronunce (le sentenze numeri 398 del 1998 e 304 del 1987), che la disciplina delle c.d. quote latte rientra nell’ambito della materia agricoltura e non in quella della regolazione dei mercati, dal momento che «il comparto della produzione lattiera e delle strutture produttive intese in senso lato assume un rilievo distinto ed autonomo rispetto alla regolazione dei prezzi e dei mercati, sicché il nesso strumentale tra l’agricoltura, che è l’oggetto specifico delle misure in questione, e la politica del mercato agricolo non può giustificare l’attrazione della prima nell’ambito della seconda».
In questa materia, nel vigore del vecchio Titolo V, pur sussistendo una competenza legislativa concorrente delle Regioni, nondimeno era configurabile un titolo di legittimazione dello Stato ad intervenire. In particolare, «l’intervento del legislatore statale rinveniva la propria legittimazione a livello costituzionale, nella necessità di adottare una normativa di carattere uniforme sull’intero territorio nazionale, e ciò soprattutto in vista della conformazione delle regole dell’ordinamento, nella materia oggetto dell’intervento, alla normativa comunitaria. In altri termini, la sussistenza di un interesse nazionale (categoria all’epoca, certamente rilevante agli effetti del riparto di competenza legislativa tra Stato e Regioni) rendeva costituzionalmente legittimo l’intervento della legge statale, pur nel rispetto dell’esigenza di assicurare, nelle forme e nei modi necessari o opportuni, il coinvolgimento delle singole Regioni e delle Province autonome, e giustificava nella materia in questione anche la competenza amministrativa dello Stato».
Il fine di garantire l’interesse unitario all’accertamento tempestivo sull’intero territorio nazionale della effettiva quantità di latte prodotta e commercializzata, per assicurare la corretta esecuzione del regime comunitario delle quote latte, ha giustificato – ad avviso della Corte – l’istituzione da parte dello Stato di una Commissione di garanzia con il compito di verificare la conformità alla vigente legislazione delle procedure e delle operazioni effettuate per la determinazione della quantità di latte prodotta e commercializzata nei periodi 1995-1996 e 1996-1997.
Sempre in considerazione della presenza di un interesse nazionale sotteso a verifiche necessariamente unitarie, la Corte afferma che sussiste la competenza statale in relazione agli accertamenti che investono i contratti di circolazione delle quote latte. Tale interesse giustifica altresì la previsione di controlli a posteriori volti a garantire che la produzione lattiera non superi, nel rispetto di quanto previsto dalla normativa comunitaria, il quantitativo globale garantito.
La medesima ratio giustifica sia la determinazione statale di alcuni «criteri obiettivi» per la riassegnazione ai produttori delle quote resesi disponibili, sia la scelta di escludere dall’assegnazione di quote i produttori che in precedenza hanno venduto, ovvero affittato, in tutto o in parte, la quota di propria spettanza.
Così, in attesa della riforma organica del settore, non è irragionevole ed è strettamente proporzionata allo scopo di garantire il corretto funzionamento del complessivo regime delle quote latte l’assegnazione all’AIMA di funzioni amministrative in materia di aggiornamento del bollettino 1997-1998, di riserva nazionale e di programmi volontari di abbandono. Ciò anche in considerazione della natura dichiaratamente provvisoria di tale assegnazione.
Esigenze di celere attuazione degli obblighi comunitari e la necessità di determinare l’effettivo quantitativo di produzione lattiera sono alla base anche dell’attribuzione all’AIMA del potere di rideterminare le quote a seguito della verificata non compatibilità tra la quantità di latte commercializzato e la consistenza di stalla accertata.
Allo stesso modo, non è lesiva delle attribuzioni regionali la competenza della Commissione governativa di indagine in ordine alla individuazione delle tipologie contrattuali di circolazione delle quote latte da considerarsi anomale ai fini della determinazione degli effettivi quantitativi di latte prodotto e commercializzato. Come sottolinea la Corte, infatti, «la norma incide indirettamente su istituiti di diritto privato la cui regolamentazione spetta al legislatore statale in considerazione della necessità di garantire un trattamento uniforme sull’intero territorio nazionale».
Funzionale ad una efficace operatività del prelievo supplementare sul latte, nonché in generale ad una applicazione corretta della normativa comunitaria sull’intero territorio nazionale, è poi l’attribuzione all’AIMA delle funzioni di accertamento ed aggiornamento dei dati anche in relazione a campagne lattiere già concluse.
In relazione, poi, alla compensazione, vale a dire alla possibilità, consentita a ciascuno Stato membro dalla normativa comunitaria, di compensare i quantitativi di latte assegnati e non utilizzati da taluni produttori per ridurre o eliminare le sanzioni a carico di produttori che, al contrario, hanno prodotto latte in misura eccedente la quota agli stessi concessa, la Corte ribadisce, come già affermato nella sentenza n. 398 del 1998, la piena legittimità costituzionale della scelta compiuta dal legislatore statale «di introdurre il sistema di compensazione nazionale, in ragione di adeguare la normativa italiana alle determinazioni comunitarie, e di prevedere un meccanismo operativo che, per l’infrazionabilità dell’interesse sotteso, operi necessariamente sull’intero territorio nazionale».
La Corte sottolinea inoltre che la previsione, successivamente introdotta dalla legge di conversione, della possibilità attribuita all’AIMA di valutare comparativamente i risultati della compensazione nazionale e per APL non è lesiva delle competenze regionali, in quanto la suddetta regolamentazione per il periodo 1995-1996 prevede, all’esito della comparazione, l’applicazione del metodo nazionale o di quello provinciale a seconda di quale dei due consenta un prelievo meno oneroso per i produttori.
