[A cura di M. Bellocci, S. Magnanensi, E. Rispoli e P. Passaglia]


1. Premessa
2. Il ricorso
2.1. La notifica, il deposito ed i termini per ricorrere
2.2. I rapporti tra il ricorso e la delibera recante la determinazione all’impugnazione
2.3. I contenuti del ricorso
3. L’oggetto delle questioni di legittimità costituzionale
4. Il parametro di costituzionalità
5. L’interesse a ricorrere
6. La riunione e la separazione delle cause
7. Il contraddittorio di fronte alla Corte
8. Le decisioni della Corte

8.1. Le decisioni interlocutorie
8.2. L’estinzione del giudizio
8.3. Le decisioni processuali
8.4. Le decisioni di rigetto
8.5. Le decisioni di accoglimento
9. Il controllo degli statuti ordinari ai sensi dell’art. 123 della Costituzione
10. La sospensiva nel giudizio sulle leggi






1. Premessa
Nel corso del 2006, sono state pronunciate 113 decisioni in sede di giudizio in via principale. Quanto alla forma (sentenze o ordinanze), si conferma l’orientamento che può dirsi ormai consolidato: nel giudizio in via principale la regola è la sentenza, l’eccezione l’ordinanza. Su un totale di 113 pronunce, infatti, 82 sono sentenze e 31 sono ordinanze.


2. Il ricorso
Con riferimento ai problemi connessi al ricorso con cui vengono sollevate le questioni di legittimità costituzionale, di particolare interesse sono le affermazioni concernenti la notifica ed il deposito, il rapporto tra il ricorso e la delibera del Governo o della Giunta regionale contenente la determinazione all’impugnazione ed i contenuti che del ricorso sono propri.


2.1. La notifica, il deposito ed i termini per ricorrere
Per quel che attiene alla disciplina del procedimento di impugnazione delle leggi ai sensi dell’art. 127 della Costituzione, un primo profilo che viene in evidenza nella giurisprudenza del 2006 riguarda la notifica del ricorso.
La sentenza n. 214 ha dichiarato l’inammissibilità di un ricorso regionale che era stato notificato al Presidente del Consiglio dei ministri, quando già era scaduto il termine, stabilito a pena di decadenza dall’art. 32, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 8, di sessanta giorni dalla pubblicazione della legge impugnata.
Le ordinanze numeri 218 e 344 hanno avuto ad oggetto il diverso problema della tardività del deposito del ricorso. Nel primo caso la Corte, con una pronuncia di manifesta inammissibilità, ha precluso l’esame del merito del ricorso proposto dalla Regione Toscana perché depositato presso la cancelleria della Corte costituzionale oltre il termine di dieci giorni dalla notifica (art. 31, terzo e quarto comma, della legge n. 87 del 1953), termine da ritenersi, secondo costante giurisprudenza, perentorio. Nel secondo caso, con una pronuncia di improcedibilità, la Corte ha precluso l’esame del merito del ricorso proposto dallo Stato avverso una legge regionale, sempre perché depositato oltre il termine perentorio di dieci giorni dalla notifica.
Ugualmente connesse ai tempi dell’impugnazione, sia pure in un’ottica più generale, sono quelle statuizioni nelle quali la Corte ha affrontato il tema della impugnazione delle leggi entro il termine di decadenza di cui all’art. 127 Cost. A tal proposito, la Corte, con la sentenza n. 3, ha respinto l’eccezione di inammissibilità proposta dalla Regione Marche per difetto di interesse del ricorrente, ritenendo che, essendo incontestata la possibilità per la regione di emanare una legge elettorale con efficacia differita al momento dell’entrata in vigore dello Statuto, necessariamente il ricorso “è stato proposto entro i termini perentori di cui agli artt. 127, primo comma, della Costituzione e 31, comma 2, della legge 11 marzo 1953, n. 87”. Nello stesso senso sono le sentenze numeri 118 e 133, che hanno respinto le eccezioni di inammissibilità del ricorso per carenza attuale di interesse, ritenendo che il termine di cui all’art. 127 è un termine di decadenza e che da ciò “discende che la lesione della sfera di competenza lamentata dalla ricorrente presuppone la sola esistenza della legge oggetto di censura, a prescindere dal fatto che essa abbia avuto concreta attuazione, ed essendo sufficiente che essa sia applicabile, ancorché non immediatamente”.


2.2. I rapporti tra il ricorso e la delibera recante la determinazione all’impugnazione

Con riferimento all’incidenza che ha la deliberazione con cui l’ente statuale, regionale o provinciale si determina all’impugnazione, può constatarsi come, in varie occasioni, la Corte costituzionale abbia ribadito la consolidata giurisprudenza nel senso della necessaria corrispondenza tra l’oggetto della delibera dell’organo politico ed il contenuto del ricorso.
Tale principio trova conferma anche nella giurisprudenza in esame con talune precisazioni. Così, nella sentenza n. 3, si è evidenziato – onde delimitare l’oggetto del giudizio – che “la scelta politica del Governo di impugnare norme regionali si esprime nell’indicazione delle specifiche disposizioni ritenute eccedenti le competenze della Regione, salva l’autonomia tecnica dell’Avvocatura dello Stato nell’individuazione dei motivi di censura”. Sulla base di tali affermazioni sono state dichiarate inammissibili le questioni proposte nei confronti di norme non indicate nella delibera dell’organo politico.
Questa impostazione ha trovato conferma in altre decisioni, tra cui la sentenza n. 49, in cui la Corte ha precisato che “la delibera del Consiglio dei Ministri o la relazione ministeriale a cui questa rinvii devono necessariamente indicare le specifiche disposizioni che si ritiene di impugnare”, e dunque sono state dichiarate inammissibili alcune questioni sollevate dalla Avvocatura dello Stato relativamente a disposizioni che non risultavano individuate nelle corrispondenti delibere del Governo e nei relativi allegati.
La relazione del Ministro per gli affari regionali assume, in effetti, un valore generalmente definitorio dei limiti dell’impugnazione deliberata dal Consiglio dei ministri. In tal senso, nella sentenza n. 323, è stata dichiarata inammissibile una delle questioni proposte nei confronti di una legge regionale “in quanto nella proposta del Ministro per gli affari regionali, richiamata dalla delibera del consiglio dei ministri di impugnazione della legge in esame, non v’è traccia di tale motivo di impugnazione”. Sulla stessa scia, la sentenza n. 396 ha dichiarato inammissibile una delle questioni proposte avverso l’art. 3 della legge della Regione Sardegna n. 13 del 7 ottobre 2005, perché non introdotta nel ricorso “come oggetto dell’impugnativa governativa” e la sentenza n. 398 ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale del Capo III della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia n. 11 del 2005, poiché nessun riferimento ad esso era compreso nella deliberazione del Consiglio dei Ministri e nella allegata relazione del Dipartimento per gli Affari regionali della Presidenza del Consiglio dei ministri. Ugualmente, con la sentenza n. 365, è stata dichiarata l’inammissibilità delle questioni, diverse da quelle concernenti i commi 1 e 5 dell’art. 12 della legge della Regione Puglia n. 12 del 2005, poiché il ricorso “contiene specifiche argomentazioni solo in riferimento a quanto disposto nei suddetti commi e, d’altronde, anche la proposta di impugnazione contenuta nella relazione del Ministro per gli affari regionali ed allegata alla delibera del Consiglio dei Ministri riferisce le doglianze del ricorrente sull’art. 12 della legge regionale in esame ai soli commi 1 e 5”. (In merito all’affermazione secondo cui “l’oggetto dell’impugnazione è definito dal ricorso in conformità alla decisione assunta dal Governo”, si veda la sentenza n. 423). Ancora con la sentenza n. 450, la Corte ha dichiarato inammissibile la questione proposta, in quanto “l’impugnazione della legge nel suo complesso non risulta menzionata nella delibera del Governo di autorizzazione alla proposizione del ricorso e nei relativi allegati”.
Nello stesso senso, per ciò che concerne l’impugnativa di leggi statali, con la sentenza n. 155, l’inammissibilità di una delle questioni sollevate è stata motivata sul presupposto “della omessa indicazione, nella deliberazione della Giunta regionale che ha deciso di denunciare la legge n. 311 del 2004, proprio del comma 348, giacché (…), non può darsi ingresso all’impugnazione di disposizioni non individuate nella deliberazione che autorizza la proposizione del ricorso”.
Infine, sempre per ciò che concerne i rapporti tra il ricorso e la delibera recante la determinazione all’impugnazione, merita un cenno la sentenza n. 129, ove è stata respinta l’eccezione di inammissibilità del ricorso governativo, proposta dalla Regione, per non essere stato effettuato il deposito contestuale dell’estratto del verbale del Consiglio dei Ministri e della relazione del Ministro proponente, sul rilievo fattuale che mancavano gli elementi per ritenere che tale deposito non fosse stato contestuale a quello del ricorso.
L’importanza che la deliberazione del Consiglio dei ministri o della Giunta regionale o provinciale assume ai fini dell’individuazione del thema decidendum giustifica anche il vaglio della Corte in ordine alla loro sufficiente determinatezza. A tal proposito, vengono in rilievo le statuizioni di cui alla sentenza n. 216, nella quale è stata dichiarata l’inammissibilità delle questioni sollevate dalla Regione Toscana, per la genericità della delibera della Giunta regionale di autorizzazione al Presidente a proporre i ricorsi, “ciò che si traduce in una causa di nullità dei medesimi per indeterminatezza del loro oggetto”. La delibera, infatti, ometteva di indicare specificamente le disposizioni da impugnare e le ragioni della impugnativa e si limitava ad affermare che la legge statale oggetto del giudizio appariva “in più parti invasiva delle competenze attribuite alla Regione dagli articoli 117 e 118 della Costituzione”. A suffragio della decisione, si è rilevato che la delibera di autorizzazione al ricorso di cui all’art. 127 Costituzione “può concernere l’intera legge soltanto qualora quest’ultima abbia un contenuto omogeneo e le censure siano formulate in modo tale da non ingenerare dubbi sull’oggetto e le ragioni dell’impugnativa”. Nella medesima sentenza, la Corte precisa che la declaratoria di inammissibilità non può essere esclusa in forza delle deliberazioni di “conferma” delle impugnazioni proposte, allegate alle memorie depositate in prossimità dell'udienza di discussione e, dunque, a termini perentori di impugnazione abbondantemente scaduti. Invero, secondo la Corte, esse “non possono avere l'efficacia di "sanare" i vizi che inficiavano le deliberazioni "originarie", giacché ciò si porrebbe in contrasto con la natura perentoria del termine previsto per la proposizione dei ricorsi in via principale. Ed è significativa – nella medesima prospettiva – la previsione dell'art. 182 del codice di procedura civile”, ritenuto applicabile anche al giudizio innanzi alla Corte, “la quale, nel consentire anche ex officio la sanatoria dei difetti di rappresentanza o di autorizzazione, fa comunque salva l'ipotesi in cui «si sia avverata una decadenza»”. Né, infine, il difetto di specificità che connota l'oggetto delle proposte impugnative può ritenersi superato dalla circostanza che il resoconto delle sedute della Giunta regionale, all'esito delle quali è stata, a suo tempo, adottata la decisione di proporre i ricorsi, individuasse sia le disposizioni legislative statali ritenute meritevoli di impugnazione, e poi effettivamente impugnate, sia i parametri evocabili, e poi realmente evocati, posto che, rileva ancora la Corte, “nessuna delle deliberazioni, che hanno preceduto i quattro ricorsi regionali, conteneva un espresso rinvio alla relazione dell'Avvocatura, condizione necessaria e sufficiente per poter riconoscere l'esistenza di una relatio”. In definitiva, “in assenza di un qualsiasi riferimento ad atti suscettibili di essere legittimamente richiamati per relationem, deve escludersi che il vizio di indeterminatezza che inficia le deliberazioni di autorizzazione alla proposizione dei ricorsi, e di riflesso anche questi ultimi, possa essere sanato ricavando aliunde gli elementi idonei ad individuare l'esatto oggetto delle impugnative proposte”.
Con la sentenza n. 396, invece, è stata respinta una delle eccezioni di inammissibilità del ricorso statale per genericità delle censure ed erronea indicazione del parametro, nella considerazione che “la relazione ministeriale allegata alla delibera governativa di impugnazione, da un lato, individua specificamente la disposizione censurata e dunque l'oggetto del giudizio, dall'altro, indica con chiarezza la norma statutaria violata”.


