[A cura di M. Bellocci, S. Magnanensi, E. Rispoli e P. Passaglia]


1. L’organizzazione delle Regioni
1.1. L’autonomia statutaria
1.2. La forma di governo regionale
1.3. Il Consiglio regionale
1.4. Il procedimento legislativo regionale
1.5. La titolarità del potere regolamentare

2. Le Regioni ed il diritto internazionale

3. Le Regioni ed il diritto comunitario

4. La ripartizione delle competenze normative

4.1. Le materie di competenza esclusiva dello Stato
4.1.1. «Politica estera e rapporti internazionali dello Stato»
4.1.2. «Immigrazione»
4.1.3. «Tutela della concorrenza»
4.1.4. «Sistema tributario e contabile dello Stato»
4.1.5. «Ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali»
4.1.6. «Ordine pubblico e sicurezza»
4.1.7. «Ordinamento civile»
4.1.8. «Ordinamento […] penale»
4.1.9. «Determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale»
4.1.10. «Norme generali sull’istruzione»
4.1.11. «Legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane»
4.1.12. «Tutela dell’ambiente [e] dell’ecosistema»

4.2. Le materie di competenza concorrente
4.2.1. «Tutela […] del lavoro»
4.2.2. «Professioni»
4.2.3. «Ricerca scientifica»
4.2.4. «Tutela della salute»
4.2.5. «Protezione civile»
4.2.6. «Governo del territorio»
4.2.7. «Produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia»
4.2.8. «Valorizzazione dei beni […] ambientali»

4.3. Le materie di competenza residuale delle Regioni
4.3.1. «Commercio»
4.3.2. «Turismo»
4.3.3. «Pesca»
4.3.4. «Organizzazione amministrativa della Regione»
4.3.5. «Formazione professionale»
4.3.6. «Caccia»

4.4. La compenetrazione delle materie «tutela dell’ambiente» ed «agricoltura»

4.5. L’operare congiunto di una pluralità di titoli competenziali

4.6. L’attrazione in sussidiarietà

4.7. La ripartizione del potere regolamentare

5. Il principio cooperativo

6. L’autonomia finanziaria
6.1. I principi di coordinamento della finanza pubblica
6.2. L’istituzione di fondi speciali statali a destinazione vincolata
6.3. Gli interventi speciali dello Stato

7. Il potere sostitutivo

8. La libera circolazione delle persone e delle cose tra le Regioni

9. Le questioni decise sulla base del Titolo V nel testo anteriore alla riforma del 2001

10. Le Regioni a statuto speciale e le Province autonome



1. L’organizzazione delle Regioni

Sebbene numericamente esigue, le decisioni che hanno riguardo all’organizzazione interna degli enti regionali assumono una particolare importanza, in considerazione degli ambiti materiali in cui intervengono. Di seguito si riportano le affermazioni salienti rese con precipuo riferimento alle Regioni a statuto ordinario; si segnalano, tuttavia, anche alcune sentenze aventi ad oggetto l’organizzazione delle Regioni a statuto speciale, per le quali si rinvia a quanto si dirà infra, par. 10.

1.1. L’autonomia statutaria
La sentenza n. 12 reca importanti affermazioni concernenti l’autonomia statutaria e l’organizzazione delle Regioni.
Rinviando a quanto si dirà tra breve in ordine ai diversi ambiti materiali affrontati nella decisione, può segnalarsi come, con precipuo riferimento allo statuto regionale come fonte del diritto, nella decisione si affermi che lo statuto è valida fonte primaria e fondamentale dell’ordinamento regionale, a condizione che esso sia «in armonia con la Costituzione» (art. 123, primo comma, Cost.). Il sistema costituzionale complessivo, che si articola nei principî contenuti nelle singole norme della Carta fondamentale e delle leggi ordinarie di diretta attuazione, rappresenta pertanto il contesto, all’interno del quale si deve procedere alla lettura ed all’interpretazione delle norme statutarie, che in quel sistema vivono ed operano.

1.2. La forma di governo regionale
La Corte, nella sentenza n. 12, condivide la censura di illegittimità riguardante l’art. 45, comma 3, dello statuto della Regione Abruzzo, il quale dispone che «il Presidente della Giunta nel caso in cui il Consiglio sfiduci uno o più assessori provvede alla loro sostituzione».
Al riguardo, la Corte constata che con il primo inciso del quinto comma dell’art. 122 Cost viene attribuita alle Regioni la facoltà di prevedere nei propri statuti modi di elezione del Presidente diversi dal suffragio universale e diretto e che, con il secondo inciso, viene fissata una conseguenza necessaria dell’opzione in favore dell’elezione a suffragio universale e diretto, nel senso che il Presidente «eletto» nomina e revoca di sua iniziativa gli assessori. La presenza del citato aggettivo indica un potere consequenziale e indefettibile proprio del Presidente individuato mediante voto popolare. Il corpo elettorale investe contemporaneamente il Presidente del potere esecutivo ed il Consiglio del potere legislativo e di controllo nei confronti del Presidente e della Giunta, sul presupposto dell’armonia dell’indirizzo politico presuntivamente garantita dalla simultanea elezione di entrambi nella medesima tornata elettorale e dai medesimi elettori.
Il principio funzionale largamente noto con l’espressione aut simul stabunt aut simul cadent esclude che possano essere introdotti circuiti fiduciari collaterali ed accessori rispetto alla presuntiva unità di indirizzo politico derivante dalla contemporanea investitura popolare di Presidente e Consiglio. L’approvazione di una mozione di sfiducia da parte del secondo o le dimissioni del primo fanno venir meno la presunzione di consonanza politica derivante dalla consultazione elettorale e rendono necessario, in modo coerente, un nuovo appello al popolo, al quale si chiede di restaurare il presupposto fondamentale della omogeneità di indirizzo politico che deve caratterizzare i programmi e le attività sia del Presidente che del Consiglio.
Nel quadro delineato non trova posto la rottura di un ipotetico rapporto fiduciario tra Consiglio e singoli assessori, che si risolverebbe esclusivamente in una pura e semplice riduzione dei poteri spettanti al Presidente, investito della carica dal corpo elettorale proprio per il suo essere ed agire quale unico soggetto esponenziale del potere esecutivo nell’ambito della Regione, munito di poteri che lo rendono interamente responsabile, sul piano politico, dell’operato di tutti i componenti della Giunta. L’equilibrio tra poteri configurato nel modello disegnato dalla Costituzione verrebbe alterato se si privasse il Presidente della possibilità di scegliere e revocare discrezionalmente gli assessori della propria Giunta, del cui operato deve rispondere al Consiglio ed al corpo elettorale.
Da questo presupposto discende che la forma di governo prevista dalla Costituzione per le Regioni, e sinteticamente designata con le parole «Presidente eletto a suffragio universale e diretto», appare «caratterizzata dall’attribuzione ad esso di forti e tipici poteri per la gestione unitaria dell’indirizzo politico e amministrativo della Regione (nomina e revoca dei componenti della Giunta, potere di dimettersi facendo automaticamente sciogliere sia la Giunta che il Consiglio regionale)» (sentenza n. 2 del 2004).
Una volta scelta la forma di governo, caratterizzata dall’elezione a suffragio universale e diretto del Presidente, nei confronti del Consiglio esiste solo la responsabilità politica del Presidente stesso, nella cui figura istituzionale confluiscono la responsabilità collegiale della Giunta e la responsabilità individuale dei singoli assessori. La sfiducia individuale agli assessori si pone, di conseguenza, in contrasto con l’art. 122, quinto comma, Cost., in cui si riflettono i principî ispiratori dell’equilibrio costituzionale tra i supremi organi regionali derivante dall’investitura popolare del Presidente.
Altresì fondata si rivela l’impugnativa del Presidente del Consiglio dei ministri avverso l’art. 46, comma 2, del citato statuto della Regione Abruzzo, il quale – riferendosi all’obbligo del Presidente della Giunta di presentare il programma nella prima seduta del Consiglio regionale successiva alle elezioni – dispone che «il programma è approvato dal Consiglio regionale. Il voto contrario produce gli stessi effetti dell’approvazione della mozione di sfiducia».
In proposito, la Corte ha già chiarito che la previsione in uno statuto regionale del potere del Consiglio di discutere e approvare il programma di governo predisposto dal Presidente non è in contrasto con la Costituzione, a condizione che dalla mancata approvazione del programma stesso non derivino conseguenze di tipo giuridico «certamente inammissibili ove pretendessero di produrre qualcosa di simile ad un rapporto fiduciario» (sentenza n. 379 del 2004). Lo stesso tenore letterale del secondo e terzo comma dell’art. 126 Cost. non consente l’equiparazione tra mozione di sfiducia e mancata approvazione iniziale del programma di governo. Per la presentazione e l’approvazione di una mozione di sfiducia sono previste infatti alcune precise modalità procedurali – motivazione, sottoscrizione di almeno un quinto dei componenti del Consiglio, intervallo di tre giorni prima della messa in discussione, maggioranza assoluta – che verrebbero eluse se un altro atto, non assistito dalle medesime garanzie, potesse produrre gli stessi effetti.
L’articolazione concreta dei rapporti politici tra Presidente della Giunta e Consiglio prende le mosse dalla simultanea investitura politica di entrambi da parte del corpo elettorale. Ogni atto di indirizzo dell’uno o dell’altro si pone come svolgimento, precisazione e arricchimento del mandato a rappresentare e governare conferito dagli elettori della Regione ai titolari dei poteri legislativo ed esecutivo. È intrinseca a questo modello una iniziale presunzione di consonanza politica, che può essere superata solo da un atto tipico quale la mozione di sfiducia.
Estendere gli effetti di questa ad un atto di approvazione del programma politico del Presidente della Giunta equivarrebbe ad un conferimento di fiducia iniziale senz’altro coerente in una forma di governo che non prevede l’elezione a suffragio universale e diretto del vertice dell’esecutivo, ma contraddittorio con un sistema di rapporti tra poteri fondato sul conferimento da parte del popolo di un mandato a governare ad entrambi gli organi supremi della Regione, ciascuno nei suoi distinti ruoli. Il Presidente eletto a suffragio universale e diretto ha già presentato il suo programma agli elettori e ne ha ricevuto il consenso. La presentazione di un programma al Consiglio può avere solo il significato di precisare e integrare l’indirizzo politico originariamente elaborato e ritenuto dalla maggioranza degli elettori convergente con il proprio. Tali precisazioni e integrazioni saranno apprezzate di volta in volta dal Consiglio, che, nell’ipotesi di divergenza estrema, potrà adottare la decisione di provocare una nuova consultazione elettorale.
La conseguenza è che esiste tra Presidente della Giunta e Consiglio regionale un rapporto di consonanza politica, istituito direttamente dagli elettori, la cui cessazione può essere ufficialmente dichiarata sia dal Presidente che dal Consiglio con atti tipici e tassativamente indicati dalla Costituzione. Anche nell’ipotesi che il Consiglio, subito dopo le elezioni, volesse costringere il Presidente alle dimissioni, con conseguente proprio scioglimento, risulterebbe indispensabile la procedura solenne della mozione di sfiducia, giacché sarebbe necessario rendere trasparenti e comprensibili per i cittadini i motivi di una decisione di tale gravità.
Ancora nella sentenza n. 12 si dichiara l’incostituzionalità anche dell’art. 47, comma 2, dello statuto abruzzese, là dove si dispone che l’approvazione della mozione di sfiducia nei confronti del Presidente della Giunta comporta la decadenza della Giunta stessa e lo scioglimento del Consiglio.
Motiva la Corte che l’art. 126 Cost. disciplina in modo differenziato distinte ipotesi di cessazione del Presidente dal suo ufficio. Mentre al primo comma parla di «rimozione» dello stesso per atti contrari alla Costituzione, gravi violazioni di legge o ragioni di sicurezza nazionale, nel terzo comma usa la diversa espressione «dimissioni». Nel primo caso esiste la necessità di un immediato allontanamento dalla carica di chi si sia reso responsabile di gravi illeciti o risulti pericoloso per la sicurezza nazionale. Nel secondo si detta invece una disciplina adatta alla natura prettamente politica della cessazione, che non richiede quell’immediatezza e perentorietà di allontanamento dalla carica necessari nella prima ipotesi. La previsione di decadenza – per sua natura, immediata e perentoria – varrebbe ad equiparare due ipotesi che la norma costituzionale considera e disciplina diversamente, in coerenza con la loro differenza qualitativa e con gli interessi pubblici da tutelare.
La maggiore elasticità dell’obbligo di dimissioni rispetto alla decadenza automatica serve peraltro a rendere sicuramente ammissibile l’emanazione di atti urgenti e indifferibili. Nel bilanciamento dei valori, la norma costituzionale ha dato decisamente la prevalenza, rispetto a possibili urgenti necessità dell’amministrazione, all’esigenza di allontanare immediatamente dalla carica chi si trovi nelle condizioni previste per la «rimozione», mentre ha lasciato un margine di flessibilità – ovviamente entro ristretti limiti temporali – nell’ipotesi che l’allontanamento non derivi da comportamenti antigiuridici o pericolosi per la sicurezza nazionale, ma da un atto politico del Consiglio. Introdurre la decadenza della Giunta come effetto dell’approvazione di una mozione di sfiducia finirebbe per equiparare il disvalore giuridico alla necessità politica, trattati e considerati dall’art. 126, primo e terzo comma, Cost. in modo ben distinto.

1.3. Il Consiglio regionale
La Corte esamina, nella sentenza n. 3, le censure rivolte nei confronti dell’art. 4, comma 1, della legge della Regione Marche 16 dicembre 2004, n. 27, secondo cui «il Consiglio regionale è composto da 42 consiglieri e dal Presidente della Giunta regionale».
La norma è censurata (in relazione agli artt. 122 e 123 Cost. ed all’art. 5 della legge cost. 22 novembre 1999, n. 1) sul rilievo che la composizione del Consiglio regionale è materia riservata alla fonte statutaria, per cui, fino all’entrata in vigore del «nuovo» statuto, non può formare oggetto di una legge regionale ordinaria.
La questione non è fondata perché l’art. 25 della legge impugnata (nel testo vigente al momento della proposizione del ricorso, risultante dalle modifiche già apportate dall’art. 1, comma 1, della legge regionale n. 5 del 2005) prevede espressamente che le disposizioni della legge medesima si applicano solo «a seguito dell’entrata in vigore del nuovo statuto regionale». Neppure in astratto avrebbe, dunque, potuto porsi un problema di determinazione dell’ambito della potestà regionale in materia, secondo i canoni del regime transitorio di cui all’art. 5 della legge cost. n. 1 del 1999, che ha efficacia vincolante solo fino all’entrata in vigore dei nuovi statuti regionali (sentenza n. 196 del 2003).
Sotto un secondo profilo, la norma impugnata non sarebbe coerente con il «nuovo» statuto, che (agli artt. 7, comma 1, e 11, comma 2) fissa il numero dei componenti del Consiglio medesimo in quarantadue, e non quarantatre. La Corte rileva al riguardo che, legittimamente esercitando la propria competenza in ordine alla scelta politica sottesa alla determinazione della «forma di governo» della Regione (art. 123, primo comma, Cost.), il legislatore statutario ha stabilito che «il Presidente della Giunta regionale è eletto a suffragio universale e diretto in concomitanza con l’elezione del Consiglio regionale e fa parte dell’organo consiliare» (art. 7, comma 1) e che «il Consiglio [regionale] è composto da quarantadue consiglieri» (art. 11, comma 2). Inoltre ha soggiunto che «sono organi della Regione il Consiglio regionale, la Giunta e il suo Presidente» (art. 6, comma 1) e che «il Consiglio regionale è l’organo legislativo e della rappresentanza democratica della Regione ed è eletto a suffragio universale e diretto» (art. 11, comma 1).
L’interpretazione letterale e sistematica di tali norme statutarie – ed in particolare della previsione della «concomitanza» delle due diverse elezioni dei due organi – porta ad escludere che il legislatore statutario abbia inteso considerare il Presidente della Giunta regionale un componente del Consiglio regionale come gli altri membri di esso, come viceversa è espressamente previsto per il Presidente del medesimo Consiglio, la cui elezione avviene tra i consiglieri (art. 13, comma 1).

1.4. Il procedimento legislativo regionale
Nella sentenza n. 12 si evidenzia che l’art. 79, comma 2, dello statuto della Regione Abruzzo, che impone al Consiglio un obbligo di motivazione, se questo voglia deliberare in senso contrario ai pareri del Collegio regionale per le garanzie statutarie, non incide indebitamente sull’esercizio della potestà legislativa attribuita agli organi regionali competenti.
La Corte, dopo aver ricordato che l’introduzione di un organo di garanzia nell’ordinamento statutario regionale non è, come tale, in contrasto con la Costituzione (sentenza n. 378 del 2004), rileva che, nella specie, nessuna limitazione viene a soffrire la potestà legislativa del Consiglio regionale, che rimane intatta sia nelle materie sia nell’estensione della sua capacità regolativa. L’introduzione di un particolare, eventuale passaggio procedurale, consistente nel parere del Collegio regionale per le garanzie statutarie, rientra nella disciplina del procedimento legislativo regionale, ricompresa indubbiamente nei «principî fondamentali di organizzazione e funzionamento» attribuiti dall’art. 123, primo comma, Cost. alla potestà statutaria delle Regioni. Inoltre, la motivazione richiesta perché il Consiglio regionale possa deliberare in senso contrario ai pareri e alle valutazioni del Collegio di garanzia non inerisce agli atti legislativi, ma alla decisione di non tener conto del parere negativo, che costituisce atto consiliare distinto dalla deliberazione legislativa e non fa corpo con essa. Infine, la norma statutaria impugnata si riferisce esplicitamente alle «deliberazioni legislative» e non alle leggi. Tale constatazione fa venir meno ogni perplessità circa una possibile, illegittima limitazione del potere presidenziale di promulgazione e sulla asserita introduzione di una nuova forma di controllo di legittimità costituzionale delle leggi.

1.5. La titolarità del potere regolamentare
La Corte dichiara, con la sentenza n. 119, l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, della legge della Regione Campania 24 dicembre 2003, n. 28, in quanto attribuisce alla Giunta la competenza ad emanare atti di natura regolamentare, nonostante lo statuto regionale riservi al Consiglio il potere regolamentare.
La Corte rileva che dall’esame della norma impugnata emerge come il legislatore regionale non abbia voluto distinguere tra provvedimenti puntuali, atti amministrativi a carattere generale e regolamenti veri e propri, attribuendo alla Giunta il potere di emanare tutti gli atti, di varia natura, necessari ad effettuare, in tempi rapidi, gli accreditamenti istituzionali di cui al decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’art. 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421). L’esigenza di rapidità non può essere ragione sufficiente ad alterare l’ordine delle competenze stabilito nello statuto, che, nell’ordinamento regionale, costituisce fonte sovraordinata rispetto alla legge regionale. In conformità a questo principio, la Corte chiarisce che, pur essendo stata eliminata, per effetto del nuovo testo del secondo comma dell’art. 121 Cost., la riserva di competenza regolamentare in favore del Consiglio regionale prevista dal testo precedente della medesima norma costituzionale, una diversa scelta organizzativa «non può che essere contenuta in una disposizione dello statuto regionale, modificativa di quello attualmente vigente, con la conseguenza che, nel frattempo, vale la distribuzione delle competenze normative già stabilita nello statuto medesimo, di per sé non incompatibile con il nuovo art. 121 della Costituzione» (sentenza n. 313 del 2003).

2. Le Regioni ed il diritto internazionale
L’art. 2, comma 3, dello statuto della Regione Abruzzo è impugnato, là dove dispone che la Regione «partecipa [...] all’attuazione e all’esecuzione degli accordi internazionali dello Stato». Tale norma si porrebbe – ad avviso del ricorrente – in contrasto con l’art. 117, quinto comma, Cost., in quanto ometterebbe il riferimento al necessario «rispetto delle norme di procedura stabilite da legge dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza».
Replica la Corte, con la sentenza n. 12, che dopo la riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione, l’attribuzione alle Regioni, nelle materie di loro competenza, della funzione attuativa ed esecutiva degli accordi internazionali e degli atti della Unione europea viene esplicitamente subordinata al rispetto delle norme di procedura stabilite da leggi dello Stato (art. 117, quinto comma, Cost.). In materia è intervenuta anche la legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), la quale, negli artt. 5 e 6, contiene le regole procedurali per l’attuazione della suddetta norma costituzionale.
Tutte le attività delle Regioni volte all’attuazione ed all’esecuzione di accordi internazionali devono muoversi all’interno del quadro normativo contrassegnato dall’art. 117, quinto comma, Cost. e dalle norme interposte di cui alla citata legge n. 131 del 2003. Tale quadro normativo costituisce ad un tempo il parametro di valutazione della legittimità costituzionale degli atti legislativi dello Stato e delle Regioni in materia ed il criterio interpretativo degli stessi. Il riferimento testuale dell’impugnata norma statutaria alla dizione usata dall’art. 117, quinto comma, Cost. («attuazione ed esecuzione degli accordi internazionali») vale a confermare il suo inserimento nel quadro normativo di cui sopra, senza che sia rinvenibile alcuna espressione che possa far pensare ad una illegittima volontà derogatoria della Regione Abruzzo.
La norma statutaria che richiama la competenza regionale in materia di attuazione ed esecuzione di accordi internazionali «appare agevolmente interpretabile in modo conforme al sistema costituzionale» (sentenza n. 379 del 2004), di talché la disposizione impugnata deve essere dichiarata esente dalla censura di illegittimità costituzionale.


3. Le Regioni ed il diritto comunitario

In molteplici occasioni, la Corte ha avuto modo di dimostrare la marcata incidenza del diritto comunitario sul diritto interno. Rinviando alla trattazione delle singole questioni che hanno coinvolto, più o meno direttamente, il diritto comunitario, si riportano di seguito due decisioni nelle quali siffatto diritto ha assunto una collocazione assolutamente centrale nell’enucleazione della ratio decidendi.
Con la sentenza n. 109, la Corte condivide la censura riguardante il comma 12 della legge della Regione Lombardia 11 marzo 2005, n. 12, in combinato disposto con l’art. 11, comma 3, della stessa legge. Il ricorrente sostiene che tale norma sia costituzionalmente illegittima perché non prevede – e quindi implicitamente esclude – che nell’ipotesi di realizzazione diretta, da parte del proprietario dell’area sottoposta a vincolo espropriativo, delle attrezzature e dei servizi per la cui attuazione è preordinato il detto vincolo, la scelta del contraente, per appalti che eguaglino o superino la soglia comunitaria, avvenga secondo procedure di evidenza pubblica.
Al riguardo, la Corte sottolinea che la normativa comunitaria in materia di appalti pubblici, contenuta in un gruppo di direttive, che hanno ricevuto attuazione mediante atti legislativi nazionali, prevede che in ogni caso, quando si realizzi un’opera o si affidi un servizio o una fornitura per importi uguali o superiori ad un certo valore, il soggetto che procede all’appalto debba adottare procedure di evidenza pubblica per la scelta del contraente. L’obbligo sussiste sia che l’attribuzione dell’appalto spetti ad un ente pubblico territoriale o ad altro «organismo di diritto pubblico», sia che lo stesso venga effettuato da un privato, il quale in tal caso assume – come chiarito dalla Corte di giustizia delle Comunità europee – la veste di «titolare di un mandato espresso», conferito dall’ente pubblico che intende realizzare l’opera o il servizio (sentenza 12 luglio 2001, in causa C-399/98).
Il principio fissato dalla Corte di giustizia è stato riversato nell’ordinamento italiano per mezzo dell’art. 2, comma 5, della legge 11 febbraio 1994, n. 109 (Legge quadro in materia di lavori pubblici), nel testo sostituito dall’art. 7, comma 1, della legge 1° agosto 2002, n. 166 (Disposizioni in materia di infrastrutture e trasporti), che, riferendosi agli interventi eseguiti direttamente dai privati a scomputo di contributi connessi all’attività edilizia o alla lottizzazione di aree, stabilisce che «per le singole opere d’importo superiore alla soglia comunitaria i soggetti privati sono tenuti ad affidare le stesse nel rispetto delle procedure di gara previste dalla [...] direttiva 93/37/CEE».
La fattispecie configurata dalle norme regionali impugnate è assimilabile a quella oggetto delle direttive comunitarie sopra citate, nell’interpretazione datane dalla Corte di giustizia e riprodotta dal legislatore nazionale italiano. Si tratta, infatti, di accordi che i privati proprietari di aree destinate ad essere espropriate per la realizzazione di attrezzature e servizi pubblici possono stipulare con il Comune competente, in base ai quali «il proprietario può realizzare direttamente gli interventi di interesse pubblico o generale, mediante accreditamento o stipulazione di convenzione con il Comune per la gestione del servizio». Si tratta quindi di accordi a titolo oneroso, dai quali derivano per le parti contraenti diritti e obblighi reciproci, che consentono al proprietario espropriando, in particolare, di mantenere la proprietà dell’area e di ottenere la gestione del servizio previsto in cambio della realizzazione diretta degli interventi necessari. Tutta l’operazione prevista dalle norme impugnate è preordinata alla soddisfazione di interessi pubblici, come viene confermato dall’art. 9, comma 12, della legge regionale de qua, che fa riferimento a vincoli previsti «per la realizzazione esclusivamente ad opera della pubblica amministrazione, di attrezzature e servizi».
Da quanto detto si deduce come sia applicabile anche al proprietario espropriando che accetta di realizzare l’opera prevista dall’ente pubblico la qualifica di «titolare di un mandato espresso» conferito dal Comune, di cui alla citata sentenza della Corte di giustizia.
Non entrano in discussione, per i profili di costituzionalità evocati nella presente questione, le modalità della cosiddetta urbanistica consensuale e perequativa, ma soltanto l’obbligo di procedere alle prescritte gare di appalto, poste a base della normativa europea citata, a tutela della trasparenza e della concorrenza, qualora l’importo delle realizzazioni superi un certo limite. Il ricorso a procedure di evidenza pubblica per la scelta del contraente non può peraltro essere ritenuto incompatibile con gli accordi tra privati e pubblica amministrazione, giacché la possibilità che tali procedure siano svolte dagli stessi privati risulta già ammessa nell’ordinamento proprio nella fattispecie oggetto della richiamata pronuncia della Corte di giustizia e disciplinata in modo conforme dal citato art. 2, comma 5, della legge n. 109 del 1994, come sostituito dalla legge n. 166 del 2002.
Sulla scorta delle precedenti considerazioni, non si può dubitare che le direttive comunitarie prima citate debbano essere osservate anche nell’ipotesi che sia conferito ad un privato il compito di realizzare direttamente l’opera necessaria per la successiva prestazione del servizio pubblico, la cui gestione può essere affidata, mediante convenzione, al privato medesimo. Come la Corte ha già affermato (sentenze n. 406 del 2005, n. 7 e n. 166 del 2004), le direttive comunitarie fungono da norme interposte atte ad integrare il parametro per la valutazione di conformità della normativa regionale all’art. 117, primo comma, Cost. La norma costituzionale citata, collocata nella Parte seconda della Costituzione, si ricollega al principio fondamentale contenuto nell’art. 11 Cost. e presuppone il rispetto dei diritti e dei principi fondamentali garantiti dalla Costituzione italiana. Pertanto la mancata previsione, nelle norme regionali impugnate, dell’obbligo di adottare procedure ad evidenza pubblica in ogni caso in cui l’appalto sia di importo uguale o superiore alla soglia comunitaria, determina la loro illegittimità costituzionale.
Nella sentenza n. 398, invece, la Corte non ritiene che la legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 6 maggio 2005, n. 11 (Disposizioni per l’adempimento degli obblighi della Regione Friuli-Venezia Giulia derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee), per il fatto stesso di dare attuazione a tre direttive comunitarie incidenti su materie «aventi un carattere fortemente unitario», violi il primo comma dell’art. 117 Cost., il quale imporrebbe la necessità di una attuazione esclusivamente statale, proprio in ragione degli «interessi unitari che discendono dalla finalità della normativa comunitaria da recepire».
Al riguardo, la Corte precisa che le esigenze unitarie poste a base di un eventuale accentramento nello Stato della competenza ad attuare una direttiva comunitaria – in deroga al quadro costituzionale interno di ripartizione della funzione legislativa – devono discendere con evidenza dalla stessa normativa comunitaria, sulla base di esigenze organizzative che ragionevolmente facciano capo all’Unione europea.
Nel caso di specie, la necessità di attuazione unitaria, da effettuarsi esclusivamente da parte dello Stato, non emerge da alcuna norma delle direttive in esame. Resta impregiudicato, pertanto, il quadro costituzionale di ripartizione delle competenze legislative, che non subisce nella fattispecie alcuna deroga ascrivibile a specifiche esigenze unitarie evidenziate dalla normativa comunitaria. In assenza di precise norme comunitarie che prescrivano l’accentramento – la cui legittimità, alla luce dell’ordinamento costituzionale interno, dovrebbe essere valutata caso per caso – il richiamo generico, fatto dal ricorrente, al primo comma dell’art. 117 Cost. (che si limita a prescrivere il rispetto, da parte delle leggi statali e regionali, dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario) è in conferente, e si pone in contraddizione con il quinto comma del medesimo art. 117, che prevede esplicitamente la competenza delle Regioni e delle Province autonome all’attuazione degli atti dell’Unione europea nelle materie di loro competenza.
La legittimità dell’intervento legislativo di una Regione in funzione attuativa di una direttiva comunitaria dipende, pertanto, dalla sua inerenza ad una materia attribuita alla potestà legislativa regionale.

4. La ripartizione delle competenze normative
La massima parte delle decisioni che la Corte ha reso relativamente al Titolo V della Parte seconda della Costituzione riguarda il riparto di competenze tra lo Stato e le Regioni. Nella giurisprudenza del 2006, sono stati ripresi molti principi già enucleati nel recente passato e se ne sono ricavati, dal sistema, di nuovi.

4.1. Le materie di competenza esclusiva dello Stato
Attraverso le proprie pronunce, la Corte interviene – più o meno incisivamente – su buona parte dei titoli competenziali previsti all’art. 117, secondo comma, della Costituzione.

4.1.1. «Politica estera e rapporti internazionali dello Stato»
Con riferimento alle competenze in materia di politica estera, di rilievo sono le affermazioni della Corte, rese con la sentenza n. 211, in ordine al parametro evocato dal Presidente del Consiglio dei Ministri in occasione della declaratoria di incostituzionalità degli articoli 3, 4, 5 e 7 della legge della Provincia autonoma di Trento 15 marzo 2005, n. 4 (Azioni ed interventi di solidarietà internazionale della Provincia autonoma di Trento).
Afferma la Corte che l’art. 117, comma secondo, lettera a), nel delineare la competenza legislativa spettante in via esclusiva allo Stato, evidenzia una dicotomia concettuale tra meri “rapporti internazionali”, da un lato, e “politica estera”, dall’altro, che non si ritrova nel terzo comma dello stesso art. 117, che individua la competenza regionale concorrente in materia internazionale. La politica estera, pertanto, viene ad essere una componente peculiare e tipica dell’attività dello Stato, che ha un significato al contempo diverso e specifico rispetto al termine “rapporti internazionali”.
Mentre i “rapporti internazionali” sono astrattamente riferibili a singole relazioni, dotate di elementi di estraneità rispetto al nostro ordinamento, la “politica estera” concerne l’attività internazionale dello Stato unitariamente considerata in rapporto alle sue finalità.
Le attività di cooperazione internazionale disciplinate negli articoli impugnati della legge della Provincia autonoma di Trento, sono destinate ad incidere nella politica estera nazionale, che è prerogativa esclusiva dello Stato, come espressamente sancito dall’art. 1 della legge 26 febbraio 1987, n. 49 (Nuova disciplina della cooperazione dell’Italia con i Paesi in via di sviluppo), laddove si dispone che la «cooperazione allo sviluppo è parte integrante della politica estera dell’Italia e persegue obiettivi di solidarietà tra i popoli e di piena realizzazione dei diritti fondamentali dell’uomo, ispirandosi ai principi sanciti dalle Nazioni Unite e dalle convenzioni CEE-ACP».
La legge impugnata prevede, invero, un potere di determinazione degli obiettivi di cooperazione solidale e di interventi di emergenza nonché dei destinatari dei benefici sulla base dei criteri, per l’individuazione dei progetti da adottare, fissati dalla stessa Provincia.
Implicando l’impiego diretto di risorse, umane e finanziarie, in progetti destinati a offrire vantaggi socio-economici alle popolazioni e agli Stati beneficiari, ed entrando in tal modo pienamente nella materia della cooperazione internazionale, la legge provinciale finisce con l’autorizzare e disciplinare una serie di attività tipiche della politica estera, riservata in modo esclusivo allo Stato.

4.1.2. «Immigrazione»
La competenza statale esclusiva in materia di immigrazione non risulta violata dagli articoli 16, comma 3, e 21, comma 1, lettera f), della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia del 4 marzo 2005, n. 5, che prevedono, rispettivamente, interventi per i minori stranieri non accompagnati anche dopo il raggiungimento della maggiore età e lo svolgimento, direttamente o indirettamente, di compiti istruttori da parte degli enti locali nell’ambito dei procedimenti per il rilascio e il rinnovo dei permessi di soggiorno e delle carte di soggiorno, nonché di richiesta di nulla-osta al ricongiungimento. Al riguardo, la Corte, nella sentenza n. 156, ricorda che il decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, con il quale lo Stato ha disciplinato la materia dell’immigrazione, ha, tra l’altro, attribuito alle Regioni determinate competenze, prevedendo, altresì, forme di cooperazione tra lo Stato e le Regioni.
Da tali disposizioni risulta che, in materia di immigrazione e di condizione giuridica degli stranieri, è la stessa legge statale che disciplina una serie di attività pertinenti al fenomeno migratorio e agli effetti sociali di quest’ultimo, e che queste vengono esercitate dallo Stato in stretto collegamento con le Regioni, alle quali sono affidate direttamente alcune competenze. Ciò tenuto conto del fatto che l’intervento pubblico non può limitarsi al controllo dell’ingresso e del soggiorno degli stranieri sul territorio nazionale, ma deve anche considerare altri ambiti – dall’assistenza sociale all’istruzione, dalla salute all’abitazione – che coinvolgono competenze normative, alcune attribuite allo Stato ed altre attribuite alle Regioni.
Pertanto, l’art. 16 della legge impugnata va interpretato nel senso che esso si limita a prevedere l’esercizio di attività di assistenza rientranti nelle competenze regionali, senza incidere in alcun modo sulla competenza esclusiva dello Stato in materia di immigrazione. In sostanza, la «possibilità» di proseguire, in favore del minore non accompagnato, gli interventi di sostegno, anche dopo il raggiungimento della maggiore età, con la sua conseguente ulteriore permanenza sul territorio nazionale, è subordinata al rilascio nei suoi confronti del permesso di soggiorno, cosa che potrà avvenire solo ricorrendo le condizioni a tal fine previste dal d.lgs. n. 286 del 1998.
Anche l’art. 21, comma 1, lettera f), lungi dal regolare aspetti propriamente incidenti sulla materia dell’immigrazione, si limita a prevedere in favore degli stranieri presenti sul territorio regionale una forma di assistenza che si sostanzia nel mero affidamento agli enti locali di quegli adempimenti che, nell’ambito dei procedimenti di richiesta e rinnovo di permesso di soggiorno e di carta di soggiorno, ovvero di richiesta di nulla-osta al ricongiungimento familiare, diversamente sarebbero stati svolti direttamente dagli stessi richiedenti.
D’altra parte, il rispetto delle competenze statali nei procedimenti sopra indicati emerge, altresì, dal contenuto della norma impugnata la quale prevede che le attività in essa disciplinate siano svolte in accordo con le competenti strutture del Ministero dell’interno.
Sempre in tema di immigrazione, la sentenza n. 407 respinge il ricorso per conflitto proposto dalla Regione Friuli-Venezia Giulia avverso la disposizione regolamentare di cui all’art. 24, comma 1, del d.P.R. 18 ottobre 2004, n. 334, con cui si dispone che nella Regione siano disciplinate, mediante l’emanazione di apposite norme di attuazione, forme di raccordo tra lo Sportello unico per l’immigrazione e gli uffici regionali e provinciali per l’organizzazione e l’esercizio delle funzioni amministrative in materia di lavoro, attribuite allo sportello medesimo. La disposizione non risulta lesiva della sfera di competenza riservata alle norme di attuazione dall’art. 65 dello Statuto speciale, in quanto la norma regolamentare, nel prevedere la necessità che siano adottate forme di raccordo fra lo Sportello unico e gli uffici regionali e provinciali competenti in materia di lavoro, rimette l’individuazione della concreta disciplina all’adozione di apposite norme di attuazione, senza, pertanto, predeterminarne in alcun modo il contenuto.
Non risulta lesa, inoltre, alcuna competenza regionale, poiché la disposizione impugnata si inserisce in un regolamento statale che regola la materia dell’immigrazione, riservata alla competenza esclusiva dello Stato, ai sensi dell’art. 117, comma secondo, lettera b), della Costituzione. In particolare, l’esigenza di un coordinamento fra gli uffici statali e regionali implicati è finalizzata ad assicurare la funzionalità del procedimento volto a disciplinare l’ingresso e l’avviamento al lavoro del cittadino extracomunitario. Dunque, la disposizione regolamentare, in quanto direttamente afferente alla materia dell’immigrazione, non determina alcun vulnus alle prerogative della Regione in materia di tutela del lavoro di cui agli artt. 117, comma 3, e 118, della Costituzione, in relazione all’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001. Del pari, tenuto conto che l’ambito materiale su cui incide la norma regolamentare impugnata è riservato in via esclusiva allo Stato, ai sensi dell’art. 117, comma secondo, lettera b), della Costituzione, risulta infondata anche l’asserita violazione del divieto di esercizio della potestà regolamentare in materie regionali di cui all’ art. 117, comma sesto, della Costituzione, in relazione all’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001.