Per quanto attiene, invece, alla retroattività delle rettifiche della compensazione nazionale per il periodo 1995-1996, ci si rifà all’interpretazione seguita dalla Corte di giustizia europea, secondo la quale i regolamenti n. 3950/92 e n. 536/93 consentono alle autorità nazionali, successivamente alla campagna lattiera interessata, di effettuare le rettifiche necessarie a far sì «che la produzione esonerata da prelievo supplementare di uno Stato membro non superi il quantitativo globale garantito assegnato a tale Stato».
Da questa interpretazione della normativa statale censurata dalle Regioni discende anche la non fondatezza della questione sollevata in relazione all’attribuzione al Governo del potere di comunicare all’Unione europea l’esatta produzione delle annate 1995-1996 e 1996-1997 per la rettifica dei prelievi dovuti. Secondo la Corte, infatti, tale disposizione costituisce adempimento dell’obbligo comunitario di comunicare in tempi necessariamente rapidi tutte le modifiche dei dati che possano condurre ad una rettifica di tali prelievi.
In questo quadro, il potere di aggiornamento dei quantitativi individuali – attribuito in via transitoria all’AIMA – ai fini dell’esecuzione della compensazione nazionale, si giustifica, sul piano costituzionale, per l’esigenza di perseguire interessi territorialmente infrazionabili. Allo stesso modo, «rientra nella discrezionalità del legislatore nazionale determinare le concrete modalità di gestione delle funzioni assegnate all’AIMA nei limiti in cui le stesse siano strettamente funzionali al raggiungimento delle suddette finalità. Né assume rilevanza la natura retroattiva di talune previsioni, in quanto le stesse si giustificano, in ossequio alle prescrizioni comunitarie e di quanto già riconosciuto dalla Corte di giustizia, alla luce della necessità di adeguare i quantitativi individuali e il sistema di compensazione alle risultanze delle verifiche svolte dagli organi a ciò preposti».
Ancora, secondo la Corte, «non è irragionevole la scelta del legislatore statale, a garanzia dell’interesse nazionale, di prevedere, con norme proporzionate allo scopo, termini brevi di definizione dei ricorsi amministrativi proposti dai produttori, in considerazione della necessità di definire in tempi rapidi i procedimenti pendenti al fine di dare celere attuazione agli obblighi imposti sul piano comunitario, né, nel caso di specie, sarebbe possibile stabilire quale altro termine potrebbe essere considerato congruo, senza invadere sfere riservate alla discrezionalità legislativa dello Stato. Ne consegue che immune da censure è la connessa previsione della responsabilità civile, penale e amministrativa degli autori del ritardo o dell’omissione, poiché tale previsione costituisce la conseguenza, sul piano sanzionatorio, della mancata osservanza di termini non irragionevoli imposti dal legislatore statale e rappresenta espressione di principî generali che la norma impugnata si limita soltanto ad enunciare formalmente».
Analogamente non irragionevole risulta la previsione di un potere sostitutivo conferito al Presidente del Consiglio dei ministri, che agisce su proposta del Ministro per le politiche agricole e previa deliberazione del Consiglio dei ministri, in caso di inadempienza nel rispetto dei termini relativi alla decisione dei ricorsi. Infatti, tale potere si fonda sull’esigenza di assicurare il rispetto di un termine da considerare congruo, nonché strettamente necessario a garantire l’interesse nazionale ad una celere definizione dei procedimenti in esame.
Sempre per quanto riguarda le operazioni di riesame, la Corte ritiene non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata sull’art. 1, comma 2, del decreto legge n. 43 del 1999, che, nel testo risultante dalla relativa legge di conversione, dispone che l’AIMA recepisca le correzioni degli errori effettuati nelle operazioni di riesame, motivatamente segnalati dalle Regioni e dalle Province autonome, correzioni da queste effettuate, entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto, sulla base delle tipologie individuate nella relazione finale della Commissione di garanzia quote latte. Secondo la Corte, infatti, «in considerazione dell’esigenza di garantire un trattamento uniforme sull’intero territorio nazionale, deve ritenersi che le disposizioni in esame non determinino alcun vulnus alle competenze regionali. L’AIMA, infatti, si limita a «recepire» le correzioni degli errori intervenuti nelle operazioni di riesame, senza sovrapporre proprie autonome valutazioni a quelle regionali, effettuate «sulla base delle tipologie individuate nella relazione finale della Commissione di garanzia quote latte». È inoltre congruo il termine di trenta giorni per la segnalazione imposta dalla norma, considerata l’urgenza, ancora una volta prescritta per ragioni connesse ad una celere attuazione della normativa comunitaria, di definire in tempi rapidi i procedimenti di riesame». Non fondata è stata ritenuta anche la censura relativa al comma 14 del medesimo articolo 1 del decreto legge n. 43 del 1999, secondo il quale ogni questione relativa alle operazioni di riesame, non risolta ai sensi del comma 2, dovrà essere definita, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto, con provvedimenti del Ministro per le politiche agricole, adottati d’intesa con la Conferenza permanente. Secondo la Corte, «la suddetta disposizione non comporta alcuna compromissione di prerogative regionali, attesa, da un lato, la natura “residuale” del precetto in essa contenuto, dall’altro, la garanzia del coinvolgimento delle Regioni attraverso la previsione della necessità che i decreti ministeriali siano adottati d’intesa con la Conferenza permanente».