2.3. I contenuti del ricorso

La giurisprudenza costituzionale del 2006 mostra una costante attenzione della Corte nei confronti dei contenuti del ricorso, e segnatamente della idoneità dello stesso a radicare questioni di costituzionalità che siano sufficientemente precisate ed adeguatamente motivate.
Una siffatta attenzione è ben rappresentata dalla sentenza n. 139, in cui la Corte ha sottolineato che il ricorso in via principale non solo “deve identificare esattamente la questione nei suoi termini normativi”, indicando “le norme costituzionali e ordinarie, la definizione del cui rapporto di compatibilità o incompatibilità costituisce l’oggetto della questione di costituzionalità”, ma deve anche “contenere una seppur sintetica argomentazione di merito, a sostegno della richiesta declaratoria d’incostituzionalità della legge”, ponendosi l’esigenza di una adeguata motivazione a sostegno della impugnativa “in termini perfino più pregnanti nei giudizi diretti che non in quelli incidentali”. Nella sentenza n. 215, si legge che il ricorso deve essere adeguatamente motivato, al fine “di rendere possibile la inequivoca determinazione dell’oggetto del giudizio e di consentire la verifica della eventuale pretestuosità o astrattezza dei dubbi di illegittimità costituzionali sollevati nonché il vaglio, in limine litis, attraverso l’esame della motivazione e del suo contenuto, della sussistenza in concreto dello specifico interesse a ricorrere in relazione alle disposizioni impugnate”.
Alla luce di tali principî, espressamente o implicitamente confermati in molte decisioni, possiamo raggruppare i vizi afferenti il contenuto del ricorso (a) nell’individuazione delle norme oggetto delle questioni e delle norme di raffronto, (b) nella motivazione delle censure.
a) Nel primo senso, può citarsi la sentenza n. 51, con la quale è stata dichiarata inammissibile una delle censure proposte avverso la legge regionale impugnata, in quanto “il ricorrente non individua un parametro costituzionale rispetto al quale la disposizione legislativa indicata dovrebbe fungere da norma interposta”; né, dal momento che viene invocata una disciplina attuativa di una direttiva comunitaria “è possibile in alcun modo desumere dalla formulazione del ricorso, quale sia l’obbligo comunitario rispetto al quale la norma regionale impugnata dovrebbe – in ipotesi – ritenersi in contrasto, così violando l’art. 117 della Costituzione”. Nella sentenza n. 365, invece, il ricorrente pur evocando, quale parametro interposto, leso dalla disposizione regionale, l’art. 16 del d.lgs. n. 76 del 2000 ed il principio fondamentale da esso dettato, omette di specificare quale sia tale principio “mentre una precisazione in proposito deve ritenersi necessaria (…..). Specificazione che appare ancor più essenziale dal momento che la disposizione in oggetto presenta un contenuto eterogeneo”. (Analogamente, in merito alla necessaria specificazione del principio fondamentale dettato dal parametro costituzionale, si veda la sentenza n. 246).
In varie occasioni, la Corte ha escluso l’ammissibilità di questioni di legittimità costituzionale sollevate in via principale dal Presidente del Consiglio dei ministri nei confronti di leggi di Regioni a statuto speciale o delle Province autonome allorché il ricorso non precisi in quale rapporto si trovino, ai fini dello scrutinio di legittimità costituzionale, le norme della Costituzione e quelle, anch’esse di rango costituzionale, contenute nello statuto speciale. Nella sentenza n. 175, la Corte ha affermato che, dalla formulazione dell’art. 10 della Costituzione, “emerge con chiarezza che è insita, nel meccanismo di estensione dallo stesso prefigurato, una valutazione necessariamente comparativa tra i due sistemi (ordinario e speciale) di autonomia regionale. Ciò implica che nel momento in cui il ricorrente, impugnando una legge di una Regione a statuto speciale, adduca, come nel caso di specie, la violazione di una disposizione contemplata nel Titolo V, ha l’onere di prendere in esame anche i parametri costituzionali ricavabili dal relativo statuto, al fine di valutare se effettivamente le forme di autonomia riconosciute dalla legge costituzionale n. 3 del 2001 siano più estese rispetto a quelle già risultanti dalle disposizioni statutarie (…). In altri termini, perché possa svolgersi un giudizio di preferenza tra diversi sistemi di autonomia occorre che vengano considerati i “due termini” della comparazione, in quanto soltanto all’esito di una disamina complessiva dei sistemi posti a raffronto è possibile ritenere che l’uno garantisca una forma di autonomia eventualmente “più ampia” rispetto all’altro”. Al contrario, con la sentenza n. 370, relativamente ad una questione concernente una legge emanata dalla provincia autonoma di Trento istitutiva del Consiglio delle autonomie locali, è stata disattesa l’eccezione di inammissibilità, per omessa considerazione dei parametri costituzionali ricavabili dallo Statuto, sulla base della considerazione che la legge stessa rileva che il detto Consiglio viene istituito “in attuazione dell’art. 123, quarto comma, della Costituzione e dell’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3”. In tale situazione, secondo la Corte, trova giustificazione, sul piano processuale “la prospettazione, da parte del ricorrente, quale vizio inficiante la legge stessa, della sola violazione della disposizione costituzionale di cui all’art. 123, ultimo comma, Cost. in relazione all’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001”. Ugualmente, nella sentenza n. 391, la Corte, dopo aver premesso che “ai fini dell’ammissibilità dell'impugnazione proposta avverso una legge di Regione a Statuto speciale è necessaria (…) l'illustrazione delle ragioni per le quali non trovano applicazione nel caso in esame le norme speciali statutarie, ma quelle «ordinarie» del Titolo V della Costituzione” ha, tuttavia, respinto l’eccezione di inammissibilità sul presupposto che, “poiché non si può ridurre tale requisito di ammissibilità a mera, formalistica enunciazione dell'inesistenza di qualsiasi norma statutaria contemplante la materia, esso va inteso nel senso che dal contesto del ricorso (…) deve emergere, anche implicitamente, l'esclusione della possibilità di operare il sindacato di legittimità costituzionale in base allo Statuto speciale, essendo esso possibile solo ai sensi del Titolo V della Costituzione.” Nel caso esaminato la Corte ha ritenuto che la natura del parametro indicato («ordinamento civile») “è indice inequivoco della consapevolezza di quella impossibilità, essendo evidente che il parametro costituzionale evocato (a torto o a ragione; ma questo attiene alla fondatezza) esclude di per sé l'utilità di uno scrutinio alla luce delle norme statutarie”. Così, ancora, nella sentenza 397, la medesima eccezione di inammissibilità è stata respinta sul rilievo che “sia pure sinteticamente, il ricorrente si è dato carico di individuare la norma statutaria (…) attributiva della potestà legislativa regionale in materia di enti locali e dunque anche di Comunità montane, ancorché abbia successivamente svolto le censure avendo riguardo ai parametri costituzionali contenuti nel nuovo Titolo V, con riferimento alla asserita violazione degli artt. 117 e 120 della Costituzione”. Analogamente, con la sentenza n. 129, è stata respinta l’eccezione di inammissibilità proposta dalla difesa regionale per mancata indicazione del parametro di costituzionalità, avendo la Corte rilevato che “l’art. 117, terzo comma, Cost. è evocato nella parte generale del ricorso, con particolare riferimento alla materia “governo del territorio”, e che la norma impugnata è indicata espressamente nel medesimo contesto”. Conseguentemente, pur se il ricorrente, tra i motivi specifici, non ha ritenuto di dover ripetere l’indicazione della norma costituzionale violata e si è limitato a far riferimento alla norma interposta, “ciò non determina tuttavia incertezze nella individuazione della disposizione costituzionale di cui si lamenta la violazione”. Infine, con la sentenza n. 447, la Corte ha respinto l’eccezione di inammissibilità proposta dalla regione “per falsa specificazione del parametro del giudizio e mancanza totale di motivazione” sul presupposto che “è palese l’errore materiale contenuto sia nell’epigrafe del ricorso che nel petitum dello stesso (….). Infatti, dal complessivo tenore dell’atto introduttivo, oltre che dalla citata relazione ministeriale, si evince che il reale oggetto dell’impugnazione proposta è la disposizione in materia di revisione dei prezzi negli appalti pubblici, contenuta nel comma 3 del medesimo art. 1”.