4.1.3. «Tutela della concorrenza»
Con riferimento alla materia disegnata dalla competenza in tema di «tutela della concorrenza», nella sentenza n. 29, la Corte esamina diverse disposizioni della legge della Regione Abruzzo 5 agosto 2004, n. 23, che disciplinano le modalità di affidamento della gestione dei servizi pubblici locali a rilevanza economica alle società a capitale interamente pubblico o a capitale misto pubblico/privato, nonché il regime giuridico delle medesime.
Lo Stato ricorrente si duole, in sostanza, che la legge regionale avrebbe introdotto limitazioni non previste, o con una non consentita efficacia immediata, rispetto alla disciplina statale, in ordine alla partecipazione delle società costituite da enti pubblici, a capitale interamente pubblico, alle gare ad evidenza pubblica.
La Corte, dopo aver menzionato la disciplina statale dei servizi pubblici locali di rilevanza economica (art.113 del d. lgs n. 267 del 2000, e successive modificazioni), con particolare riguardo al regime giuridico delle procedure per l’affidamento della gestione delle reti, nonché per l’affidamento della gestione del servizio, richiama un suo precedente giurisprudenziale (sentenza n. 272 del 2004) in cui il citato art. 113 è stato ritenuto «una norma-principio della materia, alla cui luce è possibile interpretare il complesso delle disposizioni in esame nonché il rapporto con le altre normative di settore, nel senso cioè che il titolo di legittimazione dell’intervento statale in oggetto è fondato sulla tutela della concorrenza, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione, e che la disciplina stessa contiene un quadro di principi nei confronti di regolazioni settoriali di fonte regionale. L’accoglimento di questa interpretazione comporta, da un lato, che l’indicato titolo di legittimazione statale è riferibile solo alle disposizioni di carattere generale che disciplinano le modalità di gestione e l’affidamento dei servizi pubblici locali di “rilevanza economica” e dall’altro lato che solo le predette disposizioni non possono essere derogate da norme regionali».
La Corte ha ritenuto, altresì, che «alle stesse finalità garantistiche della concorrenza appare ispirata anche la disciplina transitoria, che, in modo non irragionevole, stabilisce i casi di cessazione delle concessioni già assentite in relazione all’effettuazione di procedure ad evidenza pubblica e al tipo di società affidataria del servizio».
In conclusione, pertanto, alla potestà legislativa esclusiva dello Stato nella materia “tutela della concorrenza” devono essere ricondotte le disposizioni statali di principio contenute nell’art. 113 del d.lgs. n. 267 del 2000, in quanto le medesime, pur incidendo sulla materia dei servizi pubblici locali, che appartiene alla competenza residuale delle Regioni, disciplinano l’affidamento della gestione dei servizi pubblici locali, di rilevanza economica, secondo un sistema teso a salvaguardare la concorrenzialità del mercato.
Tanto premesso, la Corte esamina l’art. 4, comma 4, della legge regionale, dove si esclude che le società a capitale interamente pubblico, cui sia stata conferita dagli enti locali la proprietà di reti, impianti e dotazioni patrimoniali, destinati all’esercizio dei servizi pubblici, possano partecipare alle gare ad evidenza pubblica indette per la scelta del soggetto gestore del servizio o del socio privato delle società a capitale misto pubblico/privato.
La Corte ritiene che dalla formulazione della disposizione in esame e, in particolare, dalla specificazione degli ulteriori compiti e poteri che le società a capitale totalitario pubblico possono esercitare (tra i quali può essere compreso anche quello di espletare le gare per la scelta del soggetto affidatario dell’erogazione del servizio, ex art. 113, comma 13) si desume che il legislatore statale non ha specificamente previsto la possibilità per le suddette società di partecipare alle gare per l’affidamento della gestione del servizio; né, per converso, si è esclusa in modo espresso tale possibilità. In tale situazione, versandosi pur sempre in materia riservata alla competenza residuale delle Regioni, nel silenzio della legislazione statale al riguardo, può ritenersi ammissibile che queste ultime, esercitando la loro discrezionalità legislativa, integrino la disciplina dettata dallo Stato, prevedendo il divieto per le società proprietarie delle reti di partecipare alle gare in questione. D’altronde, siffatta determinazione si presenta anche coerente con il principio d’ordine generale, pure se derogabile, che postula la separazione tra soggetti proprietari delle reti e soggetti erogatori del servizio.
Si esclude, pertanto, che sussista il denunciato contrasto tra la disposizione regionale impugnata (art. 4, comma 4) e le norme contenute nell’art. 113 del d.lgs. n. 267 del 2000.
Si rivela, invece, fondata la questione relativa all’art. 7, comma 4, lettera b), della stessa legge regionale, che vieta alle società a capitale interamente pubblico, già affidatarie in via diretta della gestione di un servizio pubblico, di partecipare alle gare ad evidenza pubblica per la scelta del soggetto gestore del servizio.
Si ricorda, in proposito, che la Corte (sentenza n. 272 del 2004) ha ritenuto che, allo scopo di salvaguardare le esigenze della concorrenza, operano non solo le disposizioni previste a regime sulle modalità di affidamento della gestione dei servizi pubblici locali, ma anche le relative disposizioni aventi carattere soltanto transitorio.
La previsione contenuta nel comma 6 dell’art. 113, cui si riconnette l’impugnata norma regionale, nel disporre il divieto di partecipare alle gare di cui al precedente comma 5, tende a garantire la più ampia libertà di concorrenza nell’ambito di rapporti – come quelli relativi al regime delle gare o delle modalità di gestione e conferimento dei servizi – di rilevante incidenza sul mercato. Ma proprio una corretta attuazione del nuovo regime di divieti ha richiesto, ragionevolmente, come disposto dal legislatore statale con il comma 15-quater del medesimo art. 113, una disciplina transitoria per consentire un complessivo riequilibrio e un progressivo adeguamento del “mercato”. Ciò comporta che la mancata previsione, nella legge regionale, di un analogo regime transitorio, che definisca le modalità temporali di efficacia del divieto in esame, è idonea ad arrecare un vulnus all’indicato parametro costituzionale.
Viene, pertanto, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 7, comma 4, lettera b), della legge impugnata, per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione, nella parte in cui non prevede che il divieto ivi contemplato si applichi a decorrere dal 1° gennaio 2007, salvo nei casi in cui si tratti dell’espletamento delle prime gare aventi ad oggetto i servizi forniti dalle società partecipanti alla gara stessa.
Di seguito, non risulta illegittimo l’art. 7, comma 1, lettera b), della legge in esame, che stabilisce un limite minimo (40 per cento del capitale sociale) per la partecipazione azionaria del socio privato, da scegliere con procedura di evidenza pubblica, della società mista cui può essere conferita la titolarità della gestione del servizio pubblico di rilevanza economica.
La Corte ritiene che l’art. 113, comma 5, lettera b), nell’individuare tra i possibili soggetti, cui conferire direttamente la gestione del servizio pubblico locale, le società a capitale misto pubblico/privato, non stabilisca alcun limite percentuale, né massimo né minimo, alla partecipazione al capitale sociale da parte del socio privato, limitandosi soltanto a richiedere che detto socio sia scelto con le procedure dell’evidenza pubblica. La mancanza di una qualsiasi previsione statale in merito alla consistenza del capitale privato nell’ambito della compagine sociale consente al legislatore regionale, nell’esercizio della sua discrezionalità, di stabilire quote minimali di partecipazione. Né può ritenersi che la specificazione operata dalla norma impugnata possa considerarsi intrinsecamente irragionevole: la previsione di un siffatto limite, al di là delle sue implicazioni sul piano della concorrenza, risponde, infatti, all’esigenza di evitare che partecipazioni minime o addirittura simboliche si possano risolvere in una elusione delle modalità complessive di conferimento della gestione del servizio pubblico locale.
Non fondata è anche l’ulteriore questione proposta nei confronti dell’art. 7, comma 4, lettera d), della medesima legge regionale, che vieta alle società a capitale interamente pubblico, alle quali sia affidato in via diretta la gestione di un servizio pubblico locale, il conferimento di incarichi professionali, di collaborazione e di qualsiasi altro genere in favore di persone e/o di società legate da rapporti di dipendenza e/o di collaborazione con l’ente o gli enti titolari del capitale sociale.
La Corte respinge le censure, dedotte con riferimento alla competenza legislativa statale esclusiva nella materia “ordinamento civile”, in quanto la prospettata nullità del contratto d’opera professionale è meramente ipotetica, né è prevista dalla norma impugnata. D’altronde, le conseguenze della stipulazione del contratto de quo, come vietato, dovranno essere eventualmente verificate in sede di giudizio davanti alla competente autorità giudiziaria ordinaria. Neppure può ritenersi che si versi in una ipotesi di non consentite limitazioni all’esercizio di attività professionali, giacché non vi è alcun divieto imposto al professionista in quanto tale, ma alla società, sulla quale ricadono le conseguenze della violazione del divieto. La norma impugnata trova, in realtà, la sua esclusiva giustificazione nella esigenza di evitare che si determinino situazioni di conflitto di interessi tra controllori e controllati e di garantire, fin dove possibile, trasparenza nei rapporti tra società incaricate della gestione dei servizi in questione ed enti pubblici titolari del capitale sociale.
Viene altresì respinta la successiva censura avverso l’art. 7, comma 4, lettera f), della legge regionale, dove si prevede che le società a capitale interamente pubblico, affidatarie del servizio pubblico, sono obbligate al rispetto delle procedure di evidenza pubblica imposte agli enti locali per l’assunzione di personale dipendente. Per la Corte, la disposizione in esame non è volta a porre limitazioni alla capacità di agire delle persone giuridiche private, bensì a dare applicazione al principio di cui all’art. 97 della Costituzione rispetto ad una società che, per essere a capitale interamente pubblico, ancorché formalmente privata, può essere assimilata, in relazione al regime giuridico, ad enti pubblici.
Con la sentenza n. 80, la Corte accoglie i ricorsi del Presidente del Consiglio dei ministri accomunati dal fatto di avere ad oggetto disposizioni regionali che variamente introducono proroghe degli affidamenti preesistenti (o di alcuni di essi) rispetto al termine ultimo, previsto dal legislatore statale, per l’entrata in vigore del nuovo regime di affidamento di tutti i servizi di trasporto pubblico locale mediante procedure ad evidenza pubblica.
Tutte le disposizioni censurate, seppur in ambiti più o meno ampi ed a condizioni tra loro differenziate, derogano, infatti, in modo palese alla disciplina statale.
L’art. 18, comma 3-bis, del d.lgs. n. 422 del 1997, introdotto dall’art. 1, comma 6, del d.lgs. 20 settembre 1999, n. 400, determina il termine ultimo entro cui le Regioni possono mantenere gli affidamenti agli attuali concessionari di servizi di trasporto pubblico locale, ponendo tuttavia «l’obbligo», per tale periodo transitorio, «di affidamento di quote di servizio o di servizi speciali mediante procedure concorsuali». Al termine di tale periodo, è previsto che tutti i servizi siano affidati esclusivamente tramite procedure concorsuali.
Il termine ultimo per il periodo transitorio, entro il quale le Regioni hanno la facoltà di mantenere gli affidamenti ai concessionari attuali, è stato più volte modificato dal legislatore statale prevedendosi la possibilità di prorogarlo per ulteriori periodi di tempo tassativamente fissati.
Per il settore del trasporto pubblico locale la disciplina statale individua nel 31 dicembre 2006 la data entro cui cessano le precedenti concessioni in tema di servizi pubblici locali.
La ratio di quanto inserito come comma 3-bis dell’art. 18 del d.lgs. n. 422 del 1997 dall’art. 1, comma 6, del d.lgs. n. 400 del 1999, è anzitutto rinvenibile nel criterio direttivo contenuto nell’art. 4, comma 4, lettera b), della legge 15 marzo 1997, n. 59, secondo il quale il decreto delegato in materia di trasporto pubblico locale avrebbe dovuto – tra l’altro – «definire le modalità per incentivare il superamento degli assetti monopolistici nella gestione di servizi di trasporto urbano ed extraurbano».
Inoltre, lo stesso comma 2 dell’art. 18 del d.lgs. n. 422 del 1997, esplicitamente, finalizza il conferimento dei poteri a Regioni ed enti locali in tema di affidamento dei servizi di trasporto locale «allo scopo di incentivare il superamento degli assetti monopolistici e di introdurre regole di concorrenzialità nella gestione dei servizi di trasporto regionale e locale».
In questo quadro, la fissazione di un termine massimo entro il quale deve concludersi la fase transitoria e quindi generalizzarsi l’affidamento mediante procedure concorsuali dei servizi di trasporto locale assume un valore determinante, poiché garantisce che si possa giungere davvero in termini certi all’effettiva apertura alla concorrenza di questo particolare settore, così dando attuazione alla normativa europea in materia di liberalizzazione del mercato dei servizi di trasporto locale.
Nel quadro del nuovo Titolo V una disposizione come quella di cui al comma 3-bis dell’art. 18 del d.lgs. n. 422 del 1997, e successive modificazioni, è riconducibile all’ambito della competenza legislativa esclusiva statale in tema di «tutela della concorrenza»; infatti, la Corte ha già avuto occasione di affermare che la «configurazione della tutela della concorrenza ha una portata così ampia da legittimare interventi dello Stato volti sia a promuovere, sia a proteggere l’assetto concorrenziale del mercato» (sentenza n. 272 del 2004).
Né può essere condivisa l’opinione della riconducibilità della disciplina del trasporto pubblico locale ad una materia legislativa regionale di tipo residuale, ai sensi del quarto comma dell’art. 117 Cost.. Al contrario, le competenze esclusive statali che – come quella relativa alla «tutela della concorrenza» – si configurino come «trasversali» incidono naturalmente, nei limiti della loro specificità e dei contenuti normativi che di esse possano ritenersi propri, sulla totalità degli ambiti materiali entro i quali si applicano. Né il legislatore regionale può pretendere di modificare, anche solo in parte, disposizioni come il comma 3-bis dell’art. 18 del d.lgs. n. 422 del 1997, formulato in forma chiaramente inderogabile e che, per di più, prevede al suo interno un ruolo delimitato per lo stesso legislatore regionale.
Sulla scorta di questi rilievi, viene dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2, della legge della Regione Liguria n. 17 del 2003, dell’art. 3, comma 1, della legge della Regione Veneto n. 30 del 2004, dell’art. 1, comma 11, lettere b) e f), della legge della Regione Calabria n. 36 del 2004, dell’art. 25 della legge della Regione Veneto n. 8 del 2005, per contrasto con la competenza esclusiva dello Stato in tema di «tutela della concorrenza», di cui all’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione.
L’ambito statale in materia di “tutela della concorrenza” non è violato, invece, dall’art. 2, nonché dall’art. 3 della legge della Regione Abruzzo 5 agosto 2004, n. 22, dove si prevedono misure per la promozione di certificazioni di qualità del prodotto ittico «catturato dalla Marineria Abruzzese» o allevato in impianti di acquacoltura/maricoltura dislocati nel territorio regionale o nel «mare antistante» la Regione Abruzzo.
A giudizio della Corte – come risulta dalla sentenza n. 213 – la disposizione regionale non prevede un nuovo sistema di certificazione di qualità, né istituisce e/o disciplina un marchio identificativo di un prodotto, ma si limita a prevedere forme di incentivazione di un prodotto (il pescato abruzzese), di cui non vengono indicate o protette particolari qualità o caratteristiche tipologiche. Si tratta, invero, di misure di sostegno ad attività economiche localizzate sul territorio regionale, che in quanto tali non violano le disposizioni comunitarie ed internazionali relative alla provenienza geografica e alle caratteristiche dei prodotti - volte, tra l’altro, a garantire condizioni di concorrenza uguale - né integrano meccanismi economici idonei ad incidere sulla concorrenzialità dei mercati.

4.1.4. «Sistema tributario e contabile dello Stato»
Con la sentenza n. 75, la Corte dichiara l’incostituzionalità dell’art. 27 della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 4 marzo 2005, n. 4, là dove stabilisce che «i Consorzi di sviluppo industriale e l’EZIT possono essere esentati dai Comuni dal pagamento dell’ICI relativa alle aree e agli immobili destinati a fini di pubblico interesse di loro pertinenza, ivi comprese le aree acquisite dall’ente gestore al fine della loro successiva cessione alle imprese interessate».
La norma regionale censurata interviene su materia non attribuita alla potestà legislativa della Regione Friuli-Venezia Giulia da alcuna disposizione dello statuto speciale. Tra i parametri statutari evocati dalla Regione rileva solo l’art. 5, ai sensi del quale la potestà legislativa della Regione nella materia deve esercitarsi «in armonia con i principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato» e deve limitarsi all’«istituzione di tributi regionali prevista nell’articolo 51». Quest’ultimo articolo, a sua volta, stabilisce che l’istituzione dei tributi regionali deve essere effettuata con legge regionale, «in armonia col sistema tributario dello Stato, delle Province e dei Comuni». Dal combinato disposto di tali norme risulta, dunque, che la potestà impositiva della Regione può concernere solo i tributi regionali, e cioè quei tributi che la Regione medesima ha facoltà di istituire ai sensi di detto art. 51. L’imposta comunale sugli immobili non è istituita dalla Regione e, quindi, non è un tributo regionale ai sensi dello statuto. È, invece, un tributo erariale, istituito dalla legge dello Stato e da questa disciplinato, salvo quanto espressamente rimesso all’autonomia dei Comuni. Ne consegue che la disposizione impugnata, nell’introdurre casi di esenzione dall’ICI, interviene su materia non attribuita dallo statuto alla competenza del legislatore regionale e si pone, perciò, in contrasto con l’evocato art. 5 dello statuto medesimo. Tale conclusione non è smentita dal richiamo della norma impugnata al menzionato art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 9 del 1997, secondo cui «spetta alla regione disciplinare la finanza locale». Tale articolo, essendo norma di mera attuazione statutaria in tema di ordinamento degli enti locali, può riguardare, infatti, solo quella parte della finanza locale presa in considerazione dallo statuto e non quei tributi comunali che, come l’ICI, sono invece previsti e istituiti esclusivamente dalla legge statale e, nei limiti da questa indicati, disciplinati dai regolamenti comunali. Inoltre, la Regione Friuli-Venezia Giulia non ha potestà legislativa in materia di ICI, non solo ai sensi delle norme statutarie, ma neanche ai sensi del combinato disposto degli articoli 117, terzo comma, Cost. e 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001. Essendo infatti l’ICI tributo statale, la sua disciplina rientra nella competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di tributi erariali, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. Tale riserva di competenza impedisce che le norme denunciate rientrino nella invocata potestà legislativa concorrente e non consente, nella specie, di effettuare la comparazione richiesta dall’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001 tra le forme di autonomia garantite dalla Costituzione (assunte dalla Regione come più favorevoli) e quelle statutarie.
Analoga ratio decidendi motiva la dichiarazione di incostituzionalità, contenuta nella sentenza n. 413, dell’art. 5 della legge della Regione Toscana 27 dicembre 2005, n. 70, nella parte in cui determina l’ammontare del tributo speciale per il deposito in discarica dei rifiuti solidi con decorrenza dal 1° gennaio 2006 anziché dal 1° gennaio 2007. La norma impugnata fissa, infatti, per l’applicazione del nuovo ammontare del tributo speciale, un termine di decorrenza contrastante con quello stabilito dalla norma statale interposta di cui all’art. 3 della legge 28 dicembre 1995, n. 549.Al riguardo, la Corte premette che la disciplina del tributo speciale per il deposito in discarica dei rifiuti solidi rientra nella competenza esclusiva dello Stato, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., e, di conseguenza, l’esercizio della potestà legislativa delle regioni riguardo a tale tributo è ammesso solo nei limiti consentiti dalla legge statale. Si tratta, infatti, di un tributo che va considerato statale e non già “proprio” della Regione, nel senso di cui al vigente art. 119 Cost., senza che in contrario rilevino né l’attribuzione del gettito alle regioni ed alle province, né le determinazioni espressamente attribuite alla legge regionale dalla citata norma statale (sentenze n. 397 e n. 335 del 2005, concernenti lo stesso tributo speciale oggetto del giudizio).
Nella specie, la citata legge statale prevede che «l’ammontare dell’imposta è fissato, con legge della regione entro il 31 luglio di ogni anno per l’anno successivo», e che, «in caso di mancata determinazione dell’importo da parte delle regioni entro il 31 luglio di ogni anno per l’anno successivo, si intende prorogata la misura vigente». Con la norma censurata, la Regione determina, invece, il nuovo ammontare del tributo speciale per il deposito in discarica dei rifiuti solidi «a decorrere dal 1° gennaio 2006». Pur essendo contenuto in una legge regionale promulgata il 27 dicembre 2005 e, quindi, intervenuta successivamente al 31 luglio 2005, il denunciato art. 5 fissa l’ammontare del tributo con effetto dal 1° gennaio 2006, in evidente violazione del citato secondo periodo del comma 29 dell’art. 3 della legge statale n. 549 del 1995.
Motivazioni identiche (ancora con riguardo all’applicazione del tributo speciale per il deposito in discarica dei rifiuti solidi) portano, con la sentenza n. 412, all’accoglimento della questione riguardante il comma 3 dell’art. 7 della legge della Regione Molise 13 gennaio 2003, n. 1, nel testo modificato dall’art. 6 della legge regionale n. 34 del 2005, il quale, nel prevedere la fissazione delle modalità di versamento del tributo speciale «con apposito provvedimento della giunta regionale», eccede i limiti fissati dalla norma statale quanto alla fonte regionale utilizzabile per la regolamentazione delle modalità di versamento del tributo speciale. In particolare, mentre l’art. 3, comma 30, della legge statale n. 549 del 1995 impone alle regioni di fissare con legge tali modalità di versamento, la norma regionale impugnata stabilisce che esse siano fissate «con apposito provvedimento della Giunta regionale», e cioè con uno strumento normativo diverso. Né può essere condiviso l’assunto della Regione, secondo cui la materia della fissazione delle modalità di versamento del tributo speciale rientrerebbe nelle «competenze di gestione amministrativa proprie della Regione». Infatti, tale materia riguarda direttamente un tributo proprio dello Stato e, pertanto, rientra nella competenza esclusiva statale di cui all’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.
Altresì fondata si rivela la questione avente ad oggetto l’art. 9, comma 1, della stessa legge della Regione Molise, il quale, differenziando il trattamento sanzionatorio della omessa registrazione delle operazioni di conferimento dei rifiuti da quello della infedele registrazione delle stesse e prevedendo, per entrambe le fattispecie, sanzioni amministrative determinate in una percentuale fissa dell’entità del tributo dovuto. Infatti, mentre l’art. 3, comma 31, della legge statale n. 549 del 1995 prevede la medesima sanzione amministrativa in misura variabile (dal duecento al quattrocento per cento del tributo) sia per l’omessa registrazione sia per l’infedele registrazione delle operazioni di conferimento in discarica, la norma regionale stabilisce, invece, per gli stessi illeciti, un diverso trattamento sanzionatorio, e cioè, per l’omessa registrazione, la sanzione amministrativa in misura fissa del quattrocento per cento del tributo e, per l’infedele registrazione, la sanzione amministrativa, anch’essa in misura fissa, del duecento per cento del tributo. Essendo di competenza dello Stato anche la disciplina sanzionatoria del tributo, sussiste, quindi, il denunciato contrasto fra la norma regionale censurata e l’evocata norma statale interposta.
La declaratoria di incostituzionalità riguarda anche l’art. 14 della legge regionale n. 34 del 2005, che fissa, per l’applicazione del nuovo ammontare del tributo speciale, un termine di decorrenza contrastante con quello stabilito dalla norma statale interposta.
Viene, invece, ritenuta infondata la questione concernente l’art. 10 della legge regionale n. 34 del 2005, il quale, attraverso l’inserimento del comma 3-bis nell’art. 11 della legge regionale n. 1 del 2003, stabilisce – con riguardo al trattamento sanzionatorio previsto a carico di chi esercita attività di gestione di una discarica abusiva ovvero abbandona, scarica o effettua deposito incontrollato di rifiuti – l’inapplicabilità delle misure agevolative di cui al comma 4 dell’art. 9 della stessa legge regionale n. 1 del 2003, secondo cui le sanzioni sono ridotte ad un quarto se, entro il termine per ricorrere alle commissioni tributarie, intervengano l’adesione del contribuente e il contestuale pagamento del tributo, se dovuto, e della sanzione. Non sussiste, infatti, alcuna violazione delle invocate norme statali interposte: il comma 3-bis dell’art. 11 della legge regionale n. 1 del 2003 esclude l’applicazione delle «misure agevolative indicate nell’art. 9, comma 4» solo per le «violazioni individuate dal presente articolo», e cioè, per l’«abbandono, scarico o deposito incontrollato di rifiuti» e per l’«esercizio dell’attività di gestione di una discarica abusiva» (quest’ultima, unica violazione rilevante ai fini del richiesto scrutinio di costituzionalità). In particolare, non tiene conto del fatto che il comma 1 dello stesso art. 11, nel disporre l’applicabilità delle sanzioni previste dall’art. 9 per l’omessa registrazione e per l’omessa dichiarazione, in aggiunta alla sanzione amministrativa da esso stesso comminata per l’«esercizio dell’attività di gestione di una discarica abusiva», ha il solo scopo di consentire l’applicazione congiunta delle indicate sanzioni e non quello – attribuitogli dal ricorrente – di “individuare” le violazioni alle quali, ai sensi del censurato comma 3-bis dello stesso art. 11, non si applica la riduzione. Tale essendo la funzione del richiamo effettuato dall’art. 11, comma 1, alle sanzioni previste dal citato art. 9, il ricorrente avrebbe dovuto, dunque, considerare che l’esclusione della riduzione disposta dalla norma censurata vale solo per la sanzione del triplo del tributo comminata direttamente dallo stesso art. 11, comma 1, per l’“esercizio dell’attività di gestione di una discarica abusiva”, e non anche per le sanzioni richiamate dall’art. 11, comma 1, ai soli fini dell’applicazione congiunta, e cioè quelle previste dall’art. 9 per la violazione degli obblighi strumentali di registrazione e di dichiarazione.
La modifica introdotta con il comma 3-bis non altera, dunque, la conformità del regime sanzionatorio regionale a quello statale. Come già osservato, infatti, anche il combinato disposto dei citati commi 31 e 32 dell’art. 3 della legge n. 549 del 1995 limita, nel caso di esercizio di attività di discarica abusiva, l’applicazione delle menzionate misure agevolative alle violazioni degli obblighi strumentali di registrazione e di dichiarazione.
Siffatta interpretazione della normativa regionale in senso conforme a quella statale deve essere preferita, in quanto costituzionalmente orientata, a quella – fatta propria dal ricorrente – secondo cui, nel caso di attività di discarica abusiva, anche gli illeciti di omessa registrazione e omessa dichiarazione sarebbero esclusi, in base al censurato comma 3-bis, dalle «misure agevolative indicate nell’art. 9, comma 4».
Sempre con riguardo alla materia dell’imposizione, nella sentenza n. 155, la Corte affronta le contestazioni della Regione Friuli-Venezia Giulia avverso numerose disposizioni della legge 30 dicembre 2004, n. 311, che, modificando la disciplina delle imposte dirette Irap ed Ire, determinerebbe, nel suo complesso, un minor gettito d’imposta con rilevanti riflessi sulla finanza regionale, le cui entrate fondamentali fanno appunto affidamento sul gettito di dette imposte. L’alterazione del rapporto tra finanza statale e finanza regionale (art. 49 dello Statuto) non verrebbe meno, secondo la ricorrente, per la previsione, contenuta nella stessa legge n. 311 del 2004, di «numerose misure compensative» (e, tra queste, l’aumento degli «importi fissi dell’imposta di registro, della tassa di concessione governativa, dell’imposta di bollo, dell’imposta ipotecaria e catastale, delle tasse ipotecarie e dei diritti speciali») proprio al fine di attenuare «l’effetto di riduzione del gettito fiscale» determinato dalle norme censurate «e mantenere in equilibrio il bilancio statale». In definitiva, ciò comporterebbe, da un lato, «la riduzione delle entrate derivanti dalle imposte dirette» e, dall’altro, «l’aumento di numerose imposte indirette»: una manovra che – secondo la ricorrente – sarebbe dunque «a senso unico», traducendosi «in una pura e semplice riduzione di entrata di notevole entità, non compensata affatto dall’aumento di imposte al cui gettito la Regione stessa non partecipa».
La Corte non condivide la tesi di fondo della Regione secondo cui il legislatore statale, nell’esercizio della sua potestà esclusiva in materia tributaria, in forza dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., avrebbe dovuto contemplare, a fronte di misure, quali quelle dettate dalle disposizioni denunciate, che riducono il gettito fiscale derivante da imposte dirette (IRAP ed IRE), anche misure compensative in favore della Regione che su quel gettito fa affidamento per finanziare la realizzazione dei propri compiti. Afferma la Corte che non è contestato neppure dalla ricorrente che la disciplina dei tributi (IRAP ed IRE) su cui hanno inciso le norme denunciate appartenga alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., e che tale competenza possa essere esercitata anche per il tramite di norme di dettaglio, senza che ciò implichi violazione dell’autonomia tributaria delle Regioni.
Nell’esercizio di tale potestà esclusiva, e dunque, come nel caso di specie, nell’attivazione della leva fiscale, non può reputarsi che ogni intervento, modificativo di un tributo che, in ragione di siffatta modificazione, comporti un minor gettito per le Regioni, debba «essere accompagnato da misure compensative per la finanza regionale, la quale – diversamente – verrebbe ad essere depauperata» (così la sentenza n. 431 del 2004). Ciò in quanto deve escludersi che possa «essere effettuata una atomistica considerazione di isolate disposizioni modificative del tributo, senza considerare nel suo complesso la manovra fiscale entro la quale esse trovano collocazione, ben potendosi verificare che, per effetto di plurime disposizioni, contenute nella stessa legge finanziaria oggetto di impugnazione principale o in altre leggi, il gettito complessivo destinato alla finanza regionale non subisca riduzioni».
Del resto, a seguito di manovre di finanza pubblica, possono anche determinarsi riduzioni nella disponibilità finanziaria delle Regioni, purché esse non siano tali da comportare uno squilibrio incompatibile con le complessive esigenze di spesa regionale e, in definitiva, rendano insufficienti i mezzi finanziari dei quali la Regione stessa dispone per l’adempimento dei propri compiti. Evenienza, questa, che non è stata nella specie dimostrata, tanto più che nel ricorso si richiamano solo talune delle quote di compartecipazione al gettito fiscale che l’art. 49 dello statuto riconosce alla Regione, ma si tace su quelle ulteriori quote compartecipative che riguardano anche imposte indirette e cioè quelle imposte su cui – come sostenuto dalla medesima ricorrente – lo Stato avrebbe fatto affidamento per compensare, almeno in parte, la riduzione del gettito fiscale derivante dalla manovra incidente sulle imposte dirette.
Infine, con la sentenza n. 213, la Corte ravvisa una invasione della competenza esclusiva statale, in materia di sistema tributario e contabile dello Stato nell’art. 9, comma 1, della legge regionale delle Marche n. 11 del 2004, che affida alla Giunta regionale la determinazione dell’ammontare del canone da corrispondere per la concessione dei beni del demanio marittimo. La Corte ricorda che ha già avuto modo di distinguere tra le competenze che spettano alle Regioni in determinate materie e il potere dominicale che spetta allo Stato, quale proprietario, di disporre dei propri beni, che, «come tale, non incontra i limiti della ripartizione delle competenze secondo le materie».
La norma regionale viene dunque ritenuta illegittima, in quanto incidente su prerogative spettanti allo Stato nella sua qualità di ente “proprietario” di beni del demanio marittimo, senza che possa rilevare la asserita corrispondenza del canone fissato dalla Regione con quello statale.

4.1.5. «Ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali»
La giurisprudenza costituzionale è consolidata nel ritenere che la Regione, pur nell’ambito delle proprie competenze, non può decidere unilateralmente di avvalersi di soggetti appartenenti all’apparato statuale, attribuendo funzioni non rientranti nei loro compiti istituzionali. In virtù di questo principio, nella sentenza n. 30, si accolgono le questioni di costituzionalità dell’art. 20, comma 2, lettere g) e j), della legge della Regione Abruzzo 13 dicembre 2004, n. 46, dove si prevede la istituzione, presso la Giunta regionale, di un organismo collegiale, denominato Consulta regionale dell’immigrazione, al quale è demandato il compito di esprimere pareri e formulare proposte in ordine a tematiche specifiche e si dispone che della Consulta facciano anche parte, rispettivamente, «n. 1 rappresentante dell’INPS, designato dalla sede regionale» nonché «n. 1 rappresentante per ogni Prefettura presente sul territorio regionale». Motiva la Corte che la normativa regionale, nel prevedere i rappresentanti di un ente pubblico nazionale e di una articolazione della pubblica amministrazione, automaticamente configura, in capo a tali rappresentanti, nuove e specifiche attribuzioni pubbliche: quelle, appunto, relative all’espletamento delle funzioni connesse alla attività in concreto devoluta all’organo collegiale, in seno al quale gli stessi sono chiamati ad operare. Da ciò deriva, per quei pubblici dipendenti e per gli uffici che essi sono chiamati a rappresentare, un’inevitabile alterazione delle ordinarie attribuzioni svolte in seno agli enti di appartenenza: con la conseguente compromissione del parametro di cui all’art. 117, secondo comma, lettera g), della Costituzione, il quale riserva alla legislazione esclusiva dello Stato il compito di dettare norme in materia di ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali.
D’altra parte, ove alle Regioni fosse riconosciuta l’incondizionata possibilità di attribuire legislativamente - in forma autoritativa ed unilaterale - l’esercizio di funzioni pubbliche a uffici della amministrazione dello Stato o ad enti pubblici nazionali, seppure in sede locale, ne verrebbe all’evidenza compromessa la stessa funzionalità ed il buon andamento; quest’ultimo postula, infatti, un modello normativo unitario e coordinato, cui riservare la individuazione e la organizzazione delle attribuzioni e dei compiti demandati a quegli uffici o a quegli enti. Né può valere in senso contrario la circostanza che, nella specie, si verserebbe in una ipotesi di mera collaborazione fra enti, in quanto, da un lato, non sarebbe obbligatoria la partecipazione dei rappresentanti alla attività della Consulta, né vi sarebbero conseguenze in ipotesi di loro mancata designazione; mentre, dall’altro lato, la natura meramente consultiva di tale attività escluderebbe qualsiasi possibilità di «incidere su aspetti sottoposti a normazione statale».
È ben vero, prosegue la Corte, che le finalità perseguite dalla legge regionale in questione si iscrivono in una materia nella quale la competenza legislativa regionale non è contestata; così come – proprio in considerazione della complessità e delicatezza delle problematiche che il fenomeno della immigrazione è indubbiamente in grado di suscitare – è senz’altro possibile ipotizzare «forme di collaborazione e di coordinamento che coinvolgono compiti ed attribuzioni dello Stato». Ma tali forme di collaborazione e di coordinamento «non possono», come nella specie, «essere disciplinate unilateralmene e autoritativamente dalle regioni, nemmeno nell’esercizio della loro potestà legislativa: esse debbono trovare il loro fondamento o il loro presupposto in leggi statali che le prevedano o le consentano, o in accordi tra gli enti interessati».
Analoga ratio decidendi è alla base dell’esame, operato dalla sentenza n. 322, di due norme della legge della Regione Basilicata 22 febbraio 2005, n. 13: l’art. 3, comma 1, lettera h), che – nel disciplinare i compiti ed i ruoli della Regione nella predisposizione di strutture ed attività per la prevenzione, l’avvistamento e lo spegnimento di incendi – dispone, tra l’altro, che la Regione provvede a «organizzare l’impiego delle guardie ecologiche unitamente alle Forze dell’Ordine e di Pubblica Sicurezza»; e l’art. 13, secondo cui «la vigilanza sull’applicazione della presente legge è affidata al Corpo Forestale dello Stato [...], a tutte le Forze dell’Ordine e di Pubblica Sicurezza».
Ribadisce la Corte che le Regioni non possono porre a carico di organi e amministrazioni dello Stato compiti e attribuzioni ulteriori rispetto a quelli individuati con legge statale e che – pur non essendo ovviamente escluso «che si sviluppino auspicabili forme di collaborazione tra apparati statali, regionali e degli enti locali volte a migliorare le condizioni di sicurezza dei cittadini e del territorio» – tuttavia «le forme di collaborazione e di coordinamento che coinvolgono compiti e attribuzioni di organi dello Stato non possono essere disciplinate unilateralmente e autoritativamente dalle regioni, nemmeno nell’esercizio della loro potestà legislativa: esse debbono trovare il loro fondamento o il loro presupposto in leggi statali che le prevedano o le consentano, o in accordi tra gli enti interessati».
Orbene, tanto con l’attribuzione alla Regione del compito di provvedere, per le finalità di cui all’art. 1, all’organizzazione dell’impiego delle Forze dell’ordine e di pubblica sicurezza, quanto con l’affidamento della vigilanza sull’applicazione della legge anche a tali Forze (oltre che al Corpo forestale dello Stato), la Regione ha unilateralmente disposto il diretto coinvolgimento di organi dello Stato, addossando ad essi gli obblighi conseguenti all’attribuzione dei relativi compiti, così violando l’art. 117, secondo comma, lettera g), Cost.
In realtà l’art. 7 della legge n. 353 del 2000 prevede che tale utilizzazione da parte della Regione possa avvenire, per il Corpo forestale dello Stato, «in base ad accordi di programma» (comma 3, lettera a); e, per le Forze di Polizia dello Stato, «in caso di riconosciuta e urgente necessità», previa richiesta «all’Autorità competente che ne potrà disporre l’utilizzo in dipendenza delle proprie esigenze» (comma 3, lettera c). Ma le due norme regionali impugnate non operano alcun rinvio a tali condizioni, donde la loro illegittimità, limitatamente alle parole «unitamente alle Forze dell’Ordine e di Pubblica Sicurezza» contenute nell’art. 3, comma 1, lettera h), e alle parole «al Corpo Forestale dello Stato» e «a tutte le Forze dell’Ordine e di Pubblica Sicurezza» contenute nell’art. 13, comma 1. La decisione non preclude, comunque, alla Regione di avvalersi (nella lotta contro gli incendi boschivi) di risorse, mezzi e personale degli organi di sicurezza statali, purché nei limiti e con le modalità di cui alla citata legislazione dello Stato.
Non si rinviene, invece, alcun vulnus all’art. 117, secondo comma, lettera g), della Costituzione, nell’art. 19, comma 2, della legge della Regione Puglia 13 dicembre 2004, n. 23, «nella parte in cui si riferisce ai Comandi provinciali dei vigili del fuoco e ad organi statali», facendo carico agli stessi di trasmettere «i dati relativi alle principali informazioni sulla rete distributiva dei carburanti». Si rileva, nella sentenza n. 42, che la disposizione impugnata – nello stabilire che gli organi nella stessa menzionati sono tenuti ad un’attività di mera trasmissione di taluni dei dati in loro possesso – deve essere interpretata nel senso che essa è volta a prevedere un meccanismo di cooperazione tra Regione e Stato, nel settore dello scambio delle informazioni (tra l’altro unicamente di quelle definite “principali”) in ordine alla rete distributiva dei carburanti.
Orbene, l’acquisizione, l’elaborazione e lo scambio di informazioni non determinano, di regola, alcuna lesione di attribuzioni, rispettivamente statali o regionali, ma rappresentano, in realtà, strumenti con i quali si esplica, ad un livello minimo, la leale cooperazione tra Stato e Regioni; e ciò in vista dell’esigenza di garantire il più efficiente esercizio delle attribuzioni tanto statali, quanto regionali. Lungi, pertanto, dal costituire indebita ingerenza nelle strutture e nelle attribuzioni di organi statali, la norma impugnata, nel prevedere che i Comandi provinciali dei vigili del fuoco ed altri organi statali trasmettano alla Regione – oltretutto non in forza di un generalizzato obbligo ex lege, ma evidentemente dietro specifica richiesta (come può desumersi anche dal fatto che lo scambio non concerne tutti gli elementi informativi in loro possesso) – «i dati relativi alle principali informazioni sulla rete distributiva dei carburanti», non reca alcuna violazione al parametro costituzionale evocato dal ricorrente.
Nella sentenza n. 207, la Corte decide il ricorso promosso avverso l’art. 1, ultimo inciso, l’art. 2, commi 2, ultimo inciso, 3 e 4, e gli artt. 3 e 4 del disegno di legge n. 805 (Disposizioni urgenti per il rafforzamento dell’azione amministrativa a tutela della legalità), approvato dall’Assemblea regionale siciliana nella seduta del 12 aprile 2005 e successivamente promulgato e pubblicato come legge della Regione Siciliana 31 maggio 2005, n. 6, che prevedono che la richiesta di comando deve essere fatta dai capi degli uffici periferici degli organi giudiziari. Il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera g), Cost., perché verrebbe creato, con l’assegnazione di risorse umane e strumentali senza l’assenso degli organi statali centrali, «uno strumento indiretto, ma pervasivo, di ingerenza» della Regione nell’esercizio di funzioni statali.
La questione viene dichiarata infondata. Le norme regionali impugnate non introducono alterazioni di alcun tipo nell’organizzazione e nelle procedure interne dell’amministrazione giudiziaria, né incidono nei rapporti tra Ministero della giustizia e uffici giudiziari siti sul territorio. Il carattere puramente facoltativo della richiesta di comando di personale o di comodato di beni strumentali, da parte dei capi degli uffici statali, vale inoltre a fugare il dubbio che con legge regionale siano stati introdotti vincoli a carico di organi dello Stato.
Il ricorrente censura poi specificamente l’ultimo inciso del comma 4 dell’art. 2 della legge regionale impugnata, poiché, nel prevedere l’esclusione del diritto ad ogni altro emolumento da parte delle amministrazioni statali destinatarie del personale comandato, esulerebbe dalla competenza della Regione, in quanto inciderebbe su rapporti di lavoro disciplinati dal codice civile.
La questione non è fondata, poiché la norma regionale censurata non intende precludere ogni possibile emolumento aggiuntivo futuro, in favore del personale comandato, derivante dall’evolversi della dinamica contrattuale, ma mira semplicemente ad escludere che dalla legge regionale possa derivare un qualsiasi obbligo per le amministrazioni statali, con conseguente inammissibile carico finanziario per le stesse. L’assetto del rapporto di lavoro del suddetto personale non viene dunque inciso dalla norma impugnata, che si limita a precisare che dall’assegnazione di risorse umane alle amministrazioni statali non può derivare alcun diritto dei dipendenti comandati ad emolumenti aggiuntivi a carico delle amministrazioni destinatarie. Ciò risulta evidente sol che si consideri che le prestazioni lavorative del personale in questione sono sostitutive di quelle dovute nei confronti dell’amministrazione regionale di provenienza.