Ad altro proposito, la Corte ritiene non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 13, del decreto legge n. 43 del 1999, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 118 del 1999, secondo il quale le decisioni amministrative o giurisdizionali concernenti i ricorsi in materia, notificate oltre il trentesimo giorno precedente la scadenza del termine fissato per l’effettuazione delle compensazioni previste dallo stesso decreto legge, non producano effetti sui risultati delle compensazioni, che restano fermi nei confronti dei produttori estranei ai relativi procedimenti,prevedendo altresì che al produttore, il ricorso sia stato accolto, il prelievo versato per la parte non dovuta. Secondo la Corte, infatti, «la ricorrente muove da un erroneo presupposto interpretativo, ritenendo che la norma in esame persegua la finalità di limitare l’efficacia dei provvedimenti giurisdizionali e amministrativi emanati su ricorsi di associazioni di categoria. Invero, la disposizione in esame, stabilendo che tali provvedimenti non producono effetti nei confronti “dei produttori estranei ai procedimenti” nei quali tali provvedimenti sono stati emessi, intende escludere la possibilità che la pubblica amministrazione estenda gli effetti del giudicato o della decisione amministrativa anche ad altri eventuali soggetti non ricorrenti».
Relativamente al c.d. ripristino di liquidità, la Corte dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, del decreto legge n. 411 del 1997, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 5 del 1998. In effetti, «il legislatore statale ha previsto – nell’esercizio della sua discrezionalità e al fine di garantire un trattamento uniforme sull’intero territorio nazionale connesso alla introduzione di misure unitarie di stabilizzazione del sistema in una fase transitoria di accertamento – il c.d. “ripristino di liquidità”, limitando gli effetti della disposizione […] soltanto agli anni 1996-1997. La ratio è quella di assicurare la restituzione delle somme prelevate per l’anno in corso al momento dell’entrata in vigore del decreto legge, rinviando all’esito degli accertamenti della produzione lattiera la definizione dei procedimenti di dare e avere per gli anni 1995-1996. La scelta legislativa non è irragionevole garantendo un equo contemperamento degli interessi in gioco: in una situazione di incertezza derivante dalla esistenza di una procedura di accertamento in corso per gli anni 1995-1996 e 1996-1997, che potrebbe, in tesi, condurre a mantenere integralmente fermo il pagamento del prelievo supplementare già effettuato, ai produttori è “garantita” la restituzione delle somme riferite ad uno soltanto dei bienni presi in considerazione dalla legge».
Parimenti, secondo la Corte, «rientra nella discrezionalità del legislatore statale limitare l’obbligo di restituzione in capo agli acquirenti dell’importo trattenuto a titolo di prelievo supplementare limitatamente al periodo 1997-1998 e soltanto in riferimento ad una parte delle quote A e B. La scelta è il frutto di un equo contemperamento degli interessi in gioco, in attesa della definizione della compensazione nazionale».
Secondo la Corte, poi, non incide sulla potestà programmatoria delle Regioni la norma che prevede che la validità delle garanzie fideiussorie, surrogatorie del prelievo, sia, a richiesta, prorogata sino al 31 maggio 1998, in quanto tale proroga non è automatica, bensì è subordinata alla presentazione di una «richiesta» da parte del produttore: il contenuto precettivo della disposizione impugnata non potrebbe, pertanto, incidere sui calcoli economici dei produttori stessi e dunque sulla potestà programmatoria delle Regioni.
Per quanto attiene al regime delle quote latte, la Corte sottolinea che «la competenza relativa all’affitto e all’acquisto di quote latte appartiene allo Stato, investendo direttamente o indirettamente istituti di diritto privato. Spetta, inoltre, allo Stato stabilire l’incidenza temporale della disposizione in esame, in quanto essa si risolve nella valutazione della efficacia o inefficacia, sotto il profilo civilistico, dei contratti già conclusi». Sulla base di questo assunto viene dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 20, del decreto legge n. 43 del 1999, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 118 del 1999, il quale prevede che, con effetto dal periodo 1996-1997, il termine per la stipula dei contratti di affitto e vendita di quota senza trasferimento di azienda sia fissato al 31 dicembre di ciascun anno, fatti salvi gli accertamenti eseguiti ai sensi del decreto legge n. 411 del 1997 e che per il periodo 1996-1997 tali atti abbiano effetto su concorde volontà delle parti, comunicata all’AIMA.
Peraltro, osserva ancora la Corte, non può ritenersi che «la norma si ponga “in contrasto” con quanto statuito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 398 del 1998, in quanto la norma oggetto del presente scrutinio di costituzionalità, si inserisce in un contesto normativo parzialmente mutato, in cui gran parte delle funzioni relative agli adempimenti dello Stato nei confronti dell’Unione europea nel settore lattiero caseario sono state affidate, ancorché in via transitoria, all’AIMA. A ciò si aggiunga che tale norma fa comunque salvi gli accertamenti della produzione lattiera già eseguiti ai sensi del decreto legge n. 411 del 1997. Deve, pertanto, escludersi la necessità di un coinvolgimento delle Regioni, dovendosi ritenere legittima la previsione ex novo del termine del 31 dicembre indicato dal legislatore nazionale nell’esercizio non irragionevole della propria discrezionalità».
Finalmente, si dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 01, comma 2, del decreto legge n. 11 del 1997, nel testo introdotto dalla legge di conversione n. 81 del 1997, il quale prevede che al Ministero delle risorse agricole, alimentari e forestali rimangono assegnate le funzioni di indirizzo e coordinamento, nonché le azioni sostitutive nel caso di eventuale inadempienza delle Regioni e delle Province autonome. Secondo la Corte tale l’articolo non rispetta i puntuali requisiti di forma cui il potere di indirizzo e coordinamento è soggetto. Infatti, la giurisprudenza costituzionale è costante nel ritenere necessario che tale potere trovi svolgimento attraverso atti collegiali del Governo e cioè attraverso una deliberazione del Consiglio dei Ministri. Da qui la illegittimità dell’articolo impugnato nella parte in cui attribuisce tale potere al singolo Ministro e non al Consiglio dei Ministri.