Relativamente alla erroneità dell’indicazione delle norme di raffronto, la Corte ha censurato i richiami a norme costituzionali inconferenti con la materia trattata nel giudizio (sentenze numeri 246, 365 e 398), nonché la mancata individuazione delle norme statali in grado di fungere da parametro interposto rispetto alla violazione costituzionale affermata (sentenza n. 248).
In ordine all’oggetto del giudizio, il difetto di individuazione è stato talvolta rilevato nella impugnazione di un atto legislativo nel suo complesso. Tuttavia, quando la legge rechi un contenuto omogeneo tale da non ingenerare incertezze sul contenuto delle censure e, quindi, sui limiti e le ragioni dello scrutinio di costituzionalità, il ricorso è ammissibile (sentenze numeri 22, 238 e 239). L’inammissibilità è parimenti esclusa quando il ricorso contiene una motivazione sintetica, ma non generica, dell’intera legge impugnata (sentenza n. 59).
L’esigenza che i termini delle questioni siano adeguatamente determinati non si traduce, peraltro, in una attitudine censoria della Corte costituzionale, la quale procede, nei limiti del possibile, alla precisazione del thema decidendum, quando esso presenta elementi di vaghezza. Così, nelle sentenze numeri 87 e 181, la Corte, non condividendo la prospettazione delle parti, provvede ad individuare l’ambito materiale interessato dalle disposizioni censurate in quello della “tutela della salute”. Ciò che, nella specie, ha comportato che lo scrutinio di costituzionalità, in ordine alle norme impugnate, venisse effettuato con riferimento alla previsione costituzionale di cui all’art. 117, terzo comma, della Costituzione. Ugualmente, con la sentenza n. 422, la Corte ha individuato l’ambito materiale interessato dalla norma impugnata in quello della “tutela della salute” e nella sentenza n. 449 in quello della “sanità”.
Con la sentenza n. 212, è stato respinto l’assunto dell’Avvocatura dello Stato secondo cui la mancata indicazione nella legge regionale della materia nella quale è stata esercitata la potestà legislativa comporterebbe l'incostituzionalità dell'intera legge. Invero, rileva la Corte che “l'indicazione richiesta dalla difesa erariale non solo risulta (…) priva di qualsiasi base normativa, ma, provenendo dallo stesso legislatore regionale, si risolverebbe in una sorta di autoqualificazione carente in quanto tale di giuridica rilevanza”.
Nella sentenza n. 80, la Corte delimita l’oggetto delle questioni di legittimità costituzionale relative alla legge della Regione Veneto n. 30 del 2004 al solo comma 1 dell’art. 3, dal momento che “non soltanto le motivazioni addotte nel ricorso dell’Avvocatura dello Stato si riferiscono esclusivamente a questa disposizione, ma lo stesso documento allegato alla deliberazione governativa di impugnazione della legge si riferisce in termini espliciti alla sola ‘norma contenuta nell’art. 3, comma 1’”.
Nell’ambito di siffatti poteri della Corte rientra anche la «correzione» dell’individuazione dei termini della questione, sempreché essa sia inequivocabilmente ricavabile dal contesto del ricorso. Se ne ha un esempio con la sentenza n. 248, in cui si è rilevato che “il ricorso governativo, pur asserendo erroneamente perfino che l’art. 42 della legge regionale avrebbe dichiarato “inapplicabile l’intero n. 1775/1933” (mentre l’art. 42, comma 1, invece espressamente si riferisce solo a quattro disposizioni di questo testo normativo), solleva in realtà una censura solo in riferimento alla pretesa cessazione di efficacia dell’art. 113 del r.d. n. 1775”. Su tale questione si è, dunque, focalizzata l’attenzione della Corte. Ancora, con la sentenza n. 396, la Corte ha affermato che “la circostanza che nell'atto introduttivo del giudizio si richiami erroneamente la competenza di cui alla lettera a) dell'art. 3 dello statuto speciale, anziché quella di cui alla lettera b), può peraltro essere superata considerando che lo stesso ricorso, seppur in modo alquanto sommario, mette in evidenza come nello statuto siano estranei alle competenze legislative attribuite alla Regione i profili riconducibili al concetto di ordine pubblico e come tale incompetenza non appaia revocabile in dubbio neppure mediante l'ipotetica applicazione dell'art. 10 della legge cost. 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), dato che l'art. 117, secondo comma, lettera h), Cost. riserva alla potestà legislativa esclusiva dello Stato la materia dell'ordine pubblico e della sicurezza”. Infine, con la sentenza n. 440, la Corte ha rilevato che “dal tenore letterale del ricorso si desume, infatti, chiaramente che la norma oggetto delle censure è non già l’art. 26 della legge regionale n. 19 del 2005, erroneamente evocato nell’epigrafe del ricorso ed inerente alla cosiddetta procedura negoziata, ma l’art. 25 della medesima legge regionale, nella parte in cui ha introdotto il comma 2, lettera c), nell’art. 26 della medesima legge regionale n. 12 del 1996, che contiene la disciplina della cosiddetta procedura ristretta per l’affidamento dei lavori pubblici di interesse regionale di valore inferiore a pari a 1.200.000 euro, disciplina alla quale si riferiscono tutte le censure. Del pari emerge dalla motivazione del ricorso che le censure sollevate nei confronti del predetto art. 25 della legge regionale n. 19 del 2005 hanno ad oggetto la disposizione nella sola parte in cui individua il criterio della migliore localizzazione territoriale fra i criteri di selezione dei candidati da ammettere alla procedura ristretta, ove siano superiori al numero indicato dal bando”.
b) Per quel che concerne le carenze che inficiano la motivazione, a precludere un esame del merito delle questioni sono state la «genericità delle censure» (sentenze numeri 139, 213, 215, 246, 253, 364 e 365), la mancanza della motivazione (sentenze numeri 129 e 365) il suo limitarsi alla semplice invocazione delle norme senza che sia proposta alcuna specifica censura (sentenza n. 233), alla stessa stregua della mancata specificazione delle censure (sentenza n. 253). Nella sentenza n. 51 sono state dichiarate inammissibili talune censure proposte avverso la legge regionale impugnata, nella considerazione che le medesime “risultano sommarie e meramente assertive, così contraddicendo l’esigenza (…) che il ricorrente esponga specifiche argomentazioni a sostegno delle proprie doglianze”. Ancora, con la sentenza n. 49, la Corte ha dichiarato inammissibile l’impugnazione di un articolo della regione Lombardia sul presupposto che “l’Avvocatura si limita (…) ad indicare, nell’epigrafe del ricorso, tale disposizione tra quelle oggetto di impugnazione, omettendo però di svolgere alcuna argomentazione a riguardo. Pertanto, la censura manca, secondo la Corte, dei requisiti minimi che il costante orientamento giurisprudenziale richiede per gli atti introduttivi del giudizio in via principale”.
Le censure, inoltre, devono essere correttamente prospettate nel ricorso; da qui l’inammissibilità di quelle “prospettate per la prima volta nella memoria di udienza” (sentenza n. 246).