4.1.6. «Ordine pubblico e sicurezza»

Gli organi della Regione non possono disporre la rimozione o la sospensione degli amministratori locali, anche per gravi motivi di ordine pubblico, senza con ciò violare la competenza esclusiva statale in materia di ordine pubblico e sicurezza.
Tanto si rinviene nella sentenza n. 396, di accoglimento della questione di legittimità costituzionale dell’art. 3 della legge della Regione Sardegna 7 ottobre 2005, n. 13, nella parte in cui non esclude la violazione della Costituzione e i gravi motivi di ordine pubblico dai casi nei quali possono intervenire gli organi regionali in tema di rimozione o sospensione degli amministratori locali.
Per la Corte non possono esservi dubbi sulla estraneità dall’area delle competenze legislative della Regione dei profili concernenti l’ordine pubblico e la sicurezza pubblica, così come risulta anche dall’art. 49 dello Statuto regionale e dall’art. 2, primo comma, del d.P.R. 19 giugno 1979, n. 348 (Norme di attuazione dello Statuto speciale per la Sardegna in riferimento alla legge 22 luglio 1975, n. 382, e al decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616).
Peraltro, si rileva che la normativa statale distingue espressamente i casi di scioglimento dei consigli (art. 141 del d.lgs. n. 267 del 2000) da quelli di rimozione degli amministratori (art. 142 del d.lgs. n. 267 del 2000), sicché, malgrado l’esplicita esclusione contenuta nell’art. 2 della legge regionale in esame, la lettera dell’art. 3 della medesima legge, rinviando esclusivamente e genericamente ai «casi disciplinati dall’art. 142» del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, non può che essere intesa come affermazione della competenza regionale in tutti i casi previsti dalla disposizione statale.
Sempre per violazione della competenza statale in materia di ordine pubblico e sicurezza, viene dichiarata, con la sentenza n. 237, l’incostituzionalità degli articoli 12 e 13 della legge della Provincia autonoma di Trento 11 marzo 2005, n. 3, che rinvia ad apposito regolamento la determinazione del numero massimo di apparecchi e di congegni automatici, semiautomatici ed elettronici di trattenimento o di gioco di abilità previsti dall’art. 110, commi 6 e 7 del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, che possono essere installati presso gli esercizi disciplinati dalla citata legge provinciale, nonché all’interno di sale giochi, circoli privati e punti di raccolta di altri giochi autorizzati, della provincia di Trento, prevedono altresì apposite sanzioni amministrative per la violazione di dette prescrizioni.
La Corte, dopo avere ricostruito il quadro normativo della materia, afferma che la materia stessa risulta compiutamente disciplinata dall’art. 110 TULPS, e successive modificazioni.
In particolare, la legge statale: (1) definisce la nozione di apparecchi e congegni automatici, semiautomatici ed elettronici d’azzardo e quella di apparecchi e congegni idonei per il gioco lecito; (2) vieta i primi e consente i secondi; (3) detta le sanzioni per le violazioni della disciplina relativa ai primi; (4) stabilisce le prescrizioni che limitano l’utilizzo dei secondi.
Non v’è dubbio che tutte queste prescrizioni attengono chiaramente alla materia dell’«ordine pubblico e sicurezza» non compresa nell’articolo 9 dello Statuto e che l’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost. attribuisce alla potestà legislativa esclusiva dello Stato.
In proposito, la Corte precisa che tale materia si riferisce «all’adozione delle misure relative alla prevenzione dei reati ed al mantenimento dell’ordine pubblico» (sentenze n. 95 del 2005, nn. 6, 162 e 428 del 2004, n. 407 del 2002). In essa rientra non soltanto la disciplina dei giochi d’azzardo, ma, inevitabilmente, anche quella relativa ai giochi che, pur presentando un elemento aleatorio e distribuendo vincite, non sono ritenuti giochi d’azzardo (si tratta delle ipotesi di cui al comma 6 dell’art. 110 TULPS).
Anche la disciplina relativa al numero massimo di apparecchi che possono essere installati in un determinato esercizio non attiene tanto alla sicurezza riferita allo svolgimento dell’attività da parte degli esercenti di un pubblico servizio, ma rientra nella materia che l’art. 9 dello statuto speciale riserva allo Stato, considerati i caratteri dei giochi cui sono predisposte tali apparecchiature (aleatorietà e possibilità di vincite, seppur modeste, in denaro), la conseguente forte capacità di attrazione e concentrazione di utenti e l’altrettanto elevata probabilità di usi illegali degli apparecchi medesimi.
La stessa Provincia resistente riconosce espressamente che le norme impugnate rispondono ad esigenze di ordine pubblico e sicurezza pubblica, «per evitare l’uso di apparecchi che, pur leciti, possono rivelarsi pericolosi qualora non controllati, ed incentivare così una insensata propensione al gioco».
Rafforza questa tesi proprio l’art. 12, n. 7, dello statuto speciale per il Trentino Alto-Adige, il quale ha rimarcato in termini netti la centralità dei poteri di vigilanza, “ai fini della pubblica sicurezza” rispetto alla quale non sarebbe tollerabile una diversificazione di interventi su base territoriale.
Dunque, la tesi della Provincia, secondo la quale le disposizioni impugnate, facendo riferimento soltanto alle caratteristiche tipologiche e di localizzazione, si limiterebbero a regolamentare l’installazione degli apparecchi da trattenimento o da gioco di abilità nell’ambito degli esercizi pubblici, la cui disciplina è demandata alla propria competenza, ai sensi dell’art. 9, n. 7, dello statuto speciale di autonomia, non è condivisibile, ponendosi le disposizioni in contrasto con i sopraindicati parametri.
Infatti, anche le prescrizioni in tema di numero di apparecchi e di modalità di installazione rispondono ad evidenti esigenze di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblici, ed il fatto che si tratti di locali destinati ad ospitare pubblici esercizi non vale a sottrarre la disciplina in questione alla materia riservata alla potestà legislativa statale.
La Corte, con la sentenza n. 222, dichiara non lesiva delle competenze della Provincia autonoma di Bolzano l’ordinanza del Ministro della salute in data 9 settembre 2003, avente ad oggetto «Tutela dell’incolumità pubblica dal rischio di aggressioni da parte di cani potenzialmente pericolosi». Dopo avere respinto la premessa da cui muove il ricorrente, secondo cui l’atto in parola attiene alla materia “igiene e sanità”, la Corte ritiene che l’esame delle singole direttive dettate dal Ministro, piuttosto, consente di rilevare che il provvedimento regola fattispecie eterogenee ed insiste su una pluralità di materie, ascrivibili non solo alla potestà legislativa concorrente (“tutela della salute”, ivi compresa la polizia veterinaria) ma anche e soprattutto a quella esclusiva dello Stato (“ordine pubblico e sicurezza”).
Alla stregua della giurisprudenza costituzionale, in siffatti casi di concorso di competenze si deve fare applicazione del criterio della prevalenza e verificare se una tra le materie interessate possa dirsi dominante, in quanto nel complesso normativo sia rintracciabile un nucleo essenziale appartenente ad un solo ambito materiale ovvero le diverse disposizioni perseguano una medesima finalità.
Nella specie, le prescrizioni denunciate risultano accomunate da un’identica ratio, afferente al miglioramento delle condizioni di sicurezza dei cittadini dinanzi al rischio di attacco da parte di cani di razze con un particolare potenziale di aggressività dove l’urgenza della regolamentazione ha riguardo proprio alla frequente reiterazione di episodi di aggressione animale.
Le disposizioni ineriscono essenzialmente alla repressione di contegni suscettibili di rilevanza penale, dati dall’impiego di tecniche di addestramento particolari e dalla somministrazione di sostanze eccitanti, le une e l’altra finalizzate ad accentuare il potenziale di aggressività di taluni cani. Il pericolo per l’incolumità pubblica assunto a ragione e fondamento dell’atto è pertanto determinato, non già dalla esistenza di animali dotati di caratteristiche peculiari, ma dal potenziamento delle loro capacità offensive per mano dell’uomo.
Tali rilievi trovano un preciso riscontro nella previsione concernente condizioni ostative all’acquisto o alla detenzione di cani potenzialmente pericolosi (art. 2).
La dichiarazione di abitualità nel reato o di delinquente per tendenza, la sottoposizione a misura di sicurezza personale o a misura di prevenzione personale, la precedente condanna per reati non colposi contro la persona o contro il patrimonio ovvero per maltrattamento di animali rinviano, in linea generale, ad un’esigenza di difesa sociale. La limitazione della sfera giuridica dei destinatari della direttiva non può che giustificarsi in rapporto alla prevenzione di comportamenti atti ad incrementare la capacità di danno dei cani, eventualmente a scopo di profitto. In definitiva, la misura si propone di sottrarre alla disponibilità di soggetti già resisi responsabili di condotte antisociali quegli animali che, per indole o per struttura fisica, siano suscettibili di utilizzazione quali strumenti di offesa.
L’ordinanza impugnata, dunque, è stata emanata essenzialmente per fronteggiare evenienze involgenti interessi strettamente collegati alla difesa della sicurezza pubblica e, alla luce di tale finalizzazione, in base al criterio della prevalenza deve essere ricondotta alla materia “ordine pubblico e sicurezza”, di competenza esclusiva dello Stato.
La competenza legislativa statale in materia di sicurezza pubblica non è violata – secondo quanto evidenziato nella sentenza n. 105 – dall’art. 7, lettere e) ed f), della legge della Regione Abruzzo 12 novembre 2004, n. 40, che – nell’ambito di una disciplina regionale finalizzata ad interventi di promozione della legalità e di garanzia della sicurezza dei cittadini – prevede alcune delle funzioni del «Comitato scientifico regionale permanente per le politiche della sicurezza e della legalità», quale organo di consulenza della Giunta regionale, attribuendo ad esso sia il compito di «presenta[re] alla Giunta regionale una relazione annuale sullo stato della sicurezza del territorio della Regione Abruzzo», sia quello di «svolge[re] attività di studio e ricerca dei sistemi avanzati di sicurezza nel campo nazionale e dell’Unione europea».
Secondo la Corte, l’una e l’altra previsione, in armonia con la generale connotazione di tale organismo, attengono a competenze e funzioni caratterizzate, rispettivamente, da una attività di analisi e studio dei fenomeni criminosi in senso lato, previa ricognizione di dati significanti sul territorio regionale; e da una attività di ricerca mirata, nel più ampio orizzonte nazionale ed europeo, all’approfondimento delle tecniche e dei sistemi di sicurezza: funzioni che, in entrambe le ipotesi, proprio perché incentrate su prospettive di indagine scientifica, risultano in sé strutturalmente inidonee a ledere la dedotta attribuzione di competenza legislativa statale.
Le attività in questione, in ragione delle loro caratteristiche e della loro finalità, non sono suscettibili di una teorica collocazione nell’ambito della nozione di “sicurezza pubblica”, quale è delineata dalla giurisprudenza costituzionale, e rispetto a cui, già prima della riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione, «la riserva allo Stato riguarda le funzioni primariamente dirette a tutelare beni fondamentali, quali l’integrità fisica o psichica delle persone, la sicurezza dei possessi ed ogni altro bene che assume prioritaria importanza per l’esistenza stessa dell’ordinamento» (sentenza n. 290 del 2001). Al di là, cioè, dell’ampiezza della nozione di sicurezza e ordine pubblico – quale settore di competenza riservata allo Stato, in contrapposizione ai compiti di polizia amministrativa regionale e locale – è la stessa natura dell’attività conoscitiva, in sé estranea a tale orizzonte di competenza, ad escludere la possibilità che la normativa oggetto di censura incida sull’assetto della competenza statale.
D’altra parte, nella prospettiva di una completa ed articolata attuazione del principio di leale collaborazione tra istituzioni regionali e locali ed istituzioni statali non può escludersi «che l’ordinamento statale persegua opportune forme di coordinamento tra Stato ed enti territoriali in materia di ordine e sicurezza pubblica» (v. sentenza n. 55 del 2001), volte, evidentemente, a migliorare le condizioni di sicurezza dei cittadini e del territorio, “auspicabili” e suscettibili di trovare il loro fondamento anche “in accordi fra gli enti interessati”, oltre che nella legislazione statale: auspicio, questo, che necessariamente presuppone la possibilità, in capo all’ente locale, di apprezzamento - attraverso l’attività di rilevazione, di studio e di ricerca applicata - delle situazioni concrete e storiche riguardanti la sicurezza sul territorio regionale, alla luce delle peculiarità dei dati e delle condizioni che esso offre.


4.1.7. «Ordinamento civile»

Una chiara violazione della competenza esclusiva statale in materia di «ordinamento civile» viene dalla Corte rinvenuta, con sentenza n. 173, nell’art. 4, comma 1, della legge della Regione Piemonte 24 dicembre 2004, n. 39, che attribuisce, a titolo non oneroso, al patrimonio delle Aziende sanitarie locali territorialmente competenti i beni mobili ed immobili costituenti i presidi ospedalieri di Lanzo Torinese e Valenza. Al riguardo, la Corte premette che i beni cui la norma impugnata fa riferimento, già appartenenti all’ente ospedaliero Ordine Mauriziano, sono stati attribuiti dall’art. 2, comma 2, del decreto legge n. 277 del 2004, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge n. 4 del 2005, alla Fondazione Ordine Mauriziano, costituita con l’art. 2, comma 1, dello stesso decreto legge, con lo scopo, tra l’altro, «di gestire il patrimonio e i beni trasferiti ai sensi del comma 2, nonché di operare per il risanamento finanziario dell’Ente [...] anche mediante la dismissione dei beni del patrimonio disponibile trasferito» (art. 2, comma 4).
Il citato comma 2 dell’art. 2 dispone, infatti, che sia trasferito alla Fondazione l’intero «patrimonio immobiliare e mobiliare dell’Ente, con esclusione dei presidi ospedalieri di cui all’art. 1, comma 1», vale a dire i presidi ospedalieri Umberto I di Torino e Istituto per la ricerca e la cura del cancro (IRCC) di Candiolo (Torino), cosicché non può esservi alcun dubbio riguardo all’attribuzione alla Fondazione anche degli immobili sedi dei presidi di Lanzo Torinese e Valenza, di cui la norma regionale si occupa, non consentendo l’inequivoco dato testuale alcuna diversa interpretazione della richiamata disciplina.
Ciò posto, ne discende che la norma regionale impugnata, operando un diretto trasferimento di beni da una persona giuridica del tutto estranea all’ordinamento sanitario regionale – qual è la Fondazione Ordine Mauriziano – ad una Azienda sanitaria locale, incide sul patrimonio della persona stessa e rientra quindi nella materia dell’ordinamento civile.
La sentenza n. 411 dichiara, invece, l’incostituzionalità dell’art. 18, comma 13, secondo periodo, della legge Regione Lombardia 13 febbraio 2003, n. 1, nella parte in cui dispone che al personale assunto successivamente alla trasformazione delle IPAB in persone giuridiche di diritto privato, «in sede di contrattazione decentrata, è stabilita l’applicazione di contratti in essere o di contratti compatibili ed omogenei con quelli applicati al personale già in servizio».
Al fine di individuare la materia, tra quelle contemplate dall’art. 117 Cost., alla quale ricondurre la disciplina in esame, questa deve essere considerata per ciò che dispone, e non già in base alle finalità perseguite dal legislatore: criterio che si impone, in particolare, quando venga in rilievo una materia – quale quella della «tutela del lavoro» – la cui stessa denominazione include il concetto di fine, e che per ciò solo sarebbe in grado di riferirsi a qualsiasi disciplina avente ad oggetto il lavoro.
Se, pertanto, il legislatore regionale ha perseguito una finalità riconducibile all’intento (generico) di «tutelare il lavoro» dei neo-assunti, lo strumento utilizzato – l’obbligo di contrattare – attiene certamente all’ordinamento civile, in quanto si risolve nel vincolo, imposto ad un soggetto privato, di tenere un comportamento prescritto dalla legge e, quindi, in un vincolo destinato ad incidere sul suo potere di autodeterminarsi.
Per pervenire alla conclusione che la norma censurata attiene alla materia dell’ordinamento civile non occorre stabilire se la legge regionale imponga anche un’obbligazione di risultato, e cioè pretenda di condizionare altresì la scelta del contratto collettivo da applicare e, sia pure indirettamente, il contenuto di esso; è sufficiente rilevare che la norma censurata certamente crea un procedimento negoziale – al quale il datore di lavoro è obbligato a partecipare prima di poter scegliere il contratto collettivo da applicare – le cui controparti (le organizzazioni sindacali del pubblico impiego) sono autoritativamente individuate.
Parimenti, nella sentenza n. 253 si dichiara l’incostituzionalità degli artt. 7, comma 1, ed 8 della legge della Regione Toscana 15 novembre 2004, n. 63 (Norme contro le discriminazioni determinate dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere), dove si prevede che «ciascuno ha diritto di designare la persona a cui gli operatori sanitari devono riferirsi per riceverne il consenso a un determinato trattamento terapeutico, qualora l’interessato versi in condizione di incapacità naturale e il pericolo di un grave pregiudizio alla sua salute o alla sua integrità fisica giustifichi l’urgenza e indifferibilità della decisione». Il successivo art. 8 disciplina il procedimento per rendere le dichiarazioni di volontà indicate dall’art. 7.
La Regione ha così disciplinato la possibilità per il soggetto, in vista di un’eventuale e futura situazione di incapacità naturale e al ricorrere delle condizioni indicate dall’art. 7, di delegare ad altra persona, liberamente scelta, il consenso ad un trattamento sanitario.
Così operando, il legislatore regionale ha ecceduto dalle proprie competenze, regolando l’istituto della rappresentanza che rientra nella materia dell’ordinamento civile.
Analogamente risulta incostituzionale l’art. 7, comma 5, dove si prevede che «la richiesta di un trattamento sanitario, che abbia ad oggetto la modificazione dell’orientamento sessuale o dell’identità di genere per persona maggiore degli anni diciotto, deve provenire personalmente dall’interessato, il quale deve preventivamente ricevere un’adeguata informazione in ordine allo scopo e natura dell’intervento, alle sue conseguenze ed ai suoi rischi».
Anche tale disposizione incide nella materia dell’ordinamento civile e, precisamente, in quella degli atti di disposizione del proprio corpo, riservata all’esclusiva potestà legislativa statale.
In particolare, il trattamento sanitario che abbia ad oggetto l’adeguamento dei caratteri sessuali morfologici esterni alla identità psico-sessuale rientra tra quelli che, pur determinando una diminuzione permanente della propria integrità fisica, sono eccezionalmente ammessi dall’ordinamento – in deroga al divieto di cui all’art. 5 del codice civile – nei limiti fissati dal legislatore statale con la legge del 14 aprile 1982 n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso).
L’incostituzionalità colpisce anche l’art. 16, commi 1 e 4, che prevede il divieto per gli operatori commerciali appartenenti a determinate categorie di rifiutare la loro prestazione, o di erogarla a condizioni deteriori rispetto a quelle ordinarie, «senza un legittimo motivo e, in particolare, fra l’altro per motivi riconducibili all’orientamento sessuale o all’identità di genere». La disposizione contiene, altresì, la previsione di una sanzione amministrativa in caso di contravvenzione al detto divieto.
Viene così imposto ai soggetti sopra indicati l’obbligo di fornire la propria prestazione a chiunque ne faccia richiesta, senza possibilità di discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale.
La norma regionale, nel prevedere, in sostanza, un’ipotesi di obbligo legale a contrarre e alla cui violazione è altresì connessa la comminatoria di una sanzione amministrativa, introduce una disciplina incidente sull’autonomia negoziale dei privati e, quindi, su di una materia riservata, ex art. 117, comma secondo, lettera l), della Costituzione, alla competenza legislativa esclusiva dello Stato. Alla illegittimità della disposizione che prevede l’obbligo a contrarre consegue, «stante il parallelismo tra potere di predeterminazione delle fattispecie da sanzionare e potere di determinare la sanzione», anche l’illegittimità dell’ulteriore previsione relativa alla applicabilità, in caso di violazione dell’obbligo, della sanzione amministrativa.

4.1.8. «Ordinamento […] penale»
Come rilevato nella sentenza n. 183, attengono all’«ordinamento penale» e non già al «governo del territorio» le norme della legge 15 dicembre 2004, n. 308 statuenti l’irrilevanza penale di determinati abusi in zona paesaggistica, per il futuro (art. 1, comma 36, lettera c), e l’estinzione dei reati paesaggistici, per il passato (art. 1, comma 37).
Per il futuro, l’art. 1, comma 36, lettera c) dispone che qualora l’autorità amministrativa accerti la compatibilità paesaggistica dell’opera abusiva, la disposizione di cui al comma 1 (che prevede una fattispecie di reato contravvenzionale, per interventi non assistiti da autorizzazione paesaggistica o in difformità da essa) non si applica. Le opere abusive passibili di tale inapplicabilità sono quelle, minori. La procedura, descritta dal comma 1-quater, prevede che il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell’immobile o dell’area interessata dall’intervento, proponga istanza all’autorità preposta alla gestione del vincolo (ovvero alla Regione o all’ente da questa delegato) ai fini dell’accertamento di compatibilità ambientale delle opere, la quale si pronuncia nel termine perentorio di centottanta giorni, previo parere vincolante della Soprintendenza, da rendersi nel termine perentorio di novanta giorni.
Per il passato (cioè per i lavori compiuti entro e non oltre il 30 settembre 2004), l’art. 1, comma 37, prevede esplicitamente l’estinzione di ogni reato in materia paesaggistica, previo accertamento della compatibilità paesaggistica, qualora le tipologie edilizie realizzate e i materiali utilizzati, anche se diversi da quelli indicati nell’eventuale autorizzazione, rientrino fra quelli previsti e assentiti dagli strumenti di pianificazione paesaggistica, ove vigenti, o, in mancanza, se siano giudicati compatibili con il contesto paesaggistico (lettera a), e purché i trasgressori abbiano previamente pagato la sanzione pecuniaria, maggiorata, di cui all’art. 167, e inoltre una sanzione pecuniaria aggiuntiva, determinata dall’autorità amministrativa (lettera b, n. 1 e n. 2).
Al riguardo, la Corte constata che tale disciplina attiene strettamente al trattamento penale degli abusi, il che induce a commisurare l’intervento legislativo statale, pur se relazionato alla materia dell’ambiente e dei beni culturali, al parametro dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. (“ordinamento penale”).
Sul punto, ricorda che il potere di incidere sulla sanzionabilità penale spetta solo al legislatore statale, cui va riconosciuta discrezionalità in materia di estinzione del reato o della pena, o di non procedibilità. La considerazione del trattamento penale assume, d’altro canto, preminenza agli effetti delle competenze legislative, pur nella generica riconducibilità ad altra materia delle norme precettive la cui violazione è sanzionata.
L’irrilevanza penale dell’abuso non tocca gli aspetti urbanistici, per i quali le Regioni non vedono scalfita la loro competenza nella previsione delle sanzioni amministrative in materia edilizia. È del resto pacifico, nella giurisprudenza penale e amministrativa, che la valutazione espressa in sede di giudizio penale per il reato paesaggistico non vincola le determinazioni amministrative in materia edilizia.
È da ritenere, quindi, salva l’applicabilità delle sanzioni amministrative che colpiscono gli abusi edilizi, che la Regione può opportunamente disciplinare nell’ambito della propria competenza di dettaglio in materia di governo del territorio.
Riguardo all’estinzione dei reati pregressi, vale la considerazione della finalità esclusivamente penalistica della norma impugnata: questa non si occupa delle sanzioni amministrative in materia edilizia, e si ammette, per gli abusi passati, l’estinzione del reato, sempre previo accertamento di compatibilità paesaggistica, ma anche a condizione che (art. 1, comma 37, lettera b, n. 1) «i trasgressori abbiano previamente pagato la sanzione pecuniaria di cui all’art. 167 maggiorata da un terzo alla metà». Le sanzioni amministrative a tutela del paesaggio restano applicabili, pur se limitate alla tipologia pecuniaria, attesa la minima rilevanza degli abusi: a maggior ragione va ritenuta l’autonomia e l’eventuale applicabilità, ove ne ricorrano i presupposti, delle sanzioni a presidio di tutti gli altri valori che convergono sul territorio, in particolare di quelle in materia edilizia, di competenza regionale.
Quanto alla previsione del parere vincolante della Soprintendenza nella procedura di accertamento di conformità, che si conclude con un atto di competenza della regione o dell’ente locale delegato, va ribadito che gli effetti dell’accertamento di conformità appaiono limitati alla punibilità degli abusi, che non investe le sanzioni amministrative, né quelle edilizie, ma neppure quelle paesaggistiche. Ai fini del riparto delle competenze, dunque, la potestà autorizzatoria regionale non appare scalfita, posto che l’accertamento postumo di compatibilità paesaggistica non comporta autorizzazione in sanatoria né tocca la disciplina autorizzatoria in materia di tutela dei beni paesaggistici.
L’art. 1, comma 36, lettera c), della legge n. 304 del 2004, non fa altro che rendere applicabile, su iniziativa dell’interessato, il modello di procedimento per il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, estrapolando dalla sequenza degli atti – il provvedimento finale è emesso dall’organo titolare della funzione autorizzatoria, la Regione, appunto, o il Comune delegato – il parere di un organo statale, la Soprintendenza, ai soli fini del riscontro delle condizioni oggettive di irrilevanza penale degli interventi in assenza o in difformità dell’autorizzazione: l’uniformità di metodi di valutazione sul territorio nazionale, che è inerente al trattamento penale degli abusi, è tale da giustificare la “chiamata in sussidiarietà” dello Stato nelle funzioni amministrative.

4.1.9. «Determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale»
Per quanto attiene alla competenza inerente alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, particolarmente rilevanti sono le affermazioni contenute nella sentenza n. 134, resa nel giudizio avente ad oggetto l’art. 1, comma 169, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, che affida ad un regolamento del Ministro della salute la determinazione degli «standard qualitativi, strutturali, tecnologici, di processo e possibilmente di esito, e quantitativi, di cui ai livelli essenziali di assistenza» sanitaria.
Quanto alla individuazione del titolo di competenza legislativa di cui la disposizione impugnata è espressiva, la Corte ritiene che la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni sanitarie interseca in modo significativo la sfera di competenza legislativa concorrente assegnata dagli statuti speciali alle due ricorrenti nella materia «igiene e sanità» (art. 5, numero 16, dello statuto della Regione Friuli-Venezia Giulia; art. 9, numero 10, dello statuto della Regione Trentino-Alto Adige), piuttosto che quella primaria relativa all’“ordinamento degli uffici” (art. 8, n. 1, dello statuto della Regione Trentino-Alto Adige), posto che questa ultima competenza appare recessiva, a fronte delle evidenti finalità di tutela della salute connesse alla disciplina legislativa in esame.
Per quanto riguarda la materia incisa dalle disposizioni impugnate, la Corte ricorda che la competenza legislativa concorrente concernente la «tutela della salute» (art. 117, terzo comma, della Costituzione) è «assai più ampia» rispetto alla precedente relativa all’«assistenza ospedaliera» (sentenza n. 270 del 2005) ed esprime «l’intento di una più netta distinzione fra la competenza regionale a legiferare in queste materie e la competenza statale, limitata alla determinazione dei principi fondamentali della disciplina» (sentenza n. 282 del 2002).
Quindi, anche in riferimento alle attribuzioni proprie delle parti ricorrenti deve ritenersi che in questa materia l’applicazione dell’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001 trovi fondamento nella maggiore estensione della “tutela della salute” rispetto alle corrispondenti competenze statutarie in materia sanitaria, di cui la Corte ha in più occasioni sottolineato il carattere contenuto, atteso che esse non si risolvono «in una materia pienamente assimilabile agli altri settori di competenza regionale, sia per la particolare intensità dei limiti cui sono in tal campo sottoposte la legislazione e l’amministrazione delle Regioni, sia per le peculiari forme e modalità di finanziamento della relativa spesa pubblica» (sentenze n. 452 del 1989; n. 294 del 1986 e n. 245 del 1984).
La riconduzione delle attribuzioni dei soggetti ad autonomia speciale in materia sanitaria all’art. 117, terzo comma, della Costituzione, implica però il contemporaneo assoggettamento delle stesse ai «limiti, espressi od impliciti, contenuti nel nuovo Titolo V» della Costituzione (sentenza n. 383 del 2005), e, in particolare, all’esercizio della competenza esclusiva dello Stato in punto di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali.
In ordine al regime giuridico dei limiti che possono essere apposti, sulla base dell’art. 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, all’autonomia delle Regioni in tema di tutela della salute, la Corte sottolinea che la rilevante compressione dell’autonomia regionale che consegue alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, se «attribuisce al legislatore statale un fondamentale strumento per garantire il mantenimento di una adeguata uniformità di trattamento sul piano dei diritti di tutti i soggetti, pur in un sistema caratterizzato da un livello di autonomia regionale e locale decisamente accresciuto», esige «che queste scelte, almeno nelle loro linee generali, siano operate dallo Stato con legge, che dovrà inoltre determinare adeguate procedure e precisi atti formali per procedere alle specificazioni ed articolazioni ulteriori che si rendano necessarie» (sentenza n. 88 del 2003).
La Corte rileva poi che l’art. 6 del decreto-legge 18 settembre 2001, n. 347, quale modificato dalla legge di conversione 16 novembre 2001, n. 405, ha disciplinato un apposito procedimento per la determinazione dei livelli essenziali, prevedendo un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro della salute di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, d’intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, e che su questa base è stato adottato il d.P.C.m. 29 novembre 2001. Successivamente l’art. 54 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, ha confermato questa procedura, specificando anche che le modifiche ai LEA «sono definite di intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano».
La disposizione impugnata, pur confermando esplicitamente la disciplina dell’art. 54 della legge n. 289 del 2002 per la determinazione dei LEA, prevede per la fissazione degli standards una nuova procedura, ovvero un regolamento del Ministro della salute, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, «sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano».
Trattandosi di integrazioni e specificazioni sul versante attuativo dei LEA esistenti nel settore sanitario non può essere negata la possibilità del legislatore statale di giungere ad un livello di specificazione delle prestazioni che faccia venire meno il requisito della loro essenzialità, essendo questo tipo di valutazioni costituzionalmente affidato proprio al legislatore statale.
Di conseguenza, se la individuazione degli standards non può trovare legittimazione costituzionale che nella già richiamata lettera m) del secondo comma dell’art. 117 della Costituzione, la relativa disciplina deve essere omogenea a quella prevista espressamente per i LEA, ove si ipotizzi, come nel caso del comma 169 della legge n. 311 del 2004, che la loro adozione avvenga tramite una procedura non legislativa; né assume rilevanza l’attribuzione del relativo potere normativo ad un regolamento ministeriale, dal momento che, operandosi nell’ambito di una materia di competenza esclusiva statale, la potestà normativa secondaria spetta allo Stato, ai sensi dell’art. 117, sesto comma, della Costituzione.
Ciò che, invece, rileva è la ingiustificata riduzione delle modalità di coinvolgimento in questo procedimento delle Regioni (la mera richiesta di un parere alla Conferenza unificata), rispetto a quanto ribadito nello stesso comma 169 per la modificazione dei LEA in riferimento a standards che apporterebbero limitazioni di norma ancora più incisive all’autonomia regionale, in quanto connesse alla fase di concretizzazione dei LEA; se anche la determinazione degli standards trova giustificazione costituzionale nella lettera m) del secondo comma dell’art. 117 Cost., non può evidentemente ipotizzarsi che venga meno per essi proprio la più incisiva forma di leale collaborazione fra Stato e Regioni prevista dalla legislazione vigente per la determinazione dei LEA mediante procedure non legislative.
Né può sottacersi il paradosso che sarebbe costituito dall’esistenza di due diverse modalità di coinvolgimento delle Regioni rispetto a fenomeni tra loro profondamente contermini, come la determinazione dei LEA e la determinazione di quei particolari LEA che sarebbero costituiti dagli standards specificativi od attuativi dei primi.
Viene pertanto dichiarata la illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 169, della legge n. 311 del 2004, nella parte in cui prevede che il regolamento del Ministro della salute che determina gli standard sia adottato “sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano”, anziché “previa intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano”.
Analogamente, viene dichiarata la illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 169, della legge n. 311 del 2004, nella parte in cui prevede che il regolamento del Ministro della salute che individua le tipologie di assistenza e i servizi del Piano sanitario nazionale per fini diversi da quelli di cui al comma 293 della legge n. 266 del 2005, sia adottato “sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano”, anziché “previa intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano”. Infatti, la determinazione delle tipologie di assistenza e dei servizi, relativi alle aree di offerta individuate dal Piano sanitario nazionale, costituisce una fase della individuazione in via non legislativa dei LEA e quindi non appare giustificabile una diversità di partecipazione delle Regioni nel relativo procedimento di specificazione.
Infondata è, invece, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 169, della legge n. 311 del 2004, sollevata per violazione del principio di legalità sostanziale, dal momento che la legge non detterebbe «alcuna disciplina di base idonea a circoscrivere il potere normativo secondario».
Proprio la richiamata sentenza n. 88 del 2003 ha messo, infatti, in luce che già la prima legislazione in tema di «livelli essenziali di assistenza» nel settore sanitario e precedente alla adozione del nuovo Titolo V, contenuta nel d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, conteneva alcuni, ancorché generali, criteri per la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni sanitarie, pur rinviandone la specificazione al Piano sanitario nazionale. Le modifiche successive hanno, da una parte, determinato la procedura da seguire per la determinazione in via amministrativa dei LEA, ma, dall’altra, hanno mantenuto i principi precedenti ed il ruolo di quadro generale di riferimento del Piano sanitario nazionale.
Alla luce di ciò, la determinazione degli standards e dei LEA è delimitata dai principi generali del d.lgs. n. 502 del 1992 e dalle determinazioni del Piano sanitario nazionale, mentre sul piano procedurale resta prevista in ogni caso l’intesa in sede di Conferenza permanente. Tenendo presente che si opera nell’ambito di una materia altamente tecnica come quella della individuazione delle prestazioni relative all’assistenza sanitaria, le pur limitate predeterminazioni legislative di criteri e di limiti al potere normativo secondario appaiono sufficienti per escludere il vizio denunciato.
Sempre con riferimento ai livelli essenziali delle prestazioni, nella sentenza n. 248 si sottolinea che se è evidente che le leggi regionali non possono pretendere di esercitare una funzione normativa riservata in via esclusiva al legislatore statale, nel contempo quest’ultimo non può invocare tale competenza di carattere trasversale (sentenza n. 282 del 2002) per richiamare a sé l’intera disciplina delle materie cui essa possa di fatto accedere; disciplina nell’ambito della quale, viceversa, se di titolarità regionale, resta integra la potestà stessa della Regione di sviluppare ed arricchire il livello e la qualità delle prestazioni garantite dalla legislazione statale, in forme compatibili con quest’ultima. Infatti, «il potere di predeterminare eventualmente – sulla base di apposite disposizioni di legge – i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, anche nelle materie che la Costituzione affida alla competenza legislativa delle Regioni, non può trasformarsi nella pretesa dello Stato di disciplinare e gestire direttamente queste materie, escludendo o riducendo radicalmente il ruolo delle Regioni. In ogni caso, tale titolo di legittimazione può essere invocato solo in relazione a specifiche prestazioni delle quali la normativa nazionale definisca il livello essenziale di erogazione, mentre esso non è utilizzabile al fine di individuare il fondamento costituzionale della disciplina, da parte dello Stato, di interi settori materiali».
Il titolo competenziale di cui alla lettera m) del secondo comma dell’art. 117 della Costituzione viene in rilievo anche nella sentenza n. 399, in cui la Corte nega che le competenze della Regione Friuli-Venezia Giulia risultino violate dagli artt. 3, 4, 5, 8 e 12 del decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 195 (Attuazione della direttiva 2003/4/CE sull’accesso del pubblico all’informazione ambientale).
La disciplina delle informazioni in tema di ambiente non appartiene alla materia «tutela dell’ambiente», di competenza esclusiva statale ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., ma si inserisce nel vasto ambito della tutela del diritto di accesso del pubblico ai documenti amministrativi. Ciò non vale tuttavia ad escludere la competenza legislativa dello Stato in materia, giacché l’accesso ai documenti amministrativi attiene, di per sé, ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. In questo senso si esprime l’art. 22, comma 2, della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), modificata dalla legge 11 febbraio 2005, n. 15 (Modifiche ed integrazioni alla legge 7 agosto 1990, n. 241, concernenti norme generali sull’azione amministrativa), che fa salva «la potestà delle regioni e degli enti locali, nell’ambito delle rispettive competenze, di garantire livelli ulteriori di tutela».
Dalla norma costituzionale e dalla legge statale citate emerge un sistema composito di tutela del diritto all’accesso, che si articola nella necessaria disciplina statale dei livelli essenziali e nella eventuale disciplina regionale o locale di livelli ulteriori. Su questi presupposti, si deve escludere che non spettasse allo Stato dare attuazione alla direttiva comunitaria 2003/4/CE in materia di informazione ambientale, proprio perché sullo Stato incombe il dovere di fissare i livelli essenziali di tutela, validi per l’intero territorio nazionale, anche in questo settore.
La sentenza n. 398 applica i medesimi principi in sede di scrutinio degli artt. 13-15 della legge regionale del Friuli-Venezia Giulia, che attua la precitata direttiva sull’accesso del pubblico all’informazione ambientale.
La Corte osserva che l’oggetto delle norme impugnate non è la tutela dell’ambiente, ma la tutela del diritto dei cittadini ad accedere alle informazioni ambientali, attinente ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. La Corte precisa, peraltro, che «resta ferma la potestà delle regioni e degli enti locali, nell’ambito delle rispettive competenze, di garantire livelli ulteriori di tutela».
Gli articoli della legge regionale impugnata si attengono ai limiti tracciati dalla legislazione statale in materia di diritto di accesso del pubblico alle informazioni, prevedendo specifiche norme sull’informazione ambientale, che non sono rivolte, pertanto, alla tutela dell’ambiente, ma ad una migliore conoscenza, da parte dei cittadini, dei problemi ambientali concreti. Ciò è confermato dall’art. 14, comma 2, della legge regionale impugnata, il quale prevede che «il diritto di accesso all’informazione ambientale è esercitato nei confronti dell’amministrazione regionale e degli enti regionali secondo le modalità stabilite dagli articoli 58 e seguenti della legge regionale n. 7 del 2000». Il primo comma del medesimo articolo, che si riferisce al «diritto di accesso all’informazione ambientale in possesso delle amministrazione pubbliche», deve essere interpretato alla luce del citato comma 2, escludendosi pertanto che la Regione possa legiferare in merito all’accesso ad atti, documenti o notizie in possesso di amministrazioni statali.

4.1.10. «Norme generali sull’istruzione»
La sentenza n. 102 ha ad oggetto la compenetrazione tra la competenze esclusiva statale in materia di «norme generali sull’istruzione» ed i margini di autonomia lasciati agli atenei.
La Corte afferma che l’art. 2, comma 2, lettera b), della legge della Regione Campania 20 dicembre 2004, n. 13), nella parte in cui prevede l’istituzione di scuole di eccellenza e di master; interviene in un settore (della materia) dell’istruzione – quello della disciplina degli studi universitari – nel quale alle università è affidata, ai sensi dell’art. 33, ultimo comma, della Costituzione, la competenza a definire, nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato, i propri ordinamenti, che ovviamente ricomprendono le scelte relative all’istituzione dei singoli corsi.
Coerentemente con tale quadro costituzionale, l’art. 17, comma 95, della legge 15 maggio 1997, n. 127 dispone che l’ordinamento degli studi dei corsi universitari sia disciplinato dagli atenei «in conformità a criteri generali definiti [...] con uno o più decreti del Ministro dell’università e della ricerca scientifica e tecnologica», ai quali è tra l’altro demandata «la previsione di nuove tipologie di corsi e di titoli universitari».
Il decreto ministeriale 22 ottobre 2004, n. 270, da ultimo emanato in attuazione della suddetta norma di legge, individua all’art. 3 i titoli e i corsi di studio universitari, disponendo (al comma 9) che «le università possono attivare, disciplinandoli nei regolamenti didattici di ateneo, corsi di perfezionamento scientifico e di alta formazione permanente e ricorrente, successivi al conseguimento della laurea o della laurea magistrale, alla conclusione dei quali sono rilasciati i master universitari di primo e di secondo livello».
La norma impugnata, in quanto lesiva della competenza attribuita all’autonomia universitaria, viene dunque dichiarata illegittima.
In ordine ad altra disposizione contestualmente impugnata, la Corte sottolinea che l’art. 2, comma 2, lettera d), della medesima legge regionale, altro non esprime se non l’impegno della Regione a recepire gli accordi di programma tra ministero, atenei e altri soggetti pubblici e privati nel proprio programma triennale di interventi finalizzati al raggiungimento alla promozione e valorizzazione delle università della Campania. Ed è evidente come un siffatto impegno al rispetto dello strumento statale (accordo di programma) non possa comportare in quanto tale la denunciata violazione delle competenze statali.

4.1.11. «Legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane»
La Corte, con la sentenza n. 29, dichiara l’incostituzionalità dell’art. 7, comma 4, lettera g), della legge regionale dell’Abruzzo 5 agosto 2004, n. 23, che prevede l’ineleggibilità a sindaco, presidente della Provincia, consigliere comunale, provinciale e circoscrizionale dei Comuni e delle Province titolari del capitale sociale delle società affidatarie della gestione del servizio pubblico, per i legali rappresentanti ed i componenti degli organi esecutivi delle società medesime.
Al riguardo, si ritiene che la norma regionale, disciplinando un caso di ineleggibilità a cariche elettive in enti locali territoriali, invade la competenza legislativa esclusiva dello Stato nella materia “organi di governo” di Comuni, Province e Città metropolitane, prevista dall’art. 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione. Né rileva che, in parte, la disposizione impugnata coincida con quanto previsto dalla legislazione statale negli artt. 60, 61 e 63 del d.lgs. n. 267 del 2000, dal momento che, vertendosi in materia riservata in modo esclusivo allo Stato, la Regione non è legittimata ad adottare nella materia stessa alcuna disciplina, ancorché in parte coincidente con quella statale.