Anche per quanto riguarda il potere sostitutivo, la Corte afferma che mancano quelle garanzie sostanziali e procedurali da cui deve essere assistita ogni forma di controllo sostitutivo. In particolare, la disposizione censurata viene dichiarata non conforme ai requisiti costituzionali nella parte in cui, individuando l’organo competente in un singolo Ministro, non prevede la deliberazione del Consiglio dei Ministri.
Strettamente connesso alla sentenza n. 272 è il rigetto – con la sentenza n. 324 – del ricorso per conflitto proposto dalla Regione Lombardia avverso il regolamento del Ministro delle politiche agricole 21 maggio 1999, n. 159, concernente le competenze dell’AIMA in ordine alla determinazione dei quantitativi individuali e delle produzioni commercializzate, in riferimento a campagne lattiere già concluse o in via di esaurimento, con l’assegnazione in via retroattiva di quantitativi, destinata a costituire l’unico presupposto per l’effettuazione delle operazioni di compensazione e di determinazione del prelievo supplementare. Tale disposizione viene impugnata perché non sarebbe stato preceduta da una valida intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni e sarebbe inoltre lesiva delle competenze regionali in materia di agricoltura. Al riguardo, la Corte, dopo aver constatato che dagli atti depositati dalla Presidenza del Consiglio dei ministri risulta confermato che nella seduta del 22 aprile 1999 è stata raggiunta in sede di Conferenza permanente l’intesa tra Stato, Regioni e Province autonome in merito allo schema di decreto presentato dal Ministro per le politiche agricole, sottolinea che già in occasione dell’esame del decreto legge n. 43 del 1999, oggetto di giudizio di costituzionalità in via principale, è stato chiarito che le funzioni attribuite all’AIMA, «dal punto di vista costituzionale» trovano un idoneo presupposto giustificativo nella necessità, non solo di dare puntuale e corretta applicazione in via amministrativa agli obblighi comunitari, ma anche di garantire, per esigenze unitarie, una attuazione uniforme della normativa comunitaria in tutto il territorio nazionale in settori nevralgici per il corretto funzionamento del complessivo regime delle quote latte. Tale scelta inoltre appare non irragionevole e strettamente proporzionata allo scopo perseguito, alla luce, in particolare, della natura dichiaratamente provvisoria della norma in esame. Pertanto, le disposizioni regolamentari impugnate si limitano a specificare ed a rendere operative le competenze già provvisoriamente attribuite dal decreto legge n. 43 del 1999 ad organi statali, coordinandole con le funzioni amministrative o strumentali restate nella generale competenza regionale in materia di agricoltura.
Anche l’ulteriore censura concernente la funzione ministeriale di coordinamento, al fine di garantire l’uniforme applicazione del regolamento su tutto il territorio nazionale (art. 5, commi 2 e 3 del regolamento), viene respinta: il potere di cui si discute non va, infatti, confuso con il tradizionale potere di indirizzo e coordinamento all’epoca vigente, ma attiene al più limitato potere di assicurare la uniforme applicazione delle norme in questione, riconosciuto al Ministero d’intesa con la Regione.
 
10. Le Regioni a statuto speciale e le Province autonome
Sono state molte le decisioni che, nel 2005, hanno avuto riguardo alle Regioni a statuto speciale ed alle Province autonome di Trento e di Bolzano. In buona parte dei casi, le problematiche affrontate hanno riguardato l’applicazione del Titolo V della Parte seconda della Costituzione, in ragione della disposizione di cui all’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, ai termini del quale «sino all’adeguamento dei rispettivi statuti, le disposizioni della […] legge costituzionale si applicano anche alle Regioni a statuto speciale ed alle Province di Trento e di Bolzano per le parti in cui prevedono forme di autonomie più ampie rispetto a quelle già attribuite».
Siffatta disposizione ha veicolato, in effetti, l’applicazione alle autonomie differenziate di molti parametri costituzionali dettati con precipuo riferimento alle Regioni ordinarie (tra i vari esempi, può citarsi la sentenza n. 383, in cui si sottolinea che quanto ai poteri legislativi ed amministrativi spettanti alla Provincia autonoma di Trento, le competenze statutarie in materia di energia sono sicuramente meno ampie rispetto a quelle riconosciute in tale materia alle Regioni dall’art. 117, terzo comma, della Costituzione, per cui la Provincia di Trento ben può, sulla base dell’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, rivendicare una propria competenza legislativa concorrente nella materia della «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia» identica a quella delle Regioni ad autonomia ordinaria, e quindi anche una potestà amministrativa più ampia, in quanto fondata sui principî dell’art. 118 della Costituzione). In questa sede, ci si limiterà, dunque, a passare in rassegna le decisioni che hanno avuto ad oggetto, per l’essenziale, disposizioni ed atti impugnati per la loro non conformità con la disciplina degli statuti speciali (o delle norme di attuazione degli statuti speciali).
a) L’ambito numericamente più cospicuo di decisioni è quello riconducibile all’esercizio, da parte delle Province autonome, della competenza statutaria in materia di assistenza pubblica.
Nella sentenza n. 106, la Corte esamina le censure riferite agli articoli 1 e 6 della legge della provincia di Bolzano 3 ottobre 2003, n. 15, con i quali si prevede che, nell’ambito della competenza della Provincia di Bolzano in materia di assistenza e beneficenza pubblica, si possa procedere all’erogazione anticipata al genitore o al diverso soggetto affidatario «delle somme destinate al mantenimento del minore, che versi in condizioni di disagio economico, qualora esse non vengano corrisposte dal genitore obbligato nei termini ed alle condizioni stabilite dall’autorità giudiziaria». Contrariamente a quanto assume il ricorrente, l’intervento pubblico previsto appare riconducibile, non alla materia «ordinamento civile» di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., bensì alla nozione di «assistenza pubblica», materia certamente di competenza della Provincia autonoma di Bolzano ai sensi dell’art. 8, numero 25, dello statuto speciale di autonomia per il Trentino-Alto Adige (cfr. sentenza n. 267 del 2003).