L’onere di motivazione rende inammissibile anche le questioni cosiddette “ipotetiche” in cui il ricorrente si limita a prospettare “delle mere eventualità sulla base di considerazioni generiche e probabilistiche (sentenza n. 207).
Inoltre, l’onere di motivazione, valutato in senso sostanziale, rende inammissibili anche quei ricorsi nei quali le argomentazioni si rivelino contraddittorie, come nel caso della sentenza n. 391, nella quale è stata ritenuta fondata l’eccezione di inammissibilità proposta dalla Regione, sul presupposto che “Il Presidente del Consiglio dei Ministri (..), pur deducendo l’inesistenza di qualsiasi potestà legislativa regionale in materia di ‘ordinamento civile’ (….) contraddittoriamente ravvisa la violazione della riserva statale di potestà legislativa nella divergenza tra la disciplina statale di cui al d.lgs. n. 165 del 2001 e la norma regionale censurata”. Da ciò, dunque, deriva l’inammissibiltà della questione “non potendo coesistere – se non in un rapporto di subordinazione, non dedotto nel ricorso – una censura attinente sia all’an, sia al quomodo dell’esercizio della potestà legislativa”.
Lungi dal potersi ritenere contraddittorie, e dunque pienamente ammissibili, sono le questioni poste in via subordinata (sentenze numeri 87, 133, 214 e 239).
La essenzialità della motivazione si apprezza anche con riferimento alle argomentazioni poste a sostegno dell’individuazione di una determinata norma oggetto o di una norma parametro.
In tal senso, non mancano decisioni che censurano la genericità delle motivazioni dedotte al fine di giustificare l’individuazione di una disposizione come affetta da vizio di incostituzionalità (sentenze numeri 214 e 233), richiedendosi “che la questione di legittimità costituzionale sia definita nei suoi precisi termini e adeguatamente motivata, al fine di rendere possibile l’inequivoca determinazione dell’oggetto del giudizio e la verifica della fondatezza dei dubbi di costituzionalità sollevati e della sussistenza in concreto dell’interesse a ricorrere” (così testualmente la sentenza n. 214).
Al pari di quanto riscontrabile per le disposizioni in oggetto, anche sulla scelta dei parametri è indefettibile una motivazione ad hoc, con il che uno scrutinio di merito risulta precluso quando le argomentazioni a tal riguardo si appalesino generiche. Così, in particolare, con la sentenza n. 213, la Corte ha dichiarato l’inammissibilità di due questioni nel rilievo che il richiamo all’art. 117, secondo comma, lettere a) e s) Cost., in riferimento ad atti internazionali nonché con riguardo alla materia “tutela dell’ambiente e dell’ecosistema” è generico, sicché “le relative censure non possono trovare ingresso in questa sede” e che, con riguardo agli atti internazionali invocati, non si fa riferimento “ad alcuna specifica disposizione degli stessi”. Con la sentenza n. 20 la Corte ha precisato che “nelle questioni di legittimità costituzionale, tanto se proposte in via incidentale (…), quanto se sollevate in via principale (…) è requisito imprescindibile di ammissibilità una minima sufficiente determinazione del parametro rispetto al quale la questione stessa è stata sollevata”. Nella specie, la questione è stata dichiarata inammissibile per l’assenza di qualsiasi motivazione in ordine ai parametri costituzionali invocati dalla ricorrente, senza che tale originaria inammissibilità “possa ritenersi superata dalle argomentazioni contenute nella memoria predisposta per l’udienza”. Ugualmente, con la sentenza n. 29, è stato dichiarato inammissibile il profilo della censura relativo alla dedotta violazione dell’art. 117, primo comma, della Costituzione, in quanto trattatasi di “profilo sfornito di elementi minimi argomentativi”. Così, pure, nella sentenza n. 397, la inammissibilità della censura di violazione dell’art. 117 della Costituzione è stata rilevata dalla Corte, pur in assenza di rilievi di parte, per genericità, non essendo state illustrate “le ragioni per cui tale norma costituzionale risulterebbe violata”.
Deve essere, comunque, segnalata la mancanza di un atteggiamento rigido e formalistico della Corte nella valutazione di carenze dei ricorsi che non pregiudichino i diritti delle parti e, nel contempo, di decidere con adeguata contezza la questione sottopostale. Sotto questo profilo può menzionarsi, innanzitutto, la sentenza n. 75, con la quale è stata respinta l’eccezione di inammissibilità del ricorso, avanzata dalla regione per carenza di motivazione, sulla base della considerazione che il ricorrente, “sia pure in modo succinto”, aveva basato le ragioni del denunciato contrasto sull’adeguato rilievo che le indicate norme dello statuto speciale non contemplano la materia tributaria tra quelle attribuite alla potestà legislativa delle Regioni. Analogamente, con la sentenza n. 80, si è ritenuto che, pur nella evidente sommarietà delle articolazioni argomentative e pur considerando la non sempre precisa individuazione nel ricorso dei parametri del giudizio, “nel complesso è chiaro sia l’oggetto sostanziale del ricorso, sia l’ordine delle questioni di legittimità costituzionale proposte all’esame” della Corte. Ancora nella sentenza n. 207, la Corte rileva che, pur non avendo il ricorrente indicato uno specifico parametro statutario di riferimento, “dal tenore del ricorso risulta come la doglianza sia riferita all’esclusione della materia del diritto privato dal novero delle competenze previste dagli artt. 14 e 17 dello statuto della Regione siciliana”. Così, pure, sono state respinte le eccezioni di inammissibilità per indeterminatezza delle censure, nella sentenza n. 213, poiché le stesse, “pur nella loro sinteticità, consentono di apprezzare sufficientemente il contenuto sostanziale della lamentata invasione della sfera di competenza legislativa regionale” e nella sentenza n. 216 perché “il ricorrente, sia pure in modo impreciso, ha inteso sollevare due questioni di costituzionalità, aventi ciascuna carattere assorbente rispetto all’altra, in quanto dotate entrambe di propria autonomia. Esse, inoltre, non presentano quel tasso di genericità idoneo a determinare la inammissibilità sul piano processuale, dal momento che consentono di individuare sufficientemente il contenuto e la portata delle censure proposte”. Ugualmente, è stata respinta l’eccezione di inammissibilità del ricorso per genericità ed intedeterminatezza nelle sentenze numeri 205, 449 e 450. Altre volte la Corte ricorre a quanto contenuto nella relazione ministeriale allegata alla delibera di impugnazione del Governo al fine di chiarire l’oggetto dell’impugnativa come nella questione esaminata con la sentenza n. 248, anche se, nella specie, ciò non è servito per superare il difetto di motivazione avverso i profili di doglianza sviluppati nel ricorso in maniera sommaria ed imprecisa.
La Corte ha, poi, respinto eccezioni – statali o regionali – dirette a denunciare la non adeguatezza della motivazione (sentenza n. 284). In particolare, con la sentenza n. 267, la Corte ha respinto l’eccezione di inammissibilità della questione per genericità dei motivi, sollevata dalla difesa regionale, ritenendo che l’atto introduttivo del giudizio “oltre ad aver identificato esattamente la questione nei suoi termini normativi, indicando i parametri costituzionali e le norme ordinarie di principio che si pretendono violate (…) fornisce, a sostegno delle censure, adeguate argomentazioni a chiarimento delle ragioni che fondano la richiesta declaratoria di incostituzionalità della legge denunciata”.
Con la sentenza n. 399, invece, la questione relativa alla presunta violazione dell’art. 8 dello statuto della Regione Friuli-Venezia Giulia è stata ritenuta inammissibile perché, “pur riportata nella premessa del ricorso, non è in alcun modo motivata nel prosieguo dell’atto introduttivo”.