4.1.12. «Tutela dell’ambiente [e] dell’ecosistema»
Nella sentenza n. 182 si riafferma che la tutela tanto dell’ambiente quanto dei beni culturali è riservata allo Stato (art. 117, secondo comma, lettera s, Cost.), mentre la valorizzazione dei secondi è di competenza legislativa concorrente (art. 117, terzo comma, Cost.): da un lato, spetta allo Stato il potere di fissare principi di tutela uniformi sull’intero territorio nazionale, e, dall’altro, le leggi regionali, emanate nell’esercizio di potestà concorrenti, possono assumere tra i propri scopi anche finalità di tutela ambientale, purché siano rispettate le regole uniformi fissate dallo Stato. Appare, in sostanza, legittimo, di volta in volta, l’intervento normativo (statale o regionale) di maggior protezione dell’interesse ambientale.
Pronunciandosi in tema di gestione dei rifiuti, la Corte, con la sentenza n. 247, dichiara l’incostituzionalità dell’art. 1 della legge regionale del Molise 27 maggio 2005, n. 22, nella parte in cui vieta il deposito, anche temporaneo, e lo stoccaggio di materiali nucleari non prodotti nel territorio regionale, ad esclusione dei materiali necessari per scopi sanitari e per la ricerca scientifica.
Ricorda la Corte che analoga questione è stata già esaminata dalla sentenza n. 62 del 2005, avente ad oggetto l’impugnativa di altre similari leggi regionali, che, parimenti, contenevano una disciplina limitativa del transito e dello stoccaggio di rifiuti radioattivi non prodotti nel territorio della Regione. Nella menzionata pronuncia, dichiarativa dell’illegittimità costituzionale delle tre leggi regionali impugnate, la Corte ha ribadito che la materia dell’ambiente e dell’ecosistema rientra nella competenza esclusiva dello Stato (art. 117, secondo comma, lettera s, Cost.), anche se ciò non esclude il concorso di normative regionali, fondate sulle rispettive competenze (quale quella afferente alla salute e al governo del territorio: art. 117, terzo comma, Cost.), volte al conseguimento di finalità di tutela ambientale.
Inoltre, la Corte ha escluso che la Regione possa adottare misure dirette ad ostacolare la circolazione di persone e cose tra le Regioni; ed ha affermato che le leggi regionali, allora impugnate, violavano anche tale specifico ulteriore limite (art. 120, primo comma, Cost.).
Si ribadisce altresì che il problema dello smaltimento dei rifiuti radioattivi, che ha una dimensione nazionale, non può essere risolto dal legislatore regionale in base al criterio della c.d. autosufficienza a livello regionale, dovendo invece tenersi conto della possibile irregolare distribuzione di tali rifiuti sul territorio nazionale.
La materia «ambiente» è venuta in considerazione anche con specifico riguardo alla disciplina dell’attività venatoria.
Con la sentenza n. 313, la Corte annulla la delibera n. 88 del 17 febbraio 2004 della Giunta regionale della Regione Calabria, che ha disposto la modifica del calendario venatorio 2003/2004, prevedendo la possibilità di cacciare determinate specie animali nel periodo dal 21 febbraio al 21 marzo del 2004, in tal modo allungando il periodo della attività venatoria.
In proposito la Corte ribadisce che la delimitazione temporale del prelievo venatorio disposta dall’art. 18 della legge n. 157 del 1992 è da considerare come rivolta ad assicurare la sopravvivenza e la riproduzione delle specie cacciabili, corrispondendo quindi, sotto questo aspetto, all’esigenza di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, il cui soddisfacimento l’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione attribuisce alla competenza esclusiva dello Stato, in particolare, mediante la predisposizione di standard minimi e uniformi di tutela della fauna, nei quali rientrano, da un lato, l’elencazione delle specie cacciabili e, dall’altro, la disciplina delle modalità di caccia. Il provvedimento impugnato ha inciso proprio su questo nucleo minimo di salvaguardia della fauna selvatica, prorogando la stagione venatoria oltre il termine previsto dalla legge statale, in assenza di peculiari esigenze del territorio calabrese, e, quindi, ha così violato uno standard di tutela uniforme valido per l’intero territorio nazionale e pertanto riservato alla competenza esclusiva dello Stato.
Su analoga ratio si basa la dichiarazione di incostituzionalità, contenuta nella sentenza n. 441, dell’art. 26 della legge regionale della Lombardia 16 agosto 1993, n. 26, che, al comma 5, prevede la possibilità per i cacciatori di detenere richiami vivi privi di anello di riconoscimento, detenzione che è considerata legittima, per i richiami di cattura, sulla base della documentazione esistente presso la Provincia e, per i richiami di allevamento, sulla base della documentazione in possesso del cacciatore.
Tale disciplina si pone in contrasto con l’art. 5 della legge n. 157 del 1992, il quale prevede, al comma 7, che «è vietato l’uso di richiami che non siano identificabili mediante anello inamovibile, numerato secondo le norme regionali che disciplinano anche la procedura in materia» e, al successivo comma 8, che la «sostituzione di un richiamo può avvenire soltanto dietro presentazione all’ente competente del richiamo morto da sostituire».
La norma statale sopra riportata, nel disciplinare le modalità di esercizio della caccia, fissa standards minimi e uniformi di tutela della fauna la cui determinazione appartiene in via esclusiva alla competenza del legislatore statale. Da ciò consegue che l’impugnata norma regionale, nel consentire, seppure previa tenuta di apposita documentazione, la possibilità di rimuovere il suddetto anello, introduce una deroga alla citata disciplina statale, deroga che contrasta con la finalità di tutela da quest’ultima perseguita, non potendosi in alcun modo ritenere fungibile il sistema di controllo previsto dall’art. 5 della legge n. 157 del 1992 con quello introdotto dal legislatore regionale.
Non fondata, invece, risulta – secondo quanto stabilito nella sentenza n. 332 – la questione relativa all’art. 1, comma 5 della legge della Regione Emilia-Romagna 12 luglio 2002, n. 14, nella parte in cui prevede che le aziende faunistico-venatorie ed agri-turistico venatorie provvedono ad abbattere gli ungulati «in base alle vigenti direttive regionali relative alla gestione delle Aziende medesime ed al vigente regolamento regionale concernente la gestione faunistico-venatoria».
Orbene, poiché la norma impugnata si limita a rinviare, quanto alla definizione della disciplina della caccia all’interno delle aziende faunistico-venatorie, ad un regolamento e a direttive regionali, essa risulta priva di autonomo carattere precettivo e inidonea ad incidere sul riparto delle competenze legislative fissato dall’art. 117 della Costituzione.
Non è fondata neppure la questione relativa all’art. 4, comma 2, lettera c), nella parte in cui prevede, dal 1° ottobre al 30 novembre, ulteriori due giornate settimanali per la caccia alla fauna migratoria da appostamento, senza che tale concessione sia subordinata ad una valutazione necessariamente congrua del parere dell’Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica (INFS), richiesto dall’art. 18, comma 6 della legge n. 157 del 1992. Il presupposto interpretativo del ricorrente è, infatti, erroneo, poiché il richiamato art. 18, al comma 5, stabilisce il limite di tre giornate di caccia settimanali prevedendo, al successivo comma 6, la possibilità per le regioni di derogare a tale limite nel periodo dal 1° ottobre al 30 novembre, «sentito» l’INFS e tenuto conto delle consuetudini locali. Risulta da ciò che la norma statale evocata prevede una mera interlocuzione tra l’ente territoriale e l’INFS, senza che il parere da quest’ultimo espresso si possa considerare vincolante per la Regione ai fini dell’esercizio legittimo della deroga.
La sentenza n. 398 ha ad oggetto un ambito disciplinare affatto diverso, ancorché sempre da ricondursi alla materia ambientale.
La Corte non ravvisa una violazione della competenza esclusiva dello Stato in materia di “tutela dell’ambiente” nel Capo I della legge regionale del Friuli-Venezia Giulia 6 maggio 2005, n. 11, dove si stabilisce che «le disposizioni contenute nel presente capo danno attuazione nel territorio della Regione Friuli-Venezia Giulia alla direttiva 2001/42/CE (in tema di valutazione di impatto ambientale strategica VAS), con riferimento alle materie di competenza regionale e nel rispetto dei principi generali desumibili dalla medesima, nonché dei principi e criteri direttivi generali contenuti nella normativa statale».
Al riguardo, la Corte ritiene che la valutazione ambientale strategica, disciplinata dalla direttiva 2001/42/CE, pur attenendo alla materia «tutela dell’ambiente», non escluda ogni competenza del legislatore regionale. La Corte ha più volte sottolineato la peculiarità della materia in esame, ponendo in rilievo la sua intrinseca “trasversalità”, con la conseguenza che, in ordine alla stessa, «si manifestano competenze diverse, che ben possono essere regionali, spettando allo Stato le determinazioni che rispondono ad esigenze meritevoli di disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale» (sentenza n. 407 del 2002), e che «la competenza esclusiva dello Stato non è incompatibile con interventi specifici del legislatore regionale che si attengano alle proprie competenze» (sentenza n. 259 del 2004).
La “trasversalità” della materia «tutela dell’ambiente» emerge, con particolare evidenza, con riguardo alla valutazione ambientale strategica, che abbraccia anche settori di sicura competenza regionale. Posto ciò, dall’esame del Capo I della legge impugnata non vengono in rilievo norme destinate ad incidere in campi di disciplina riservati allo Stato. A questa conclusione contribuiscono anche due clausole in base alle quali la legislazione regionale si adegua ai principi e criteri generali della legislazione statale anche successiva, mentre, nell’ipotesi di norme regionali in contrasto, le stesse vengono automaticamente sostituite, nell’applicazione concreta, dalle norme statali, sino a quando la Regione non provveda ad emanare leggi di adeguamento.
In definitiva, la Regione, tramite il Capo I della legge impugnata, da una parte, circoscrive l’attuazione da essa data alla direttiva 2001/42/CE alle sole materie di propria competenza, e, dall’altra, si impegna a rispettare i principi e criteri generali della legislazione statale e ad adeguare progressivamente a questi ultimi la propria normativa.
Un altro settore in cui viene in rilievo la competenza in materia di tutela dell’ambiente è quello analizzato nella sentenza n. 246, con cui la Corte respinge la doglianza riferita al comma 3, dell’art. 1 della legge della Regione Emilia-Romagna 23 dicembre 2004, n. 26, nella parte in cui si prevede che, «nel perseguire la finalità di promuovere lo sviluppo sostenibile del sistema energetico regionale, la Regione e gli enti locali pongono a fondamento della programmazione degli interventi di rispettiva competenza i seguenti obiettivi generali: […] c) definire gli obiettivi di riduzione delle emissioni inquinanti e climalteranti e assicurare le condizioni di compatibilità ambientale, paesaggistica e territoriale delle attività di cui al comma 2».
Al riguardo la Corte ribadisce che la circostanza che una determinata disciplina sia ascrivibile alla materia “tutela dell’ambiente”, se certamente comporta il potere dello Stato di dettare standard di protezione uniformi validi su tutto il territorio nazionale e non derogabili in senso peggiorativo da parte delle Regioni, non esclude affatto che le leggi regionali emanate nell’esercizio della potestà concorrente di cui all’art. 117, terzo comma, della Costituzione, o di quella “residuale” di cui all’art. 117, quarto comma, possano assumere fra i propri scopi anche finalità di tutela ambientale.
La disposizione impugnata si inserisce senza dubbio nel quadro della disciplina dell’energia che, ai sensi dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione, è attribuita alla potestà legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni. Essa, se pure individua, tra gli obiettivi che intende perseguire attraverso i propri interventi in campo energetico, quello di ridurre le emissioni inquinanti e di assicurare le condizioni di compatibilità ambientale nello svolgimento di determinate attività, non invade l’ambito di competenza riservato al legislatore statale dall’art. 117, lettera s) della Costituzione e non viola alcun principio fondamentale, dal momento che non determina l’effetto di derogare agli standards di protezione minima degli equilibri ambientali stabiliti dallo Stato, né tanto meno assegna alla Regione il compito di fissare valori-limite per le emissioni o standards di protezione dell’ambiente e del paesaggio.
Con riferimento alla protezione dell’inquinamento, uno dei settori più significativi tra quelli che rientrano nella materia ambientale, la sentenza n. 103 esamina l’impugnativa avverso la legge della Regione Abruzzo 13 dicembre 2004, n. 45 (Norme per la tutela della salute e la salvaguardia dell’ambiente dall’inquinamento elettromagnetico) nonché avverso la legge della Regione Abruzzo 3 marzo 2005, n. 11, recante modifiche alla suindicata legge regionale.
In proposito, la Corte ritiene opportuno premettere, su un piano generale, di avere già affermato che compete allo Stato, nel complessivo sistema di definizione degli standards di protezione dall’inquinamento elettromagnetico di cui alla legge 22 febbraio 2001, n. 36 (Legge quadro sulla protezione dalle esposizioni a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici), la fissazione delle soglie di esposizione e, dunque, nel lessico legislativo, la determinazione dei limiti di esposizione, dei valori di attenzione e degli obiettivi di qualità, limitatamente, per questi ultimi, alla definizione dei valori di campo «ai fini della progressiva minimizzazione dell’esposizione». Spetta, invece, alla competenza delle Regioni la disciplina dell’uso del territorio in funzione della localizzazione degli impianti di comunicazione e quindi la indicazione degli obiettivi di qualità, consistenti in criteri localizzativi degli impianti stessi; detti criteri devono, però, rispettare le esigenze della pianificazione nazionale di settore e non devono essere, nel merito, «tali da impedire od ostacolare ingiustificatamente l’insediamento» degli impianti.
La Corte passa quindi ad esaminare l’art. 2, comma 5 della legge regionale n. 11 del 2005, che ha aggiunto all’art. 2 della legge regionale n. 45 del 2004 il comma 1-bis, del seguente tenore: «la Regione prescrive ed incentiva i gestori all’utilizzo delle migliori tecnologie disponibili sul mercato».
Dopo avere preliminarmente osservato che l’impugnazione proposta dallo Stato ha ad oggetto la disposizione del comma 1-bis per la sua incidenza su quanto stabilito dalla lettera c) del precedente comma 1, ovvero con riferimento alla trasmissione e distribuzione dell’energia elettrica con tensione non superiore a 150 Kv, la Corte ritiene che la previsione relativa all’utilizzo delle «migliori tecnologie disponibili», con riferimento a quanto stabilito dalla disposizione contemplata nella suddetta lettera c), non è costituzionalmente legittima. Nel settore, infatti, della «trasmissione» e «distribuzione dell’energia elettrica» sussistono esigenze di unitarietà nella determinazione, tra l’altro, dei criteri tecnici, che non ammettono interferenze da parte delle Regioni per effetto di autonome previsioni legislative, come quella in esame, le quali, imponendo ai gestori che operano a livello regionale l’utilizzo di distinte tecnologie, eventualmente anche diverse da quelle previste dalla normativa statale, possano «produrre una elevata diversificazione della rete di distribuzione della energia elettrica, con notevoli inconvenienti sul piano tecnico ed economico». Deve, pertanto, essere riconosciuto esclusivamente allo Stato, in questa materia, il compito, tra l’altro, di prescrivere l’utilizzo di determinate tecnologie, sia al fine di assicurare la tutela dell’ambiente e del paesaggio e di promuovere l’innovazione tecnologica e le azioni di risanamento volte a minimizzare l’intensità e gli effetti dei campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici, sia al fine di assicurare unitarietà ed uniformità alla rete nazionale.
Non fondata si rivela, invece, la questione relativa all’art. 4 della legge n. 11 del 2005, che ha modificato i commi 1, 2 e 8 dell’art. 11 della legge n. 45 del 2004.
Il ricorrente muove da un erroneo presupposto interpretativo, ritenendo che la disposizione in esame contenga norme relative al procedimento di rilascio delle autorizzazioni per l’installazione di impianti di comunicazione elettronica, che si pongano in contrasto con le esigenze di unitarietà sottese alle disposizioni statali (art. 87 del d.lgs. n. 259 del 2003) che regolamentano il suddetto procedimento.
La disposizione impugnata si limita, invece, a disciplinare i criteri di localizzazione degli impianti, stabilendo che il Comune, nel piano regolatore generale o nella variante allo strumento urbanistico, definisce i siti tecnologici «dove saranno localizzate o delocalizzate le antenne per la telefonia mobile rispondendo a criteri di funzionalità delle reti e dei servizi». Nel dettare tale norma la Regione ha esercitato la propria competenza legislativa, che ricomprende la determinazione dei criteri localizzativi e degli standards urbanistici, afferenti all’uso del proprio territorio, a condizione che siano rispettate le esigenze della pianificazione nazionale degli impianti e che detti criteri non siano, nel merito, «tali da impedire od ostacolare ingiustificatamente l’insediamento degli stessi» impianti. D’altronde, la norma impugnata espressamente prevede che il Comune, nel procedere alla localizzazione o delocalizzazione delle antenne, ha l’obbligo di attenersi ai «criteri di funzionalità delle reti e dei servizi», sicché può ritenersi assicurato anche il coordinamento tra le esigenze connesse alla gestione del territorio e quelle derivanti dalla necessità di non interferire con la funzionalità delle reti e dei servizi.
È censurato, infine, l’art. 5, comma 3, della legge regionale n. 11 del 2005, che ha modificato l’art. 16, comma 5, della legge n. 45 del 2004.
Il citato articolo 16, comma 5, della legge n. 45 del 2004, nella versione originaria, così recitava: «nelle aree soggette a vincoli imposti da leggi statali e regionali, nonché dagli strumenti territoriali e urbanistici a tutela degli interessi storici, artistici, architettonici, archeologici, paesistici ed ambientali, il parere favorevole della Regione è rilasciato a condizione che nel territorio vincolato l’elettrodotto corra in cavo sotterraneo e siano previste, in fase di progettazione, particolari misure onde evitare danni irreparabili ai valori paesaggistici ed ambientali». Il successivo art. 5, comma 3, della legge n. 11 del 2005 ha modificato detta disposizione stabilendo, da un lato, che il parere «può essere rilasciato», anziché «è rilasciato»; dall’altro, che nel territorio vincolato passi l’elettrodotto o – si è aggiunto rispetto all’originaria formulazione – «porzione di esso», in cavo sotterraneo.
Per la Corte, la disposizione impugnata, contrariamente a quanto ritenuto dalla difesa statale, non pone alcun nuovo vincolo diretto su determinate aree, ma si limita a prescrivere semplicemente una modalità di costruzione dell’elettrodotto (mediante, cioè, interramento dei cavi o di porzione di essi, con misure che evitino danni irreparabili ai valori paesaggistici e ambientali) su zone già soggette a vincoli statali o regionali, che si risolve in una prescrizione di dettaglio attinente al governo e all’uso del territorio e quindi rientrante nell’ambito della potestà legislativa concorrente regionale e non invece nell’ambito della “materia” statale della “tutela dei beni culturali”. D’altronde, la Corte, con la sentenza n. 307 del 2003, ha riconosciuto la sussistenza della competenza delle Regioni per tutto ciò che attiene all’uso del territorio anche con riferimento al settore della realizzazione della rete per le comunicazioni elettroniche, con il solo limite, che nella specie è stato osservato, che «criteri localizzativi e standard urbanistici rispettino le esigenze della pianificazione nazionale degli impianti e non siano, nel merito, tali da impedire od ostacolare ingiustamente l’insediamento degli stessi».
Non senza dire, infine, che l’intervento della Regione si esplica soltanto per il tramite di un “parere”, che non esclude la possibilità per le competenti autorità statali, cui venga indirizzato, di disattenderlo quando sussistano, tra l’altro, esigenze di tutela della unitarietà della rete elettrica.
Per quel che specificamente attiene alla tutela del paesaggio, anch’essa riconducibile ai titoli competenziali indicati alla lettera s) del secondo comma dell’art. 117 della Costituzione, nella sentenza n. 182 si esamina l’art. 32, comma 3, della legge della Regione Toscana 3 gennaio 2005, n. 1, nella parte in cui dispone che – ove dall’applicazione dell’articolo 33, commi 3 e 4, o dell’articolo 34 (rispettivamente disciplinanti i contenuti dello statuto del piano di indirizzo territoriale e degli statuti del piano territoriale di coordinamento delle province e del piano strutturale dei comuni) derivi una modificazione degli effetti degli atti e dei provvedimenti di cui agli articoli 157 (imposizione del vincolo paesaggistico in base alla legislazione statale anteriore), 140 (dichiarazione regionale di notevole interesse pubblico) e 141 (provvedimento ministeriale sostitutivo della dichiarazione regionale di notevole interesse pubblico) del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio) – l’entrata in vigore delle relative disposizioni di quegli strumenti di pianificazione territoriale è subordinata esclusivamente all’espletamento delle forme di pubblicità indicate nell’articolo 140, commi 2, 3 e 4, del medesimo Codice.
Al riguardo, la Corte ritiene che, in relazione alla pianificazione paesaggistica, lo Stato, nella parte III del Codice dei beni culturali e del paesaggio, pone una disciplina dettagliata, cui le Regioni devono conformarsi, provvedendo o attraverso tipici piani paesaggistici, o attraverso piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici (art. 135, comma 1). L’opzione per questo secondo strumento, adottato anche dalla legge regionale della Toscana oggetto di censura, comporta che, nella disciplina delle trasformazioni – com’è negli scopi del piano urbanistico –, la tutela del paesaggio assurga a valore primario, cui deve sottostare qualsiasi altro interesse interferente (art. 135, comma 2).
L’art. 143 descrive il contenuto del piano, la cui parte prescrittiva dispone una diversa modulazione del regime autorizzatorio, in rapporto agli ambiti territoriali e agli obiettivi di qualità paesaggistica, ed è operativa nella misura in cui il piano paesaggistico, o il piano urbanistico-territoriale con specifica considerazione dei valori paesaggistici, sia stato oggetto di elaborazione congiunta tra il Ministero e la Regione.
La ratio della disciplina statale è nel senso che, affermata la competenza regionale nella pianificazione paesaggistica, in quello che è effetto saliente di essa, ovvero la modifica di regime dei beni che essa recepisce e il cui uso deve regolare, lo Stato deve poter interloquire attraverso forme di concertazione, senza le quali la Regione può ben elaborare autonomamente il piano, senza però che quell’effetto si produca.
La legge della Regione Toscana n. 1 del 2005, che regola il piano di indirizzo territoriale, il cui statuto ha valore di piano urbanistico-territoriale con specifica considerazione dei valori paesaggistici (art. 33), riproduce, quasi testualmente, il contenuto dell’art. 143 e ciò, secondo la difesa regionale, dimostrerebbe la conformità della norma regionale ai principi statali.
La tesi non può essere seguita, dal momento che, né nell’art. 33, né in alcuna altra parte della stessa legge, è riportata la clausola di cui all’art. 143, comma 12, del Codice, secondo cui quanto previsto dai commi da 5 a 8 dell’art. 143 non trova applicazione se il piano paesaggistico non è stato elaborato d’intesa con lo Stato.
La legge regionale non effettua tale richiamo, facendo dipendere la modifica del regime giuridico dei beni paesaggistici, in sostanza, dal solo espletamento delle forme di pubblicità del piano (art. 32, comma 3).
La Regione ha previsto (o meglio, ha implicitamente previsto) che la modifica al regime giuridico dei beni paesaggistici si compia senza che lo Stato abbia partecipato all’elaborazione del piano, in tal modo violando il principio secondo cui solo se il piano paesaggistico è stato elaborato d’intesa, il vincolo paesaggistico che grava sui beni può essere tramutato in una disciplina d’uso del bene stesso.
La Corte dichiara, pertanto, l’illegittimità costituzionale dell’art. 32, comma 3, della legge regionale della Toscana n. 1 del 2005, nella parte in cui non prevede che, ove non venga stipulato l’accordo per l’elaborazione d’intesa del piano urbanistico-territoriale con specifica considerazione dei valori paesaggistici tra le Regioni, il Ministero per i beni e le attività culturali ed il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio, ovvero ad esso non segua l’elaborazione congiunta del piano, non trova applicazione quanto previsto nell’art. 143, commi 5, 6, 7, 8, del Codice dei beni culturali e del paesaggio.
Fondata risulta anche la seconda questione, con la quale si contesta la legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 3, della legge della Regione Toscana n. 1 del 2005, in quanto la Regione fa disciplinare i beni paesaggistici dal piano strutturale dei Comuni – sia pure sulla base delle indicazioni del piano di indirizzo territoriale e del piano territoriale – in tal modo sottraendo la disciplina paesaggistica dal contenuto del piano, sia esso tipicamente paesaggistico, o anche urbanistico-territoriale con specifica considerazione dei valori paesaggistici, che deve essere unitario, globale, e quindi regionale, e al quale deve sottostare la pianificazione urbanistica ai livelli inferiori.
L’art. 135 del Codice è tassativo, relativamente al piano paesaggistico, nell’affidarne la competenza alla Regione. La scelta della Regione Toscana di elaborare un piano d’indirizzo territoriale, il cui statuto abbia valenza di piano urbanistico-territoriale con specifica considerazione dei valori paesaggistici, ha comportato che, muovendosi nell’ambito della normativa generale sul governo del territorio, non sia stata abbandonata, anche riguardo al paesaggio, la logica tradizionale della pianificazione urbanistica, di demandare agli strumenti inferiori la disciplina sempre più specifica.
Si è così fatta “scorrere” dal piano urbanistico-territoriale al piano strutturale dei Comuni l’individuazione delle aree “già paesaggistiche” per le quali non si ritenga necessaria l’autorizzazione (poiché soppressa tout court o assorbita nel titolo edilizio) e la decisione di sottoporre a monitoraggio le trasformazioni territoriali quale condizione per l’entrata in vigore delle norme che consentono la realizzazione di opere con il solo rilascio del titolo edilizio (art. 34, commi 3 e 5), sia pure sulla base delle indicazioni generali del piano regionale d’indirizzo territoriale (art. 33, comma 1) e gli obiettivi di qualità e criteri di riparto territoriale del piano provinciale di coordinamento (art. 34, comma 1); con la conseguenza che, in ultima analisi, è il piano strutturale, ossia l’ordine inferiore della pianificazione, che detta la disciplina concreta dei beni paesaggistici.
La legge toscana sul governo del territorio tende al superamento della separatezza tra pianificazione territoriale ed urbanistica, da un lato, e tutela paesaggistica dall’altro, facendo rientrare la tutela del paesaggio nell’ambito del sistema della pianificazione del territorio e rendendo pertanto partecipi anche i livelli territoriali inferiori di governo (province e comuni) nella disciplina di tutela del paesaggio. Il principio di fondo di questo sistema – che è condivisibile nella misura in cui gli enti locali sono chiamati a contribuire alla pianificazione regionale (art. 144, comma 1, del Codice); ed in cui gli strumenti di pianificazione territoriale dei livelli sub-regionali di governo perseguano, attraverso la propria disciplina, obiettivi di tutela e valorizzazione del paesaggio (art. 145, comma 4) – presenta però il suo elemento critico là dove, trasferendo le decisioni operative concernenti il paesaggio alla dimensione pianificatoria comunale, si pone in contraddizione con il sistema di organizzazione delle competenze delineato dalla legge statale a tutela del paesaggio, che costituisce un livello uniforme di tutela, non derogabile dalla Regione, nell’ambito di una materia a legislazione esclusiva statale ex art. 117 Cost., ma anche della legislazione di principio nelle materie concorrenti del governo del territorio e della valorizzazione dei beni culturali.
La giurisprudenza costituzionale ha ammesso che le funzioni amministrative, inizialmente conferite alla Regione, possano essere attribuite agli enti locali, ma è l’impronta unitaria della pianificazione paesaggistica che è assunta a valore imprescindibile, non derogabile dal legislatore regionale in quanto espressione di un intervento teso a stabilire una metodologia uniforme nel rispetto della legislazione di tutela dei beni culturali e paesaggistici sull’intero territorio nazionale: il paesaggio va, cioè, rispettato come valore primario, attraverso un indirizzo unitario che superi la pluralità degli interventi delle amministrazioni locali.
In relazione a tutte le norme statali interposte, che sono state indicate nel ricorso, sussiste il contrasto: con l’art. 143, comma 5, del Codice, che attribuisce al piano paesaggistico regionale l’individuazione delle aree tutelabili; con l’art. 145 del Codice, che ordina gerarchicamente gli strumenti di pianificazione dei diversi livelli territoriali; e con l’art. 143, comma 12, dello stesso Codice, ove si esclude l’applicabilità del comma 5 del medesimo articolo, qualora sia mancata l’intesa per l’elaborazione del piano.
Viene, pertanto, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 34, comma 3, della legge della Regione Toscana n. 1 del 2005, nella parte in cui stabilisce che sia il piano strutturale comunale, anziché il piano regionale paesaggistico, a indicare le aree in cui la realizzazione degli interventi non è soggetta all’autorizzazione di cui all’art. 87 della legge regionale.

4.2. Le materie di competenza concorrente

Al pari di quanto constatabile con riferimento alle competenze esclusive dello Stato, piuttosto nutrita è anche la serie di pronunce della Corte che hanno avuto ad oggetto materie di competenza concorrente, ai sensi del terzo comma dell’art. 117 della Costituzione.

4.2.1. «Tutela […] del lavoro»
Nella sentenza n. 253, la Corte nega che l’art. 2 della legge della Regione Toscana 15 novembre 2004, n. 63, dove si prevedono, nell’ambito delle politiche del lavoro e dell’integrazione sociale, misure di sostegno e di tutela a favore delle persone discriminate per motivi derivanti dall’orientamento sessuale, o dalla identità di genere, dei transessuali e dei transgender, come tali menzionati dall’art. 2, determini un’ingiustificata disparità di trattamento in favore di tali soggetti.
Invero, con la norma impugnata, la Regione si pone un obiettivo già contemplato dall’art. 1, comma 4, lettera g), della legge della Regione Toscana 26 luglio 2002, n. 32, là dove prevede che gli interventi regionali relativi all’orientamento e alla formazione professionale e all’occupazione «concorrono ad assicurare lo sviluppo dell’identità personale e sociale, nel rispetto della libertà e della dignità della persona, dell’uguaglianza e delle pari opportunità, in relazione alle condizioni fisiche, culturali, sociali e di genere». Così definito il contenuto dell’art. 2, ne risulta il carattere genericamente di indirizzo e, pertanto, la sua inidoneità ad attribuire diritti o situazioni giuridiche di vantaggio a determinati soggetti e ad incidere sulla disciplina dei contratti di lavoro e sui rapporti intersoggettivi che da essi derivano.
Altresì infondata è la questione concernente la presunta violazione dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione. La norma impugnata, infatti, non si pone in contrasto con l’art. 2 lettera k), del d.lgs. n. 276 del 2003, norma interposta, in quanto non amplia la definizione di «lavoratore svantaggiato» prevista dalla disposizione statale, includendo in essa anche quella dei transessuali e dei transgender, ma si limita ad affermare, a favore di questi, l’obiettivo di esprimere «specifiche politiche regionali del lavoro, quali soggetti esposti al rischio di esclusione sociale». Tale interpretazione risulta, peraltro, conforme alla nozione di «lavoratore svantaggiato» delineata dalla disposizione statale che individua costui nel soggetto che versa in determinate situazioni oggettivamente rilevabili (ad esempio: lavoratori migranti, disoccupati di lungo periodo, invalidi fisici, psichici e sensoriali), non potendosi, al contrario, nei soggetti presi in considerazione dalla norma regionale impugnata, rinvenire alcun elemento oggettivo astrattamente idoneo ad accomunarli tra loro, così da farne una categoria autonoma.

4.2.2. «Professioni»
Le pronunce che seguono sono tutte caducatorie di disposizioni di leggi regionali e provinciali che violano il principio fondamentale secondo cui è riservato allo Stato la individuazione delle figure professionali, con i relativi profili ed ordinamenti didattici.
La Corte, con la sentenza n. 40, dichiara la incostituzionalità della legge della Regione Liguria 25 ottobre 2004, n. 18, con la quale la Regione ha definito le discipline bio-naturali per il benessere ed ha istituito, tra l’altro, il relativo Elenco regionale dei singoli operatori e delle organizzazioni con finalità didattiche, delle associazioni e delle scuole di formazione; ha disciplinato requisiti e modalità di iscrizione; ha istituito un Comitato regionale con funzioni di indirizzo sulla materia nel territorio regionale e poteri disciplinari.
Per la Corte, l’impianto complessivo, lo scopo ed il contenuto precipuo della legge rendono palese che l’oggetto della normativa in esame debba essere ricondotto propriamente alla materia concorrente delle «professioni». Rispetto ad essa, peraltro, non assume rilievo la circostanza che il ricorrente ne riconduca il contenuto precettivo all’ambito delle professioni sanitarie (anche non convenzionali), giacché l’individuazione di una specifica area caratterizzante la «professione» è ininfluente ai fini della regolamentazione delle competenze derivante dall’applicazione nella materia in esame del terzo comma dell’art. 117 Cost.
Pertanto, alla stregua dei principi affermati in materia (sentenze n. 424, n. 355 e n. 319 del 2005 e n. 353 del 2003), è sufficiente ribadire che – spettando allo Stato la determinazione dei principi fondamentali nelle materie di competenza concorrente previste dall’art. 117, terzo comma, Cost. – qualora non ne siano stati formulati di nuovi, la legislazione regionale deve svolgersi (ai sensi dell’art. 1, comma 3, della legge 5 giugno 2003, n. 131) nel rispetto di quelli comunque risultanti anche dalla normativa statale già in vigore. E da essa non si trae alcuno spunto che possa consentire iniziative legislative regionali nell’ambito cui si riferisce la legge impugnata.
Parimenti, va riaffermato che la potestà legislativa regionale nella materia concorrente delle «professioni» deve rispettare il principio secondo cui l’individuazione delle figure professionali, con i relativi profili ed ordinamenti didattici, e l’istituzione di nuovi albi è riservata allo Stato. Tale principio, al di là della particolare attuazione ad opera di singoli precetti normativi, si configura infatti quale limite di ordine generale, invalicabile dalla legge regionale.
Similmente, con la sentenza n. 424, si dichiara incostituzionale la legge della Regione Campania 17 ottobre 2005, n. 18, che definisce la musicoterapia come «attività psico-pedagogica e socio-sanitaria di pubblico interesse», qualifica il musicoterapista come «un soggetto in possesso di diploma superiore di secondo grado e con una buona conoscenza della musica, che ha svolto un corso triennale di impostazione multidisciplinare socio-psicopedagogico-medico-musicale e un tirocinio di un anno presso strutture pubbliche o convenzionate o del privato sociale, dispone che il musicoterapista svolge funzioni di prevenzione, di riabilitazione e socio-sanitarie (art. 3); istituisce «il registro professionale regionale dei musicoterapisti al quale possono iscriversi coloro che hanno superato il corso per la formazione di musicoterapisti e che hanno effettuato il tirocinio professionale di almeno trecento ore o un anno presso centri specializzati pubblici o privati.
All’evidenza, ritiene la Corte, la legge impugnata definisce un nuovo profilo professionale in materia sanitaria, essendo il musicoterapista un soggetto che esegue un particolare tipo di terapia al fine di prevenire o curare le conseguenze di determinati disturbi psichici o fisici.
Parimenti incostituzionale, come evidenziato dalla sentenza n. 153, si rivela l’art. 32, commi 1 e 2, della legge della Regione Piemonte 8 gennaio 2004, n. 1, dove si individuano le figure professionali dei servizi sociali, includendovi gli assistenti sociali, gli educatori professionali, gli operatori socio-sanitari, gli assistenti domiciliari e dei servizi tutelari e gli animatori professionali socio-educativi e si indica i titoli il cui possesso è richiesto per l’esercizio della professione di educatore professionale.
L’art. 32, comma 1, della legge della Regione Piemonte n. 1 del 2004, provvedendo ad individuare direttamente le figure professionali, alle quali la Regione fa ricorso per il funzionamento del sistema integrato di interventi e servizi sociali, viola il principio fondamentale che assegna allo Stato l’individuazione delle figure professionali.
Anche la disposizione regionale, che indica specifici requisiti per l’esercizio della professione di educatore professionale, pur se in parte coincidenti con quelli già stabiliti dalla normativa statale, viola la competenza dello Stato, risolvendosi in un’indebita ingerenza in un settore, quello della disciplina dei titoli necessari per l’esercizio della professione, costituente principio fondamentale della materia.
La sentenza n. 423 stabilisce che i principi affermati per le regioni a statuto ordinario valgono anche per la Provincia autonoma di Bolzano. Infatti, lo statuto speciale, non contemplando una competenza legislativa della Provincia nella materia delle professioni, materia che invece l’art. 117, terzo comma, Cost. inserisce tra quelle oggetto di competenza legislativa concorrente, questa si deve intendere estesa alla Provincia autonoma di Bolzano ai sensi dell’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001.
È, pertanto, incostituzionale l’art. 5, comma 2 della legge della Provincia di Bolzano 3 ottobre 2005, n. 8, dove si dispone che è autorizzato allo svolgimento della professione di odontotecnico anche chi consegua il titolo di “maestro odontotecnico” superando l’apposito esame provinciale individua le prove e le materie sulle quali deve essere svolto quell’esame nonché i relativi requisiti di ammissione; inoltre si rinvia ad un’apposita delibera della Giunta provinciale per la normativa di dettaglio sull’esame e sulla composizione della commissione esaminatrice.
Rileva la Corte che i contenuti di tale attività sono definiti dal regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265 (Approvazione del testo unico delle leggi sanitarie) e dal regio decreto 31 maggio 1928, n. 1334 (Regolamento per l’esecuzione della legge 23 giugno 1927, n. 1264, sulla disciplina delle arti ausiliarie delle professioni sanitarie). Questi testi normativi qualificano l’odontotecnico come esercente una “arte ausiliaria delle professioni sanitarie” e la Corte ha già riconosciuto che le arti ausiliarie delle professioni sanitarie rientrano nella materia delle “professioni” di cui all’art. 117, terzo comma, Cost. (sentenze n. 319 del 2005 e n. 353 del 2003).
Inoltre l’esercizio dell’attività dell’odontotecnico presuppone, non già la semplice iscrizione in un albo, bensì il superamento di un esame di abilitazione al termine di un corso di studi e, a sensi dell’art. 99 del r. d. n. 1265 del 1934, l’attività medesima è oggetto di vigilanza da parte della pubblica amministrazione. Sono, questi, caratteri tipici delle professioni.
Infine, la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio dell’Unione europea del 7 settembre 2005, n. 2005/36 – che stabilisce le regole in base alle quali ciascuno Stato membro riconosce, per l’accesso ad una professione ed al suo esercizio, le qualifiche professionali acquisite in altri Stati membri – nell’Allegato II include quella dell’odontotecnico tra le attività per il cui esercizio in Italia è richiesta una «formazione con struttura particolare», riconducendo quindi l’odontotecnico medesimo tra le qualifiche professionali di cui all’art. 11, lettera c), punto ii).
Si deve dunque concludere nel senso della riconduzione dell’odontotecnico nell’ambito delle professioni invece che in quello dell’artigianato.
Altresì fondata, come dichiara la sentenza n. 449, è la questione relativa all’art. 19 della legge della Provincia autonoma di Bolzano 18 novembre 2005, n. 10, che istituisce il profilo professionale sanitario del massaggiatore/massofisioterapista, rimettendo ad una deliberazione della Giunta provinciale la disciplina dei contenuti e della durata della formazione di tale figura e stabilendo le equipollenze ai fini dell’esercizio di tale professione nelle strutture sanitarie e limitatamente all’ambito del territorio provinciale.
Ritiene la Corte che la norma denunciata disciplina una specifica figura professionale sanitaria, regolandone le modalità di accesso attraverso l’istituzione e l’organizzazione di appositi corsi o l’equipollenza di diplomi o attestati rilasciati per figure professionali analoghe e così incidendo sul relativo ordinamento didattico.
L’impianto generale, il contenuto e lo scopo della disposizione inducono a ritenere che il suo oggetto debba essere ricondotto, non alla materia dell’“addestramento e formazione professionale” – devoluta alla competenza legislativa primaria della Provincia autonoma ai sensi dell’art. 8, primo comma, numero 29), dello statuto speciale –, ma a quella delle “professioni”, ed in particolare delle professioni sanitarie.

4.2.3. «Ricerca scientifica»
Le competenze legislative statali non sono violate – secondo quanto stabilito nella sentenza n. 102 – dall’art. 3, comma 1, della legge della Regione Campania 20 dicembre 2004, n. 13, che dispone che il comitato di indirizzo e programmazione, presieduto dall’assessore all’università e alla ricerca scientifica, «è composto da tre docenti universitari a tempo pieno, con esperienza di direzione e coordinamento maturata ai massimi livelli accademici». Il successivo comma 4, oggetto di impugnazione, stabilisce che «all’atto di accettazione della nomina e nel corso dell’espletamento del mandato i tre docenti universitari ordinari designati non possono ricoprire le funzioni di rettore, presidente di polo, preside di facoltà o altri incarichi di direzione accademica».
La disposizione va sicuramente interpretata, in coerenza del resto con la sua ratio, nel senso che la titolarità degli incarichi di direzione accademica contemplati dalla norma stessa preclude la nomina a componente del comitato di indirizzo e programmazione, ma non viceversa.
Si tratta, in altre parole, di un’incompatibilità univoca: la qualità di componente del comitato non impedisce al docente ordinario di assumere le funzioni di rettore, presidente di polo, preside di facoltà o altri incarichi di direzione accademica, ma in tal caso egli non può continuare a far parte del comitato stesso.
Se così è – e considerato che lo Stato non si duole del fatto che sia prevista la partecipazione di docenti universitari ordinari ad un organo regionale, ma censura la sola incompatibilità con gli incarichi di direzione accademica – è evidente l’insussistenza dei vizi di costituzionalità prospettati con riferimento alle regole del riparto di competenze tra Stato e Regioni in materia di istruzione.
La norma impugnata non incide, infatti, in alcun modo sullo status dei docenti universitari ordinari che siano anche componenti del comitato, ma determina solamente i requisiti soggettivi per la partecipazione ad un organo regionale, il comitato di indirizzo e programmazione, la cui disciplina non può che competere alla Regione medesima.
Nella sentenza n. 365, la Corte esamina l’art. 12, comma 1, della legge della Regione Puglia 12 agosto 2005, n. 12, che autorizza il direttore generale dell’Azienda ospedaliera universitaria “Policlinico” di Bari ad incrementare la dotazione organica fino ad un massimo del 12%. Analoga previsione è contenuta nel comma 5 con riguardo al direttore generale dell’Azienda ospedaliera universitaria di Foggia, autorizzato ad incrementare la dotazione organica del 4%.
Il ricorrente sostiene che le disposizioni censurate violerebbero il principio fondamentale espresso dall’art. 5 del d.lgs. n. 517 del 1999, recante la disciplina dei rapporti fra Servizio sanitario nazionale ed Università, dal momento che non richiederebbero, ai fini della decisione in ordine all’aumento dell’organico delle Aziende ospedaliere universitarie, l’intesa con il rettore dell’Università.
Al riguardo, la Corte evidenzia un’erronea interpretazione della disposizione evocata a parametro interposto, in quanto il richiamato art. 5 del d.lgs. n. 517 del 1999, al comma 1, dispone che «i professori e i ricercatori universitari, che svolgono attività assistenziale presso le aziende e le strutture di cui all’articolo 2 sono individuati con apposito atto del direttore generale dell’azienda di riferimento d’intesa con il rettore, in conformità ai criteri stabiliti nel protocollo d’intesa tra la regione e l’università relativi anche al collegamento della programmazione della facoltà di medicina e chirurgia con la programmazione aziendale. Con lo stesso atto, è stabilita l’afferenza dei singoli professori e ricercatori universitari ai dipartimenti di cui all’articolo 3, assicurando la coerenza fra il settore scientifico-disciplinare di inquadramento e la specializzazione disciplinare posseduta e l’attività del dipartimento».
Dal tenore letterale della disposizione si desume che la necessità del raggiungimento di un’intesa tra direttore generale e rettore – da adottarsi secondo i criteri definiti dai protocolli d’intesa tra Regione ed Università – si riferisce alla specifica individuazione dei professori e ricercatori universitari che dovranno essere destinati a svolgere attività assistenziale all’interno dell’azienda ospedaliera e non già alla definizione della dotazione organica dell’azienda stessa. In altri termini, l’intesa è richiesta solo con riguardo all’atto che concretamente individua il personale universitario che dovrà essere assegnato alla struttura sanitaria e per il quale si rende necessaria la partecipazione dell’Università.
In conclusione, l’art. 12 non viola né l’art. 117, terzo comma, né, tanto meno, l’art. 33 Cost., poiché non è in grado, di per sé, di determinare alcuna compressione dell’autonomia universitaria.