Tale intervento, continua la Corte, non interferisce in alcun modo con il diritto al mantenimento da parte del soggetto obbligato, né con le pronunce dell’autorità giudiziaria; essa non crea alcun nuovo credito, né eroga indiscriminatamente prestazioni a favore di tutti i minori, ma solo di quelli che si trovino nelle condizioni previste dalla stessa legge.
La circostanza che la legge non preveda automaticamente la sostituzione della Provincia a colui che è obbligato al mantenimento del minore, ed anzi la considerazione che essa disciplina le condizioni particolari per beneficiare dell’anticipazione dell’assegno di mantenimento non crea alcun automatismo, ma concorre a definire un’area di intervento della «assistenza pubblica» che appare legittima alla luce della competenza legislativa esclusiva spettante alla Provincia di Bolzano in materia.
La Corte condivide, nella sentenza n. 145, le censure della Provincia autonoma di Trento avverso gli articoli 7, comma 2, e 10 della legge 9 gennaio 2004, n. 4 (Disposizioni per favorire l’accesso dei soggetti disabili agli strumenti informatici), ritenuti illegittimi perché, imponendo anche alle Province autonome di vigilare sull’attuazione, da parte dei propri uffici, delle disposizioni della stessa legge, ne presuppone la diretta operatività nei confronti della Provincia autonoma di Trento, pur riguardando materie – quelle dell’assistenza sociale, dell’ordinamento degli uffici provinciali e dell’istruzione e della formazione professionale – appartenenti per statuto alla competenza legislativa della stessa Provincia (art. 7). A sua volta, l’art. 10 contrasterebbe con lo statuto di autonomia della Provincia, prevedendo, nelle stesse materie, l’emanazione di un regolamento statale.
La Corte, dopo aver verificato che le disposizioni presuppongono necessariamente la loro diretta applicabilità alla Provincia, richiama l’art. 2, commi 1 e 4, del decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 266, che esclude in via generale l’immediata applicabilità alla Provincia autonoma della legislazione statale, sancendo solo un obbligo di adeguamento della legislazione regionale e provinciale alle condizioni e nei limiti specificati in tale norma.
Inoltre, una volta ritenuta priva di fondamento la tesi del Governo, secondo la quale la diretta applicabilità della legge alla Provincia deriverebbe dalla competenza esclusiva dello Stato in materia di «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali», la Corte esclude la sussistenza di disposizioni costituzionali che possano comportare limitazioni alla sfera di competenza legislativa già attribuita in materia alla Provincia ricorrente per effetto dello statuto di autonomia.
Pertanto, l’art. 7, comma 2, della legge n. 4 del 2004, comportando la diretta applicabilità alla Provincia delle disposizioni di tale legge, è dichiarato costituzionalmente illegittimo.
Considerazioni analoghe valgono per l’art. 10 della legge, in quanto la potestà regolamentare dello Stato non può essere esercitata riguardo a materie che appartengono alla competenza legislativa della Provincia autonoma di Trento.
Né può in contrario assumere rilevanza alcuna la previsione dell’intesa con la Conferenza unificata, sia perché tale intesa può in concreto non esserci, sia perché non può, in ogni caso, valere quale titolo attributivo di una competenza in ipotesi mancante.
Con la sentenza n. 263, la Corte accoglie il conflitto di attribuzione proposto dalla Provincia autonoma di Trento in relazione al decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali 28 febbraio 2002, n. 70, che reca disposizioni regolamentari concernenti condizioni e modalità per l’erogazione dei contributi di cui all’art. 80, comma 14, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, in materia di servizi di telefonia rivolti alle persone anziane.
Rileva la Corte che il fondo in questione, istituito nell’ambito di quello nazionale per le politiche sociali, riguarda una materia (servizi di telefonia rivolti alle persone anziane) che rientra nell’assistenza e beneficenza pubblica, per la quale la Provincia, ai sensi dell’art. 8, numero 25, dello statuto, ha competenza legislativa esclusiva.
L’art. 5, comma 2, della legge 386 del 1989 (Norme per il coordinamento della finanza della Regione Trentino-Alto Adige e delle Province autonome di Trento e di Bolzano con la riforma tributaria) stabilisce che, in materie provinciali, lo Stato con legge può istituire fondi per scopi determinati, i quali devono essere utilizzati, nell’ambito del settore definito dalla legge statale stessa, secondo normative provinciali, e quindi esclude che condizioni e modalità per l’utilizzo di detti fondi possano essere stabiliti con regolamento statale.
Appare evidente, pertanto, l’illegittimità del regolamento statale, nella parte in cui si applica alla Provincia autonoma di Trento.
Motivazioni sostanzialmente analoghe a quelle della sentenza n. 263 sono alla base dell’accoglimento, con la sentenza n. 287, del ricorso per conflitto di attribuzione proposto sempre dalla Provincia autonoma di Trento nei confronti dello Stato, in relazione al regolamento di cui al decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali 13 dicembre 2001, n. 470, concernente criteri e modalità per la concessione e l’erogazione dei finanziamenti di cui all’art. 81 della legge 23 dicembre 2000, n. 388, in materia di interventi in favore dei soggetti con handicap grave privi dell’assistenza dei familiari.
Sottolinea la Corte che la disciplina contenuta nelle disposizioni impugnate rientra, ai sensi dell’art. 8, numero 25, dello statuto speciale, nella materia dell’assistenza e beneficenza pubblica, nella quale la Provincia autonoma ha competenza legislativa esclusiva e che le norme regolamentari non concernono – come invece sostenuto dall’Avvocatura dello Stato – i livelli essenziali delle prestazioni concernenti l’assistenza e la beneficenza pubblica.