 

3. L’oggetto delle questioni di legittimità costituzionale
In merito agli atti che sono stati oggetto di ricorso in via principale, non constano, nella giurisprudenza del 2006, particolari novità. Le tipologie, per l’essenziale, sono costituite da atti legislativi statali, leggi regionali e provinciali. Una sola sentenza ha riguardato uno statuto regionale (sentenza n. 12), mentre più numerose sono state le pronunce concernenti le delibere legislative dell’Assemblea regionale siciliana, impugnate ai sensi dell’art. 28 dello Statuto della Regione siciliana (sentenza n. 207; ordinanze numeri 111, 136, 147, 171, 204, 231, 309, 330, 340, 347, 348, 349, 358, 385, 389, 404 e 410). Peraltro, allorché nel corso del giudizio intervenga la promulgazione e la pubblicazione della legge regionale, che completano l’iter procedimentale connesso alla delibera legislativa impugnata, la pronuncia della Corte va adottata nei confronti di quest’ultima (sentenza n. 207).
Con riferimento all’oggetto del giudizio, sono ancora da segnalare soprattutto alcune statuizioni nelle quali il tipo di disposizione impugnata aveva riflessi anche in ordine alla sussistenza di un interesse alla pronuncia di illegittimità costituzionale. Nella sentenza n. 213, la Corte, nel rilevare che le norme impugnate, hanno carattere dichiaratamente transitorio “in quanto relative al periodo precedente all’attuazione delle deleghe legislative, che è avvenuta con l’emanazione dei relativi decreti delegati, nei termini all’uopo previsti e ormai scaduti”, afferma che “tale circostanza, pur non facendo venire meno l’interesse alla caducazione di tali norme, induce a ritenere che la disciplina introdotta dalle disposizioni censurate trovi giustificazione nell’esigenza di evitare un vuoto di normazione nel periodo intercorrente tra l’emanazione della legge di delega e la sua attuazione”. D’altronde, rileva la Corte che, anche in altre occasioni, è stata esclusa la declaratoria di illegittimità costituzionale di norme statali “sul rilievo del loro carattere meramente transitorio”.
Sul tema, si rinvia, comunque, a quanto verrà detto infra, par. 5.


4. Il parametro di costituzionalità
Per quel che concerne l’invocabilità delle norme parametro, la sentenza n. 75 ha ribadito il costante orientamento giurisprudenziale, secondo il quale “i parametri pertinenti alle questioni di legittimità costituzionale promosse in via principale dal Presidente del Consiglio dei ministri nei confronti di leggi delle Regioni a statuto speciale sono costituiti da norme di rango costituzionale degli statuti che regolano il regime di autonomia differenziata attribuito a dette Regioni dall’art. 116 della Costituzione o, in alternativa, dalle stesse disposizioni del nuovo Titolo V della Parte II della Costituzione ‘per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite’ (art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3)”.
In merito alle norme comunitarie, si rammenta la precisazione contenuta nella sentenza n. 129, secondo la quale “le direttive comunitarie fungono da norme interposte atte ad integrare il parametro per la valutazione di conformità della normativa regionale all’art. 117, primo comma, Cost.”. Secondo la Corte “la norma costituzionale citata, collocata nella Parte seconda della Costituzione, si ricollega al principio fondamentale contenuto nell’art. 11 Cost. e presuppone il rispetto dei diritti e dei principi fondamentali garantiti dalla Costituzione italiana. Pertanto la mancata previsione, nelle norme regionali impugnate, dell’obbligo di adottare procedure ad evidenza pubblica in ogni caso in cui l’appalto sia di importo uguale o superiore alla soglia comunitaria, determina la loro illegittimità costituzionale”.
Un’altra decisione da segnalare è la sentenza n. 12 nella quale la Corte ha precisato che “tutte le attività delle Regioni volte all’attuazione ed all’esecuzione di accordi internazionali devono muoversi all’interno del quadro normativo contrassegnato dall’art. 117, quinto comma, Cost. e dalle norme interposte di cui alla citata legge n. 131 del 2003. Tale quadro normativo costituisce ad un tempo il parametro di valutazione della legittimità costituzionale degli atti legislativi dello Stato e delle Regioni in materia ed il criterio interpretativo degli stessi.”