4.2.4. «Tutela della salute»
In varie pronunce, la Corte si è soffermata sul riparto competenziale in materia di «tutela della salute», analizzando molteplici dei profili di cui tale materia si compone.
Da un primo punto di vista, la Corte non ritiene invasive delle competenze statali tre leggi regionali che si occupano del fenomeno del mobbing sui luoghi di lavoro. A tale scopo, per confutare le doglianze dello Stato ricorrente, basate essenziamente sulle affermazioni contenute in una pronuncia di incostituzionalità di una precedente legge regionale, la Corte ad essa fa riferimento per dimostrare l’inconferenza di tale richiamo.
Nella prima pronuncia (sentenza n. 22), la Corte respinge le censure avverso la legge della Regione Abruzzo 11 agosto 2004, n. 26, ritenuta lesiva delle competenze statali con argomentazioni confortate dalla sentenza n. 359 del 2003, con la quale fu dichiarata l’illegittimità costituzionale della legge della Regione Lazio 11 luglio 2002, n. 16.
Al riguardo, la Corte sottolinea la sostanziale diversità di contenuti tra la legge della Regione Lazio n. 16 del 2002 e la legge della Regione Abruzzo, oggetto del presente scrutinio.
Con la sentenza citata, la Corte rilevò in primo luogo che il fenomeno del mobbing, emerso nella vita sociale e unitariamente considerato nell’ambito delle scienze sociali, era ancora privo di una specifica disciplina legislativa statale, ma era venuto in evidenza in controversie decidendo le quali i giudici comuni lo avevano ricondotto, per alcuni suoi aspetti, sotto le previsioni dell’art. 2087 cod.civ. In tale decisione la Corte affermò inoltre che la normativa in materia di mobbing può avere una pluralità di oggetti. Essa può riguardare la prevenzione e la repressione dei comportamenti dei soggetti attivi del fenomeno, le misure di sostegno psicologico e, se del caso, l’individuazione delle procedure per accedere alle terapie di tipo medico di cui la vittima può avere bisogno, nonché il regime degli atti o comportamenti posti in essere da quest’ultima come reazione a quanto patito.
La Corte osservò quindi che, avuto riguardo alla condotta degli agenti – di coloro cioè che pongono in essere gli atti e comportamenti vessatori nei confronti del lavoratore, nei quali si concretizza il fenomeno del mobbing – la relativa disciplina rientra essenzialmente nell’ordinamento civile. Allo Stato spetta, pertanto, la competenza a dettare la definizione del mobbing ove e quando lo ritenga opportuno.
In riferimento alle conseguenze prodotte dagli atti e comportamenti vessatori, la Corte diede atto che nella giurisprudenza erano emersi i profili attinenti alla salute del lavoratore che assumeva di esserne stato destinatario e alla qualificazione degli atti da lui compiuti, ricollegabili a detti comportamenti e riconducibili sotto le previsioni dell’art. 2087 cod. civ.; profili in relazione ai quali la disciplina del mobbing era riconducibile alla tutela della salute e alla tutela e sicurezza del lavoro o ancora all’ordinamento civile.
Alla stregua di siffatte premesse, la Corte valutò la legge della Regione Lazio allora impugnata e ne ritenne l’illegittimità costituzionale precipuamente perché essa era tutta imperniata su un’autonoma definizione di mobbing e su una esemplificazione dei comportamenti in cui il fenomeno poteva concretizzarsi, elementi questi che non le spettava di formulare con riguardo ai parametri evocati e che non erano in armonia con atti comunitari.
Ulteriori ragioni di illegittimità furono rinvenute nella disciplina di aspetti del fenomeno attinenti ai rapporti intersoggettivi tra lavoratore e datore e a comportamenti di questo integranti inadempimento degli obblighi inerenti al rapporto di lavoro.
La Corte rilevò anche che la legge regionale, nel disciplinare profili del fenomeno mobbing rientranti nella tutela della salute, non si era limitata alla formulazione di disposizioni di dettaglio, ma aveva anche stabilito principi fondamentali.
Tanto premesso, la Corte rileva che la legge della Regione Abruzzo oggetto del presente scrutinio non contiene alcuno degli elementi che condussero la Corte a dichiarare l’illegittimità della legge n. 16 del 2002 della Regione Lazio.
In primo luogo, la legge dà per presupposta la nozione dei comportamenti costituenti mobbing e non formula di questo fenomeno né una definizione generale, né esemplificazioni.
Di ciò si duole il ricorrente, assumendo trattarsi di norme in bianco il cui riempimento viene rimandato a successivi atti anche di natura amministrativa.
In realtà la legge, rinunciando a formulare una propria definizione del mobbing, si riferisce a quegli elementi già desumibili, non da una specifica disciplina, bensì dalle esistenti normative statali riguardanti materie in cui il complesso fenomeno si manifesta, normative che i giudici comuni hanno avuto presenti nelle controversie il cui oggetto era costituito dal mobbing in uno o più dei suoi molteplici aspetti.
Se poi l’inesistenza di una definizione di questo dovesse condurre la Regione Abruzzo all’emanazione di atti amministrativi esulanti dalle proprie competenze o comunque contrastanti con parametri costituzionali, per la repressione di tali fenomeni l’ordinamento conosce gli opportuni rimedi di giustizia costituzionale e comune.
La principale censura mossa alla legge non coglie, quindi, nel segno.
Neppure fondate sono le censure concernenti le disposizioni della legge impugnata, le quali prevedono l’istituzione di un centro di riferimento regionale presso l’ASL di Pescara e di centri di ascolto presso tutte le ASL della Regione e contengono l’indicazione dei compiti di questi.
Anche le doglianze del ricorrente, secondo cui la legge avrebbe privilegiato le strutture sanitarie rispetto agli organi preposti alla tutela e sicurezza del lavoro, sono infondate, in quanto i compiti affidati a tali centri attengono principalmente al rilevamento e alla valutazione delle conseguenze degli atti e comportamenti vessatori sulla salute dei lavoratori ed alla predisposizione di misure di sostegno per loro e per le loro famiglie, vale a dire ad uno degli oggetti possibili della normativa in tema di mobbing, come enucleati nella citata sentenza n. 359 del 2003. In coerenza all’espletamento di siffatti compiti, ai suindicati centri è destinato in larga prevalenza personale del comparto sanitario.
Parimenti infondate sono le doglianze in ordine alla mancata specificazione del livello di qualificazione posseduto da detto personale e dell’eventuale carattere precario del relativo rapporto, in quanto la possibilità di avvalersi, oltre che di dipendenti delle ASL, anche di lavoratori con contratti di collaborazione o in regime di convenzione, è coerente con i compiti previsti sia per il centro di riferimento regionale (art. 3, ultimo comma) sia per i centri di ascolto localizzati (art. 4, ultimo comma), mentre il loro impiego fa capo ai rispettivi poteri di organizzazione.
Inoltre, la legge istituisce un organismo regionale tecnico consultivo presso l’Assessorato del lavoro del quale fanno parte – oltre a rappresentanti dei sindacati, dei lavoratori, dei datori di lavoro ed al responsabile del centro di riferimento e ad un dirigente della direzione sanità – anche dirigenti di altre direzioni, il Presidente della commissione pari opportunità ed un consigliere di parità (art. 5 della legge).
Nessuna irragionevolezza si riscontra pertanto nelle indicate disposizioni, né alcuna invasione nella organizzazione dell’amministrazione statale o di enti pubblici nazionali.
Infine, non assume alcun rilievo il rischio dell’eventuale duplicazione di procedure che la legge regionale introdurrebbe rispetto a quanto previsto dalla contrattazione collettiva. Come avverte lo stesso ricorrente, le previsioni della fonte pattizia attengono ai rapporti inter partes e disciplinano ambiti di esclusiva competenza contrattuale.
In conclusione, per la Corte, la legge impugnata non ha oltrepassato i limiti della competenza che ha già riconosciuto alle Regioni quando ha affermato che esse «possono intervenire con propri atti normativi anche con misure di sostegno idonee a studiare il fenomeno in tutti i suoi profili e a prevenirlo o limitarlo nelle sue conseguenze» (v. sentenza n. 359 del 2003).
Con motivazioni analoghe viene respinto, nella sentenza n. 238, il ricorso dello Stato avverso la legge della Regione Umbria 28 febbraio 2005, n. 18. Dopo aver ritenuto in conferente il richiamo alla sentenza n. 359 del 2003, la Corte rileva che la legge oggetto del presente ricorso presenta elementi di analogia con la legge della Regione Abruzzo 11 agosto 2004 n. 26, passata indenne attraverso lo scrutinio di costituzionalità.
Anche nel caso ora in esame la normativa censurata non formula una definizione del mobbing con valenza generale, ma ha riguardo soltanto ad alcuni suoi aspetti già oggetto di valutazione in fattispecie sottoposte al vaglio di giudici comuni.
Inoltre, secondo l’art. 1 della legge, le azioni di prevenzione e contrasto del mobbing, finalizzate a tutelare l’integrità psico-fisica della persona sul luogo di lavoro sono promosse dalla Regione «nel rispetto della normativa statale vigente e dell’ordinamento comunitario». Tale formula può risolversi in un’affermazione meramente assertiva e di stile, inefficace al fine di escludere possibili contrasti con le normative di cui si postula il rispetto; ma, ove in concreto non si riscontrino disposizioni che tale contrasto determinano, come nella legge impugnata, essa fornisce un criterio interpretativo utile al positivo scrutinio di legittimità costituzionale.
Se, poi, l’inesistenza di una definizione generale dovesse condurre la Regione all’emanazione di atti amministrativi esorbitanti dalle proprie competenze o, comunque, contrastanti con parametri costituzionali, per la repressione di tali fenomeni l’ordinamento appronta gli opportuni rimedi di giustizia costituzionale e comune.
Quest’ultimo rilievo vale anche a motivare l’infondatezza delle censure concernenti la genericità delle previsioni della legge riguardo alle ispezioni sui luoghi di lavoro ed al conseguente accertamento di ipotesi di mobbing. L’impugnato art. 8 della legge regionale, relativo a tali ispezioni, riguarda infatti l’attività di controllo del Servizio di prevenzione e sicurezza del lavoro, collocandone i compiti «nell’ambito della sua attività istituzionale». Quest’ultima si inserisce nella più ampia attività dei dipartimenti di prevenzione (di cui fa parte il Servizio), i quali sono strutture operative delle ASL, poste a garanzia della salute collettiva ed operanti secondo linee coordinate ed integrate con le Regioni (in base al disposto dell’art. 7-quinquies del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502).
Negli stessi termini si esprime anche la sentenza n. 239, con cui viene respinto il ricorso dello Stato avverso la legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 8 aprile 2005, n. 7. Anche in questo caso, la legge censurata non formula una definizione del mobbing con valenza generale, ma ha riguardo soltanto ad alcuni suoi aspetti non esorbitanti dalle competenze regionali ordinarie e ancor meno da quelle statutarie della Regione Friuli-Venezia Giulia, la cui violazione il ricorrente evoca in via subordinata, ma sulle quali la stessa Regione ritiene ormai prevalere il nuovo riparto di competenze. L’incompletezza della definizione, anche con riguardo alle nozioni di diritto comunitario, è quindi correlativa al carattere parziale e volutamente non esaustivo della regolamentazione legislativa regionale Se, poi, l’inesistenza di una definizione generale dovesse condurre la Regione all’emanazione di atti amministrativi esorbitanti dalle proprie competenze o, comunque, contrastanti con parametri costituzionali, per la repressione di tali fenomeni, l’ordinamento appronta gli opportuni rimedi di giustizia costituzionale e comune. Quest’ultimo rilievo vale anche a motivare l’infondatezza delle censure concernenti la genericità delle previsioni della legge riguardo ai paventati interventi nei luoghi di lavoro, all’eventuale accertamento di casi di mobbing ed all’istituzione di “punti di ascolto” presso le ASL, in quanto, anche al di fuori del controllo incidentale di legittimità costituzionale, vale il principio secondo il quale una disposizione di legge non può essere dichiarata illegittima soltanto perché tra le varie opzioni interpretative e applicative se ne possa ipotizzare qualcuna lesiva di norme costituzionali.
La «tutela della salute» viene in considerazione, come accennato, anche sotto altri profili. Di rilievo sono due pronunce riguardanti la tutela della salute dei non fumatori, nelle quali la Corte afferma che la finalità del bene protetto comporta imprescindibili esigenze di uniformità che valgono a qualificare come principi fondamentali non solo le fattispecie di illecito e relative sanzioni bensì anche il procedimento finalizzato alla loro applicazione. Si afferma, inoltre, che l’esposizione al fumo passivo reca eguale pregiudizio alla persona su tutto il territorio della Repubblica, ciò che non consente discipline differenziate da parte dei legislatori regionali.
Con la sentenza n. 63, la Corte respinge le censure della Regione Toscana avverso l’art. 51, comma 7, della legge 16 gennaio 2003, n. 3, per pretesa lesione della potestà legislativa regionale riguardante il procedimento di accertamento delle infrazioni al divieto di fumo.
Motiva la Corte che la natura di principio fondamentale del divieto di fumo, e la correlativa competenza statale ad individuare sia le fattispecie di illecito amministrativo sia la misura delle sanzioni corrispondenti, si riflettono inevitabilmente sulla disciplina del procedimento volto ad accertare in concreto le trasgressioni e ad irrogare le sanzioni medesime. È di tutta evidenza, infatti, che la stessa imprescindibile esigenza di uniformità, che vale a qualificare come principi fondamentali le norme individuatrici delle fattispecie di illecito e le relative sanzioni, è sottesa anche alla regolamentazione del procedimento finalizzato alla loro applicazione.
Se è vero che in tema di divieto di fumo si versa nella materia «tutela della salute», di competenza legislativa concorrente, è altrettanto vero che la determinazione della qualità e della misura delle sanzioni inerisce a quei principi fondamentali che richiedono uniformità di disciplina su tutto il territorio nazionale. La stretta strumentalità del procedimento di accertamento delle infrazioni e di irrogazione delle sanzioni rispetto alla effettività del divieto di fumo in locali chiusi, posto a tutela di un bene non suscettibile di valutazioni differenziate, determina la necessaria attrazione nella sfera di competenza statale della disciplina delle attività amministrative necessarie allo scopo. Il procedimento in questione non è accessorio ad una potestà legislativa regionale, ma, pur nell’ambito della complessiva materia «tutela della salute», ad un’area di normazione – quella riguardante le sanzioni – di sicura attribuzione allo Stato.
Inoltre, come la prescrizione di sanzioni amministrative non appartiene in via pregiudiziale allo Stato o alle Regioni, ma accede alla specifica competenza legislativa ritenuta, secondo Costituzione, più adatta alla tutela di determinati diritti o interessi, allo stesso modo non esiste una materia della vigilanza, ma questa deve essere considerata accessorio naturale della competenza sanzionatoria sia statale che regionale (sentenza n. 384 del 2005). Una intrinseca necessità di coerenza normativa e amministrativa impone che non si determinino fratture sul versante applicativo delle sanzioni di sicura competenza statale. Una regolamentazione differenziata del procedimento finalizzato all’irrogazione delle sanzioni, non solo sarebbe fonte di incertezze e complicazioni per le amministrazioni e per i cittadini, ma finirebbe per influire negativamente sulla effettività delle sanzioni medesime, ove le modalità applicative variassero da Regione a Regione. La stessa esigenza di uniformità sottesa alla qualificazione come principi fondamentali di tutte le norme sanzionatorie in materia deve, quindi, presiedere alla disciplina delle attività finalizzate all’applicazione delle sanzioni medesime.
Ove si consideri, oltretutto, che il divieto di fumo ricade nella materia «tutela della salute», di competenza legislativa concorrente, è opportuno e conforme al principio di leale collaborazione che la disciplina del procedimento non sia dettata in modo unilaterale dallo Stato, escludendo del tutto le Regioni. La ratio che determina l’attrazione del procedimento sanzionatorio nella competenza legislativa statale è, infatti, quella dell’uniformità volta a dare alle sanzioni, almeno nella previsione normativa, lo stesso grado di effettività in ogni parte del territorio nazionale. Tale uniformità si concilia con l’interesse costituzionalmente tutelato delle Regioni a far valere, nella predisposizione delle norme legislative, le proprie specifiche esigenze. In questa ipotesi, giova appunto far riferimento al principio di leale collaborazione, che rende preferibile l’integrazione non conflittuale delle esigenze unitarie con quelle autonomistiche, senza rigide separazioni e contrapposizioni dualistiche.
La norma statale impugnata prevede una delle possibili modalità di conciliazione delle ragioni dell’unità con quelle dell’autonomia. La ridefinizione del procedimento è, infatti, affidata ad un accordo tra Stato e Regioni, da raggiungersi in sede di Conferenza permanente per i rapporti Stato-Regioni e Province autonome. Tale tipo di accordo, che non può modificare l’ordine costituzionale delle competenze, può essere valida soluzione collaborativa in un campo di attività amministrative strettamente accessorio ad una competenza legislativa appartenente allo Stato, in quanto attinente a principi fondamentali, ma iscritto pur sempre nel più vasto ambito della tutela della salute. Si tratta di un caso, tra i tanti, in cui l’intreccio delle competenze legislative e amministrative statali e regionali mal si presta ad essere risolto in termini di drastica scissione.
In applicazione dei principi sopra descritti, con la sentenza n. 59 viene dichiarata illegittima, nella sua interezza, la legge della Provincia di Bolzano 25 novembre 2004, n. 8, in quanto il legislatore provinciale ha inteso sostituire alla normativa statale vigente in materia di divieto di fumo nei locali chiusi una propria disciplina, maggiormente adatta, secondo l’assunto della resistente, alle caratteristiche ed alle esigenze della Provincia di Bolzano.
Dalla natura di principi fondamentali delle norme dirette a prevedere, sanzionare e far rispettare il divieto di fumo, deriva che le Regioni non possano introdurre proprie discipline alternative a quella statale, ancorché ritenute, da ciascuna di esse, giustificate da particolari esigenze territoriali. La specialità dell’autonomia delle Province di Trento e Bolzano non rileva al fine di allargare la sfera legislativa delle stesse in confronto a quella delle Regioni a statuto ordinario, giacché la normativa oggetto della questione di costituzionalità ricade, secondo la stessa prospettazione della resistente, nelle materie «esercizi pubblici» e «igiene e sanità» (art. 9, numeri 7 e 10, dello statuto speciale), entrambe attribuite alla competenza legislativa concorrente delle predette Province. Risulta peraltro evidente che la prevalenza, nella classificazione, debba spettare alla materia «igiene e sanità», per la sicura finalizzazione del divieto di fumo alla tutela della salute dei non fumatori. La collocazione delle norme sul divieto di fumo tra i principi fondamentali deve quindi ritenersi valida anche nei confronti della Provincia di Bolzano, con riferimento all’art. 9 dello statuto speciale della Regione Trentino-Alto Adige.
L’esame delle singole disposizioni oggetto di censure specifiche da parte del Presidente del Consiglio dei ministri conferma la qualificazione della legge impugnata come alternativa alla disciplina statale.
Gli artt. 1 e 2 ridefiniscono l’ambito di operatività del divieto, sostituendo all’espressione contenuta nella legge statale (“locali chiusi aperti ad utenti o al pubblico”: art. 51, comma 1, lettera a, della legge n. 3 del 2003) la diversa dizione «locali chiusi, aperti al pubblico».
L’art. 5, comma 1, modifica l’entità della sanzione per i trasgressori al divieto, aumentandola nel minimo e nel massimo rispetto a quella fissata dalla legislazione statale.
L’art. 6 estende, rispetto alla normativa statale, l’area delle condotte sanzionabili in via amministrativa a quelle di chi vende o somministra tabacco a persone minori di anni sedici, prevedendo peraltro una sanzione del tutto nuova nel minimo rispetto sia alla legge statale sia alla stessa legge provinciale.
L’art. 9 proroga di sei mesi, rispetto al termine statale, la data di entrata in vigore del divieto per le aree dei locali chiusi «nelle quali non vengono somministrati pasti ed in quelli in cui l’area per la somministrazione di pasti non è separata, mediante pareti a tutta altezza e larghezza e con gli accessi esistenti, dall’area in cui non vengono somministrati pasti».
La constatazione della organicità della disciplina provinciale, che tende a sostituire alla disciplina statale del divieto di fumo in locali chiusi un’altra, discrezionalmente elaborata ed approvata dalla Provincia di Bolzano, rende inevitabile, ai sensi degli artt. 9, n. 10), e 5 dello statuto speciale della Regione Trentino-Alto Adige, la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’intera legge impugnata, stante la natura di principi fondamentali delle norme statali che si vorrebbero sostituire.
La materia «tutela della salute» viene in rilievo anche con riguardo alla disciplina delle farmacie. In particolare, con la sentenza n. 87 si accolgono, per il carattere di estremo dettaglio della disciplina, i ricorsi delle Regioni Abruzzo, Toscana, Veneto ed Emilia-Romagna avverso l’articolo 46 della legge 16 gennaio 2003, n. 3, in materia di gestione provvisoria delle farmacie. L’art. 46 della legge n. 3 del 2003 disciplina il fenomeno della gestione provvisoria delle farmacie e prevede una sanatoria delle stesse con assegnazione al gestore provvisorio della relativa titolarità.
La norma individua il beneficio (assegnazione in titolarità della sede farmaceutica), i requisiti per accedere al beneficio (avere esercitato almeno due anni in talune peculiari ipotesi di gestione provvisoria; non avere trasferito la titolarità di altra farmacia da meno di dieci anni; non avere ottenuto, da meno di dieci anni, altri benefici o sanatorie), i criteri per risolvere i potenziali conflitti con altri soggetti interessati (prevalenza sui concorrenti in caso di mancata pubblicazione della graduatoria del concorso per l’assegnazione della sede farmaceutica) e le regole per il relativo procedimento di riconoscimento.
La Corte, una volta esclusa la tesi secondo la quale nel caso di specie si verserebbe nella materia del commercio, restando solo marginale, sotto questo profilo, sia il carattere professionale sia l’indubbia natura commerciale dell’attività del farmacista, nonché la sua ascrivibilità alla tutela del lavoro, in quanto l’attività del farmacista costituisce, seppure esercitata in via provvisoria, una attività di impresa, rinviene il titolo competenziale nella materia tutela della salute.
La complessa regolamentazione pubblicistica della attività economica di rivendita dei farmaci è infatti preordinata al fine di assicurare e controllare l’accesso dei cittadini ai prodotti medicinali ed in tal senso a garantire la tutela del fondamentale diritto alla salute. La questione si specifica, pertanto, nella valutazione della natura o meno di dettaglio delle norme dettate e, quindi, della legittimità della loro previsione da parte del legislatore statale.
La Corte ritiene che, a parte talune differenze nei requisiti e nei criteri di prevalenza sui vincitori di concorso, la disciplina è sostanzialmente analoga a quella dettata da varie leggi di “sanatoria” che, a partire dagli anni ottanta del secolo scorso, hanno affrontato la materia.
La legittimità costituzionale di una di queste leggi (legge 22 dicembre 1984, n. 892, recante «Norme concernenti la gestione in via provvisoria di farmacie rurali e modificazioni delle leggi 2 aprile 1968, n. 475 e 28 febbraio 1981, n. 34») è già stata scrutinata in via principale dalla Corte, con sentenza n. 177 del 1988, dove si è escluso che potesse riconoscersi natura di principio ad «un insieme di disposizioni contenente una disciplina in sé compiuta e autoapplicativa, che, come tale, non lascia il minimo spazio non solo per un’ipotetica legiferazione ulteriore, ma persino per una normazione secondaria di mera esecuzione».
In particolare, la Corte ha ritenuto che, «sotto il profilo strutturale», non potesse «riconoscersi alle disposizioni impugnate la natura di norme di principio, poiché in ipotesi si tratta di statuizioni al più basso grado di astrattezza, che, per il loro carattere di estremo dettaglio, non solo sono insuscettibili di sviluppi o di svolgimenti ulteriori, ma richiedono, ai fini della loro concreta applicazione, soltanto un’attività di materiale esecuzione».
Nella sentenza n. 177 del 1988 ha, peraltro, rigettato le doglianze sul presupposto della sussistenza dell’interesse nazionale quale fondamento di legittimazione del potere normativo statale esercitato.
Al contrario, nell’assetto costituzionale delineato dalla riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione, deve escludersi che l’interesse nazionale possa legittimare uno spostamento del regime delle competenze normative regolato dal nuovo articolo 117 della Costituzione, come già chiarito a partire dalla sentenza n. 303 del 2003.
In una diversa prospettiva, la Corte, nella sentenza n. 181, esamina cinque ricorsi, uno dei quali proposto dalla Regione Toscana, gli altri quattro dal Presidente del Consiglio dei ministri.
Con il primo di essi è censurato l’art. 2-septies, comma 1, del decreto legge 29 marzo 2004, n. 81, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 maggio 2004, n. 138, con cui il legislatore statale ha modificato – eliminando «il principio della irreversibilità che caratterizzava il rapporto esclusivo dei dirigenti sanitari» – il comma 4 dell’art. 15-quater del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, ed ha disposto che «la non esclusività del rapporto di lavoro non preclude la direzione di strutture semplici o complesse».
L’impugnativa dello Stato, simmetricamente, ha investito leggi delle Regioni Toscana, Emilia-Romagna ed Umbria, le quali stabiliscono che gli incarichi di direzione di struttura, semplice o complessa, del Servizio sanitario regionale implicano il rapporto di lavoro esclusivo previsto all’art. 15-quater, commi 1, 2 e 3 del già citato d.lgs. n. 502 del 1992, ovvero che il rapporto di lavoro esclusivo operi come «criterio preferenziale per il conferimento ai dirigenti sanitari degli incarichi di direzione» presso le medesime strutture.
Il Presidente del Consiglio dei ministri ha proposto ulteriori questioni di legittimità costituzionale avverso gli artt. 2, comma 1, lettera b), e 8, comma 3, della legge regionale dell’Emilia-Romagna n. 29 del 2004, i quali stabiliscono, l’uno, che «la costituzione di Aziende Ospedaliere è disposta dalla Regione previa valutazione di complessità dei casi trattati», e, l’altro, che «l’attribuzione dell’incarico di direzione di struttura complessa ai dirigenti sanitari» venga effettuata dal direttore generale «sulla base di una rosa di tre candidati».
Preliminarmente, la Corte procede alla identificazione della materia in cui le impugnate disposizioni si collocano, le quali, sebbene si prestino ad incidere contestualmente su una pluralità di materie (e segnatamente, tra le altre, su quella della organizzazione di enti “non statali e non nazionali”), vanno comunque ascritte, con prevalenza, a quella della “tutela della salute”. Rileva in tale prospettiva la stretta attinenza che tutte le norme de quibus presentano con l’organizzazione del servizio sanitario regionale e, in definitiva, con le condizioni per la fruizione delle prestazioni rese all’utenza, essendo queste ultime condizionate, sotto molteplici aspetti, dalla capacità, dalla professionalità e dall’impegno di tutti i sanitari addetti ai servizi, e segnatamente di coloro che rivestono una posizione apicale.
Alla stregua di tali considerazioni, e facendo applicazione del criterio – già utilizzato dalla Corte con riferimento ad altre ipotesi nelle quali si è ravvisata una «concorrenza di competenze» – che tende a valorizzare «l’appartenenza del nucleo essenziale di un complesso normativo ad una materia piuttosto che ad altre» (sentenza n. 50 del 2005), deve ritenersi che l’ambito materiale interessato dalle disposizioni in esame sia, appunto, quello della “tutela della salute”.
Né, in senso contrario, può obiettarsi che, nel caso di specie, il titolo “prevalente” dovrebbe essere ravvisato nella materia “ordinamento civile”, poiché deve escludersi «che ogni disciplina, la quale tenda a regolare e vincolare l’opera dei sanitari, […] rientri per ciò stesso nell’area dell’“ordinamento civile”, riservata al legislatore statale» (così la sentenza n. 282 del 2002).
Improprio è, inoltre, il riferimento della difesa dello Stato alla esclusiva competenza statale ex art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., dovendosi confermare che «tale titolo di legittimazione legislativa non può essere invocato se non in relazione a specifiche prestazioni delle quali la normativa statale definisca il livello essenziale di erogazione», risultando, viceversa, «del tutto improprio e inconferente il riferimento» ad esso allorché si intenda «individuare il fondamento costituzionale della disciplina, da parte dello Stato, di interi settori materiali».
Al fine di stabilire se, nel caso di specie, le condizioni per il legittimo esercizio della potestà legislativa, statale e regionale, siano state rispettate, appare necessario – in via preliminare – individuare con precisione il contenuto del predetto art. 2-septies, comma 1, del decreto legge n. 81 del 2004, che ha sostituito il comma 4 dell’art. 15-quater del d.lgs. n. 502 del 1992, «concernente l’esclusività del rapporto di lavoro dei dirigenti del ruolo sanitario» (disposizione, quest’ultima, introdotta dall’art. 13 del decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229). In forza, infatti, del “novellato” testo dell’art. 15-quater, comma 4, del d.lgs. n. 502 del 1992, è stata prevista, in sostituzione del precedente regime basato sulla irreversibilità della scelta tra rapporto esclusivo e rapporto non esclusivo, per tutti i dirigenti sanitari pubblici, «la possibilità di scegliere entro il 30 novembre di ogni anno se optare per il rapporto di lavoro esclusivo o meno con il Servizio sanitario, con effetto dal 1° gennaio dell’anno successivo». Tale facoltà di scelta è stata accordata «sia agli assunti dopo il 31 dicembre 1998» (vale a dire a coloro che risultavano assoggettati ratione temporis al principio dell’esclusività, e ciò per il solo fatto che la costituzione del loro rapporto di lavoro fosse avvenuta a seguito dell’innovazione introdotta dal d.lgs. n. 229 del 1999), «sia a coloro che, già in servizio al 31 dicembre 1998, avevano a suo tempo effettuato l’opzione per il rapporto di lavoro esclusivo» (secondo le prescrizioni del comma 3 del medesimo art. 15-quater).
Come corollario di quanto così disposto, il legislatore statale, con la norma impugnata, ha stabilito che nel caso in cui la scelta dei dirigenti sanitari cada sul regime della non esclusività, essa tuttavia «non preclude la direzione di strutture semplici e complesse».
Il primo problema riguarda il rapporto tra la nuova disposizione dell’art. 15-quater, comma 4, e quella contenuta nell’art. 15-quinquies, comma 5, del medesimo d.lgs. n. 502 del 1992, a norma del quale «gli incarichi di direzione di struttura, semplice o complessa, implicano il rapporto di lavoro esclusivo». Ad un primo sommario esame, potrebbe ritenersi che tra le due norme sussista una vera e propria antinomia.
Tale apparente antinomia, tuttavia, non può essere risolta ipotizzando l’avvenuta abrogazione tacita del predetto art. 15-quinquies, comma 5, del d.lgs. n. 502 del 1992, atteso che lo stesso legislatore, come emerge dai lavori preparatori della legge n. 138 del 2004, ha inteso sottolineare che il suddetto articolo non risulta abrogato per effetto della nuova disciplina.
In realtà, l’art. 2-septies ha dato luogo al superamento, unicamente, del principio secondo cui la esclusività del rapporto di lavoro alle dipendenze del servizio sanitario si poneva come attributo indefettibile per la titolarità dell’incarico dirigenziale. All’esito, difatti, di tale intervento legislativo il sistema complessivo si fonda, da un lato, sulla reversibilità della scelta in favore del rapporto esclusivo (opzione che, comunque necessaria per il conferimento dell’incarico, è destinata ad esplicare efficacia per almeno un anno, sempre che le Regioni non si avvalgano della facoltà «di stabilire una cadenza temporale più breve»), nonché, dall’altro, sulla previsione che il passaggio al rapporto non esclusivo «non preclude la direzione di strutture semplici o complesse», consentendo, così, il mantenimento dell’incarico dirigenziale. Infine, il sistema si caratterizza anche per il fatto che neppure la decisione in favore della “non esclusività” presenta carattere irreversibile, essendo il rapporto esclusivo pur sempre ripristinabile a domanda dell’interessato, secondo le modalità di cui al comma 2 del predetto art. 15-quater.
Il risultato, dunque, delle modifiche apportate al testo del d.lgs. n. 502 del 1992 dalla legge n. 138 del 2004 non consiste nell’enunciazione di un “nuovo” principio generale, ma piuttosto nell’escludere valore di principio generale a quanto disposto dall’art. 15-quinquies, comma 5, atteso che il novellato testo dell’art. 15-quater, comma 4, prevede che la scelta, per l’uno o per l’altro dei due regimi, sia sostanzialmente “indifferente” quanto alla titolarità dell’incarico dirigenziale, visto che quest’ultima non è più subordinata ad alcuna peculiare configurazione del rapporto di lavoro.
L’adozione di tale soluzione, in conseguenza del superamento del principio fondamentale anteriormente vigente in materia, non costituendo a propria volta l’espressione di un principio di eguale natura, atteso il suo carattere semplicemente dispositivo, non esclude, pertanto, che alle Regioni residui uno spazio di intervento in subiecta materia, venendo in rilievo sotto questo profilo le prerogative ad esse spettanti in merito alla «determinazione dei principi sull’organizzazione dei servizi e sull’attività destinata alla tutela della salute» di cui all’art. 2, comma 2, del medesimo d.lgs. n. 502 del 1992.
Ciò significa, in altri termini, che le stesse – ferma restando ovviamente l’operatività della disciplina statale, recata dal “novellato” art. 15-quater, comma 4, nei territori delle Regioni che nulla abbiano specificamente stabilito al riguardo – sono libere di disciplinare le modalità relative al conferimento degli incarichi di direzione delle strutture sanitarie, ora privilegiando in senso assoluto il regime del rapporto esclusivo (è la scelta delle leggi regionali della Toscana e dell’Umbria), ora facendo della scelta in suo favore un criterio “preferenziale” per il conferimento degli incarichi di direzione (è, invece, l’opzione legislativa seguita dalla Regione Emilia-Romagna).
È chiaro, infine, che quando la scelta cada sul rapporto esclusivo, la disciplina delle caratteristiche proprie di tale rapporto continua ad essere quella risultante dal predetto art. 15-quinquies del d.lgs. n. 502 del 1992, norma da ritenersi – come rilevato – vigente.
Così ricostruiti, quindi, gli effettivi termini delle relazioni intercorrenti (nel descritto ambito materiale della “tutela della salute”) tra norma statale e norme regionali, a ciò non può che seguire il riconoscimento della infondatezza delle censure di legittimità costituzionale formulate – ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost. – sia avverso l’art. 2-septies, comma 1, del decreto legge n. 81 del 2004, nel testo modificato dalla relativa legge di conversione n. 138 del 2004, che delle “speculari” disposizioni legislative regionali, e segnatamente: l’art. 59 della legge regionale della Toscana n. 40 del 2005; l’art. 8, comma 4, della legge regionale dell’Emilia-Romagna n. 29 del 2004; l’art. 1 della legge regionale dell’Umbria n. 15 del 2005.
La Corte esamina, di seguito, le questioni relative all’art. 2, comma 1, lettera b), ed all’art. 8, comma 3, della legge regionale dell’Emilia-Romagna n. 29 del 2004, le quali – nello stabilire, rispettivamente, l’una che «la costituzione di Aziende Ospedaliere è disposta dalla Regione previa valutazione di complessità dei casi trattati» e, l’altra, che «l’attribuzione dell’incarico di direzione di struttura complessa ai dirigenti sanitari è effettuata dal direttore generale […] sulla base di una rosa di tre candidati» – derogherebbero a due principi fondamentali della materia “tutela della salute”.
La prima disposizione, difatti, contravverrebbe al principio desumibile dall’art. 4, comma 1-bis, del d.lgs. n. 502 del 1992, ai sensi del quale «la costituzione di tale tipo di Aziende sanitarie può essere proposta dalla Regione solo quando ricorrono determinati requisiti, tra i quali, di particolare rilevanza: l’indice di complessità dei casi trattati dall’ospedale che superi di almeno il 20% il valore della media regionale, la presenza di tre unità operative di alta specialità, un tasso di ricoveri di pazienti provenienti da altre Regioni che superi di almeno il 10%, nell’ultimo triennio, il valore medio regionale».
La seconda, invece, violerebbe l’art. 15-ter del medesimo d.lgs. n. 502 del 1992, il quale prevede «l’attribuzione dell’incarico “sulla base di una rosa di candidati idonei selezionata da un’apposita commissione” senza limitare il numero dei designati dalla commissione stessa».
Per la Corte, entrambe le questioni non sono fondate, poiché nel disciplinare il criterio (o meglio, uno dei criteri) per la costituzione di nuove aziende ospedaliere, la Regione Emilia-Romagna non solo ha operato nell’ambito di competenze regionali relative sia alla «determinazione dei principi sull’organizzazione dei servizi e sull’attività destinata alla tutela della salute», ma ha anche dato vita ad un intervento, la cui conformità al disposto del richiamato art. 4, comma 1-bis, del d.lgs. n. 502 del 1992 deve essere valutata alla stregua di quella che risulta essere la complessiva disciplina regionale vigente in materia.
Orbene, se si ha riguardo a questa ultima nel suo insieme – e segnatamente alle prescrizioni contenute nell’art. 3 della medesima legge regionale n. 29 del 2004, come nella legge regionale 20 dicembre 1994, n. 50 (Norme in materia di programmazione, contabilità, contratti e controllo delle aziende Unità sanitarie locali e delle aziende ospedaliere), ovvero nel Piano sanitario regionale 1998-2000 – appare evidente che la Regione Emilia-Romagna subordina la costituzione delle aziende ospedaliere a prescrizioni non minori rispetto a quelle di cui alla citata norma di legge statale.
Quanto, invece, alla seconda disposizione impugnata, limitandosi la stessa a stabilire che la «rosa», in base alla quale il direttore generale della azienda sanitaria locale effettua «l’attribuzione dell’incarico di direzione di struttura complessa», ricomprenda «tre candidati», detta una tipica norma di dettaglio, non in contrasto con l’art. 15-ter del medesimo d.lgs. n. 502 del 1992 (che non limita il numero degli aspiranti).
Se, invero, il rapporto tra norma “di principio” e norma “di dettaglio” deve essere inteso nel senso che l’una «può prescrivere criteri […] ed obiettivi», all’altra invece spettando l’individuazione degli «strumenti concreti da utilizzare per raggiungere quegli obiettivi» (sentenza n. 390 del 2004), non è dubitabile che una relazione siffatta sussista tra il predetto art. 15-ter del d.lgs. n. 502 del 1992 e la norma regionale impugnata. Il primo fissa, difatti, l’obiettivo della designazione del direttore della struttura sanitaria attraverso una valutazione comparativa di una rosa di candidati selezionati da apposita commissione, la norma regionale determina, invece, solo le modalità di formazione di tale rosa.
Resta, peraltro, implicito che, in coerente applicazione dei canoni fissati dall’art. 97 della Costituzione (i quali esigono «che nell’accesso a funzioni più elevate» venga osservato un «meccanismo di selezione tecnica e neutrale dei più capaci»), è necessario che siano adottate modalità procedimentali atte a garantire le condizioni di un trasparente ed imparziale esercizio dell’attività amministrativa. Occorre, altresì, che tale attività, oltre ad essere svolta mediante l’impiego di criteri oggettivi e predeterminati, culmini nella formazione di una graduatoria in base alla quale procedere alla individuazione dei tre aspiranti al conferimento dell’incarico dirigenziale, fermo restando, comunque, che rimane impregiudicata la possibilità per il direttore generale della azienda sanitaria locale, con atti motivati, di non avvalersi della terna e, conseguentemente, di non procedere all’attribuzione dell’incarico.
Ancora con riguardo all’organizzazione delle strutture chiamate a concretizzare la tutela della salute, nella sentenza n. 233, la Corte condivide la censura riguardante l’art. 24 della legge della Regione Calabria 17 agosto 2005, n. 13, in tema di nomine per le quali occorra il concerto o l’intesa con altre autorità o amministrazioni, nella parte in cui si applica alle nomine in materia sanitaria.
La norma impugnata così dispone: «Il Presidente della Giunta regionale o, se la nomina è di competenza consiliare, il Presidente del Consiglio regionale, comunicano, all’autorità od alla amministrazione preposte ad esitare l’intesa o il concerto, una terna di soggetti in possesso dei requisiti per l’assunzione dell’incarico» (comma 2); «L’autorità o l’amministrazione destinatarie della comunicazione, nel termine di 20 giorni dalla stessa, fanno pervenire, al Presidente della Giunta od al Presidente del Consiglio, il gradimento su almeno uno dei nominativi proposti. Decorso infruttuosamente il detto termine, l’autorità regionale competente provvede alla nomina, nell’ambito dei soggetti inseriti nella terna» (comma 3); «Il gradimento perfeziona l’intesa o il concerto e costituisce titolo per la successiva nomina dell’interessato» (comma 4); «Il gradimento può essere ricusato se uno o tutti i nominativi proposti sono privi dei necessari requisiti di professionalità e competenza. In tal caso, il Presidente della Giunta, ovvero il Presidente del Consiglio regionale, procedono a comunicare una nuova terna, che non può includere soggetti per i quali il gradimento è stato precedentemente ricusato» (comma 5); «Se il rifiuto non è adeguatamente motivato ai sensi del precedente comma, l’autorità regionale competente effettua egualmente la nomina, nell’ambito della terna proposta» (comma 6).
Motiva la Corte che, nella parte in cui si applica alla nomina del direttore generale di azienda ospedaliero-universitaria, che la Regione deve effettuare d’intesa con il Rettore dell’Università, la norma impugnata va ricondotta nell’ambito della competenza concorrente in materia di tutela della salute e, quindi, deve rispettare i principi fondamentali determinati dalla legge statale.
Orbene, la disciplina dei rapporti tra Servizio sanitario nazionale ed Università, regolata dal d.lgs. n. 517 del 1999, è affidata ai protocolli d’intesa stipulati dalla Regione con le università ubicate nel proprio territorio (art. 1, comma 1), previsti, tra l’altro, proprio al fine di informare tali rapporti al principio di leale cooperazione (art. 1, comma, 2, lettera b).
Ne discende che anche la disciplina del procedimento finalizzato al raggiungimento dell’intesa richiesta per la nomina del direttore generale di azienda ospedaliero-universitaria deve essere definita in uno specifico protocollo tra gli enti interessati (art. 4, comma 2, del decreto legislativo citato).
Conseguentemente, l’art. 24 della legge della Regione Calabria n. 13 del 2005 – che ha, invece, disciplinato autonomamente e unilateralmente il procedimento di intesa in esame – ha leso gli evocati principi fondamentali, posti anche a tutela dell’autonomia universitaria garantita dall’art. 33, sesto comma, Cost., e deve perciò essere dichiarato costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui si applica anche alla nomina del direttore generale di azienda ospedaliero-universitaria.
Infine, con la sentenza n. 422, la Corte condivide le censure avverso l’art. 8, comma 3 della legge della Regione Lazio 23 gennaio 2006, n. 2 (Disciplina transitoria degli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico di diritto pubblico non trasformati in fondazioni ai sensi del decreto legislativo 16 ottobre 2003, n. 288), che fissa al compimento del settantesimo anno (e non del sessantacinquesimo, come invece previsto dall’art. 11, comma 3, del citato d.lgs. n. 288 del 2003) il limite di età, il cui raggiungimento comporta la cessazione dagli incarichi di Direttore Sanitario e Direttore Amministrativo presso i medesimi istituti e avverso gli artt.13, comma 1 e 14, comma 3, della stessa legge regionale, che attribuiscono alla Giunta regionale il controllo sull’attività di ricerca degli istituti.
Motiva la Corte che l’art. 8, comma 3, della legge regionale impugnata viola l’art. 117, terzo comma, della Costituzione, per contrasto con un principio fondamentale – desumibile dall’art. 11, comma 3, del d.lgs. n. 288 del 2003 – attinente alla disciplina ordinamentale degli IRCCS e, dunque, alla materia della «tutela della salute».
La disposizione censurata, sebbene si presti ad incidere contestualmente su una pluralità di materie (e in particolare, tra le altre, su quella dell’«ordinamento civile», attesa la natura privatistica del rapporto di lavoro intercorrente tra i dirigenti degli IRCCS e i predetti Istituti), deve essere ascritta, prevalentemente, all’ambito materiale della «tutela della salute». Deve, infatti, ritenersi che l’ambito materiale interessato, in prevalenza, dalla norma in esame sia, appunto, quello della “tutela della salute”. Proprio il carattere apicale della posizione ricoperta dal direttore amministrativo e dal direttore sanitario, all’interno di organismi che sono istituzionalmente chiamati ad espletare attività assistenziali di ricovero e cura degli infermi, oltre che di ricerca scientifica bio-medica, rivela l’incidenza che la disciplina relativa alle modalità di cessazione da tali incarichi, per sopraggiunti limiti di età, esercita sull’organizzazione e la gestione di servizi sanitari e, di riflesso, anche sull’efficienza degli stessi.
Da ciò consegue che la regolamentazione del peculiare profilo oggetto di disciplina da parte della norma impugnata non può ritenersi rilevante solo rispetto allo svolgimento del rapporto intercorrente, iure privatorum, tra i dirigenti degli IRCCS e i medesimi Istituti, riguardando, piuttosto, proprio aspetti direttamente attinenti alla assistenza sanitaria. Di qui la necessità di una sua conformità a quanto previsto dal già citato art. 11, comma 3, del d.lgs. n. 288 del 2003.
Fondata è, del pari, la censura che investe gli artt. 13, comma 1, lettera b), e 14, comma 3, della medesima legge regionale.
Relativamente ai controlli cui sono sottoposti gli IRCCS, con la sentenza n. 270 del 2005 la Corte ha dichiarato la illegittimità costituzionale delle norme disciplinatrici dei soli controlli “preventivi” statali sugli atti degli IRCCS, caducando, entro tali limiti, i commi 1 e 2 dell’art. 16 del d.lgs. n. 288 del 2003 che li avevano previsti. Non è dunque fondata la tesi che rinviene nella citata pronuncia il titolo di legittimazione dei predetti artt. 13, comma 1, lettera b), e 14, comma 3, della legge regionale impugnata.
Tali norme, fatta formalmente salva la vigilanza del Ministro della salute, affidano alla Giunta regionale il controllo sulle attività di ricerca, di cui al citato art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 288 del 2003, che è svolto in sede ministeriale dando vita ad un’indubbia interferenza sull’attività di vigilanza che la normativa statale affida al Ministero della salute, senza alcuna ragione giustificativa. In virtù, infatti, del collegamento tra l’art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 288 del 2003 e l’art. 12-bis, comma 8, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, il controllo del Ministro della salute sulle attività di ricerca degli IRCCS ha come scopo la verifica della loro rispondenza al programma nazionale di ricerca sanitaria predisposto dal medesimo Ministero.
Né, d’altra parte, per escludere che le norme censurate diano luogo ad un’inutile “duplicazione” del controllo ministeriale può invocarsi l’argomento teso a dimostrare che quello contemplato dalle disposizioni in esame sia, in fondo, nient’altro che una specificazione della «attività di monitoraggio prevista dall’ultima parte dell’art. 12-bis» del d.lgs. 502 del 1992; attività, questa, che per certo continua ad essere di spettanza delle Regioni in rapporto ad atti di programmazione regionale.
Il monitoraggio di cui alla citata norma non investe la rispondenza delle attività di ricerca degli IRCCS al programma nazionale, bensì i risultati conseguiti, nell’ambito di ciascun servizio sanitario regionale, all’esito di quei singoli progetti dei quali ogni Regione abbia assunto, specificamente, la responsabilità della realizzazione.
Non è, quindi, condivisibile la tesi della Regione Lazio di legittimare su tali basi l’attività di vigilanza demandata alla Giunta regionale dagli artt. 13, comma 1, lettera b), e 14, comma 3, dell’impugnata legge regionale, i quali, pertanto, vengono dichiarati costituzionalmente illegittimi.