La riconduzione della disciplina in questione alla materia dell’assistenza e beneficenza pubblica implica, quindi, una diretta interferenza, da parte del regolamento impugnato, nella competenza legislativa esclusiva della Provincia autonoma in tale materia, in palese violazione del principio per cui un decreto ministeriale non può comunque disciplinare materie di competenza legislativa delle Province autonome (si vedano, fra le altre, le sentenze numeri 267 del 2003 e 371 del 2001).
In conseguenza delle esposte considerazioni, la Corte dichiara che non spetta allo Stato il potere di disciplinare con regolamento ministeriale i criteri e le modalità per la concessione e l’erogazione da parte della Provincia autonoma di Trento dei finanziamenti previsti dall’articolo 80, comma 14, della legge n. 388 del 2000, e devono, conseguentemente, annullarsi gli articoli del decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali n. 470 del 2001, nella parte in cui si applicano alla Provincia autonoma di Trento.
b) La sentenza n. 407 accoglie il ricorso del Governo avverso l’art. 4, comma 1 della legge della Provincia di Trento 17 giugno 2004, n. 6, che prevede che il personale insegnante temporaneo ed il restante personale con contratto a termine di durata non superiore ad un anno o con prestazione lavorativa non superiore al 50 per cento di quella a tempo pieno, possa, previa autorizzazione della competente struttura, svolgere «altra attività» a condizione che ciò non determini conflitto di interessi con l’amministrazione di appartenenza o sia incompatibile con il rispetto degli obblighi di lavoro. Al riguardo, la Corte ritiene che la disposizione censurata ecceda la competenza concorrente che lo statuto attribuisce alla Provincia di Trento in materia di istruzione elementare e secondaria (art. 9, numero 2), poiché rende possibile, per il predetto personale, lo svolgimento di «altra attività», senza alcuna limitazione di oggetto, laddove, invece, la legge statale consente al personale docente unicamente l’esercizio della libera professione, previa autorizzazione del dirigente scolastico (art. 508, comma 15, del d.lgs. n. 297 del 1994). Né è possibile condividere l’interpretazione riduttiva data dalla Provincia di Trento alla disposizione impugnata, nel senso che essa verrebbe riferita al solo personale docente delle scuole materne e degli istituti professionali, per i quali la Provincia di Trento gode di potestà legislativa primaria, ai sensi dell’art. 8, numeri 26 e 29 dello Statuto, poiché la norma denunciata conserva una virtualità interpretativa tale da rendersi applicabile anche ai docenti temporanei delle scuole a «carattere statale». Pertanto, si impone la declaratoria di incostituzionalità della disposizione denunciata, nella parte in cui si riferisce anche al personale insegnante temporaneo delle scuole di istruzione elementare e secondaria della Provincia di Trento a «carattere statale».
c) Con una interpretazione adeguatrice della norma impugnata, la Corte, nella sentenza n. 249, risolve la questione sollevata in via principale dalla Provincia di Trento nei confronti dell’art. 17, comma 2, lettera f), della legge 3 maggio 2004, n. 112, secondo cui il servizio pubblico generale televisivo comunque garantisce «la diffusione di trasmissioni radiofoniche e televisive in lingua tedesca e ladina per la provincia autonoma di Bolzano, in lingua ladina per la provincia autonoma di Trento».
Lamentava la ricorrente la limitazione alle sole popolazioni di lingua ladina a fronte del più ampio obbligo a carico del gestore del servizio pubblico radiotelevisivo stabilito dal decreto legislativo 16 dicembre 1993, n. 592 (Norme di attuazione dello statuto speciale della regione Trentino-Alto Adige concernenti disposizioni di tutela delle popolazioni di lingua ladina, mochena e cimbra della provincia di Trento), secondo cui (art. 3-quater, comma 1) «la società concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo, anche mediante apposite assicura tutte le necessarie misure e condizioni per la tutela delle popolazioni ladina, mochena e cimbra della provincia di Trento».
La Corte rileva che, anche nel giudizio in via principale, deve essere privilegiata fra le interpretazioni possibili di una norma quella conforme a Costituzione (sentenza n. 170 del 2001), donde le disposizioni legislative statali devono essere interpretate in modo da assicurarne la conformità con la posizione costituzionalmente garantita alle province autonome del Trentino-Alto Adige (sentenze n. 412 del 2004 e n. 228 del 2003).
Nella specie, la norma statale impugnata non presenta alcun indice testuale o sistematico che si opponga ad una lettura in linea con la garanzia della sfera di attribuzioni propria della provincia autonoma ricorrente, fondata sulle evocate disposizioni dello statuto speciale di autonomia ed in particolare sulle relative norme di attuazione in materia di doverosa tutela delle popolazioni di lingua ladina, mochena e cimbra, anche a mezzo di trasmissioni radiotelevisive (art. 3-quater, comma 1, del d. lgs. n. 592 del 1993).
Tale conclusione si giustifica in ragione, non tanto della salvezza delle competenze provinciali, espressa dall’art. 26 della stessa legge n. 112 del 2004, quanto piuttosto della naturale cedevolezza (anche nel momento interpretativo) della legge ordinaria statale rispetto sia alle disposizioni dello statuto speciale che alle relative norme di attuazione. Queste ultime infatti – essendo emanate con l’osservanza di speciali procedure – sono dotate di forza prevalente, anche per la loro valenza integrativa del precetto statutario (sentenze n. 406 e n. 341 del 2001; n. 520 del 2000; n. 213 e n. 137 del 1998).