5. L’interesse a ricorrere
Molteplici sono le decisioni che hanno avuto riguardo all’interesse a ricorrere, analizzato sotto molteplici profili. Operando una schematizzazione dell’ampia giurisprudenza rintracciabile, possono distinguersi due ambiti, relativi (a) ai parametri invocabili, (b) alle vicende incidenti sul persistere dell’interesse.
a) Come noto, la configurazione del giudizio in via principale – sia prima che dopo la riforma del Titolo V – si presenta in forme parzialmente diverse a seconda che a ricorrere sia lo Stato ovvero una Regione o una Provincia autonoma non essendovi un’equiparazione dello Stato e delle Regioni in relazione ai vizi denunciabili in sede di ricorso in via principale.
Quando il giudizio è radicato a seguito di un ricorso statale, le questioni di legittimità costituzionale non debbono necessariamente essere costruite come conflitti competenziali, ben potendo avere ad oggetto la violazione di parametri costituzionali estranei a quelli che regolano i rapporti tra Stato e Regioni. In sostanza, per lo Stato, la legittimazione a ricorrere sussiste ogni qual volta venga evocata una violazione della Costituzione, mentre le regioni debbono dimostrare la sussistenza di uno specifico interesse a ricorrere, in quanto la legge statale deve essere in condizione di lederne le relative attribuzioni. In questo senso, la sentenza n. 80 ha respinto l’eccezione proposta dalla Regione Liguria, secondo la quale il ricorso statale sarebbe inammissibile in parte qua in relazione all'asserito contrasto della disposizione censurata con l'art. 117, primo comma, Cost., “dal momento che nel quadro del nuovo Titolo V della Costituzione sarebbe superata ogni ‘asimmetria’ di posizione fra Stato e Regioni e dovrebbe quindi «ritenersi inammissibile, per carenza di interesse, la censura non avente radice nel vizio di incompetenza»”. In proposito, la Corte ha richiamato il costante orientamento giurisprudenziale secondo il quale, “pur dopo la riforma, lo Stato può impugnare in via principale una legge regionale deducendo la violazione di qualsiasi parametro costituzionale”.
Sul versante opposto a quello sin qui considerato, si pongono i ricorsi regionali o provinciali che sono considerati ammissibili soltanto nel caso in cui il ricorrente ritenga lesa direttamente o indirettamente una propria competenza costituzionalmente attribuita. La Corte ha, dunque, ribadito tale indirizzo nella sentenza n. 116, con la quale si è ritenuta inammissibile la censura sollevata dalla Regione ricorrente in riferimento alla mancata consultazione delle popolazioni interessate prima di adottare le norme impugnate, secondo quanto prescriverebbe la normativa comunitaria ed internazionale. In merito, la Corte ha precisato che, anche volendosi prescindere dalla dubbia riferibilità delle disposizioni comunitarie e internazionali richiamate ai procedimenti legislativi, “le Regioni non sono legittimate a far valere nei ricorsi in via principale gli ipotetici vizi nella formazione di una fonte primaria statale, se non «quando essi si risolvano in violazioni o menomazioni delle competenze» regionali”. Sempre con la suddetta sentenza, la Corte ha, del pari, ritenuto inammissibili le censure svolte evocando a parametro l'art. 117, secondo comma, lettera s), anche in relazione agli artt. 9, 32 e 33 della Costituzione. I suddetti parametri, secondo la ricorrente, sarebbero stati invocabili in forza del "diritto-dovere" della Regione “ad intervenire nel caso di inadempimento statale, a tutela della popolazione di cui la stessa è espressione in ordine a materie e valori costituzionalmente garantiti”. Al riguardo, tuttavia, la Corte ha osservato che “il perimetro, entro il quale assumono rilievo gli interessi al cui perseguimento è tesa l'attività legislativa, risulta rigorosamente conformato dalle norme costituzionali attributive di competenza, sicché non è concesso alla Regione di dedurre, a fondamento di un proprio ipotetico titolo di intervento, una competenza primaria riservata in via esclusiva allo Stato, neppure quando essa si intreccia con distinte competenze di sicura appartenenza regionale: saranno, semmai, queste ultime a poter essere dedotte a fondamento di un ricorso di legittimità costituzionale in via principale promosso da una Regione.” Quanto agli artt. 9, 32 e 33 della Costituzione, la Corte, fermo quanto precisato circa l'ambito entro cui interessi, principi e valori costituzionali assumono rilievo ai fini del giudizio in via principale delle leggi promosso dalle Regioni, ha ribadito che queste ultime possono far valere il contrasto con norme costituzionali diverse da quelle attributive di competenza legislativa “soltanto se esso si risolva in una esclusione o limitazione dei poteri regionali, senza che possano avere rilievo denunce di illogicità o di violazione di principi costituzionali che non ridondino in lesione delle sfere di competenza regionale”.
b) Relativamente alle vicende che incidono sul persistere dell’interesse al ricorso ed alla decisione, sono molteplici le affermazioni che si connettono alla modifica ed all’abrogazione delle disposizioni oggetto del giudizio.
La modifica ovvero l’abrogazione della disposizione impugnata successivamente al ricorso (giacché l’abrogazione anteriore al ricorso conduce all’inammissibilità dello stesso, sentenza n. 3) in senso satisfattivo dell’interesse del ricorrente conduce ad una cessazione della materia del contendere soltanto quando la disposizione modificata o abrogata non abbia avuto medio tempore attuazione (sentenze numeri 80 e 370), nel caso contrario potendosi constatare la persistenza dell’interesse alla pronuncia di merito (sentenza n. 405), salva l’ipotesi della rinuncia al ricorso seguita da accettazione (sentenza n. 425). L’abrogazione di una delle disposizioni impugnate comporta la cessazione della materia del contendere anche relativamente alle altre disposizioni impugnate per illegittimità costituzionale “consequenziale” (sentenza n. 103). Ugualmente, comporta la cessazione della materia del contendere la rettifica dell’espressione normativa, con relativa pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, rettifica ritenuta legittima in quanto consentita dal D.P.R. n. 217 del 1986, senza che rilevi se sia trattato di un errore materiale o di un originario fraintendimento del legislatore (sentenza n. 20). Con la sentenza n. 181 è stata dichiarata la cessazione della materia del contendere sull’art. 1 della legge della Regione Toscana n. 56 del 2004, attesa l’abrogazione di tale norma da parte della successiva legge regionale n. 40 del 2005, legge il cui articolo 59, del pari impugnato, riproduce il contenuto della abrogata disposizione. Parimenti, determina una sopravvenuta carenza di interesse, che conduce alla declaratoria processuale di cessazione della materia del contendere, la circostanza, dedotta dalla stessa ricorrente, che “sino ad oggi non risultano emanati i decreti attuativi delle norme impugnate”, risultando, inoltre, “scaduto” il termine previsto per l’espletamento di tale incombente” (sentenza n. 216).
Con la sentenza n. 118 è stata invece respinta la tesi, prospettata dall'Avvocatura generale dello Stato, secondo la quale non vi sarebbe, ab origine, materia del contendere per la non applicabilità alla Regione ricorrente delle disposizioni censurate. Invero, la Corte, da un lato, non ha ritenuto sufficiente il generico riferimento alla clausola di salvaguardia contenuta nella stessa legge impugnata – secondo la quale le norme della legge stessa sono applicabili alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome solo in quanto compatibili con le norme dei rispettivi statuti – dall'altro, ha rilevato che non risultava precisato quali norme della legge finanziaria impugnata dovessero considerarsi non applicabili alla ricorrente per incompatibilità con lo statuto speciale e quali, invece, dovessero ritenersi applicabili.
A fortiori inidonea ad escludere l’interesse al ricorso è stata ritenuta la modificazione della disposizione impugnata, allorché il contenuto precettivo non risulti sostanzialmente mutato (sentenze numeri 134 e 449), ditalchè le questioni sono state trasferite sulle nuove disposizioni (sentenza n. 239). Ancora, è stata ritenuta inidonea ad escludere una carenza di interesse al ricorso la circostanza che le norme censurate non avrebbero mai avuto attuazione (sentenza n. 451).
Come è chiaro, il difetto sopravvenuto di interesse può essere reso manifesto dalla rinuncia formale al ricorso, che produce, se accettata, la estinzione del giudizio (ordinanze numeri 5, 85, 230, 356, 379 e 417). Ovviamente la rinuncia parziale e la conseguente accettazione conducono all’estinzione del giudizio in parte qua (sentenze numeri 81, 365 e 422). Anche in mancanza di costituzione in giudizio della parte resistente, la rinuncia al ricorso comporta, ex art. 25 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte, l’estinzione del processo (sentenza n. 81, ordinanze numeri 11, 99, 163, 348 e 418). Non mancano, peraltro, casi di rinuncia non seguita dal deposito dell’atto di accettazione, rinuncia che, senza poter estinguere il giudizio, fornisce comunque, unitamente ad altri elementi (nella specie l’abrogazione della norma impugnata che non abbia avuto medio tempore, applicazione), un segno inequivocabile del venir meno di ogni interesse alla decisione della Corte (ordinanza n. 345).
Inoltre, la cessazione della materia del contendere con la sentenza n. 214 è stata dichiarata in seguito all’intesa – satisfattiva delle pretese della ricorrente – tra lo Stato e la Regione sottoscritta in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le province autonome di Trento e Bolzano.
Infine, un cenno a parte meritano le peculiari ipotesi di promulgazione parziale, o anche di mancata promulgazione (ordinanza n. 385) delle leggi siciliane impugnate dallo Stato, che è stata conformemente interpretata, anche nella giurisprudenza di quest’anno, come una manifestazione tacita della Regione di acquiescenza ai rilievi statali e ha conseguentemente comportato una dichiarazione di cessazione della materia del contendere (ordinanze numeri 111, 136, 147, 171, 204, 231, 309, 330, 340, 347, 349, 358, 389, 404 e 410).
In merito all’interesse a ricorrere in relazione alle disposizioni impugnate, si veda anche supra par. 3.


6. La riunione e la separazione delle cause
Anche nel corso dell’anno 2006 la Corte ha utilizzato, in più occasioni, la tecnica della separazione delle questioni proposte con il medesimo ricorso e del loro contestuale accorpamento “trasversale” con questioni omogenee proposte da altri ricorsi.
A tale tecnica la Corte ricorre nel caso di una pluralità di ricorsi proposti avverso un medesimo atto normativo e che tuttavia siano caratterizzati dalla impugnazione di disposizioni dal contenuto molto eterogeneo. Le singole questioni proposte dai diversi ricorsi introduttivi vengono prima separate e poi riunite in un unico giudizio in modo tale che con una decisione unica possano essere risolte questioni omogenee, sia pure sollevate da più di un ricorso.
I 113 ricorsi integralmente definiti nel 2006 hanno visto 11 casi di riunione e 8 pronunce di separazione.
La riunione è stata disposta relativamente a ricorsi statali avverso leggi regionali, in cinque casi, per la sostanziale identità della materia e per l’analogia delle questioni prospettate (sentenze numeri 49 e 80), perché i ricorsi “hanno ad oggetto questioni concernenti la medesima materia e in gran parte coincidenti” (sentenza n. 405), per la sostanziale connessione oggettiva dei ricorsi (sentenze numeri 103 e 233). La separazione, invece, è stata disposta in due soli casi (sentenze numeri 80 e 233).
Nei restanti 6 casi, concernenti ricorsi regionali avverso leggi statali, si sono avute riunioni di impugnative per la sostanziale identità della materia e per l’analogia delle questioni prospettate (sentenze numeri 134, 213 e 214), per la connessione oggettiva dei ricorsi (sentenza n. 181), per “l’identità dell’oggetto delle questioni proposte, riferite alla medesima disposizione” (sentenza n. 87), per la “comunanza di argomento delle questioni oggetto dei predetti ricorsi” (sentenza n. 216). La separazione è stata disposta in sei casi (sentenze numeri 87, 88, 118, 133, 134 e 213).