4.2.5. «Protezione civile»
In materia di protezione civile, nella sentenza n. 32 si rinviene l’affermazione di principio in cui la Corte ricorda l’orientamento interpretativo e ricostruttivo sull’identificazione della materia «tutela dell’ambiente» sottolineando che la competenza statale al riguardo si presenta «sovente connessa e intrecciata inestricabilmente con altri interessi e competenze regionali concorrenti» (sentenza n. 214 del 2005), con la conseguenza che essa si connette in modo quasi naturale con la competenza regionale concorrente della «protezione civile».
Con la sentenza n. 284, la Corte dichiara l’incostituzionalità degli artt. 14, comma 5, e 33, comma 2, della legge della Regione Calabria 17 agosto 2005, n. 13, che prevedono, rispettivamente, la sospensione della realizzazione del raddoppio del termovalorizzatore di Gioia Tauro, nonché la sospensione della realizzazione e dell’esercizio dell’impianto di smaltimento e stoccaggio di rifiuti solidi urbani sito in Reggio Calabria, frazione di Sambatello, località «Cartiera», di cui all’ordinanza del 29 luglio 2002, n. 1963, del Commissario delegato per l’emergenza ambientale nel territorio della Regione Calabria, in attesa – stabiliscono entrambe le disposizioni censurate – dell’approvazione del nuovo «piano regionale dei rifiuti».
Premette la Corte che, con la legge 24 febbraio 1992, n. 225 (Istituzione del servizio nazionale della protezione civile), il legislatore statale «ha rinunciato ad un modello centralizzato per una organizzazione diffusa a carattere policentrico», e le competenze e le relative responsabilità sono state ripartite tra i diversi livelli istituzionali di governo in relazione alle tipologie di eventi che possono venire in rilievo: eventi da fronteggiare mediante interventi attuabili dagli enti e dalle amministrazioni competenti in via ordinaria (art. 2, comma 1, lettera a); eventi che impongono l’intervento coordinato di più enti o amministrazioni competenti in via ordinaria (art. 2, comma 1, lettera b); calamità naturali, catastrofi o altri eventi che, per intensità o estensione, richiedono mezzi e poteri straordinari (art. 2, comma 1, lettera c).
In particolare, lo Stato delibera e revoca lo stato di emergenza, determinandone durata ed estensione territoriale in stretto riferimento alla qualità ed alla natura degli eventi, ma l’esercizio di questi poteri deve avvenire d’intesa con le Regioni interessate, sulla base di quanto disposto dall’art. 107 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, nonché dall’art. 5, comma 4-bis, del decreto-legge 7 settembre 2001, n. 343, convertito, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 9 novembre 2001, n. 401.
Per l’attuazione dei predetti interventi di emergenza, possono essere adottate ordinanze – anche da parte di Commissari delegati (art. 5, comma 4, della legge n. 225 del 1992; sentenza n. 418 del 1992) – in deroga ad ogni disposizione vigente, nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico (art. 5, comma 2, della stessa legge n. 225 del 1992). Inoltre, l’art. 107, comma 1, lettere b) e c), del d.lgs. n. 112 del 1998 ha chiarito che tali funzioni hanno rilievo nazionale, data la sussistenza di esigenze di unitarietà, coordinamento e direzione, escludendo che il riconoscimento di poteri straordinari e derogatori della legislazione vigente possa avvenire da parte della legge regionale.
In attuazione della normativa sin qui richiamata e, in particolare, dell’articolo 5 della legge n. 225 del 1992, con d.P.C.M. 12 settembre 1997 è stato dichiarato, «fino al 31 dicembre 1998», lo stato di emergenza nella Regione Calabria a causa della crisi socio-economico-ambientale determinatasi nel settore dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani. Tale crisi è dipesa dalla «inadeguatezza infrastrutturale delle discariche preesistenti», che ha fatto insorgere una «situazione straordinaria che presenta peculiarità tali da poter essere considerata estremamente pericolosa per l’ambiente e per la salute della popolazione residente costretta a convivere in un contesto di particolare degrado» (citato d.P.C.M. 12 settembre 1997). Da qui la necessità di far fronte alle gravi carenze strutturali e alla conseguente situazione di emergenza ambientale attraverso l’impiego di mezzi e poteri straordinari.
A questo decreto del Presidente del Consiglio dei ministri ne sono succeduti altri che hanno prorogato lo stato di emergenza nel territorio regionale per periodi variamente determinati, fino alla data del 31 maggio 2006, prevista dall’ultimo dei decreti sopra indicati.
Durante la vigenza della predetta situazione di grave rischio ambientale, il Presidente della Regione Calabria, in qualità di Commissario delegato, ha, con l’ordinanza 29 luglio 2002, n. 1963, autorizzato la realizzazione e l’esercizio sia dell’impianto di smaltimento e stoccaggio di rifiuti solidi urbani sito in Reggio Calabria, località «Sambatello» sia, con ordinanza 17 marzo 2004, n. 2885, gli interventi di potenziamento dell’impianto di termovalorizzazione di Gioia Tauro «localizzato nell’area di sviluppo industriale di Gioia Tauro, Rosarno e San Ferdinando nel Comune di Gioia Tauro».
In questo contesto, il legislatore regionale, in attesa dell’approvazione del nuovo «piano regionale dei rifiuti», con le norme impugnate, ha sospeso gli effetti di entrambe le ordinanze sopra indicate.
La Corte condivide l’assunto dello Stato secondo cui le norme impugnate violerebbero l’art. 117, terzo comma, della Costituzione, ponendosi in contrasto con «i principi fondamentali di cui alla legge n. 225 del 1992 (in particolare gli artt. 2, 5 e 12)» in materia di “protezione civile”, poiché deve ritenersi che essi delimitino il potere normativo regionale, anche sotto il nuovo regime di competenze legislative delineato dopo il 2001.
Lo Stato è, dunque, legittimato a regolamentare – in considerazione della peculiare connotazione che assumono i “principi fondamentali” quando sussistono ragioni di urgenza che giustificano l’intervento unitario del legislatore statale – gli eventi di natura straordinaria anche mediante l’adozione di specifiche ordinanze autorizzate a derogare, in presenza di determinati presupposti, alle stesse norme primarie.
Lo Stato rinviene, altresì, un ulteriore titolo a legiferare in ragione della propria competenza legislativa in materia di “tutela dell’ambiente”, nel cui ambito si colloca il settore relativo alla gestione dei rifiuti, competenza che si connette, tra l’altro, «in modo quasi naturale con la competenza regionale concorrente della “protezione civile”».
Con le impugnate disposizioni il legislatore regionale, pur essendo ancora in atto la situazione di emergenza, ha adottato una normativa destinata ad incidere sugli effetti prodotti dalle ordinanze emanate dal Commissario delegato, così violando i principi fondamentali posti dall’art. 5 della legge n. 225 del 1992, con cui è stato autorizzato in via provvisoria l’esercizio dei predetti poteri di ordinanza.
Deve, inoltre, ribadirsi che, vigente la situazione di emergenza, le Regioni non hanno alcun potere “straordinario” o “derogatorio” della legislazione in vigore, né tantomeno sono legittimate a paralizzare gli effetti di provvedimenti specificamente indirizzati a fronteggiare una situazione di grave crisi ambientale ancora in atto.
Quanto sopra osservato non significa, tuttavia, che l’emergenza possa giustificare «un sacrificio illimitato dell’autonomia regionale»: la salvaguardia delle attribuzioni legislative regionali viene garantita attraverso la configurazione di un potere di ordinanza, eccezionalmente autorizzato dal legislatore statale, ben definito nel contenuto, nei tempi e nelle modalità di esercizio.
La legge n. 225 del 1992, in relazione ai profili indicati, risponde a queste esigenze, circoscrivendo il predetto potere in modo da non compromettere il nucleo essenziale delle attribuzioni regionali, attraverso il riconoscimento della sussistenza di un nesso di adeguatezza e proporzione tra le misure adottate e la qualità e natura degli eventi, la previsione di adeguate forme di leale collaborazione e di concertazione nella fase di attuazione e organizzazione delle attività di protezione civile (art. 5, comma 4-bis, del decreto-legge n. 343 del 2001), nonché la fissazione di precisi limiti, di tempo e di contenuto, all’attività del Commissario delegato.
Nel caso in cui le ordinanze emanate non dovessero rispettare i suddetti limiti sostanziali e procedimentali, posti a presidio delle attribuzioni regionali costituzionalmente garantite, tali ordinanze, avendo natura di provvedimenti amministrativi soggetti ai normali controlli giurisdizionali, potranno essere contestate dalla Regione nelle competenti sedi giudiziarie ed eventualmente, ricorrendone i necessari presupposti, ed anche innanzi alla Corte, mediante ricorso per conflitto di attribuzione.
In conclusione, il legislatore regionale non può utilizzare la potestà legislativa per paralizzare – nel periodo di vigenza della situazione di emergenza ambientale – gli effetti di provvedimenti di necessità ed urgenza, non impugnati, emanati in attuazione delle riportate disposizioni di legge espressive di principi fondamentali.
Analoga ratio decidendi è sottesa alla declaratoria di incostituzionalità, contenuta nella sentenza n. 82, dell’art. 4, comma 4, della legge della Regione Campania 12 novembre 2004, n. 8, promulgata dopo la scadenza dello stato di emergenza (dichiarato dal Consiglio dei ministri in data 11 luglio 2001 e successivamente prorogato con decreti del 2 agosto 2002 e del 12 settembre 2003 fino al 31 luglio 2004), che, nello stanziare un contributo di un milione di euro a favore degli interventi di ripristino e ricostruzione previsti dall’ordinanza del Ministro dell’interno n. 3142 del 2001, prevede espressamente che il Sindaco di Napoli provvede «secondo le procedure e deroghe di cui all’ordinanza stessa».
In sostanza, l’impugnata norma continua ad attribuire al Sindaco di Napoli, dopo la scadenza dello stato di emergenza, il potere di gestire le somme concesse con il solo vincolo di destinazione allo scopo, legittimandolo, per il resto, a derogare alla legislazione statale e regionale vigente.
Per la Corte, ciò contrasta con l’articolo 5 della legge n. 225 del 1992, il quale attribuisce al Consiglio dei ministri il potere di dichiarare lo stato di emergenza in ipotesi di calamità naturali, e prevede che a seguito della dichiarazione di emergenza, e per fare fronte ad essa, lo stesso Presidente del Consiglio dei ministri o, su sua delega, il Ministro dell’interno possano adottare ordinanze in deroga ad ogni disposizione vigente, nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico.
La Corte, peraltro, ricorda che l’art. 107, comma 1, lettere b) e c), del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 chiarisce che tali funzioni hanno rilievo nazionale, escludendo che il riconoscimento di poteri straordinari e derogatori della legislazione vigente possa avvenire da parte di una legge regionale.
Queste ultime due previsioni sono espressive di un principio fondamentale della materia della protezione civile, sicché deve ritenersi che esse delimitino il potere normativo regionale, anche sotto il nuovo regime di competenze legislative delineato dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3.
Nella sentenza n. 182, la Corte dichiara la illegittimità costituzionale dell’art. 105, comma 3, della legge della Regione Toscana n. 1 del 2005, secondo cui, per gli interventi in zona sismica, deve semplicemente darsi preavviso scritto alla struttura regionale competente, allegando il progetto dell’opera, una relazione tecnica e una relazione sulla fondazione (commi 1 e 2), senza che, per iniziare i lavori, sia necessaria l’autorizzazione della struttura regionale, salva la possibilità di controlli a campione da parte delle individuate strutture regionali (art. 110).
È bensì vero che, già a partire dalla legge della Regione Toscana 6 dicembre 1982, n. 88 operava nella Regione l’istituto della denuncia di inizio dell’attività. Questo principio è però venuto meno a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 94 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), il quale prevede l’autorizzazione regionale esplicita. L’intento unificatore della legislazione statale è palesemente orientato ad esigere una vigilanza assidua sulle costruzioni riguardo al rischio sismico, attesa la rilevanza del bene protetto, che trascende anche l’ambito della disciplina del territorio, per attingere a valori di tutela dell’incolumità pubblica che fanno capo alla materia della protezione civile, in cui ugualmente compete allo Stato la determinazione dei principi fondamentali.
L’opzione per una disciplina derogatoria a sistemi di controllo semplificato, ove siano coinvolti interessi primari della collettività, ha ricevuto, infine, conferma dall’art. 3 del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 14 maggio 2005, n. 80, che, generalizzando – a modifica dell’art. 19 della legge 7 agosto 1990, n. 241 – il regime della denuncia di inizio attività, esclude tuttavia dalla procedura semplificata «gli atti rilasciati dalle amministrazioni preposte alla tutela della salute e della pubblica incolumità».
Pertanto l’art. 105, comma 3, della legge della Regione Toscana n. 1 del 2005 è illegittimo, in considerazione del mancato rispetto della norma statale di principio sul controllo delle costruzioni a rischio sismico, nella parte in cui non dispone che non si possono iniziare lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della Regione.
Sempre con riferimento alla materia «protezione civile», con la sentenza n. 129 viene rigettata la questione avverso l’art. 19, comma 2, lettera b), n. 2, e l’art. 10, comma 1, lettera d), in quanto attribuiscono alla Regione, e non allo Stato, la predisposizione degli indirizzi e dei criteri generali per il riassetto del territorio ai fini della prevenzione dei rischi geologici, idrogeologici e sismici, nonché delle direttive per la prevenzione del rischio sismico.
La Corte rileva nuovamente che, in materia di prevenzione dei rischi, la legislazione nazionale vigente configura un sistema composito di competenze, ordinato secondo il criterio della maggiore o minore generalità degli indirizzi, in base al quale ciascun livello di governo deve contenere l’esercizio dei propri poteri all’interno degli indirizzi dettati su più vasta scala dal livello superiore.
Alla luce del criterio prima indicato, si può osservare che l’art. 107 del d.lgs. n. 112 del 1998 attribuisce allo Stato «gli indirizzi per la predisposizione e l’attuazione dei programmi di previsione e prevenzione in relazione alle varie ipotesi di rischio». Le norme regionali impugnate attribuiscono alla Giunta regionale la definizione degli indirizzi per il riassetto del territorio, «ai fini della prevenzione dei rischi geologici e idrogeologici e della loro mitigazione». Gli indirizzi in parola devono però confluire nel piano territoriale regionale, il quale costituisce «atto fondamentale di indirizzo, agli effetti territoriali, della programmazione di settore della Regione, nonché di orientamento della programmazione e pianificazione territoriale dei Comuni e delle Province» Dall’esame della normativa statale e regionale in materia emerge che la Regione ha solo voluto disciplinare l’esercizio delle funzioni di prevenzione dei rischi nell’ambito del proprio territorio. Ciò non implica un’invasione della sfera di competenza dello Stato, in quanto la mancanza dell’esplicita menzione dell’obbligo di rispetto degli indirizzi nazionali non comporta la loro violazione, che dovrà essere eventualmente accertata nelle singole norme e nei singoli atti.
Per quanto riguarda l’individuazione delle zone sismiche, bisogna rilevare che l’art. 83 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, dispone: «Le regioni, sentite le province e i comuni interessati, provvedono alla individuazione delle zone dichiarate sismiche [...], alla formazione e all’aggiornamento degli elenchi delle medesime zone e dei valori attribuiti ai gradi di sismicità, nel rispetto dei criteri generali di cui al comma 2». Tale ultima disposizione richiamata stabilisce che il Ministro per le infrastrutture ed i trasporti, di concerto con il Ministro per l’interno, sentiti il Consiglio superiore dei lavori pubblici, il Consiglio nazionale delle ricerche e la Conferenza unificata, determina con proprio decreto «i criteri generali per l’individuazione delle zone sismiche e dei relativi valori differenziati del grado di sismicità da prendere a base per la determinazione delle azioni sismiche e di quant’altro specificato dalle norme tecniche».
Come si vede, il quadro normativo sistematico di allocazione delle competenze ai vari livelli di governo è chiaro e non risulta contraddetto dalla norma regionale impugnata, che deve essere interpretata nel contesto ora richiamato.
Anche con la sentenza n. 323 la Corte respinge le censure (nella specie, avverso gli artt. 1, 2, 4, 20, 23 e 24 della legge della Regione Emilia-Romagna 7 febbraio 2005, n. 1) motivate dall’asserito contrasto con i principi fondamentali nella materia concorrente della «protezione civile».
Al riguardo, la Corte ritiene che le norme impugnate, così come tutta la legge regionale, hanno ad oggetto soltanto gli eventi calamitosi (incidenti comunque sul solo territorio regionale) fronteggiabili con gli interventi di cui alle lettere a) e b) dell’art. 2, comma 1, della legge n. 225 del 1992, e non anche le calamità naturali, catastrofi o altri eventi destinati, per intensità ed estensione, ad essere fronteggiati con mezzi e poteri straordinari dello Stato (ex art. 2, comma 1, lettera c, della stessa legge), nel rispetto della sfera di competenza ad esso attribuita dai principi fondamentali della materia concorrente in esame.
Nella sentenza n. 32, la Corte esamina il ricorso dello Stato avverso l’art. 6, comma 3, in relazione all’art. 3, comma 1, lettera a), della legge della Regione Marche 4 ottobre 2004, n. 18. Ad avviso del ricorrente, la norma impugnata, nello stabilire che l’elaborazione, l’approvazione e l’attuazione del piano di emergenza esterno sono effettuati dalla Provincia, sentiti la Regione, l’ARPAM, l’ufficio territoriale del Governo, il comando dei vigili del fuoco competente per territorio, il Comune interessato e gli enti che concorrono nella gestione delle emergenze si porrebbe in contrasto con i principi fondamentali della materia.
La Corte, motivando sulla base di uno specifico precedente giurisprudenziale (sentenza n. 214 del 2005), ricorda che l’art. 18 del d.lgs. n. 334 del 1999 – da ritenersi legge-quadro in materia anche dopo la riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione – ha attribuito alla Regione la disciplina dell’esercizio delle competenze amministrative in materia di incidenti rilevanti, con il compito di individuare le autorità titolari delle funzioni stesse, competenti ad emanare i provvedimenti discendenti dall’istruttoria tecnica, e di stabilire le modalità per l’adozione di questi ultimi, prevedendo la semplificazione dei procedimenti ed il raccordo con il procedimento di valutazione di impatto ambientale. Si rileva, infatti, nella sentenza citata che «è evidente […] che è la stessa normativa statale a consentire interventi sulle competenze amministrative da parte della legge regionale»; inoltre, «è lo stesso art. 20 del d.lgs. n. 334 del 1999 [...] a porre (ultimo comma) come limite della sua vigenza l’attuazione dell’art. 72 del d.lgs. n. 112 del 1998, il quale conferisce alla Regione le competenze amministrative in materia, fra l’altro, di adozione di provvedimenti in tema di controllo dei pericoli da incidenti rilevanti, discendenti dall’istruttoria tecnica». La pronuncia conclude nel senso che l’attribuzione alla Provincia, da parte della Regione, di una competenza amministrativa ad essa attribuita dal suddetto art. 72 del d.lgs. n. 112 del 1998, «non solo non viola la potestà legislativa dello Stato (sentenza n. 259 del 2004), ma costituisce applicazione di quanto alla Regione consente la stessa legge statale, sia pure in attesa dell’accordo di programma previsto dalla norma statale».
La ratio decidendi della sentenza n. 214 del 2005 si attaglia perfettamente al presente giudizio e vale, pertanto, a sostenere la dichiarazione di non fondatezza della questione riguardante la norma della Regione Marche impugnata dal Presidente del Consiglio dei ministri.

4.2.6. «Governo del territorio»

Con la sentenza n. 49, la Corte esamina numerose disposizioni regionali aventi ad oggetto la disciplina del condono edilizio straordinario del 2003, ed emanate ai sensi dell’art. 32, commi 26 e 33, del decreto-legge n. 269 del 2003, così come modificato dalla legge di conversione n. 326 del 2003, come risultante a seguito della pronuncia di parziale illegittimità costituzionale operata con la sentenza n. 196 del 2004, cui ha dato esplicitamente esecuzione l’art. 5 del decreto-legge n. 168 del 2004, convertito dalla legge n. 191 del 2004.
Nella citata sentenza n. 196 del 2004, la Corte ha affermato che nella disciplina del condono edilizio di tipo straordinario convergono la competenza legislativa esclusiva dello Stato per quanto riguarda la esenzione dalla sanzionabilità penale e la competenza legislativa di tipo concorrente delle Regioni ad autonomia ordinaria in tema di «governo del territorio», nonché la tradizionale titolarità da parte dei Comuni dei fondamentali poteri di gestione dell’assetto urbanistico ed edilizio del territorio. Da ciò la conclusione «che, in riferimento alla disciplina del condono edilizio (per la parte non inerente ai profili penalistici) solo alcuni limitati contenuti di principio di questa legislazione possono ritenersi sottratti alla disponibilità dei legislatori regionali, cui spetta il potere concorrente di cui al nuovo art. 117 Cost. (ad esempio certamente la previsione del titolo abilitativo edilizio in sanatoria di cui al comma 1 dell’art. 32, il limite temporale massimo di realizzazione delle opere condonabili, la determinazione delle volumetrie massime condonabili). Per tutti i restanti profili è invece necessario riconoscere al legislatore regionale un ruolo rilevante di articolazione e specificazione delle disposizioni dettate dal legislatore statale in tema di condono sul versante amministrativo».
Su questa base, le numerose dichiarazioni di parziale illegittimità dell’art. 32 erano esplicitamente finalizzate ad eliminare le limitazioni che «escludono il legislatore regionale da ambiti materiali che invece ad esso spettano». In particolare, la Corte ha «dichiarato costituzionalmente illegittimo anzitutto il comma 26 dell’art. 32, nella parte in cui non prevede che la legge regionale possa determinare la possibilità, le condizioni e le modalità per l’ammissibilità a sanatoria di tutte le tipologie di abuso edilizio di cui all’Allegato 1 del decreto-legge n. 269 del 2003». Analoga dichiarazione di illegittimità costituzionale ha pronunziato in relazione al «comma 25 dell’art. 32, nella parte in cui non prevede che la legge regionale di cui al comma 26 possa determinare limiti volumetrici inferiori a quelli indicati nella medesima disposizione».
La sentenza n. 70 del 2005 ha chiaramente ribadito che ciò che esula dalla potestà delle Regioni è il «potere di rimuovere i limiti massimi di ampiezza del condono individuati dal legislatore statale».
Su un diverso piano, la sentenza n. 196 del 2004, ha affermato che «l’adozione della legislazione da parte delle Regioni appare non solo opportuna, ma doverosa e da esercitare entro il termine determinato dal legislatore nazionale; nell’ipotesi limite che una Regione o Provincia autonoma non eserciti il proprio potere legislativo in materia nel termine massimo prescritto, non potrà che trovare applicazione la disciplina dell’art. 32 e dell’Allegato 1 del decreto-legge n. 269 del 2003».
Tanto premesso, la Corte dichiara incostituzionali le disposizioni riguardanti l’art. 1, l’art. 3, l’art. 4, l’art. 6, commi 1, 2 e 5, e l’art. 8 della legge della Regione Campania n. 10 del 2004, in quanto sarebbero state adottate oltre il termine di quattro mesi dalla data di entrata in vigore del decreto-legge n. 168 del 2004, così come convertito nella legge n. 191 del 2004, secondo quanto prescritto dall’art. 5, comma 1, del suddetto decreto.
La prescrizione del termine di quattro mesi da parte dell’art. 5, comma 1, del decreto legge n. 168 del 2004 dà, infatti, attuazione a quanto espressamente statuito dal dispositivo della sentenza n. 196 del 2004, il quale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 32, decreto-legge n. 269 del 2003 «nella parte in cui non prevede che la legge regionale di cui al comma 26 debba essere emanata entro un congruo termine da stabilirsi dalla legge statale», termine configurato come perentorio.
Non fondate risultano poi numerose questioni in cui si contesta la riduzione, da parte delle disposizioni legislative impugnate, dell’ambito della sanatoria straordinaria, sia mediante l’esclusione dal condono sul versante amministrativo di talune tipologie di abusi edilizi, sia mediante la riduzione dei limiti quantitativi delle volumetrie condonabili, sia infine mediante l’introduzione, ai fini della sanabilità di taluni interventi, di ulteriori condizioni rispetto a quelle previste dall’art. 32 del decreto-legge n. 269 del 2003. Le censure, nel loro complesso, esprimono la tesi che una legislazione regionale che disciplini i profili amministrativi del condono edilizio non potrebbe comunque produrre indirettamente una riduzione significativa delle entrate erariali ed un conseguente squilibrio della complessiva finanza pubblica, la cui disciplina sarebbe di esclusiva competenza statale, ponendo quindi anche a rischio il rispetto, da parte delle istituzioni nazionali, dei vincoli europei sulla spesa pubblica.
Per la Corte tali doglianze prescindono dal livello di tutela costituzionale dell’autonomia legislativa regionale che ivi è previsto e non tengono conto del fatto che i limiti a tale autonomia non possono che essere espressi, e ciò tanto più ove ci si riferisca ad effetti indiretti derivanti dall’uso che una Regione faccia della propria discrezionalità legislativa. In altri termini, è del tutto evidente che, allorché il legislatore regionale eserciti le proprie competenze legislative costituzionalmente riconosciute, non possa attribuirsi rilievo, ai fini dell’eventuale illegittimità costituzionale di tale intervento, agli effetti che solo in via indiretta ed accidentale dovessero derivare al gettito di entrate di spettanza dello Stato.
Del pari infondate sono le censure secondo le quali sarebbe grave la lesione della competenza esclusiva ex art. 117 comma secondo, lettera l), Cost.», poiché i giudici comuni, dinanzi alla «eccessiva restrizione» da parte del legislatore regionale dell’ambito della legislazione statale in tema di condono edilizio sarebbero obbligati «a rendere, a carico dei proprietari ed autori di illeciti pronunce quanto meno asistematiche».
Replica la Corte che i profili relativi alla disciplina del condono straordinario sul piano amministrativo operano nell’ambito della materia del governo del territorio; ciò significa che la legislazione delle singole Regioni può disporre diversamente da quanto previsto dall’art. 32 del decreto-legge n. 269 del 2003, quale convertito dalla legge n. 326 del 2003, e che non è certo incoerente rispetto al disegno costituzionale che siano adottate legislazioni diversificate da Regione a Regione, con tutto ciò che ne consegue per gli interessati e per le pronunce giurisdizionali che facciano applicazione di tale disciplina.
Altresì infondata è la questione circa la sanabilità delle nuove costruzioni residenziali di relativamente modeste dimensioni realizzate in contrasto con gli strumenti urbanistici, ritenuta principio cui ogni Regione deve attenersi e che i limiti ulteriori rispetto a quelli del legislatore statale non possono essere previsti perché non sorretti da un «principio determinato dal legislatore statale». Secondo lo Stato ricorrente, la Regione potrebbe «specificare i limiti (quantitativi e non) della sanabilità, e perfino “limare” entro margini di ragionevole tollerabilità le volumetrie massime previste del legislatore statale»; non potrebbe, invece, «negare in toto o in misura prevalente (rispetto al quantum di volumetria ammesso dalla legge statale) la sanabilità delle nuove costruzioni o degli ampliamenti».
Replica la Corte che il punto centrale della sentenza n. 196 del 2004 sta nel riconoscimento al legislatore regionale di un ampio potere discrezionale nella definizione dei confini entro cui modulare gli effetti sul piano amministrativo del condono edilizio straordinario. Ciò in ragione delle primarie responsabilità legislative ed amministrative spettanti sulla base delle norme costituzionali alle Regioni e agli enti locali in relazione al governo del territorio.
Ma soprattutto occorre considerare che la pronuncia citata ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma 25 dell’art. 32 proprio nella parte in cui non prevedeva «che la legge regionale di cui al comma 26 po[tesse] determinare limiti volumetrici inferiori a quelli ivi indicati»; ha inoltre dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma 26 dell’art. 32, nella parte in cui non prevedeva «che la legge regionale po[tesse] determinare la possibilità, le condizioni e le modalità per l’ammissibilità a sanatoria di tutte le tipologie di abuso edilizio di cui all’Allegato 1».
Pertanto, non esistono nella legislazione statale vigente principi fondamentali quali quelli prospettati nei ricorsi.
Risultano poi infondate le censure sollevate a proposito dell’art. 32 della legge della Regione Emilia-Romagna n. 23 del 2004. Non costituisce, infatti, irragionevole scelta legislativa la subordinazione da parte della Regione della condonabilità delle opere abusive alla ulteriore condizione che le medesime non siano state realizzate con contributi pubblici erogati successivamente all’ultimo condono, ovvero che non abbiano già beneficiato di precedenti condoni, volendosi evidentemente in tal modo penalizzare la reiterazione di comportamenti illeciti, nonché l’utilizzo di denaro pubblico per la realizzazione di opere abusive.
Non sussiste altresì alcuna lesione del principio di autonomia degli enti locali da parte dell’art. 33, comma 4, della legge della Regione Emilia-Romagna n. 23 del 2004, che impone che edifici con destinazione d’uso non abitativa possano essere condonati solo se mantengono per venti anni questo tipo di destinazione. In questa ipotesi, si tratta, secondo la Corte, di una disposizione che non vieta l’esercizio da parte degli enti locali del potere di ridefinire le destinazioni d’uso, ma incide soltanto sulla possibilità che coloro che abbiano beneficiato del condono in relazione ad immobili destinati ad usi non abitativi possano successivamente mutarne la destinazione d’uso, aggirando la relativa disciplina.
Viene poi respinta anche la censura avverso l’art. 2, comma 6, della legge della Regione Toscana perché ritenuto in contrasto «con il principio di eguaglianza, irrazionalmente leso dalla facoltà (e dalla attuale minaccia) di travolgere in futuro ed in modo discrezionale l’affidamento del cittadino che autodenuncia l’abuso edilizio. Al contrario, ad avviso della Corte, la norma regionale disciplina semplicemente la sanatoria delle opere realizzate su aree sulle quali siano stati apposti, dopo l’entrata in vigore della legge regionale, i vincoli di inedificabilità assoluta di cui all’art. 33 della legge n. 47 del 1985 ovvero i vincoli idrogeologici, ambientali e paesistici, relativi a parchi e aree protette di cui all’art. 32 della medesima legge, subordinandola al parere favorevole dell’autorità preposta al vincolo, in tal modo dando rilevanza anche ai vincoli imposti successivamente alla realizzazione dell’intervento abusivo secondo l’oramai consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa.
Vengono invece condivise la censure volte a contestare sostanzialmente l’effetto di ampliamento degli interventi ammessi alla sanatoria amministrativa che verrebbe a determinarsi sulla base di alcune disposizioni delle leggi regionali impugnate.
L’art. 26, comma 4, della legge della Regione Emilia-Romagna n. 23 del 2004 individua un’ipotesi di condono avente ad oggetto opere edilizie autorizzate e realizzate anteriormente alla legge 28 gennaio 1977, n. 10 (Norme per la edificabilità dei suoli), che presentino difformità esecutive. Tale disposizione ha contenuto più ampio rispetto alla normativa statale, prevedendo anche che in quest’ambito la sanatoria intervenga ope legis, dunque a prescindere dalla specifica richiesta e dalla concessione del titolo abilitativo in sanatoria.
La questione risulta fondata, in quanto le Regioni non possono rimuovere i limiti massimi fissati dal legislatore statale, e, tra i principi fondamentali cui esse devono attenersi, vi è quello proprio a fini di certezza delle situazioni giuridiche, della previsione del titolo abilitativo in sanatoria al termine dello speciale procedimento disciplinato dalla normativa statale.
Egualmente incostituzionale si rivela l’art. 3 della legge della Regione Marche n. 23 del 2004, che determina i limiti per il conseguimento del condono amministrativo con disposizioni che in genere riducono le volumetrie massime, senza però ripetere tutti i limiti massimi determinati dal comma 25 dell’art. 32 del decreto-legge n. 269 del 2003 (30% della volumetria originaria della costruzione ampliata, 3.000 metri cubi complessivi per le nuove costruzioni residenziali). In realtà, secondo la Corte, con riguardo all’ampliamento degli immobili non residenziali, la disposizione regionale determina il limite in relazione (non già al volume, ma) al diverso criterio della superficie realizzabile. Pertanto rende possibile, per gli immobili non residenziali, la realizzazione di ampliamenti superiori a quelli massimi previsti dalla normativa statale.
Con riguardo alla realizzazione di nuove costruzioni residenziali, l’art. 3 della legge regionale n. 23 del 2004, pur individuando limiti più rigorosi in relazione alla singola unità immobiliare ammessa a sanatoria, non pone alcuna limitazione alla volumetria complessiva della nuova costruzione. In tal modo, la disposizione censurata rende possibile che la nuova costruzione residenziale superi il limite complessivo di 3.000 metri cubi stabilito dall’art. 32, comma 25, del decreto-legge n. 269 del 2003 per tale tipologia di interventi.
Infondate si rivelano, invece, le questioni riguardanti la legge della Regione Emilia-Romagna n. 23 del 2004, che, all’art. 29, comma 2, prevede che, ove «in sede di definizione della domanda di sanatoria o di controlli successivi alla stessa sia accertato che la asseverazione del professionista abilitato […] contenga dichiarazioni non veritiere, rilevanti ai fini del conseguimento del titolo», si applica il terzo comma dell’art. 8 della stessa legge, il quale dispone che «l’Amministrazione comunale ne dà notizia all’Autorità giudiziaria nonché al competente Ordine professionale, ai fini dell’irrogazione delle sanzioni disciplinari».
Replica la Corte che le due norme si limitano a prevedere un generico obbligo dell’amministrazione pubblica di comunicazione della notizia di dichiarazioni non veritiere all’autorità giudiziaria e all’ordine professionale, evidentemente perché questi verifichino, rispettivamente, la eventuale sussistenza di reati o di illeciti disciplinari, senza peraltro incidere in alcun modo sulla disciplina penale, ovvero sulla disciplina delle professioni.
L’ultima questione ha ad oggetto l’art. 20, comma 1, lettera c), della legge della Regione Umbria n. 21 del 2004; dal momento che in una disposizione che individua le opere condonabili è contenuto un riferimento alla data del 2 ottobre 2003, l’Avvocatura generale nel dubbio che la data possa essere riferita alla data di ultimazione delle opere condonabili, fissata al 31 marzo 2003 dall’art. 32 del decreto-legge n. 269 del 2003, l’ha impugnata «per grave contrasto con il fondamentale principio posto dall’art. 32, comma 25, del citato decreto-legge».
La questione non è fondata, in quanto dal tenore letterale della disposizione impugnata emerge chiaramente che la data del 2 ottobre 2003 è riferita alla vigenza delle norme urbanistiche e degli strumenti urbanistici rispetto ai quali devono essere valutati gli interventi, e non già all’epoca di realizzazione degli stessi. Quest’ultima è, infatti, fissata dallo stesso art. 20, comma 1, primo periodo, al 31 marzo 2003, in conformità con quanto disposto dall’art. 32, del decreto-legge n. 269 del 2003.
La materia «governo del territorio» viene in rilievo anche in altre decisioni rese nel corso del 2006.
Nella sentenza n. 129, la Corte dichiara l’incostituzionalità dell’art. 27, comma 1, lettera e), n. 4, della legge regionale della Lombardia n. 12 del 2005, in quanto sottopongono l’installazione di torri e tralicci per impianti di radio-ricetrasmittenti e di ripetitori per i servizi di telecomunicazione ad un iter autorizzatorio comunale (rilascio del permesso di costruire) ulteriore rispetto a quello già previsto dalle disposizioni contenute nell’art. 87 del d.lgs. n. 259 del 2003 (Codice delle comunicazioni elettroniche).
Con tali norme il legislatore nazionale ha posto la tempestività delle procedure e la riduzione dei termini per l’autorizzazione all’installazione delle infrastrutture di cui sopra come principi fondamentali operanti nella materia «governo del territorio», di competenza legislativa concorrente. La confluenza in un unico procedimento dell’iter finalizzato all’ottenimento dell’autorizzazione a costruire tali impianti risponde pertanto ai principi generali sopra richiamati perché, come ha osservato il Consiglio di Stato (sezione VI, sentenza n. 4159 del 2005), le «esigenze di tempestività e contenimento dei termini resterebbero vanificate se il nuovo procedimento venisse ad abbinarsi e non a sostituirsi a quello previsto in materia edilizia».
Bisogna aggiungere che l’unificazione dei procedimenti non priva l’ente locale del suo potere di verificare la compatibilità urbanistica dell’impianto per cui si chiede l’autorizzazione. La tutela del territorio e la programmazione urbanistica sono salvaguardate dalle norme statali in vigore ed affidate proprio agli enti locali competenti, i quali, al pari delle Regioni, non vengono perciò spogliati delle loro attribuzioni in materia, ma sono semplicemente tenuti ad esercitarle all’interno dell’unico procedimento previsto dalla normativa nazionale, anziché porre in essere un distinto procedimento.
Si deduce che la previsione di un ulteriore procedimento finalizzato al rilascio del permesso di costruire, che si sovrappone ai controlli da effettuarsi a cura dello stesso ente locale nell’ambito del procedimento unificato, costituisce un inutile appesantimento dell’iter autorizzatorio per l’installazione di torri e tralicci per impianti radio-ricetrasmittenti e di ripetitori per i servizi di telecomunicazione, in contrasto con le esigenze di tempestività e di contenimento dei termini, da ritenersi, con riferimento a questo tipo di costruzioni, principi fondamentali di governo del territorio. Da ciò consegue l’illegittimità costituzionale delle norme regionali impugnate per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost.
Analoga la ratio decidendi viene utilizzata, nella sentenza n. 265, per la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 14 della legge della Regione Veneto 25 febbraio 2005, n. 8, dove si prevede che per l’autorizzazione all’installazione, modifica ed adeguamento degli impianti di telefonia mobile, il richiedente debba ottenere sia l’autorizzazione, prevista dall’art. 87 del decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche), «ai fini della verifica di compatibilità igienico-sanitaria», sia il permesso di costruire, ai sensi degli artt. 3 e 10 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), «ai fini della conformità urbanistica ed edilizia».
Al riguardo, la Corte sottolinea che l’art. 87 del d.lgs. n. 259 del 2003 ha dettato, in linea con le prescrizioni comunitarie, una disciplina volta a promuovere la semplificazione dei procedimenti attraverso l’adozione di procedure che siano, tra l’altro, uniformi e tempestive, anche al fine di garantire l’attuazione delle regole della concorrenza.
Le suddette esigenze di celerità e la conseguente riduzione dei termini per l’autorizzazione all’installazione delle infrastrutture di comunicazione elettronica costituiscono, per finalità di tutela di istanze unitarie, “principi fondamentali” operanti nelle materie di competenza ripartita (“ordinamento della comunicazione”, “governo del territorio”, “tutela della salute”: sentenza n. 336 del 2005), che, unitamente ad altri ambiti materiali di esclusiva spettanza statale, rappresentano i titoli di legittimazione ad intervenire nel settore in esame.
La sussistenza di un unico procedimento, quale prefigurato dall’art. 87 del Codice, cui non si affianca quello in materia edilizia, risponde, pertanto, pienamente ai suddetti principi. Specularmente, è contraria agli stessi la previsione contemplata dal censurato art. 14 della legge reg. n. 8 del 2005, che ritiene necessaria l’attivazione di un ulteriore e autonomo procedimento volto ad ottenere il rilascio di un titolo abilitativo per fini edilizi. In altri termini, la duplicazione dei titoli autorizzatori e, quindi, di ciascun iter procedimentale, determinerebbe una evidente compromissione di quelle esigenze di tempestività e semplificazione che assurgono al rango di principi fondamentali del settore.