La conseguente inidoneità dell’impugnato precetto normativo statale a menomare le specifiche garanzie delle minoranze linguistico-culturali insediate nel territorio provinciale, predisposte dalle evocate disposizioni dello statuto di autonomia e dalle relative norme di attuazione, conduce pertanto alla declaratoria di non fondatezza della questione.
d) Con riferimento alle tematiche ambientali, è da segnalare la sentenza n. 214, che dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 77, comma 4 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, sollevata dalla Provincia autonoma di Trento, in riferimento allo Statuto speciale di autonomia nonché alle «relative norme di attuazione». La disposizione censurata prevede che l’autorizzazione integrata ambientale sia rilasciata con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, «sentite le regioni interessate», senza alcun richiamo alle Province autonome. Peraltro, come rilevato dalla ricorrente, la legge n. 289 del 2002 contiene, all’art. 95, comma 2, una clausola di salvaguardia per le attribuzioni delle autonomie speciali, essendo espressamente sancito che «le disposizioni della presente legge sono applicabili nelle regioni a statuto speciale e nelle province autonome di Trento e di Bolzano compatibilmente con le norme dei rispettivi statuti».
La ricorrente, pur dichiarando di privilegiare una diversa soluzione ermeneutica, solleva la questione di legittimità costituzionale per la denegata ipotesi che la disciplina contenuta nel summenzionato art. 77, comma 4, debba intendersi nel senso di portare alla competenza statale autorizzazioni in materia ambientale che già appartengano alla competenza provinciale o di ridurre il ruolo delle determinazioni provinciali nell’ambito delle procedure di competenza statale.
Al riguardo, la Corte sottolinea che le disposizioni legislative statali devono essere interpretate in modo da assicurarne la conformità con la posizione costituzionalmente garantita alle Province autonome del Trentino-Alto Adige (sentenze numeri 406 del 2001, 170 del 2001 e 520 del 2000), rilevando anche che, in difetto di indici contrari, l’esplicita affermazione della salvezza delle competenze provinciali si risolve nell’implicita conferma della sfera di attribuzioni delle Province autonome, fondata sullo statuto speciale e sulle relative norme di attuazione (sentenza n. 228 del 2003).
Nella specie, appare agevole ricavare una interpretazione rispettosa della posizione costituzionalmente garantita alla ricorrente, in assenza di un espresso riferimento nella norma censurata alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome e in presenza della richiamata clausola di salvaguardia delle competenze delle autonomie speciali contenuta nell’art. 95, comma 2. La disposizione impugnata non può pertanto intendersi nel senso di trasferire alla competenza statale autorizzazioni in materia ambientale che già appartengano alla competenza provinciale o di ridurre il ruolo delle determinazioni provinciali nell’ambito delle procedure di competenza statale.
e) Ancora con riguardo alle Province autonome, nella sentenza n. 321 si dichiara l’incostituzionalità della legge della Provincia autonoma di Bolzano 18 dicembre 2002, n. 15 (Testo unico dell’ordinamento dei servizi antincendi e per la protezione civile), nella parte in cui attribuisce al Centro operativo provinciale il compito di dirigere e coordinare l’attività di pronto intervento, non solo «dell’amministrazione provinciale dei comuni e dei servizi antincendio e per la protezione civile», ma anche dell’amministrazione «dello Stato». A tale conclusione la Corte giunge una volta esaminata la ripartizione delle competenze legislative fra lo Stato e le Province autonome della Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol in tema di protezione civile regolata dalle norme di attuazione dello statuto introdotte con il d.P.R. n. 381 del 1974, il cui art. 33 distingue gli eventi calamitosi cui le Province possono fare fronte con l’esercizio delle proprie competenze esclusive o delegate e quelli che trascendono tali capacità e impongono l’intervento sussidiario dello Stato. In riferimento alle situazioni di quest’ultimo tipo, il commissario del Governo provvede al coordinamento degli interventi dello Stato con quelli effettuati dagli organismi delle Regioni e delle province. La legge provinciale impugnata è, quindi, in sintonia con tale quadro normativo, nella parte in cui regola situazioni di pericolo che la Provincia può fronteggiare, esercitando le sue competenze ed impiegando le risorse umane e materiali di cui dispone; essa viola, però, l’art. 87 dello statuto, che attribuisce ad un organo statale (il commissario del Governo) il coordinamento dell’attività degli uffici statali esistenti nella Regione. E, con particolare riferimento alla materia della protezione civile, viola l’art. 35 delle norme di attuazione dello statuto speciale approvate con il d.P.R. n. 381 del 1974, secondo cui spetta al commissario nominato dal Presidente del Consiglio dei ministri, in sede di dichiarazione dello stato di catastrofe o di calamità naturale, provvedere al coordinamento degli interventi dello Stato con quelli regionali e provinciali.
Non fondata risulta, invece, l’altra questione, concernente l’attribuzione al Presidente della Provincia del potere di provvedere, per l’attuazione degli interventi conseguenti alla dichiarazione dello stato di calamità, a mezzo di ordinanze in deroga alle disposizioni vigenti relative alle materie di competenza provinciale, nel rispetto dei principî generali dell’ordinamento giuridico. La norma impugnata, infatti, come si desume dalla sua formulazione letterale, limita l’ambito delle ordinanze in esame alle sole «materie di competenza provinciale» e prescrive la loro emanazione «nel rispetto dei principî generali dell’ordinamento giuridico». Pertanto, il potere derogatorio da essa previsto non può estendersi a materie (come la tutela dell’ordine pubblico) estranee alle competenze provinciali.