7. Il contraddittorio di fronte alla Corte
Il processo in via principale, in quanto processo di parti, si caratterizza per una assai elevata percentuale di casi nei quali le parti si costituiscono di fronte alla Corte.
L’anno 2006 non fa, in questo senso, eccezione. A fronte dei 113 ricorsi decisi, si sono avuti 26 casi di mancata costituzione delle regioni. Lo Stato si è sempre costituito. I casi di mancata costituzione delle Regioni, concernono 16 ipotesi di impugnative proposte dal Commissario dello Stato per la Regione Siciliana che si sono concluse con un dispositivo di cessazione della materia del contendere (ordinanze numeri 111, 136, 147, 171, 204, 231, 309, 330, 340, 347, 349, 358, 389, 404 e 410) e con un dispositivo di estinzione del giudizio (ordinanza n. 348). I restanti 10 casi sembrano, invece, assumere diversi significati: così, in tre giudizi in cui lo Stato è rimasto l’unico soggetto presente si è avuta una dichiarazione di incostituzionalità (sentenze numeri 40, 247 e 322) ed in un quarto una dichiarazione di incostituzionalità ed una di estinzione del giudizio (sentenza n. 81). In due casi si è fatto luogo ad una pronuncia di merito, ma di rigetto (sentenze numeri 42 e 62). Nei restanti 4 giudizi non si è proceduto ad uno scrutinio di merito per la rinuncia al ricorso, prodromo dell’estinzione (ordinanze numeri 11, 99, 163 e 418).
In taluni casi la costituzione di una Regione è stata dichiarata inammissibile.
Nel giudizio concluso con la sentenza n. 12 è stata dichiarata inammissibile, ai sensi degli artt. 25, 31 e 34 della legge 11 marzo 1953, n. 87 e dell’art. 23, comma 1, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, la costituzione in giudizio della Regione Abruzzo, per la quale era stato depositato un atto privo della procura ad litem. Nella specie, la stessa risultava conferita “in relazione ad un ricorso promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri avverso la legge regionale 5 agosto 2004, n. 22 (Nuove disposizioni in materia di politiche di sostegno all’economia ittica) e non invece avverso lo statuto regionale”. Ugualmente, sempre per il deposito di un atto privo della procura ad litem, è stata dichiarata inammissibile la costituzione in giudizio della Regione Abruzzo, nel giudizio conclusosi con la sentenza n. 22 e nel giudizio conclusosi con la sentenza n. 29, nella quale la Corte ha precisato che “il difetto di una valida procura alle liti, rende (…) tamquam non esset l’attività processuale svolta dalla difesa regionale”.
Al di là di questi casi inerenti alla costituzione delle parti, uno dei profili che maggiormente hanno caratterizzato il processo in via principale nel corso del 2006 è rappresentato dalla frequenza degli atti di intervento spiegati da terzi, che hanno riguardato i giudizi conclusi da nove pronunce (sentenze numeri 51, 59, 80, 103, 116, 129, 245, 265 e 450), per un numero totale di 18 interventi.
Per ciò che concerne l’intervento nel giudizio in via principale spiegato da soggetti che non siano titolari di competenze legislative, la Corte ha ribadito, anche nella giurisprudenza di quest’anno, il costante orientamento, secondo il quale “le parti del giudizio di costituzionalità delle leggi promosso ai sensi dell’art. 127 Cost. sono esclusivamente i soggetti titolari delle potestà legislative in contestazione” (sentenze numeri 51, 59, 80, 116 e 450). Ugualmente, con la stessa motivazione, sono stati dichiarati inammissibili gli interventi della Rai-Radiotelevisione Italiana S.p.a. e Rai Way S.p.a., da Telecom Italia Mobile S.p.a. e da Vodafone Omnitel N.V. (quest’ultima, tra l’altro, con atto depositato tardivamente) nel giudizio conclusosi con la sentenza n. 103, nella quale, peraltro, si dà atto che “le argomentazioni in senso contrario addotte dagli interventori” non sono idonee a determinare un mutamento di indirizzo interpretativo”. Ancora, con la sentenza n. 129, nel dichiarare l’inammissibilità degli interventi di Tim Italia S.p.a. e di Vodafone Ominitel N.V., la Corte ha ribadito che “alla stregua della normativa in vigore e conformemente alla costante giurisprudenza di questa Corte (…) non è ammissibile l’intervento in tali giudizi di soggetti privi di potere legislativo”. Nello stesso senso è pure la sentenza n. 265, con la quale viene dichiarato inammissibile l’intervento in giudizio della Wind telecomunicazioni s.p.a., mentre, per quanto concerne l’intervento spiegato da Telecom Italia Mobile s.p.a.. (TIM), si dà atto che quest’ultima ha rinunciato all’intervento stesso, peraltro, secondo la Corte, inammissibile alla stregua delle motivazioni sopra esposte. Infine, nella sentenza n. 245, la Corte ha rinviato ogni decisione sull’intervento espletato dalla Associazione Italiana per il World Wide Fund for Nature Onlus (WWF), essendosi pronunciata soltanto sull’istanza di sospensione dell’esecuzione delle norme impugnate, proposta dalla Regione Emilia-Romagna, ai sensi dell’art. 35 della legge 11 marzo 1953, n. 87, come modificato dall’art. 9, comma 4, della legge 5 giugno 2003, n. 131.


8. Le decisioni della Corte
Le decisioni rese nel 2006, sono, come detto, 113, di cui 82 sono sentenze e 31 sono ordinanze. Le ordinanze emesse nell’anno in esame sono state conseguenza di decisioni di estinzione del giudizio a seguito di rinuncia al ricorso (14 decisioni), di cessazione della materia del contendere (25 decisioni), mentre in un caso si è trattato di pronuncia di manifesta inammissibilità in quanto il ricorso era stato presentato fuori termine e, in un altro caso, di improcedibilità del ricorso sempre perché depositato fuori termine. Infine, una decisione ha dichiarato il non luogo a provvedere sull’istanza di sospensione per mancanza dei presupposti legittimanti la sospensione stessa.

8.1. Le decisioni interlocutorie
Nel corso del 2006 non constano ordinanze istruttorie emanate nel corso del giudizi in via principale. Anche per ciò che concerne gli interventi di terzi, la Corte ha sempre provveduto sugli stessi con sentenza. Si rinvia, in proposito, a quanto si è avuto modo di rilevare supra, par. 7.

8.2. L’estinzione del giudizio
I casi di estinzione a seguito di rinuncia al ricorso, ai sensi dell’art. 25 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, sono stati, in totale 14. Di questi, tre sono stati estinti parzialmente (sentenze numeri 81, 365 e 422), mentre negli altri undici casi la rinuncia ha prodotto una preclusione assoluta alla trattazione del merito dei ricorsi (ordinanze numeri 5, 11, 85, 99, 163, 230, 348, 356, 379, 417 e 418).
Da notare che in 5 casi la rinuncia è intervenuta in relazione a giudizi che non avevano visto la costituzione del resistente (ordinanze numeri 11, 99, 163, 348 e 418), donde l’assenza della necessità di una accettazione della rinuncia, altrimenti indefettibile.

8.3. Le decisioni processuali
Le decisioni processuali sono ripartite tra dichiarazioni di cessazione della materia del contendere, inammissibilità e manifeste inammissibilità.
A] Si sono avuti 25 casi di cessazione della materia del contendere. La maggior parte di queste ipotesi sono dovute – come più dettagliatamente riferito supra, par. 5 – all’avvenuta abrogazione, sostituzione o modifica delle disposizioni impugnate (sentenze numeri 20, 80, 181, 370, 425 e ordinanza n. 345). Nella sentenza n. 103, l’intervenuta abrogazione di una delle disposizioni ha comportato anche la cessazione della materia del contendere delle altre disposizioni impugnate per illegittimità consequenziale, mentre nella sentenza n. 216 la cessazione della materia del contendere è dovuta al fatto che non risultano emanati i decreti attuativi delle norme impugnate e “risultando, inoltre, scaduto il termine previsto per l’espletamento di tale incombente”. In tale gruppo si colloca anche la sentenza n. 214, nella quale la cessazione della materia del contendere è stata pronunciata a seguito all’accordo raggiunto in sede di Conferenza permanente tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano.
In 15 casi, si è riproposta la cessazione della materia del contendere conseguente alla promulgazione parziale delle leggi siciliane sottoposte allo scrutinio di legittimità costituzionale (ordinanze numeri 111, 136, 147, 171, 204, 231, 309, 330, 340, 347, 349, 358, 389, 404 e 410). Nella sentenza n. 385, successivamente all’impugnazione, la delibera legislativa non è stata proprio promulgata.
B] Il numero più cospicuo di decisioni processuali è costituito, comunque, dalle 29 pronunce di inammissibilità, sovente presenti in numero plurimo all’interno di una decisione (ad esempio, si contano quattro capi di dispositivi di inammissibilità nelle sentenze n. 49, 216 e 246, tre capi nella sentenza n. 233), per un totale di 45 dispositivi.
Siffatte pronunce sono motivate principalmente da difetti riscontrati in ordine alla motivazione delle censure (sentenze numeri 20, 51, 129, 253, 365, 399 e 246). In merito si rileva che, nella sentenza n. 49, la mancanza di argomentazioni in ordine alla disposizione oggetto di impugnazione ha condotto ad una pronuncia di inammissibilità della stessa impugnazione. Altri vizi sono stati riscontrati nella individuazione dei termini delle questioni (sentenze numeri 139, 214, 215, 233 e 397), nell’invocazione di parametri diversi da quelli concernenti il riparto di competenze tra lo Stato e le Regioni (sentenza n. 116) e nel difetto di interesse, variamente argomentato (sentenza n. 3).
Piuttosto numerosi sono anche i casi nei quali l’inammissibilità deriva dall’assenza, nella deliberazione del Consiglio dei ministri o della Giunta regionale, di riferimenti relativi alle disposizioni oggetto di impugnazione (sentenze numeri 49, 155, 323, 365, 396, 423 e 450); non mancano, poi, decisioni che censurano la genericità della delibera in questione (sentenza n. 216).
C] Ad esaurire il novero delle decisioni di tipo processuale, deve menzionarsi l’ordinanza n. 218, con la quale il deposito tardivo del ricorso è stato all’origine di una declaratoria di manifesta inammissibilità.