4.2.7. «Produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia»

La Corte, con la sentenza n. 246, rileva che l’art. 2, comma 1, lettera k), della legge della Regione Emilia-Romagna 23 dicembre 2004, n. 26 (Disciplina della programmazione energetica territoriale ed altre disposizioni in materia di energia), nel richiamare gli indirizzi definiti dalla Giunta regionale ai sensi del comma 3, vale a dire gli «indirizzi di sviluppo del sistema elettrico regionale volti a garantire, anche nel medio termine, il raggiungimento ed il mantenimento di condizioni di sicurezza, continuità ed economicità degli approvvigionamenti in quantità commisurata al fabbisogno interno», non viola i principi fondamentali di cui alla legge 23 agosto 2004, n. 239.
Secondo la Corte, il ricorrente muove da una lettura della disposizione regionale impugnata secondo la quale, nel fare riferimento al «fabbisogno interno regionale» senza considerare quello nazionale, essa presupporrebbe che la rete regionale operi autonomamente, non tenendo conto del quadro nazionale e delle esigenze della rete unica.
In realtà, la disposizione censurata richiama l’art. 2, comma 3, della medesima legge regionale, il quale prevede espressamente che la Giunta regionale, nel predisporre gli indirizzi di sviluppo del sistema elettrico regionale, tenga conto, tra l’altro, proprio dello sviluppo della rete nazionale.
Inoltre, lo stesso art. 2, comma 3, sembra dare attuazione alle disposizioni statali evocate dal ricorrente come parametro interposto. Innanzitutto, le finalità che devono essere perseguite dalla Giunta regionale nella determinazione degli indirizzi di sviluppo del sistema elettrico regionale sono proprio gli obiettivi generali della politica energetica del Paese, individuati dall’art. 1 della legge n. 239 del 2004 ed il cui conseguimento, secondo tale disposizione, deve essere assicurato sulla base dei principi di sussidiarietà, di differenziazione, di adeguatezza e di leale collaborazione sia dallo Stato, che dalle Regioni che dagli enti locali (art. 1, comma 3, della legge n. 239 del 2004).
Anche la asserita violazione del principio sancito dall’art. 1, comma 4, lettera d), della legge n. 239 del 2004, è priva di fondamento, poiché tale disposizione, assegna espressamente anche alle Regioni il compito di garantire l’adeguatezza delle attività energetiche strategiche di produzione, trasporto e stoccaggio per assicurare adeguati standard di sicurezza e di qualità del servizio.
La disposizione regionale impugnata, pertanto, non solo non è in contrasto con i principi fondamentali della materia, ma, anzi, costituisce specifica attuazione di quanto previsto dalla norma statale, sia pure con limitato riferimento al proprio ambito naturale, e cioè a quello relativo al sistema elettrico regionale.
L’art. 20, comma 1, della stessa legge della Regione Emilia-Romagna n. 26 del 2004, il quale, nel prevedere direttamente la possibilità di mettere fuori uso gli impianti di generazione di energia elettrica superiori a 10 MVA, non viola la normativa statale, la quale soltanto sarebbe competente a determinarli, dovendo esserne assicurata l’omogeneità su tutto il territorio nazionale al fine di garantire la sicurezza della rete nazionale. Dalla disamina della legislazione statale e regionale emerge che l’art. 20 della legge regionale impugnata fa riferimento unicamente agli impianti di produzione di energia che rientrano nell’ambito delle competenze provinciali e regionali, mentre fa espressamente salve «le competenze riservate allo Stato dalle disposizioni legislative vigenti» (art. 2, comma 1, lettera j). Risulta, infatti, che essa non prevede alcun criterio per la messa fuori servizio degli impianti limitandosi solo a specificare quale sia l’autorità competente al riguardo.
Con riferimento al medesimo titolo competenziale di tipo concorrente, con la sentenza n. 248, la Corte respinge la questione avverso gli articoli 13 e 26 della legge della Regione Toscana 24 febbraio 2005, n. 39, che consentono alla Regione di subordinare il rilascio o la modifica dell’autorizzazione per gli impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili ad accordi relativi all’esecuzione di un programma di misure di compensazione e riequilibrio ambientale. Il supposto contrasto con il principio fondamentale espresso dalla legge n. 239 del 2004 e dal d.lgs. n. 387 del 2003, in base ai quali il rilascio o la modifica della suddetta autorizzazione «non può essere subordinata né prevedere misure di compensazione a favore delle Regioni e delle Province» non sussiste. La Corte, infatti, con la sentenza n. 383 del 2005 (pronunciata successivamente al ricorso che ha originato il giudizio), ha dichiarato «la illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 4, lettera f), della legge n. 239 del 2004, limitatamente alle parole “con esclusione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili”», di modo che, attualmente, questa disposizione prevede la possibilità che possano essere determinate dallo Stato o dalle Regioni «misure di compensazione e di riequilibrio ambientale e territoriale» in riferimento a «concentrazioni territoriali di attività, impianti ed infrastrutture ad elevato impatto territoriale», anche con specifico riguardo alle opere in questione.
Per la Corte, le Regioni possono legittimamente perseguire obiettivi di adattamento alla realtà locale dei diversi profili della fornitura di energia, nella misura in cui non vengano pregiudicati gli assetti nazionali del settore energetico e gli equilibri su cui esso si regge nel suo concreto funzionamento: le disposizioni impugnate possono quindi essere interpretate come riferite alle sole attribuzioni compatibili con le esigenze del complessivo sistema energetico nazionale.
La Corte, nell’esaminare l’art. 28, commi 1, 3, 4 e 5, della legge della Regione Toscana 24 febbraio 2005, n. 39, nella parte in cui si consente alle «amministrazioni competenti» di sovrapporre alle concessioni di distribuzione contratti di servizio con i concessionari del servizio di approvvigionamento e distribuzione di energia, ovvero di procedere direttamente all’erogazione del servizio, ritiene fondata la questione concernente la violazione del principio concessorio limitatamente all’attività di distribuzione dell’energia. La disposizione, infatti, è formulata in termini così ampi da consentire alle amministrazioni locali di disciplinare in forma esclusiva il servizio di distribuzione energetica mediante il contratto di servizio, che viene in tal modo non ad accedere alla concessione ma a sostituirla, quale necessario titolo di conferimento dello stesso.
Vige, invece, nell’ordinamento il principio fondamentale (art. 1, comma 2, lettera c, della legge n. 239 del 2004), secondo cui l’attività distributiva dell’energia è attribuita «in concessione», principio che non è stato scalfito, pur a fronte del rafforzamento delle competenze regionali, assicurato, in sede di definizione dei criteri generali per le nuove concessioni, dalla necessità della previa intesa con la Conferenza unificata di cui all’art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281 Tanto più appare illegittimo il comma 5 della disposizione impugnata, che prevede la possibilità dell’esercizio diretto del servizio, senza espressa menzione del necessario titolo di concessione.
Egualmente incostituzionale si rivela l’art. 29 della stessa legge, nella parte in cui consente di incidere sul regime delle concessioni di distribuzione di energia in vigore, integrandone o sostituendone i «disciplinari», ovvero formulando indicazioni vincolanti per il concessionario.
La Corte sottolinea che l’art. 1, comma 33, della legge n. 239 del 2004 prevede espressamente che sono fatte salve le concessioni di distribuzione dell’energia elettrica in essere, ivi compresa, per quanto riguarda l’attività di distribuzione, la concessione di cui all’art. 14, comma 1, del decreto legge 11 luglio 1992, n. 333, riservando al Ministro delle attività produttive il potere di «proporre modifiche e variazioni delle clausole contenute nelle relative convenzioni». La Corte, inoltre, ricorda di avere già rilevato (sentenza n. 383 del 2005), che tale disposizione, contiene «una norma transitoria relativa alla mera gestione della fase di passaggio dal precedente regime all’attuale», che mira a garantire «la certezza dei rapporti giuridici già instaurati dai concessionari dell’attività di distribuzione dell’energia» e che, comunque, si riferisce a concessioni di distribuzione di energia elettrica «relative ad ambiti territoriali largamente eccedenti quelli delle singole Regioni».
Per le medesime ragioni, deve ritenersi precluso alla normativa regionale di incidere sul regime delle concessioni statali di distribuzione già rilasciate, contraddicendo il principio fondamentale accolto dalla legislazione dello Stato circa la salvezza dei titoli concessori «in essere», ferma rimanendo, ovviamente, l’eventuale procedura di revisione delle convenzioni, facente capo al Ministro delle attività produttive e prevista dalla legislazione statale.
Incostituzionale si rivela anche l’art. 30, comma 1, della legge, che consente di attribuire la qualifica di «cliente idoneo» ad ogni cliente finale, a partire dal 1° gennaio 2006.
L’art. 14, comma 5-quinquies, del d.lgs. n. 79 del 1999 stabilisce che alla data del 1° luglio 2007 ogni cliente finale sia «cliente idoneo» (e cioè libero di acquistare energia elettrica dal fornitore di propria scelta); questo termine corrisponde al termine indicato dall’art. 21 della direttiva 2003/54/CE, affinché gli Stati membri provvedano in tal senso.
La Corte ritiene che, anche prescindendo dal dibattito relativo alla possibilità o meno, sulla base della normativa comunitaria, che questa data possa essere anticipata, la sua intervenuta fissazione al 1° luglio 2007 ad opera del legislatore statale appare giustificata dalla necessità di garantire in modo adeguato ed in forma bilanciata la tutela dei consumatori e il processo di liberalizzazione del mercato elettrico nazionale, anche con riguardo alle funzioni dell’acquirente unico.
In questi termini, la determinazione uniforme della data dalla quale tutti i clienti finali possono «stipulare contratti di fornitura con qualsiasi produttore, distributore o grossista, sia in Italia che all’estero», assume le caratteristiche di un principio fondamentale (per quanto transitorio) della materia «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia», con il quale la norma regionale si pone in evidente contrasto.
La Corte non ravvisa, invece, alcuna violazione delle competenze statali nell’art. 33 della legge, nella parte in cui prevede una competenza regionale e locale in punto di reclami dei consumatori, in quanto la norma si limita a prevedere che Regioni ed enti locali possano valutare segnalazioni e reclami dei consumatori, delle loro organizzazioni, delle imprese e delle parti sociali, anche pubblicizzando le proprie conseguenti valutazioni in materia, e cercare di garantire «l’efficacia delle segnalazioni e dei reclami». Tale carattere dell’attività configurata e l’assenza di ogni elemento da cui possa derivare una riduzione delle attribuzioni dell’Autorità per l’energia elettrica ed il gas, o addirittura l’alterazione del sistema energetico e del suo mercato, rendono palesemente infondati tutti i profili di censura.
Non viola altresì alcun principio fondamentale l’art. 38 della legge impugnata, che attribuisce alla Giunta regionale il potere di rilasciare autorizzazione in sanatoria sulle linee ed impianti elettrici aventi tensione compresa tra 30.000 e 150.000 volts e già realizzati all’entrata in vigore della legge regionale. La disposizione impugnata, infatti, può interpretarsi come riferita esclusivamente agli elettrodotti non appartenenti alla rete nazionale.
La Corte ricorda che il decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 prevede, in generale, che la competenza autorizzatoria relativa agli elettrodotti con tensione non superiore a 150.000 volts spetta a Regioni e Province. Peraltro, successivamente, il comma 1 dell’art. 1-sexies del decreto legge n. 239 del 2003 ha previsto la autorizzazione unica da parte del Ministro delle attività produttive per tutti gli impianti appartenenti alla «rete nazionale di trasporto dell’energia elettrica», quale che ne sia la potenza.
Inoltre, la Corte ha affermato, ancora nella sentenza n. 383 del 2005, che la più recente legislazione ha introdotto tutta una serie di «adeguati strumenti di codecisione paritaria tra lo Stato ed il sistema delle autonomie regionali», quanto alla individuazione della consistenza della rete nazionale.
Pertanto, non può spettare alla Regione alcun potere di autorizzazione in sanatoria con riguardo agli impianti costituenti parte della rete nazionale, ma nulla consente di concludere che la disposizione impugnata non possa avere per oggetto le linee, e le relative opere, di potenza non superiore a 150.000 volts, che non siano state incluse in tale rete. Rispetto a queste ultime, il potere di sanatoria segue la competenza a rilasciare il titolo, e può pertanto essere esercitato dalla Regione.
Da segnalare, infine, è la sentenza n. 364, nella quale si rileva come violi un principio fondamentale della materia l’art. 1, comma 1 della legge della Regione Puglia 11 agosto 2005, n. 9, nella parte in cui sospende fino alla approvazione del piano energetico ambientale regionale e, comunque, non oltre il 30 giugno 2006, le procedure autorizzative presentate dopo il 31 maggio 2005 per la realizzazione degli impianti eolici.
L’art. 12, comma 3, del decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387, prevede che «la costruzione e l’esercizio degli impianti di produzione di energia elettrica alimentati da fonti rinnovabili sono soggetti ad una autorizzazione unica, rilasciata dalla regione» o altro soggetto istituzionale delegato dalla regione. Il successivo comma 4 prevede che «l’autorizzazione di cui al comma 3 è rilasciata a seguito di un procedimento unico, al quale partecipano tutte le Amministrazioni interessate, svolto nel rispetto dei principi di semplificazione e con le modalità stabilite dalla legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni e integrazioni e che il termine massimo per la conclusione del procedimento non può comunque essere superiore a centottanta giorni».
L’indicazione del termine deve qualificarsi quale principio fondamentale in materia di «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia», in quanto tale disposizione risulta ispirata alle regole della semplificazione amministrativa e della celerità garantendo, in modo uniforme sull’intero territorio nazionale, la conclusione entro un termine definito del procedimento autorizzativo.
Pertanto, la disposizione impugnata si pone in contrasto con il suddetto principio, nella misura in cui, non essendo stato adottato il previsto piano, la sospensione in tal modo disposta è superiore al termine fissato dal legislatore statale.

4.2.8. «Valorizzazione dei beni […] ambientali»
La Corte, con la sentenza n. 212, nell’esaminare gli artt. 2 e 4 della legge della Regione Umbria 26 maggio 2004, n. 8, in tema di raccolta dei tartufi, precisa che la materia nella quale si inserisce la normativa regionale impugnata è quella della valorizzazione dei beni ambientali, di competenza concorrente. Il patrimonio tartuficolo costituisce, infatti, una risorsa ambientale della Regione, suscettibile di razionale sfruttamento, la cui valorizzazione compete perciò alla Regione medesima, ai sensi dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione, nel rispetto dei principi fondamentali dettati dal legislatore statale.
Le doglianze si rivolgono nei confronti dell’art. 2 della legge, che amplia – rispetto a quanto previsto dalla legge-quadro statale 16 dicembre 1985, n. 752 – gli ambiti territoriali in cui la raccolta è libera.
La Corte ritiene che tra i principi fondamentali della legge statale citata rileva quello di cui all’art. 3, primo comma, secondo il quale «la raccolta dei tartufi è libera nei boschi e nei terreni non coltivati».
La tesi della Regione – secondo cui il principio fondamentale desumibile da tale norma sarebbe solamente quello della libertà di raccolta – non può essere condivisa, essendo evidente che, secondo il legislatore statale, coessenziale all’affermazione di tale libertà è la sua limitazione al solo ambito dei boschi e dei terreni non coltivati, nell’ottica di un ragionevole bilanciamento tra le esigenze «di quella parte della popolazione che nella ricerca e raccolta dei tartufi trova un motivo di distensione ed anche di integrazione del proprio reddito» (sentenza n. 328 del 1990) e la necessità di difendere il patrimonio ambientale dal rischio di danni irreparabili e di tutelare altresì i diritti dei proprietari dei fondi.
La norma impugnata non viola siffatto principio fondamentale per quanto riguarda la lettera a), in quanto «le sponde e gli argini dei corsi d’acqua classificati pubblici dalla vigente normativa», lungo i quali viene espressamente consentita la libera raccolta, possono essere senz’altro ricondotti al concetto di terreni non coltivati, per i quali il principio di libera raccolta deriva dalla norma statale.
A diverse conclusioni deve invece pervenirsi quanto alle lettere b) e c) del medesimo art. 2.
L’art. 2, lettera b), consente infatti la libera raccolta «nei parchi e nelle oasi, con esclusione delle zone di “riserva integrale” come definite dalla legge regionale 3 marzo 1995, n. 9, nonché nelle aree demaniali, nelle zone di ripopolamento e cattura, zone addestramento cani», mentre l’art. 2, lettera c), la prevede anche «nelle Aziende faunistico-venatorie e nelle Aziende agro-turistico-venatorie nei giorni di silenzio venatorio e nei periodi di caccia chiusa, con modalità di accesso definite dalla Giunta regionale sentite le associazioni ed il legale rappresentante dell’ente gestore o dell’azienda proprietaria».
Si tratta, in entrambi i casi, di un evidente ampliamento dei limiti fissati dalla norma di principio statale, in quanto parchi, oasi, zone di ripopolamento e addestramento cani, aziende faunistico-venatorie e agro-turistico-venatorie costituiscono ambienti territoriali del tutto diversi dai boschi e terreni non coltivati cui fa riferimento l’art. 3, primo comma, della legge n. 752 del 1985.
Ne deriva, perciò, la violazione dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione e la conseguente illegittimità costituzionale della norma regionale, in parte qua.
È invece infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge regionale n. 8 del 2004, che definisce il requisito della “presenza diffusa”, ai fini del riconoscimento delle tartufaie controllate, delle quali stabilisce altresì limiti massimi di superficie.
La legge-quadro n. 752 del 1985, all’art. 3, quinto comma, si limita a definire le tartufaie controllate come «tartufaie naturali migliorate e incrementate con la messa a dimora di un congruo numero di piante tartufigene».
Stante l’evidente genericità di tale definizione, di per sé insuscettibile di pratica applicazione, non può che spettare alle Regioni, in base alle regole di riparto della competenza nelle materie di legislazione concorrente, la normativa di dettaglio diretta alla concreta individuazione dei requisiti per il riconoscimento di tartufaia controllata.
Allo stesso modo, in mancanza di qualsiasi enunciazione di principio, nella legge statale, riguardo alla estensione delle suddette tartufaie controllate, non può certamente ritenersi precluso alle medesime Regioni di fissare limiti massimi, in relazione alle specifiche caratteristiche del territorio regionale, onde evitare una eccessiva compressione del principio fondamentale della libera raccolta nei boschi e nei terreni non coltivati.
È appena il caso di osservare, infine, che la norma impugnata, specificando esclusivamente requisiti e limiti delle tartufaie controllate, non incide di per sé sulla spettanza della proprietà dei tartufi, che resta, invece, disciplinata dalle norme di principio dettate dalla legislazione statale ed in particolare dall’art. 3 della legge 16 dicembre 1985, n. 752. Ciò che vale ad escludere la violazione, nella specie, del limite dell’ordinamento civile posto al legislatore regionale dall’art. 117, secondo comma, della Costituzione.

4.3. Le materie di competenza residuale delle Regioni
In un numero non irrilevante di occasioni, la Corte ha individuato la sussistenza di materie annoverabili tra quelle che il quarto comma dell’art. 117 della Costituzione attribuisce alla competenza (residuale) delle Regioni: in taluni casi, una qualificazione era già stata operata in precedenti statuizioni; in altri casi, invece, la residualità è stata riconosciuta per la prima volta nel 2006.

4.3.1. «Commercio»
La competenza residuale in tema di «commercio» viene in precipuo rilievo, sotto diversi punti di vista, in due occasioni.
Con la sentenza n. 89, delle note del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, Capitaneria di porto di Viareggio, in data 12 e 26 febbraio 2003, nonché delle note del suddetto Ministero, Direzione generale per le infrastrutture della navigazione marittima ed interna, in data 31 gennaio e 4 febbraio 2003, in quanto non spetta allo Stato attribuire alle autorità marittime statali la competenza amministrativa relativa al rilascio di concessioni demaniali nell’ambito del porto di Viareggio. Oggetto del contendere era la delimitazione dell’ambito delle competenze, statali e regionali, in riferimento alle procedure amministrative per il rilascio di concessioni demaniali marittime nell’ambito del porto di Viareggio, il quale, come è pacifico tra le parti, non è finalizzato alla difesa militare o alla sicurezza dello Stato, né è sede di Autorità portuale, ma, ad avviso della ricorrente, costituisce porto destinato precipuamente al commercio. Anche in questo caso, la Corte non esclude che lo Stato possa procedere per il futuro, con la necessaria partecipazione della Regione interessata in ossequio al principio di leale collaborazione, a riconoscere a taluni porti, e dunque anche a quello di Viareggio, per la loro dimensione ed importanza, quel carattere di rilevanza economica internazionale o di preminente interesse nazionale, che sia idoneo a giustificare la competenza legislativa ed amministrativa dello Stato su tali porti e sulle connesse aree portuali.
Nell’ordinanza n. 199, non si rinviene una lesione dei principi del riparto di competenze tra Stato e Regioni nella legge Regione Lombardia 24 marzo 2004, n. 5, art. 7, comma 1, che aggrava la sanzione amministrativa prevista dalla legislazione statale per la inosservanza del divieto di chiusura domenicale degli esercizi commerciali di vendita al dettaglio. Motiva la Corte che a seguito della modifica del Titolo V della Parte II della Costituzione, la materia «commercio» rientra nella competenza esclusiva residuale delle Regioni, ai sensi del quarto comma dell’art. 117 Cost.; pertanto, il decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 (Riforma della disciplina relativa al settore del commercio) si applica, ai sensi dell’art. 1, comma 2, della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), soltanto alle Regioni che non abbiano emanato una propria legislazione nella suddetta materia, mentre la Regione Lombardia ha già provveduto a disciplinare in modo autonomo la materia stessa; inoltre, come la Corte ha statuito, la Regione, in quanto titolare della potestà legislativa sostanziale in una determinata materia, possiede anche la competenza a prevedere le sanzioni per le ipotesi di violazione delle norme regionali emanate in detta materia; pertanto, alla luce della normativa costituzionale prima richiamata, la diversificazione delle legislazioni regionali in una materia appartenente alla competenza residuale delle Regioni non solo non è in contrasto con la Costituzione, ma rappresenta una conseguenza naturale delle sue stesse disposizioni.

4.3.2. «Turismo»
Con la sentenza n. 90 viene annullata la nota del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, Direzione generale per le infrastrutture della navigazione marittima ed interna, in data 12 marzo 2003, con la quale «si richiede al Comando generale del Corpo delle Capitanerie di porto di Napoli di procedere agli adempimenti amministrativi relativi al rilascio delle concessioni demaniali in ambito portuale, considerando “ascritti alla competenza statale, oltre ai porti e alle aree ricomprese nella giurisdizione delle autorità portuali, anche i porti - di qualunque tipo - indicati nel d.P.C.m. 21 dicembre 1995”».
Ritiene la Corte che il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, con l’atto impugnato, non ha tenuto conto del nuovo riparto delle funzioni legislative e amministrative delineato dalla riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione, essendosi limitato a disporre l’attrazione nella competenza statale anche dei “porti turistici” solo perché inseriti nel d.P.C.m. 21 dicembre 1995.
La Corte, con la sentenza n. 322 del 2000, ha già avuto modo di chiarire che il richiamo effettuato nell’art. 105 del d.lgs. n. 112 del 1998 al suddetto d.P.C.m. non comporta affatto il conferimento a tale atto di «efficacia legislativa», né vale a «sanare i vizi di legittimità che lo inficiano, o comunque attribuire ad esso, in quanto tale, una nuova o diversa efficacia». «In altri termini» – ha precisato la Corte – «il richiamo dell’atto amministrativo vale semplicemente a definire per relationem la portata del limite introdotto dal decreto legislativo al conferimento di funzioni, ma con riferimento al contenuto dell’atto richiamato quale esiste attualmente nell’ordinamento, e nei limiti in cui l’efficacia ad esso propria tuttora sussista».
È da escludere, dunque, che il riferimento al suddetto d.P.C.m. nelle norme statali, che sono state richiamate nell’atto impugnato, possa cristallizzare nel tempo l’appartenenza di aree portuali, di interesse regionale o interregionale, al novero di quelle escluse dal conferimento di funzioni alle Regioni in vista del loro “preminente interesse nazionale”.
Il nuovo assetto delle competenze, recato dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, impedisce che possa attribuirsi attuale valenza all’inserimento dei “porti turistici” nel d.P.C.m. del 1995 ai fini del riparto delle funzioni amministrative. E ciò per l’assorbente considerazione che la materia “turismo” è attualmente di competenza legislativa residuale, e dunque piena, delle Regioni, con attribuzione delle funzioni amministrative agli enti territoriali minori, secondo i criteri indicati dall’art. 118 della Costituzione.
Né è corretto ritenere che il parere del Consiglio di Stato abbia inteso prospettare, in modo vincolante, come utilizzabile, nelle more della formale classificazione ex lege n. 84 del 1994, lo strumento del d.P.C.m. 21 dicembre 1995. L’organo consultivo, infatti, si è limitato a precisare, da un lato, che il termine del 1° gennaio 2002, di decorrenza per il conferimento alle Regioni delle funzioni relative ai porti “di rilevanza economica regionale ed interregionale”, non può essere considerato meramente ordinatorio, e, dall’altro, che la individuazione dei “porti turistici” (di sicura competenza regionale) può essere effettuata prescindendo da ogni attività di classificazione o catalogazione dei porti.
Quanto affermato non esclude, ovviamente, che lo Stato possa procedere, in futuro, con la necessaria partecipazione della Regione interessata, in ossequio al principio di leale collaborazione, a riconoscere a taluni porti turistici, per la loro dimensione ed importanza, carattere di rilevanza economica internazionale o di preminente interesse nazionale, che sia idoneo a giustificare la competenza legislativa ed amministrativa dello Stato su tali porti e sulle connesse aree portuali.

4.3.3. «Pesca»
Con la sentenza n. 213, la Corte esamina quattro ricorsi, dei quali due proposti, rispettivamente, dalla Regione Toscana e dalla Regione Emilia-Romagna nei confronti di talune disposizioni di una legge dello Stato, e gli altri due, invece, proposti dal Presidente del Consiglio dei ministri contro leggi, rispettivamente, della Regione Marche e della Regione Abruzzo.
La Corte, dopo avere ricostruito le vicende normative ed i diversi titoli competenziali riguardanti il settore della pesca, rileva che con il nuovo Titolo V, Parte II, della Costituzione, introdotto dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, la pesca non è stata inserita nell’elenco di materie rimesse alla potestà legislativa dello Stato dall’art. 117, secondo comma, Cost., né è stata ascritta alla competenza concorrente di cui al terzo comma del suddetto articolo.
Ciò ha portato a ritenere che la mancata espressa attribuzione della pesca alla competenza legislativa esclusiva statale o concorrente dello Stato e delle Regioni comporti la riferibilità della stessa, nella sua globalità, alla potestà legislativa regionale “residuale”, e dunque piena. Tuttavia, la Corte ricorda che è stata affermata (sentenza n. 370 del 2003) l’impossibilità di ricondurre un determinato oggetto di disciplina normativa all’ambito di applicazione affidato alla legislazione residuale delle Regioni «per il solo fatto che tale oggetto non sia immediatamente riferibile ad una delle materie elencate nei commi secondo e terzo dell’art. 117 Cost.». D’altro canto, la complessità della realtà sociale da regolare comporta che di frequente le discipline legislative non possano essere attribuite nel loro insieme ad un’unica materia, perché concernono posizioni non omogenee ricomprese in materie diverse sotto il profilo della competenza legislativa; «in siffatti casi di concorso di competenze deve, pertanto, farsi applicazione, secondo le peculiarità dell’intreccio di discipline, del criterio della prevalenza di una materia sull’altra e del principio di leale cooperazione» (sentenza n. 231 del 2005).
La pesca, pertanto, costituisce materia oggetto della potestà legislativa residuale delle Regioni, ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost., sulla quale, tuttavia, per la complessità e la polivalenza delle attività in cui si estrinseca, possono interferire più interessi eterogenei, taluni statali, altri regionali, con indiscutibili riflessi sulla ripartizione delle competenze legislativa ed amministrativa. Per loro stessa natura, talune attività e taluni aspetti riconducibili all’attività di pesca non possono, infatti, che essere disciplinati dallo Stato, atteso il carattere unitario con cui si presentano e la conseguente esigenza di una loro regolamentazione uniforme.
A ciò va aggiunto che per quegli aspetti, pur riconducibili in qualche modo all’attività di pesca, che sono connessi a materia di competenza ripartita tra Stato e Regioni (tutela della salute, alimentazione, tutela e sicurezza del lavoro, commercio con l’estero, ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione delle imprese per il settore produttivo della pesca, porti, previdenza complementare e integrativa, governo del territorio) sussiste la potestà legislativa statale nella determinazione dei principi fondamentali, ai quali il legislatore regionale, nel dettare la disciplina di dettaglio, deve attenersi.
L’analisi dell’intreccio delle competenze deve essere effettuata caso per caso, con riguardo alle concrete fattispecie normative, facendo applicazione del principio di prevalenza e del principio fondamentale di leale collaborazione, che si deve sostanziare in momenti di reciproco coinvolgimento istituzionale e di necessario coordinamento dei livelli di governo statale e regionale.
Sulla base dei suindicati principi, la Corte effettua lo scrutinio di costituzionalità sulle norme impugnate.
La Corte esamina, quindi, i ricorsi regionali avverso il comma 29 dell’art. 4 della legge statale n. 350 del 2003, dove si dispone che «nelle more dell’adozione dei decreti legislativi previsti dalla legge 5 giugno 2003, n. 131, e dalla legge 7 marzo 2003, n. 38, gli interventi in favore del settore ittico di cui alla legge 17 febbraio 1982, n. 41, sono realizzati dallo Stato, dalle regioni e dalle province autonome limitatamente alle rispettive competenze previste dalla Parte IV del VI Piano nazionale della pesca e dell’acquacoltura adottato con decreto ministeriale 25 maggio 2000 del Ministro delle politiche agricole e forestali».
A sua volta, il comma 30 del medesimo art. 4 prevede che «entro il 28 febbraio 2004, in attuazione di quanto previsto al comma 29 e in deroga alle disposizioni di cui agli articoli 1 e 2 della legge 17 febbraio 1982, n. 41, e successive modificazioni, con decreto del Ministero delle politiche agricole e forestali è approvato il Piano nazionale della pesca e dell’acquacoltura per l’anno 2004».
Le disposizioni non risultano invasive delle competenze regionali, poiché hanno carattere dichiaratamente transitorio, in quanto relative al periodo precedente all’attuazione delle deleghe legislative, che è avvenuta con l’emanazione dei relativi decreti delegati, nei termini all’uopo previsti ed ormai scaduti.
Tale circostanza, pur non facendo venire meno l’interesse alla caducazione di tali norme, induce a ritenere che la disciplina introdotta dalle disposizioni censurate trovi giustificazione nell’esigenza di evitare un vuoto di normazione nel periodo intercorrente tra l’emanazione della legge di delega e la sua attuazione. D’altronde la Corte, già in altre occasioni (sentenze n. 417 del 2005, e n. 36 del 2004), ha escluso la declaratoria di illegittimità costituzionale di norme statali sul rilievo del loro carattere meramente transitorio.
Peraltro, la disposizione dell’art. 4, comma 29, nel prevedere il citato regime transitorio, stabilisce che gli interventi in favore del settore ittico, di cui alla legge n. 41 del 1982 (abrogata dall’art. 23 del d.lgs. n. 154 del 2004), «sono realizzati dallo Stato, dalle regioni e dalle province autonome limitatamente alle rispettive competenze previste dalla Parte IV del VI Piano nazionale delle pesca e dell’acquacoltura adottato con decreto ministeriale 25 maggio 2000 del Ministero delle politiche agricole e forestali».
Orbene, la richiamata Parte IV del Piano ripartisce tra lo Stato e le Regioni le risorse finanziarie per i diversi settori di intervento che sono riconducibili sia a competenze statali, sia a competenze regionali.
Inoltre, l’art. 69, comma 14, della legge 27 dicembre 2002, n. 289, ha prorogato sino al 31 dicembre 2003 il periodo di vigenza del Piano in questione. Per l’anno 2004, poi, è intervenuto il decreto ministeriale 7 maggio 2004 (Piano nazionale della pesca e dell’acquacoltura per l’anno 2004) sulla base di quanto previsto dal comma 30 dell’art. 4 della legge n. 350 del 2003. Quest’ultimo Piano, nel precisare che la suddetta legge n. 350 del 2003 ha individuato gli interventi nazionali nel settore ittico da finanziarsi con dotazioni di bilancio a gestione nazionale, secondo il riparto delle competenze tra Stato e Regioni fissato dal Piano per gli anni 2000-2002, ha disposto il rifinanziamento della spesa in diversi settori attinenti alla pesca e ai suoi aspetti organizzativi.
È palese che tale rifinanziamento va ad incidere sia su ambiti di competenza statale; ma anche su ambiti di competenza regionale sussistono sufficienti elementi per ritenere che un intervento finanziario così complesso ed articolato può giustificare, a norma dell’art. 118, primo comma, Cost., l’allocazione delle relative funzioni ad un livello unitario che, nella specie, è quello dello Stato. Nondimeno, sarebbe stato egualmente necessario, in ragione del principio di leale collaborazione, il coinvolgimento delle Regioni nella fase di ripartizione delle risorse finanziarie tra i vari tipi di impiego, mediante intesa.
La disposizione del comma 29 dell’art. 4 della legge n. 350 del 2003 deve, dunque, essere dichiarata costituzionalmente illegittima, nella parte in cui non fa applicazione del principio di leale collaborazione, nella forma dell’intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano.
Analogamente, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale del comma 30 del medesimo art. 4, data la mancata previsione dell’intesa nella fase di approvazione del Piano per l’anno 2004 e nella consequenziale ripartizione delle risorse finanziarie tra i vari tipi di impiego.
La Corte esamina, quindi, l’art. 4, comma 2, lettera a), della legge regionale delle Marche 13 maggio 2004, n. 11, che indica tra i contenuti del Piano regionale l’articolazione territoriale dei distretti di pesca «intesi non come confine ma come regolamentazione dell’attività di pesca-produzione in forza di regole obbligatorie per tutti coloro che vi operano».
La Corte, dopo avere ricordato che i distretti di pesca sono disciplinati dall’art. 4 del d.lgs. n. 226 del 2001, «al fine di assicurare la gestione razionale delle risorse biologiche, in attuazione del principio di sostenibilità», ritiene immune da censure la disposizione impugnata, che opera comunque nell’ambito della pianificazione regionale, e non si sovrappone alle competenze statali disciplinate dal suddetto art. 4.

4.3.4. «Organizzazione amministrativa della Regione»
La Corte, nell’esaminare, con la sentenza n. 233, talune disposizioni di altrettante leggi delle Regioni Calabria e Abruzzo in tema di nomine e incarichi dirigenziali conferiti dagli organi di indirizzo politico della Regione, rileva come le norme impugnate concernano, in linea di massima, una materia (l’organizzazione amministrativa della Regione, comprensiva dell’incidenza della stessa sulla disciplina del relativo personale) attribuita alla competenza residuale delle Regioni (art. 117, quarto comma, Cost.), da esercitare nel rispetto dei «principi fondamentali di organizzazione e funzionamento» fissati negli statuti (art. 123 Cost.).
La Corte respinge la prima doglianza relativa ai commi 1, 2 e 3 dell’art. 1 della legge della Regione Calabria – secondo cui la decadenza automatica degli organi di vertice nominati nei nove mesi antecedenti la data di elezione per il rinnovo degli organi di indirizzo politico della Regione –, riguardando anche i rappresentanti della Regione in seno allo Stato o ad enti pubblici nazionali, o effettuate d’intesa o di concerto con autorità statali, violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera g), Cost., che attribuisce alla potestà legislativa esclusiva dello Stato “l’ordinamento e l’organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali”.
La censura poggia su un erroneo presupposto interpretativo, in quanto le norme impugnate – alla stregua della loro chiara formulazione letterale – devono essere intese nel senso che esse non si riferiscono (anche) alle nomine di rappresentanti regionali in organi statali o di enti pubblici nazionali, né ad intese o concerti con autorità statali, ma operano esclusivamente all’interno dell’ordinamento regionale.
Anche la questione relativa alle disposizioni che prevedono l’applicabilità dello spoils system agli incarichi dirigenziali apicali, sollevata sotto il profilo dell’irragionevole mancato collegamento della cessazione di tali nomine ad un meccanismo di previa valutazione della professionalità degli interessati, risulta non fondata.
Le nomine previste dai commi impugnati riguardano gli organi di vertice degli enti regionali ed i rappresentanti regionali nei consigli di amministrazione degli enti dell’ordinamento regionale, effettuate dagli organi rappresentativi della Regione; esse sono tutte caratterizzate dall’intuitus personae, nel senso che si fondano su valutazioni personali coerenti all’indirizzo politico regionale. I commi impugnati, specie il comma 1, vietano che le nomine in esame, se effettuate nei nove mesi prima delle elezioni, si protraggano nella legislatura successiva, e pertanto ne dispongono la decadenza all’atto della proclamazione del nuovo Presidente della Giunta. Essi quindi, in realtà, si limitano ad anticipare il termine finale di durata degli incarichi conferiti con le nomine.
Siffatta regola opera per il futuro; e quindi, dopo la sua entrata in vigore, chi fosse nominato negli ultimi nove mesi di una legislatura non potrebbe vantare alcun ragionevole affidamento sulla continuazione dell’incarico dopo la proclamazione del nuovo Presidente.
Inoltre – trattandosi di nomine conferite intuitu personae dagli organi politici della Regione, in virtù di una scelta legislativa – la regola per cui esse cessano all’atto dell’insediamento di nuovi organi politici mira a consentire a questi ultimi la possibilità di rinnovarle, scegliendo (ancora su base eminentemente personale) soggetti idonei a garantire proprio l’efficienza e il buon andamento dell’azione della nuova Giunta, per evitare che essa risulti condizionata dalle nomine effettuate nella parte finale della legislatura precedente.
Quindi, la previsione di un meccanismo di valutazione tecnica della professionalità e competenza dei nominati, prospettata dal ricorso come necessaria a tutelare l’imparzialità e il buon andamento dell’amministrazione, non si configura, nella specie, come misura costituzionalmente vincolata; e del resto nemmeno si addice alla natura personale del rapporto sotteso alla nomina.
Parimenti non illegittima si rivela la previsione del comma 3 dell’art. 1, che estende la decadenza automatica alle nomine conferite dal Presidente e dall’Ufficio di presidenza del Consiglio, e dai dirigenti dei dipartimenti consiliari, in quanto la soluzione accolta dal comma impugnato si ricollega evidentemente alla natura personale del rapporto sotteso al conferimento delle nomine in esame ed il ricorso non contesta la compatibilità, in via di principio, di tale criterio di nomina, ma si limita a denunciare la mera difformità rispetto alla disciplina statale, che non è rilevante per l’esercizio della potestà legislativa regionale in materia residuale, ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost.
La Corte esamina, quindi, l’impugnativa avverso i commi 6 e 7 dell’art. 1. Il comma 6 sancisce che, «in attuazione dell’art. 50, comma 6, dello Statuto regionale, tutti gli incarichi dirigenziali delle strutture amministrative della Regione Calabria decadono di diritto alla data di proclamazione del Presidente della Giunta medesima ed i relativi contratti a tempo determinato cessano di avere efficacia». Il comma 7, a sua volta, prevede che «i nuovi incarichi sono formalmente conferiti nei sessanta giorni decorrenti dalla data di scadenza dei precedenti [...]».
La questione di legittimità costituzionale è sollevata sotto il profilo della sottoposizione degli incarichi dirigenziali di livello non generale alla medesima disciplina prevista per gli incarichi dirigenziali generali in tema di decadenza automatica alla data di proclamazione del presidente della Giunta, con un’estensione dello spoils system tanto rilevante da comportare lesione del principio di ragionevolezza e del buon andamento dell’amministrazione.
Replica la Corte che i commi 6 e 7 si inseriscono nel quadro normativo delineato dalla legge regionale calabrese 7 agosto 2002, n. 31, che all’art. 10 ha distinto gli incarichi dirigenziali di livello generale da quelli di livello non generale.
I primi sono conferiti dal Presidente della Giunta regionale, per una durata massima di tre anni, e sono revocati di diritto entro sessanta giorni dall’insediamento dei nuovi organi regionali. Essi possono essere conferiti, per il 10% della dotazione organica, a soggetti estranei all’amministrazione aventi particolari requisiti e comprovata qualificazione professionale. I secondi sono invece conferiti dai dirigenti di livello generale, per una durata massima di cinque anni, ai dirigenti assegnati alle strutture di propria competenza dalla Giunta regionale (ossia a personale regionale).
Successivamente, lo statuto della Regione Calabria, approvato con legge regionale 19 ottobre 2004, n. 25 (fonte sovraordinata rispetto alla legge regionale “ordinaria”), ha affermato, all’art. 50, comma 2, che l’organizzazione amministrativa regionale è regolata dalla legge e dai regolamenti di organizzazione, «nel rispetto del principio di distinzione tra funzioni di indirizzo e controllo e funzioni di gestione amministrativa, finanziaria e tecnica». Ed ha stabilito, all’art. 50, comma 6, che «tutti gli incarichi dirigenziali devono essere formalmente conferiti entro 60 giorni dall’insediamento dei nuovi organi regionali». Gli impugnati commi 6 e 7 devono, dunque, essere coordinati con l’art. 10 della legge regionale n. 31 del 2002 (che la citata regola statutaria evidentemente assume a presupposto) e interpretati nel senso che essi si riferiscono ai soli incarichi dirigenziali di livello generale (“apicali”) e non anche a quelli di livello non generale (“intermedi”).
Invero, l’art. 10 appena ricordato attribuisce all’organo politico della Regione il potere di conferire gli incarichi dirigenziali cosiddetti “apicali” a soggetti individuati intuitu personae, scelti anche (entro determinati limiti percentuali) al di fuori dell’apparato amministrativo regionale. Questa modalità di conferimento mira palesemente a rafforzare la coesione tra l’organo politico regionale (che indica le linee generali dell’azione amministrativa e conferisce gli incarichi in esame) e gli organi di vertice dell’apparato burocratico (ai quali tali incarichi sono conferiti ed ai quali compete di attuare il programma indicato), per consentire il buon andamento dell’attività di direzione dell’ente (art. 97 Cost.).
A tale schema rimangono, invece, estranei gli incarichi dirigenziali di livello “non generale”, non conferiti direttamente dal vertice politico e quindi non legati ad esso dallo stesso grado di contiguità che connota gli incarichi apicali.
L’interpretazione sistematica dei commi in esame porta, quindi, ad escludere che essi si riferiscano anche agli incarichi dirigenziali di livello non generale e che in essi si possa perciò ravvisare un’estensione dello spoils system, tanto rilevante da risolversi in lesione dei principi di ragionevolezza e di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione garantiti dagli artt. 3 e 97 Cost.
Né vale invocare la lesione della competenza esclusiva statale in tema di “ordinamento civile”, per la ricaduta della decadenza dall’incarico dirigenziale sul sottostante rapporto di lavoro di diritto privato, in quanto la scadenza del termine di durata dell’incarico dirigenziale comporta la cessazione dell’operatività del provvedimento che lo ha conferito. Discende poi dai principi generali che la caducazione di tale provvedimento produca effetti diversi secondo che destinatario dell’incarico sia un soggetto esterno o interno all’amministrazione regionale: nel primo caso, cessa fra le parti ogni rapporto, e quindi anche la regolamentazione contrattuale dell’incarico dirigenziale e della relativa retribuzione; nel secondo, invece, il rapporto contrattuale concernente incarico e retribuzione viene meno, ma il soggetto resta nell’amministrazione regionale, nel cui ambito era inquadrato. La Regione non ha, quindi, legiferato in materia di “ordinamento civile”, essendosi limitata – nel porre norme in materia di competenza residuale (art. 117, quarto comma, Cost.) – a rinviare al principio per cui gli effetti di un contratto cessano quando ne venga meno la causa.
«Per le medesime motivazioni», non risulta illegittimo il comma 1, nella parte in cui ricomprende fra le nomine soggette a decadenza automatica (in quanto effettuate nei nove mesi precedenti l’elezione dei nuovi organi rappresentativi della Regione) quelle degli organi di vertice delle aziende sanitarie, ospedaliere ed assimilabili. Per la Corte, la norma, in quanto diretta esclusivamente a disciplinare l’organizzazione amministrativa delle aziende in questione, non incide sulla materia dell’«ordinamento civile» (né su quella della «tutela della salute»).
Viene, di seguito, esaminato il secondo ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri avverso gli artt. 1 e 2 della legge della Regione Abruzzo 12 agosto 2005, n. 27.
L’art. 1, comma 2, dispone che le nomine degli organi di vertice, individuali e collegiali, di amministrazione e di controllo degli enti dipendenti dalla Regione, conferite dagli organi di direzione politica hanno una durata effettiva pari a quella della legislatura regionale e decadono all’atto di insediamento del nuovo Consiglio regionale, salvo conferma nei successivi quarantacinque giorni.
Per la Corte non sussiste la dedotta violazione dei principi di buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione in conseguenza della valutazione tecnica di professionalità e competenza dei nominati, in quanto la norma in esame si riferisce a nomine effettuate dagli organi di direzione politica della Regione, evidentemente in base a valutazioni personali coerenti con le correlative scelte di fondo.
Altresì infondata risulta l’impugnativa avverso lo stesso art. 1, comma 2, nella parte in cui ricomprende fra le nomine conferite dagli organi di direzione politica della Regione, destinate a decadere automaticamente all’insediamento del nuovo Consiglio regionale, quelle relative alle società controllate e partecipate dalla Regione. Non sussiste, infatti, alcuna invasione della materia “ordinamento civile” riservata allo Stato, in quanto la stessa norma impugnata prevede che le nomine relative a società avvengano «in osservanza degli artt. 2449 e 2450 cod. civ.». E tali articoli – nel testo modificato dal d. lgs. 17 gennaio 2003 n. 6, in vigore dal 1° gennaio 2004 – dispongono che gli amministratori e i sindaci o i componenti del consiglio di sorveglianza nominati, per legge o per statuto, dallo Stato o da enti pubblici, possono essere revocati solo dagli enti che li hanno nominati. Pertanto, la censura è infondata, in quanto il ricorrente invoca a sostegno di essa l’art. 2383, secondo comma, cod. civ., che non si applica alle nomine considerate dalla norma impugnata né è da essa menzionato; ed invece omette di argomentare in ordine agli artt. 2449 e 2450 cod. civ., che dalla norma sono richiamati come disposizioni da osservare e che attribuiscono alla Regione il potere di far cessare dalla carica gli amministratori dalla medesima Regione nominati.
Parimenti infondata è la censura avverso l’art. 2, comma 1, che sancisce retroattivamente la decadenza automatica (salvo conferma) delle nomine già effettuate, a decorrere dal momento dell’entrata in vigore della legge.
Ritiene la Corte che le nomine in esame sono «conferite dagli organi di indirizzo politico regionale», in base alla valutazione della personale coerenza del nominato con tale indirizzo; è evidente l’intento del legislatore regionale di rendere immediatamente operativa la nuova disciplina, per evitare – in sintonia, e non in contrasto, con l’evocato art. 97 Cost. – che le nomine effettuate nella precedente legislatura, specie nella sua fase finale, pregiudichino il buon andamento dell’amministrazione.
Anche la mancata previsione di alcun termine a partire dal quale operi la decadenza dalle cariche non è illegittima, in quanto l’art. 1, comma 2, prevede espressamente che la decadenza opera all’atto dell’insediamento del nuovo Consiglio regionale, mentre l’art. 2, comma 1, sancisce in via transitoria l’operatività della decadenza al momento dell’entrata in vigore della legge.
Con un terzo ricorso, il Presidente del Consiglio dei ministri impugna l’art. 14, comma 3, della legge della Regione Calabria 17 agosto 2005, n. 13, dove si prevede che, «in concomitanza con la nomina dei Direttori Generali delle Aziende ospedaliere e delle Aziende Sanitarie locali, decadono tutte le nomine fiduciarie ed in particolare i direttori amministrativi e sanitari delle stesse Aziende. La decadenza è estesa ai responsabili dei dipartimenti sanitari e amministrativi e ai responsabili dei distretti sanitari territoriali. Entro trenta giorni dalla nomina, i Direttori Generali devono provvedere al conferimento dei suddetti incarichi».
Secondo il ricorrente, tale previsione viola i principi di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione (art. 97 Cost.) e di affidamento del cittadino nella libera esplicazione dell’autonomia negoziale (artt. 2 e 41 Cost.), nonché la competenza esclusiva statale in materia di “ordinamento civile” (art. 117, secondo comma, lettera l, Cost.).
La questione è dichiarata fondata, nei limiti di seguito indicati.
L’art. 14, comma 3, della legge regionale calabrese 19 marzo 2004, n. 11, prevede che i direttori generali delle aziende ospedaliere o delle aziende sanitarie locali sono nominati dalla Giunta regionale tra soggetti laureati con esperienza almeno quinquennale di direzione tecnica o amministrativa in enti pubblici o privati, che abbiano svolto funzioni dirigenziali con autonomia gestionale nei dieci anni precedenti la riforma
Invece, i direttori amministrativi e sanitari delle aziende ospedaliere o delle aziende sanitarie locali (in conformità a quanto previsto dall’art. 3, comma 1-quinquies, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502) sono nominati dal direttore generale (art. 14, comma 1, ultima parte, della citata legge calabrese n. 11 del 2004) e collaborano con lui alla direzione dell’azienda (art. 14, comma 2). Tali incarichi hanno natura esclusivamente fiduciaria e terminano in caso di cessazione per qualunque causa del direttore generale, con risoluzione di diritto dei relativi contratti di lavoro (art. 15, comma 5).
Anche i responsabili dei dipartimenti sanitari e amministrativi e i responsabili dei distretti sanitari territoriali sono nominati dal direttore generale (art. 14, comma 1, ultima parte).
Per quanto riguarda gli effetti della nomina di un nuovo direttore generale delle aziende ospedaliere o sanitarie locali sugli incarichi di direttore sanitario e amministrativo, l’impugnato art. 14, comma 3, non riguarda un’ipotesi di spoils system in senso tecnico. Esso, infatti, non regola un rapporto fondato sull’intuitus personae tra l’organo politico che conferisce un incarico ed il soggetto che lo riceve ed è responsabile verso il primo dell’efficienza dell’amministrazione; ma concerne l’organizzazione della struttura amministrativa regionale in materia sanitaria e mira a garantire, all’interno di essa, la consonanza di impostazione gestionale fra il direttore generale e i direttori amministrativi e sanitari delle stesse aziende da lui nominati. In questa prospettiva, la norma impugnata tende ad assicurare il buon andamento dell’amministrazione, e quindi non viola l’art. 97 Cost.
A diversa conclusione si deve, invece, pervenire relativamente a quella parte della norma secondo cui la nomina di un nuovo direttore generale determina la decadenza anche delle nomine dei responsabili dei dipartimenti sanitari e amministrativi e dei responsabili dei distretti sanitari territoriali.
Così disponendo, la norma comporta l’azzeramento automatico dell’intera dirigenza in carica, pregiudicando il buon andamento dell’amministrazione e violando l’art. 97 Cost.
Il comma impugnato deve quindi essere dichiarato costituzionalmente illegittimo, limitatamente al suo secondo periodo, ossia alle parole: «la decadenza è estesa ai responsabili dei dipartimenti sanitari e amministrativi e ai responsabili dei distretti sanitari territoriali».