Parimenti infondata è l’impugnativa della disposizione che conferisce al Presidente della Provincia il potere di requisire beni mobili ed immobili: la formulazione della norma non rivela alcun elemento che ne giustifichi un’interpretazione tanto estensiva da far ritenere i beni dello Stato inclusi fra quelli assoggettabili a requisizione.
f) La sentenza n. 286 ha ad oggetto una tematica su cui la Corte è intervenuta a più riprese, nel corso dell’anno, principalmente facendo applicazione di parametri del Titolo V anteriori alla riforma del 2001. Nella decisione, la Corte dichiara la illegittimità costituzionale degli articoli 17, commi 1 e 2, e 20, della legge della Regione Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste 12 dicembre 2002, n. 27, che disciplinano, rispettivamente, un sistema di «compensazione regionale» ed una «riserva regionale». Le norme dello statuto Valle d’Aosta e quelle di attuazione dello stesso (decreto legislativo n. 238 del 2001, art. 1) demandano alla Regione stessa la regolamentazione in materia di agricoltura, nel cui ambito deve essere ricompresa la disciplina delle c.d. «quote-latte». Tuttavia, sottolinea la Corte, tale potestà legislativa deve esercitarsi nel «rispetto degli obblighi internazionali», compresi gli obblighi comunitari. La normativa comunitaria, infatti, in ordine alle modalità operative della compensazione, circoscrive «la discrezionalità lasciata agli Stati membri» alla scelta tra due soli livelli: «quello degli acquirenti ovvero quello nazionale»; mentre, per la riserva, le disposizioni comunitarie autorizzano la istituzione di una riserva solo a livello nazionale. Ne consegue che le norme censurate, prevedendo, l’una, un diverso sistema di compensazione a base regionale, e l’altra, una «riserva regionale», non consentita dalla normativa comunitaria, si pongono in contrasto con i parametri costituzionali evocati.
g) Due decisioni, rese in sede di conflitto di attribuzione tra enti, riguardano un indebito uso dei poteri di controllo da parte della Corte dei Conti nei confronti di enti ad autonomia differenziata (rispettivamente, la Provincia di Trento e la Regione Siciliana).
Con la sentenza n. 171, la Corte dichiara che non spetta allo Stato, e per esso alla Corte dei conti, sottoporre alla certificazione di compatibilità con gli strumenti di programmazione e di bilancio, sulla base di una disposizione legislativa provinciale non più applicabile, l’ipotesi di accordo di settore per il personale con la qualifica di direttore della Provincia autonoma di Trento.
La Corte premette che, in tema di estensione alla Provincia di Trento del controllo previsto per i contratti collettivi nazionali dall’art. 51, comma 2, del d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 e successive modifiche, non rientra nella competenza legislativa provinciale disciplinare le funzioni di controllo della Corte dei conti, anche se la loro eventuale incidenza su materie di competenza esclusiva provinciale deve essere regolata alla stregua della rispettiva normativa di carattere statutario. I procedimenti di controllo contabile debbono quindi svolgersi secondo la disciplina statale, ma in modo tale che il necessario adeguamento legislativo provinciale li renda compatibili con l’ordinamento di appartenenza, senza che in proposito possano essere invocati eventuali vincoli derivanti da norme fondamentali di riforma economico-sociale.
Sulla base di questi rilievi, la Corte esclude che l’art. 60, comma 3, della legge provinciale 3 aprile 1997, n. 7 (peraltro abrogato dalla legge provinciale 19 febbraio 2002, n. 1) – il quale, attraverso il rinvio, da ritenersi fisso e non dinamico o mobile, all’art. 51, comma 2, del citato decreto legislativo n. 29 del 1993, rendeva applicabile nell’ordinamento provinciale il modello di controllo contabile da detta disposizione previsto attraverso la sottoposizione al controllo della Corte dei conti dell’autorizzazione giuntale alla sottoscrizione dei contratti collettivi – possa trovare applicazione pur dopo che l’art. 47, comma 4, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ha superato la precedente logica del controllo di legittimità formale previsto dal citato art. 51, comma 2, optando per un controllo effettivo della spesa basato sulle procedure di «certificazione di compatibilità con gli strumenti di programmazione e di bilancio»; ciò in quanto, in ambito provinciale, il controllo della Corte dei conti è limitato ad una tipologia puntuale di procedure ed atti e non possono essere previsti tipi di controllo diversi, sotto il profilo formale ed oggettivo, da quelli espressamente indicati, sicché gli atti impugnati, che proprio sull’art. 60, comma 3, della legge provinciale n. 7 del 1997 hanno fondato il rispettivo dispositivo, sono illegittimi ed arrecano una menomazione alle attribuzioni costituzionali della Provincia di Trento in materia (v. sentenza n. 182 del 1997 ed ordinanza n. 310/1998).
Con la sentenza n. 337, la Corte dichiara, invece, che non spetta allo Stato e, per esso, al Procuratore regionale presso la sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione siciliana emettere ordini di esibizione diretti ai rappresentanti legali di tutti i gruppi parlamentari costituiti presso l’Assemblea regionale siciliana, con i quali viene ordinato di esibire in forma integrale la documentazione e gli atti contabili pertinenti le contribuzioni ed i finanziamenti liquidati dall’Assemblea regionale siciliana. Non sussistendo, infatti, in capo all’organo emanante un potere di controllo generalizzato e permanente, come peraltro, la Corte ha già avuto modo di sottolineare (sentenza n. 100 del 1995), gli ordini di esibizione impugnati si distinguono per una genericità «soggettiva» ed «oggettiva», sintomatica di attribuzioni esercitate in modo eccedente rispetto ai confini tipizzati dall’ordinamento, sì da produrre una menomazione nella sfera presidiata dalle garanzie di autonomia della funzione legislativa della Regione ricorrente.
h) Tra le decisioni riguardanti le Regioni speciali, resta da segnalare la sentenza n. 173, avente ad oggetto una disposizione legislativa della Regione Friuli – Venezia Giulia relativa alla disciplina delle elezioni comunali. Ad essa già si è avuto modo di far riferimento supra, cap. II, sez. IV, par. 1).
 

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