8.4. Le decisioni di rigetto
La maggioranza relativa delle formule contenute nei dispositivi delle decisioni è rappresentata da quelle che constatano la non fondatezza delle questioni poste, che sono, in totale, 82. Tra queste, due (sentenze numeri 233 e 248) sono interpretative di rigetto, presentando il riferimento a “i sensi di cui in motivazione”.
Il dato così esiguo delle decisioni interpretative non osta alla constatazione del notevole impiego di strumenti ermeneutici anche nell’ambito del giudizio in via principale. Sono, infatti, assai frequenti le sentenze di rigetto che, pur non recando traccia nel dispositivo, possono dirsi, nella sostanza, interpretative (sentenze numeri 3, 42, 62, 82, 102, 129, 156, 213 e 214). Ad esse possono aggiungersi le statuizioni che muovono dal riconoscimento di un erroneo presupposto interpretativo (sentenze numeri 103, 323, 365, 406 e 412).
Lo sviluppo dell’attività ermeneutica nel giudizio in via principale ha fatto sì che anche in esso la declaratoria di illegittimità costituzionale si configurasse alla stregua di una extrema ratio, avendo la Corte ribadito “la validità del principio secondo il quale una disposizione di legge non può essere ritenuta costituzionalmente illegittima soltanto perché tra le varie opzioni interpretative e applicative se ne possa ipotizzare qualcuna lesiva di norme costituzionali” (sentenze numeri 238 e 239) e preferendo, quindi, tra le varie interpretazioni possibili della norma censurata, quella costituzionalmente orientata (si veda in proposito la sentenza n. 412).

8.5. Le decisioni di accoglimento
I capi di dispositivo che recano una declaratoria di illegittimità costituzionale sono 75. Le tipologie di accoglimento presentano forti profili di comunanza con quelle che si sono riscontrate nel giudizio in via incidentale (accoglimento tout court, ablativo, additivo, sostitutivo), con l’aggiunta della declaratoria in via consequenziale.
A] Per quel che concerne le illegittimità costituzionali tout court, si segnalano 48 dispositivi (sentenze numeri 12 – 4 capi di dispositivo –, 29, 30, 40 e 49 – 2 capi di dispositivo –, 59, 75, 80, 81, 87, 116, 118, 129, 132, 153, 173, 181, 205, 211, 212, 213, 214, 237, 246, 247, 248 – 4 capi –, 253, 265, 284, 363, 364, 405 e 412 – 2 capi –, 422, 423, 424, 440, 447, 449 e 450 – 1 capo – ).
Da notare è che, se generalmente queste formule si rivolgono ad uno o più articoli o commi, talvolta colpiscono un atto nel suo complesso. A tal proposito si segnala la sentenza n. 59, in cui la disciplina contenuta nell’atto legislativo della Provincia autonoma di Bolzano introduceva una disciplina in materia di divieto di fumo alternativa a quella statale. Ugualmente, la sentenza n. 247 ha dichiarato l’atto legislativo regionale in materia di rifiuti radioattivi incostituzionale nel suo complesso, perché esorbitante dai limiti della competenza legislativa della regione.
B] Le decisioni di tipo additivo sono piuttosto limitate (9 capi di dispositivo) e presentano una certa varietà nella formulazione. Così, se nella maggior parte dei casi, l’incostituzionalità di una disposizione viene pronunciata “nella parte in cui non prevede” un determinato contenuto (sentenze numeri 29, 49, 129, 133, 182 – 1 capo – e 214), non mancano altri tipi di dichiarazioni: dall’incostituzionalità della disposizione “nella parte in cui non stabilisce” un certo contenuto (sentenza n. 213), all’incostituzionalità “nella parte in cui non dispone” (sentenza numero 182 – 1 capo –) ovvero nella parte “in cui non esclude” qualcosa (sentenza n. 396).
C] Le decisioni di tipo ablativo sono 11. La maggior parte di esse sono strutturate come illegittimità costituzionali di una disposizione “limitatamente alle parole” specificate nel dispositivo (sentenze numeri 23 e 322 – 2 capi –). Negli altri casi, l’incostituzionalità della norma è dichiarata “nella parte in cui prevede” qualcosa (sentenze numeri 82, 102, 103 e 449) o “nella parte in cui determina” l’ammontare di un certo tributo (sentenze n. 412 e 413).
Nell’ambito di tale categoria si segnalano il dispositivo della sentenza n. 88, nella quale l’incostituzionalità ha avuto riguardo alla disposizione “nella parte in cui si applica” a determinati soggetti (nella specie, alla Regione Friuli-Venezia Giulia), e uno dei dispositivi della sentenza n. 233, con il quale è stata dichiarata l’illegittimità della disposizione “nella parte in cui si applica anche alla nomina del direttore generale di azienda ospedaliera-universitaria”.
D] In 2 casi, la Corte ha adottato un dispositivo di tipo sostitutivo, dichiarando la illegittimità della disposizione “nella parte in cui prevede che il regolamento del Ministero della salute (...), sia adottato ‘sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano’, anziché ‘previa intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano’” (sentenza n. 134), ovvero la illegittimità dell’articolo 34, comma 3, della legge regionale della Toscana n. 1 del 2005 “nella parte in cui stabilisce che sia il piano strutturale del Comune a indicare le aree in cui la realizzazione degli interventi non è soggetta all’autorizzazione paesaggistica di cui all’art. 87 della legge regionale, anziché il piano regionale paesaggistico con specifica considerazione dei valori paesaggistici” (sentenza n. 182).
E] Nel corso del 2005, sono state adottate anche 5 dichiarazioni di illegittimità costituzionale in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27, secondo periodo, della legge n. 87 del 1953.
Nella sentenza n. 40, alla declaratoria principaliter di alcune disposizioni ha fatto seguito la incostituzionalità di tutte le altre disposizioni della legge regionale censurata, in quanto la Corte non poteva omettere di rilevare che l’intera legge regionale in esame è inscindibilmente connessa con le disposizioni specificatamente censurate dal ricorrente, in quanto gli artt. (….) non impugnati, sono palesemente funzionali al raggiungimento dello scopo della legge stessa”. Analoga è stata la motivazione addotta per l’incostituzionalità in via consequenziale di cui alla sentenza n. 424, nella quale, la pronuncia è stata resa una volta constatato che “l’intera legge regionale in esame è inscindibilmente connessa con le disposizioni specificatamente censurate dal ricorrente”.
Nelle sentenze numeri 12, 116 e 253, l’illegittimità costituzionale consequenziale è stata estesa a tutti i commi degli articoli impugnati sempre per l’inscindibile connessione con quelli colpiti dalla declaratoria di incostituzionalità.


9. Il controllo degli statuti ordinari ai sensi dell’art. 123 della Costituzione
Nel corso del 2006, la Corte ha reso una sola decisione in merito al controllo degli statuti ordinari, ai sensi dell’art. 123 della Costituzione (sentenza n. 12).
Il Presidente del Consiglio dei ministri aveva impugnato molteplici disposizioni dello statuto della Regione Abruzzo approvato in prima deliberazione il 20 luglio 2004 ed in seconda deliberazione il 21 settembre 2004. Il giudizio si è concluso con una pronuncia che reca quattro declaratorie di incostituzionalità tout court, una pronuncia di illegittimità costituzionale consequenziale e due pronunce di non fondatezza. La Corte, inoltre, con la medesima sentenza, ha dichiarato inammissibile l’intervento della Regione Abruzzo giacché la procura depositata risultava conferita in relazione al un ricorso promosso dal Presidente del Consiglio avverso una legge regionale e non già avverso lo Statuto (supra par. 7).


10. La sospensiva nel giudizio sulle leggi
Nel giudizio conclusosi con la sentenza n. 245, la Corte è stata sollecitata a dare applicazione al recente istituto della sospensione di atti legislativi di cui all’art. 35 della legge n. 87 del 1953, come sostituito dall’art. 9 della legge n. 131 del 2003.
Tale ultima disposizione, come noto, prevede la possibilità della sospensione, in pendenza di giudizio, degli atti impugnati nell’ambito del conflitto di attribuzione tra Stato e Regione.
Il giudizio, tuttavia, si è concluso con una declaratoria di non luogo a provvedere sull’istanza di sospensione, avendo il ricorrente prospettato “in maniera sostanzialmente assertiva la sussistenza dei relativi presupposti, omettendo di svolgere argomenti in grado di indurre la Corte” ad eventualmente adottare, d’ufficio, i provvedimenti di cui agli artt. 35 e 40 della legge n. 87 del 1953”.

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