4.3.5. «Formazione professionale»
Nella sentenza n. 253, si rileva che gli artt. 3 e 4, comma 1, della legge della Regione Toscana 15 novembre 2004, n. 63 da un lato, assicurano pari opportunità nell’accesso ai percorsi di formazione e di riqualificazione alle «persone che risultino discriminate e esposte al rischio di esclusione sociale per motivi derivanti dall’orientamento sessuale o dall’identità in genere», (recte: di genere); dall’altro, favoriscono «l’accrescimento della cultura professionale correlata all’acquisizione positiva dell’orientamento sessuale o dell’identità di genere di ciascuno».
A prescindere dalla natura di mero indirizzo delle disposizioni in esame, esse costituiscono espressione dell’esercizio della competenza legislativa esclusiva regionale in materia di istruzione e formazione professionale che la Regione può offrire mediante strutture pubbliche o private per soddisfare le esigenze delle varie realtà locali; le norme regionali impugnate, perciò, non incidono sulla disciplina dei singoli contratti di lavoro e non invadono la competenza dello Stato in materia di ordinamento civile.
La sentenza n. 406 affronta l’esame degli artt. 2, lettere a) e d), e 3 della legge della Regione Toscana 1° febbraio 2005, n. 20, concernenti l’apprendistato.
Le disposizioni suddette enunciano come compiti della Regione la valorizzazione e certificazione dei profili formativi dei contratti di apprendistato e l’individuazione dei criteri e requisiti di riferimento per la capacità formativa delle imprese e stabiliscono che, «con il regolamento di cui all’art. 32, sentita la commissione tripartita di cui all’art. 23, la Regione disciplina i profili formativi, le modalità organizzative e di erogazione dell’attività formativa esterna per l’apprendistato per l’espletamento del diritto-dovere d’istruzione e formazione, per l’apprendistato professionalizzante e per l’apprendistato per l’acquisizione di un diploma o per percorsi di alta formazione».
La Corte ricorda di avere già rilevato che la disciplina dell’apprendistato è costituita da norme che attengono a materie per le quali sono stabilite competenze legislative di diversa attribuzione (esclusiva dello Stato, residuale delle Regioni, ripartita) e che alla composizione delle interferenze provvedono strumenti attuativi del principio di leale collaborazione (sentenza n. 50 del 2005) ed, altresì, che, mentre la formazione da impartire all’interno delle aziende attiene precipuamente all’ordinamento civile, la disciplina di quella esterna rientra nella competenza regionale in materia di istruzione professionale, con interferenze però con altre materie, in particolare con l’istruzione, per la quale lo Stato ha varie attribuzioni: norme generali, determinazione dei principi fondamentali.
Ciò premesso, la Corte osserva che l’art. 3 espressamente si riferisce alla formazione esterna e ne prevede la disciplina mediante il regolamento di cui all’art. 32, da emanare, «attuando le procedure di concertazione con i soggetti istituzionali e con i soggetti economici e sociali». Tale espressione, contenuta nel citato art. 32, può e deve essere letta come riferentesi alle intese di cui agli artt. 48, 49 e 50 del d.lgs. n. 276 del 2003. Si soggiunge che l’individuazione delle capacità formative delle imprese, che il censurato art. 2, lettera d), riconosce essere obiettivo qualificante la formazione nell’apprendistato, non può che riferirsi alle imprese che svolgono attività formativa esterna.
Parimenti non fondate sono le censure che si appuntano sull’art. 5, commi 1 e 2, e sull’art. 11, lettera h), della legge n. 20 del 2005 della Regione Toscana, che hanno ad oggetto le modalità per il rilascio dell’autorizzazione a svolgere l’attività d’intermediazione nell’ambito del territorio regionale e l’istituzione e la tenuta del relativo albo.
Il rilascio dell’autorizzazione è, infatti, previsto dalla normativa statale e, in particolare, dall’art. 6, commi 6, 7 e 8, del d.lgs. n. 276 del 2003 (il comma 8 come sostituito dall’art. 2 del decreto legislativo 6 ottobre 2004, n. 251).
Ora, se le Regioni possono rilasciare le autorizzazioni, ne deriva come legittima conseguenza che possono istituire l’albo delle imprese da loro autorizzate. Tale istituzione non contrasta con l’obbligo di comunicazione al Ministero del lavoro e delle politiche sociali, di cui al citato comma 7, obbligo non escluso da alcuna disposizione regionale, e non impedisce, quindi, la inserzione delle imprese autorizzate dalla Regione nella sezione regionale dell’albo statale.
Analogamente non fondata, con la sentenza n. 425, viene dichiarata la questione concernente l’art. 17, comma 4, della legge n. 2 del 2005 della Regione Marche così formulato: «la formazione teorica da espletarsi nel corso dell’apprendistato deve essere svolta secondo le modalità previste dalla contrattazione e comunque, in prevalenza, esternamente all’azienda».
La Corte ribadisce che la disciplina dell’apprendistato è costituita da norme che attengono a materie per le quali sono stabilite competenze legislative di diversa attribuzione (esclusiva dello Stato, ripartita, residuale delle Regioni) e che alla composizione delle relative interferenze provvedono strumenti attuativi del principio di leale collaborazione (sentenza n. 50 del 2005).
Da tali rilievi emerge che è la stessa legislazione statale ad attribuire alle Regioni compiti anche normativi in materia di definizione dei profili formativi, dei rapporti tra siffatti profili e la definizione della formazione, con riguardo all’eventuale ulteriore istruzione e in coerenza con il collegamento che il legislatore statale ha voluto stabilire tra lo svolgimento dei rapporti di lavoro a contenuto anche formativo e il settore dell’istruzione.
La disciplina statale, da un lato, prevede per l’apprendistato professionalizzante un monte ore minimo (centoventi ore) per la formazione interna ed esterna, senza distinguere tra queste; dall’altro, per l’apprendistato per l’acquisizione di un diploma o per percorsi di alta formazione, rimette alle Regioni «la regolamentazione e la durata dell’apprendistato […] per i soli profili che attengono alla formazione, in accordo con le associazioni territoriali dei datori di lavoro e dei prestatori di lavoro, le università e le altre istituzioni formative».
La disposizione censurata non modifica il monte ore complessivo di formazione, limitandosi a stabilire un generico criterio di prevalenza della formazione teorica (di competenza regionale) nel senso di un suo svolgimento all’esterno dell’azienda, peraltro in conformità a quanto notoriamente già avviene. Essa, pertanto, non impone, di per sé, alcuna limitazione al conseguimento della qualifica perseguita agli effetti lavorativi e del prosieguo dell’istruzione, sicché si deve concludere che il denunciato contrasto con i parametri evocati non sussiste.

4.3.6. «Caccia»
Pronunciandosi in materia di caccia, la Corte respinge, con la sentenza n. 332, la censura avverso l’art. 9, comma 5 della legge della Regione Emilia-Romagna, prospettata sul rilievo che nel prevedere l’annotazione dei capi abbattuti sul tesserino venatorio al termine della giornata di caccia, anziché dopo ogni singolo abbattimento, non si consentirebbe il controllo sugli abbattimenti compiuti, così violando gli artt. 7 e 10 della legge n. 157 del 1992 e, conseguentemente, l’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione.
In proposito rileva la Corte che, quanto alla disciplina del tesserino di caccia, il legislatore statale si è limitato ad indicare all’art. 12, comma 12, della legge n. 157 del 1992, che, «ai fini dell’esercizio dell’attività venatoria è altresì necessario il possesso di un apposito tesserino rilasciato dalla regione di residenza, ove sono indicate le specifiche norme inerenti al calendario regionale, nonché le forme di cui al comma 5 e gli ambiti territoriali di caccia ove è consentita l’attività venatoria», senza dettare alcuna prescrizione sulle modalità dell’annotazione del capo abbattuto. La norma regionale impugnata, pertanto, non si pone in contrasto con le norme statali, limitandosi a disciplinare aspetti strettamente attinenti all’attività venatoria, espressione della potestà legislativa residuale della regione.

4.4. La compenetrazione delle materie «tutela dell’ambiente» ed «agricoltura»
Con la sentenza n. 116, la Corte torna sulla materia degli OGM decidendo le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Regione Marche aventi ad oggetto gli articoli 1, 2, 3, 4, 5, commi 3 e 4, 6, 7 e 8 del decreto-legge 22 novembre 2004, n. 279 (Disposizioni urgenti per assicurare la coesistenza tra le forme di agricoltura transgenica, convenzionale e biologica), nel testo convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2005, n. 5. Ad avviso della ricorrente, tutte le norme impugnate sarebbero in contrasto con l’art. 117, commi secondo, lettera s), terzo, quarto e quinto della Costituzione, con riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, poiché pregiudicherebbero interventi regionali a tutela dell’ambiente e della salute umana, animale e vegetale, secondo i principi di prevenzione e precauzione.
Si sarebbe poi prodotta la violazione dell’art. 117, quarto comma, della Costituzione, in ragione dell’avvenuta disciplina di un settore rientrante nella materia “agricoltura”, oggetto di potestà legislativa residuale: la minuziosa disciplina contenuta, in particolare, negli articoli 2, 3, 4, 5, commi 3 e 4, 7 e 8, del decreto-legge impugnato sottrarrebbe in modo palese alle Regioni il controllo del settore agricolo relativo agli OGM.
Onde decidere sul merito delle questioni poste, la Corte ricostruisce il quadro normativo comunitario e nazionale in tema di organismi geneticamente modificati.
La direttiva 2001/18/CE del 12 marzo 2001 (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sull’emissione deliberata nell’ambiente di organismi geneticamente modificati, che abroga la direttiva 90/220/CEE del Consiglio) costituisce il testo normativo fondamentale, in punto sia di “immissione in commercio” di OGM (tale essendo, ai sensi dell’art. 2, comma 1, numero 2, di detta direttiva “un organismo, diverso da un essere umano, il cui materiale genetico è stato modificato in modo diverso da quanto avviene in natura con l’accoppiamento e/o la ricombinazione genetica naturale”), sia di “emissione deliberata” di OGM nell’ambiente.
Tali nozioni, benché distinte e fondate su separate previsioni normative, sono nel loro insieme sufficientemente ampie per ricomprendervi ogni fase dell’impiego di OGM in agricoltura, una volta superate le complesse fasi di autorizzazione previste dalla medesima direttiva: tali procedure comportano una penetrante valutazione, caso per caso, degli eventuali rischi per l’ambiente e la salute umana, connessi all’immissione in commercio, ovvero anche all’emissione di ciascun OGM ai fini dell’uso agricolo.
Le originarie disposizioni in tema di coltivazione degli OGM sono state specificate dalla decisione della Commissione n. 2002/623/CE del 24 luglio 2002 (recante note orientative ad integrazione dell’Allegato II della direttiva 2001/18/CE) che ha ulteriormente arricchito i criteri cui attenersi per la valutazione del rischio ambientale, anche con particolare ed espresso riferimento alle “pratiche agricole”.
Sulla base di tali presupposti, il regolamento n. 1829/2003 del 22 settembre 2003 (Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio relativo agli alimenti ed ai mangimi geneticamente modificati), disciplinando con analoghe forme di tutela il regime degli alimenti geneticamente modificati, ha chiarito (art. 7, comma 5) che “l’autorizzazione concessa secondo la procedura […] è valida in tutta la Comunità”, ed ha introdotto nel corpo della direttiva 2001/18/CE l’art. 26 bis, secondo il quale “gli Stati membri possono adottare tutte le misure opportune per evitare la presenza involontaria di OGM in altri prodotti”. Questa stessa disposizione si riferisce espressamente anche alla “coesistenza tra colture transgeniche, convenzionali ed organiche”.
Su un piano connesso, ma distinto, la raccomandazione 2003/556/CE del 23 luglio 2003 (Raccomandazione della Commissione recante orientamenti per lo sviluppo di strategie nazionali e migliori pratiche per garantire la coesistenza tra colture transgeniche, convenzionali e biologiche) disciplina in modo espresso ed analitico la coesistenza tra colture transgeniche, convenzionali e biologiche nell’ambito della produzione agricola, ponendo inoltre come sua esplicita premessa il principio che “nell’Unione europea non deve essere esclusa alcuna forma di agricoltura, convenzionale, biologica e che si avvale di OGM” (primo “considerando”).
Al riguardo, la Corte evidenzia che tale raccomandazione, muovendo dalla premessa secondo cui “gli aspetti ambientali e sanitari” connessi alla coltivazione di OGM sono affrontati e risolti esaustivamente alla luce del regime autorizzatorio disciplinato dalla direttiva 2001/18/CE, circoscrive espressamente il proprio campo applicativo ai soli “aspetti economici connessi alla commistione tra colture transgeniche e non transgeniche”, in relazione alle “implicazioni” che l’impiego di OGM può comportare sulla “organizzazione della produzione agricola” (introduzione, paragrafo 1.1).
Il fatto che l’impiego di OGM autorizzati in agricoltura sia garantito dalla normativa comunitaria – rileva ulteriormente la Corte – ha trovato ulteriore conferma nella decisione 2003/653/CE della Commissione europea del 2 settembre 2003 (relativa alle disposizioni nazionali sul divieto di impiego di organismi geneticamente modificati nell’Austria superiore, notificate dalla Repubblica d’Austria a norma dell’art. 95, par. 5, del Trattato CE), con cui, ai sensi dell’art. 95 del Trattato, è stato respinto un progetto di legge del Land dell’Austria superiore inteso a vietare in via generale sul proprio territorio l’utilizzo di OGM al fine di proteggere i sistemi di produzione agricola tradizionali. In questa decisione si è affermato che, in presenza delle disposizioni comunitarie in materia miranti a “ravvicinare la legislazione degli Stati membri”, questi ultimi non possono impedire la coltivazione delle sementi OGM autorizzate, ma semmai eventualmente utilizzare la apposita “clausola di salvaguardia” di cui all’art. 23 della medesima direttiva, peraltro sempre in riferimento all’impiego di singoli OGM.
Per ciò che riguarda la normativa italiana in questa materia, il decreto legislativo 8 luglio 2003 n. 224 (Attuazione della direttiva 2001/18/CE concernente l’emissione deliberata nell’ambiente di organismi geneticamente modificati), recependo la direttiva 2001/18/CE, pone un’analitica e complessa disciplina di tutela allo specifico fine di “proteggere la salute umana, animale e l’ambiente relativamente alle attività di rilascio di organismi geneticamente modificati” (art. 1, comma 1).
Con specifico riguardo all’impiego di OGM in agricoltura, l’art. 8, comma 2, lettera c), del medesimo d.lgs. n. 224 del 2003 impone che la notifica preliminare all’emissione nell’ambiente di OGM, necessaria ai fini dell’autorizzazione da parte dell’autorità nazionale competente, contenga la “valutazione del rischio per l’agrobiodiversità, i sistemi agrari e la filiera agroalimentare, in conformità alle prescrizioni stabilite dal decreto” di cui al successivo comma 6.
Una siffatta disciplina presenta una chiaro nesso di strumentalità rispetto a finalità di tutela dell’ambiente e della salute: il Ministro dell’ambiente è individuato come “autorità nazionale competente” (art. 2); presso il Ministero dell’ambiente viene costituita una “Commissione interministeriale di valutazione” (con una presenza solo minoritaria di rappresentanti regionali) (art. 6); si regolano analiticamente procedure di autorizzazione, controllo, vigilanza, sanzionate anche penalmente, e si introduce l’obbligo di risarcimento per chi provochi, in violazione delle disposizioni del decreto legislativo stesso, danni “alle acque, al suolo, al sottosuolo e ad altre risorse ambientali” che non siano eliminabili “con la bonifica ed il ripristino ambientale” (art. 36).
Il decreto interministeriale previsto dall’art. 8, comma 6, del d.lgs. n. 224 del 2003 è stato adottato in data 19 gennaio 2005 (Prescrizioni per la valutazione del rischio per l’agrobiodiversità, i sistemi agrari e la filiera agroalimentare relativamente alle attività di rilascio deliberato nell’ambiente di OGM per qualsiasi fine diverso dall’immissione sul mercato): questo testo normativo reca dettagliate previsioni concernenti il “rischio per l’agrobiodiversità, i sistemi agrari e la filiera agroalimentare”, attribuendo ad un decreto interministeriale il potere di definire “i protocolli tecnici operativi per la gestione del rischio delle singole specie GM” (art. 1, comma 2). Al tempo stesso, alcune funzioni vengono attribuite alle Regioni e queste compongono in maggioranza il Comitato tecnico di coordinamento, che opera presso il Ministero delle politiche agricole e forestali.
In particolare, si prevede che la emissione degli OGM nell’ambiente, per qualsiasi fine diverso dalla immissione sul mercato, debba avvenire in appositi “siti” – e cioè terreni di proprietà o gestiti “da istituti di ricerca pubblici, università, enti di sviluppo agricolo, sistema delle agenzie per la protezione dell’ambiente (APAT/ARPA), regioni e province autonome, enti locali” – individuati dalle Regioni interessate (art. 3).
In tale contesto è stato approvato l’impugnato decreto-legge 22 novembre 2004, n. 279, che esplicitamente si dichiara attuativo della raccomandazione 2003/556/CE, al fine di disciplinare il “quadro normativo minimo per la coesistenza tra le colture transgeniche, e quelle convenzionali e biologiche” ed esclude, invece, dalla propria area di competenza le colture per fini di ricerca e sperimentazione autorizzate ai sensi del d.m. 19 gennaio 2005.
Gli artt. 1 e 2 del decreto-legge muovono dalla sussistenza del principio, di derivazione comunitaria, di coesistenza tra le colture transgeniche e quelle convenzionali e biologiche, per poi articolarlo in alcune regole generali.
L’adozione delle “misure di coesistenza” necessarie per dare ulteriore attuazione a tale principio è, peraltro, affidata dall’art. 3 del decreto-legge n. 279 del 2004 ad un decreto “di natura non regolamentare” del Ministro per le politiche agricole e forestali, “adottato d’intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, emanato previo parere delle competenti Commissioni parlamentari”. A questo atto è attribuito il potere di definire “le norme quadro per la coesistenza”, in coerenza con le quali le Regioni approveranno i propri piani di coesistenza, adottando appositi “provvedimenti” (artt. 3 e 4); questo stesso atto statale individua “le diverse tipologie di risarcimento dei danni” per inosservanza delle misure del piano di coesistenza e definisce “le modalità di accesso del conduttore agricolo danneggiato al Fondo di solidarietà nazionale”; esso disciplina inoltre le forme di utilizzo “di specifici strumenti assicurativi da parte dei conduttori agricoli” (art. 5, comma 1-ter) e definisce “le modalità di accesso del conduttore agricolo danneggiato al Fondo di solidarietà” (art. 4, comma 3-bis); infine, con un atto analogo si deliberano le norme sulle “modalità di controllo” (art. 7, comma 4).
Il piano di coesistenza è adottato con “provvedimento” di ciascuna Regione e Provincia autonoma e “contiene le regole tecniche per realizzare la coesistenza, prevedendo strumenti che garantiscono la collaborazione degli enti territoriali locali, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza” (art. 4.1). Fino all’adozione dei singoli piani di coesistenza, “le colture transgeniche, ad eccezione di quelle autorizzate per fini di ricerca e di sperimentazione, non sono consentite” (art. 8).
Infine, l’art. 7 prevede un altro organo consultivo nazionale, il “Comitato consultivo in materia di coesistenza tra colture transgeniche, convenzionali e biologiche”, a composizione mista e con una presenza minoritaria di esperti designati dalla Conferenza permanente Stato-Regioni.
Alla luce dell’articolato quadro normativo, la Corte sottolinea come non vi siano dubbi che il d.lgs. 8 luglio 2003 n. 224, di recepimento della direttiva 2001/18/CE, ed il d.m. 19 gennaio 2005, che ad esso ha dato attuazione, operano in un’area normativa riconducibile in via primaria alla tutela dell’ambiente, e solo in via secondaria alla tutela della salute e della ricerca scientifica. D’altronde appare significativo del condiviso primato in materia dello Stato, pur in presenza di alcune competenze regionali, sia il riconoscimento in esse di un ruolo sostanzialmente secondario delle Regioni, sia la stessa mancata impugnativa di questi atti normativi statali da parte delle Regioni.
Diverso è l’esito del processo di individuazione della materia entro cui ricondurre la coltivazione degli organismi geneticamente modificati a fini produttivi. Il decreto-legge n. 279 del 2004, oggetto di ricorso, è stato espressamente adottato “in attuazione della raccomandazione della Commissione 2003/556/CE del 23 luglio 2003” (art. 1), atto comunitario che disciplina l’“organizzazione della produzione agricola” per gli aspetti “economici” conseguenti all’utilizzo in agricoltura di OGM ed, invece, estraneo a profili “ambientali e sanitari”. Si tratta di un atto comunitario che si inserisce in un preesistente quadro normativo vincolante, relativo alla prevenzione di potenziali pregiudizi per l’ambiente e la salute umana legati all’impiego di OGM. Inoltre, nel formulare tale raccomandazione, la Commissione europea muove dal presupposto, ormai non più controverso nel diritto comunitario, costituito dalla facoltà di impiego di OGM in agricoltura, purché autorizzati.
Per la parte, quindi, che si riferisce al principio di coesistenza e che implicitamente ribadisce la liceità dell’utilizzazione in agricoltura degli OGM autorizzati a livello comunitario, il legislatore statale con l’adozione del decreto-legge n. 279 del 2004 ha esercitato la competenza legislativa esclusiva dello Stato in tema di tutela dell’ambiente (art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione), nonché quella concorrente in tema di tutela della salute (art. 117, terzo comma, della Costituzione), con ciò anche determinando l’abrogazione per incompatibilità dei divieti e delle limitazioni in tema di coltivazione di OGM che erano contenuti in alcune legislazioni regionali.
Infatti, la formulazione e specificazione del principio di coesistenza tra colture transgeniche, biologiche e convenzionali rappresenta il punto di sintesi fra i divergenti interessi, di rilievo costituzionale, costituiti da un lato dalla libertà di iniziativa economica dell’imprenditore agricolo e dall’altro lato dall’esigenza che tale libertà non sia esercitata in contrasto con l’utilità sociale, ed in particolare recando danni sproporzionati all’ambiente e alla salute.
Va aggiunto che l’imposizione di limiti all’esercizio della libertà di iniziativa economica, sulla base dei principi di prevenzione e precauzione nell’interesse dell’ambiente e della salute umana, può essere giustificata costituzionalmente solo sulla base di “indirizzi fondati sulla verifica dello stato delle conoscenze scientifiche e delle evidenze sperimentali acquisite, tramite istituzioni e organismi, di norma nazionali o sovranazionali, a ciò deputati, dato l’essenziale rilievo che, a questi fini, rivestono gli organi tecnico scientifici” (sentenza n. 282 del 2002).
Inoltre, l’elaborazione di tali indirizzi non può che spettare alla legge dello Stato, chiamata ad individuare il “punto di equilibrio fra esigenze contrapposte” (sentenza n. 307 del 2003), che si imponga, in termini non derogabili da parte della legislazione regionale, uniformemente sull’intero territorio nazionale (sentenza n. 338 del 2003).
Sulla base di tali premesse, la Corte dichiara non fondate le censure rivolte avverso gli artt. 1 e 2 del decreto-legge n. 279 del 2004, giacché tali disposizioni, nel fornire una definizione di colture transgeniche, biologiche e convenzionali (art. 1), e nell’affermare il principio di coesistenza di tali colture, in forme tali da “tutelarne le peculiarità e le specificità produttive”, sono espressive della competenza esclusiva dello Stato nella materia “tutela dell’ambiente”, e della competenza concorrente nella materia “tutela della salute”.
Relativamente alle questioni poste sulle ulteriori disposizioni impugnate, la Corte osserva che, mentre il rispetto del principio di coesistenza delle colture transgeniche con le forme di agricoltura convenzionale e biologica inerisce ai principi di tutela ambientale elaborati dalla normativa comunitaria e dalla legislazione statale, invece la coltivazione a fini produttivi riguarda chiaramente il “nocciolo duro della materia agricoltura, che ha a che fare con la produzione di vegetali ed animali destinati all’alimentazione” (sentenza n. 12 del 2004). Infatti, il decreto-legge n. 279 del 2004, mentre esclude in modo espresso dalla sua area di efficacia proprio le colture transgeniche realizzate sulla base del d.m. 19 gennaio 2005, atto di attuazione del d.lgs. 8 luglio 2003 n. 224 (che, a sua volta, recepisce la direttiva 2001/18/CE), mira palesemente a disciplinare la produzione agricola in presenza anche di colture transgeniche.
Ciò non toglie che questa disciplina, pur essenzialmente riferita alla materia agricoltura, di competenza delle Regioni ai sensi del quarto comma dell’art. 117 Cost. (sentenze n. 282 e n. 12 del 2004), debba o possa essere accompagnata dal parallelo esercizio della legislazione statale in ambiti di esclusiva competenza dello Stato (come, ad esempio, per quanto attiene alla disciplina dei profili della responsabilità dei produttori agricoli) o in ambiti di determinazione dei principi fondamentali, ove vengano in gioco materie legislative di tipo concorrente.
Tale non è tuttavia – precisa la Corte – il caso degli artt. 3, 4 e 7 del decreto-legge n. 279 del 2004, quali convertiti dalla legge n. 5 del 2005.
In queste norme anzitutto si stabiliscono le modalità per adottare le “norme quadro per la coesistenza” (art. 3), prevedendo un atto statale dalla indefinibile natura giuridica (cui peraltro si attribuisce la disciplina di materie che necessiterebbero di una regolamentazione tramite fonti primarie). In secondo luogo, si prevede lo sviluppo ulteriore di queste “norme quadro” attraverso piani regionali di natura amministrativa (art. 4). Scelte del genere sono peraltro lesive della competenza legislativa delle Regioni nella materia agricoltura, dal momento che non può essere negato, in tale ambito, l’esercizio del potere legislativo da parte delle Regioni per disciplinare le modalità di applicazione del principio di coesistenza nei diversi territori regionali, notoriamente molto differenziati dal punto di vista morfologico e produttivo. Infine, neppure appare giustificabile la creazione di un nuovo organo consultivo statale, strettamente strumentale all’esercizio dei poteri ministeriali di cui all’art. 3 (art. 7).
La dichiarazione di illegittimità costituzionale di tali disposizioni ingenera la necessità di una analoga dichiarazione concernente il comma 1 dell’art. 6 del decreto-legge n. 279 del 2004, quale convertito dalla legge n. 5 del 2005, dal momento che la regolamentazione delle sanzioni amministrative spetta al soggetto competenze a dettare la disciplina della materia la cui inosservanza è in tal modo sanzionata (fra le molte, le sentenze n. 63 del 2006; n. 384 e n. 50 del 2005).
Quanto, poi, agli artt. 5, commi 3 e 4, ed 8, appare sufficiente per la loro dichiarazione di illegittimità costituzionale la constatazione che le loro discipline si pongono in nesso inscindibile con le norme che la Corte ritiene illegittime, con particolare riferimento alle “norme quadro” statali di cui all’art. 3 del decreto-legge n. 279 del 2004 ed ai piani di coesistenza regionali di cui all’art. 4 del medesimo testo normativo.
Del pari, l’incostituzionalità dell’art. 6, comma 2, recante sanzioni penali in caso di inosservanza del divieto posto dall’art. 8, deriva dal suo stretto rapporto con quanto disciplinato in tale ultima disposizione.

4.5. L’operare congiunto di una pluralità di titoli competenziali
La compresenza di molteplici titoli competenziali che insistono su un determinato settore normativo è riscontrabile in molteplici occasioni, anche nella giurisprudenza costituzionale del 2006. Generalmente, la pluralità di competenze viene ordinata in ragione del criterio della «prevalenza»; ciò non è, però, sempre possibile, come dimostra la sentenza n. 450.
La Corte è chiamata a verificare la conformità a Costituzione della legge della Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste 4 novembre 2005, n. 25, recante «Disciplina per l’installazione, la localizzazione e l’esercizio di stazioni radioelettriche e di strutture di radiotelecomunicazioni. Modificazioni alla legge regionale 6 aprile 1998, n. 11 (Normativa urbanistica e di pianificazione territoriale della Valle d’Aosta).
Prima di passare ad esaminare le censure nei confronti delle singole disposizioni, la Corte chiarisce che non è possibile individuare un unico ambito materiale in cui tali disposizioni rinvengano la loro legittimazione. Infatti, il settore relativo alla installazione, localizzazione ed esercizio di impianti di comunicazione elettronica investe contestualmente una pluralità di materie, disciplinate, per quanto attiene alle Regioni ad autonomia speciale e alle Province autonome di Trento e Bolzano, sia negli statuti speciali, sia, in assenza di norme statutarie al riguardo, nelle disposizioni costituzionali contenute nel nuovo Titolo V ed operanti, a favore dei predetti enti, attraverso il meccanismo di adeguamento automatico di cui all’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione).
In particolare, avendo riguardo allo statuto speciale per la Valle d’Aosta, viene, innanzitutto, in rilievo la materia dell’urbanistica attribuita alla potestà legislativa primaria regionale (art. 2, lettera g), per tutto ciò che attiene all’uso del territorio e alla localizzazione di impianti o attività.
La Regione può, inoltre, rinvenire – mediante la clausola di equiparazione di cui al richiamato art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001 – il fondamento costituzionale della propria potestà legislativa anche nelle norme contenute nel nuovo Titolo V. A tal fine, rilevano essenzialmente le materie di competenza ripartita relative, da un lato, alla «tutela della salute», per i profili inerenti alla protezione dall’inquinamento elettromagnetico, e, dall’altro, all’«ordinamento della comunicazione», per quanto riguarda gli aspetti connessi alla realizzazione degli impianti di comunicazione elettronica (sentenze n. 336 del 2005 e n. 307 del 2003).
A ciò va aggiunto che la disciplina relativa agli impianti concernenti infrastrutture necessarie alle comunicazioni elettroniche ha punti di collegamento anche con la potestà legislativa esclusiva dello Stato, di tipo trasversale, in relazione alle materie della «tutela dell’ambiente» e della «tutela della concorrenza».
La prima censura investe l’art. 5 della predetta legge regionale n. 25 del 2005, nella parte in cui prevede che «i progetti di rete e le varianti ai progetti di rete già approvati» devono essere presentati, dagli operatori, ai soggetti indicati dal secondo comma del precedente art. 4, corredati dello schema funzionale e della documentazione idonea ad attestare, per ogni stazione radioelettrica, «i dati anagrafici, tecnici, topografici e fotografici».
La questione non risulta fondata, in quanto il ricorrente – assumendo che la norma impugnata prevede un «controllo tecnico della progettazione» idoneo a compromettere il principio della unitarietà e funzionalità delle reti – muove da un erroneo presupposto interpretativo.
Al riguardo, occorre premettere che, sulla base di principi desumibili dalla legislazione statale, la definizione delle tecnologie concernenti gli impianti che, unitariamente, costituiscono la rete delle infrastrutture di comunicazione elettronica, è riservata allo Stato, in forza di quanto disposto dalla legge n. 36 del 2001 e dal d.lgs. n. 259 del 2003.
Ciò vale ad escludere che sia configurabile una competenza regionale per quanto attiene alla approvazione dei progetti di rete o delle relative varianti che si discostino dagli standards tecnici fissati in sede nazionale. Diverso discorso si impone per quelle normative regionali che, ferma la suddetta competenza dello Stato, prevedano scambi o acquisizioni di informazioni, anche d’ordine tecnico, tra i soggetti (o dai soggetti) variamente interessati alla realizzazione della rete infrastrutturale.
Dalla lettura coordinata degli artt. 4, 5 e 16 della legge regionale impugnata, risulta che la documentazione tecnica, che deve essere allegata al progetto di rete, non è funzionale, come sostenuto dal ricorrente, ad un controllo di natura tecnica sul contenuto della progettazione, bensì ad uno scopo puramente conoscitivo; la suddetta documentazione è, infatti, destinata a confluire nel «catasto regionale delle stazioni radioelettriche» previsto dal citato art. 16. Più precisamente, tale ultima norma stabilisce che il catasto è istituito presso l’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente (ARPA) e contiene la mappa delle stazioni radioelettriche presenti sul territorio regionale ed il relativo archivio informatizzato dei dati tecnici ed anagrafici delle stesse e di quelli topografici riferiti ad apposite cartografie.
È, dunque, riscontrabile, sotto il profilo oggettivo, una sostanziale coincidenza tra i dati che devono confluire nel suddetto catasto regionale ai sensi del citato art. 16 e i dati che devono essere contenuti nella documentazione allegata dagli operatori di settore ai progetti di rete e alle loro varianti.
Infine, i dati confluiti nel catasto regionale devono essere coordinati, per i profili di possibile intersezione, con quanto prescritto, a livello nazionale, dal d.lgs. n. 259 del 2003 ai fini della formazione di una «banca dati centralizzata per la costituzione di un catasto nazionale di raccolta dei dati stessi».
Esula, dunque, dal contenuto della norma impugnata la previsione di un controllo tecnico sulle modalità di realizzazione della rete e degli impianti, che sia affidato agli enti locali, i quali, in ipotesi, potrebbero imporre standards tecnici difformi da (o comunque non coerenti con) quelli adottati per l’intera rete nazionale in vista di esigenze di omogeneità ed unitarietà di questa.
Risulta invece incostituzionale l’art. 6, comma 4, della stessa legge regionale n. 25 del 2005, nella parte in cui prevede che la Giunta regionale stabilisce con propria deliberazione la misura dei diritti di istruttoria o di ogni altro onere posto a carico degli operatori interessati ad ottenere l’approvazione dei progetti e delle varianti in relazione all’attività di consulenza tecnica svolta dall’ARPA.
Ad avviso dello Stato, tale disposizione si porrebbe in contrasto con il principio fondamentale di cui all’art. 93 del d.lgs. n. 259 del 2003, il quale vieta a tutte le pubbliche amministrazioni di imporre «oneri o canoni» che non siano stabiliti dalla legge statale.
Analogamente da censurare è ritenuto l’art. 15 della legge n. 25 del 2005, che attribuisce alla Giunta regionale il potere di stabilire gli oneri economici in relazione all’attività di consulenza tecnica svolta dall’ARPA nell’ambito dei procedimenti autorizzatori previsti dal Capo III della medesima legge.
In via preliminare, la Corte precisa che le norme in esame non ricevono alcuna legittimazione da parte dello statuto speciale. L’ambito materiale prevalente cui le stesse afferiscono riguarda, infatti, in relazione all’oggetto regolamentato inerente all’attività svolta dall’ARPA, la “tutela della salute”, e in relazione, invece, alla finalità perseguita, la “tutela della concorrenza”.
Chiarito ciò, la Corte rileva di avere già affermato (sentenza n. 336 del 2005) che l’art. 93 del d.lgs. n. 259 del 2003, richiamato dal ricorrente quale norma interposta, costituisce «espressione di un principio fondamentale, in quanto persegue la finalità di garantire a tutti gli operatori un trattamento uniforme e non discriminatorio, attraverso la previsione del divieto di porre, a carico degli stessi, oneri o canoni. In mancanza di un tale principio, infatti, ciascuna Regione potrebbe liberamente prevedere obblighi “pecuniari” a carico dei soggetti operanti sul proprio territorio, con il rischio, appunto, di una ingiustificata discriminazione rispetto ad operatori di altre Regioni, per i quali, in ipotesi, tali obblighi potrebbero non essere imposti. È evidente che la finalità della norma è anche quella di “tutela della concorrenza”, sub specie di garanzia di parità di trattamento e di misure volte a non ostacolare l’ingresso di nuovi soggetti nel settore».
Nel caso in esame, la previsione di un potere della Giunta regionale di determinare la misura di oneri economici posti a carico degli operatori, in relazione all’attività di consulenza tecnica svolta dall’ARPA - che è un ente strumentale della Regione stessa, è suscettibile di determinare un trattamento discriminatorio e non uniforme tra gli operatori del settore, con conseguente violazione del principio fissato dal legislatore statale.
Da ultimo, il ricorrente censura l’art. 14, comma 1, della legge regionale in esame, nella parte in cui assoggetta al regime della denuncia di inizio di attività (DIA) una serie di interventi edilizi sulle strutture («ricettori passivi, tralicci, pali, recinzioni, locali di ricovero, cavidotti, cabine elettriche») indicate dall’art. 2, comma 1, lettera h), della stessa legge.
La censura non risulta fondata. Ai fini della individuazione della portata della norma impugnata, la Corte osserva, innanzitutto, che i predetti interventi devono essere realizzati su postazioni e strutture, la cui installazione è stata già oggetto di autorizzazione (art. 11 della legge n. 25 del 2005), ovvero di presentazione di una denuncia di inizio attività (art. 13 della stessa legge), vale a dire su opere già realizzate ed in esercizio.
Infine, si rileva che, nel caso di specie, gli interventi contemplati dalla norma impugnata concernono aspetti di natura essenzialmente edilizia, per i quali può ritenersi sufficiente la mera denuncia di inizio attività in luogo dell’esplicito provvedimento autorizzatorio.
In definitiva, la disposizione censurata si limita a contemplare uno strumento di semplificazione procedimentale per interventi edilizi di minore impatto, su strutture già esistenti ed autorizzate.
Deve, pertanto, ritenersi che l’impugnato art. 14, comma 1, della legge regionale n. 25 del 2005 trovi legittimazione nella potestà legislativa primaria che lo statuto della Valle d’Aosta attribuisce alla Regione in materia “urbanistica” (per l’inerenza della denuncia di inizio attività alla suddetta materia, si vedano le sentenze n. 336 del 2005 e n. 303 del 2003). Potestà legislativa che incontra il limite (nella specie, però, non rinvenibile) delle «norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica» (art. 2 dello statuto speciale della Regione Valle d’Aosta) e non anche il limite della normativa di competenza statale, soltanto espressiva, ai sensi dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione, di principi fondamentali della materia “governo del territorio”, atteso che non possono trovare qui applicazione le disposizioni del novellato Titolo V, in connessione con l’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001.
Un altro esempio di decisione che ha ad oggetto ambiti materiali nei quali deve constatarsi la sussistenza di una pluralità di materie è la sentenza n. 106, nella quale la Corte esamina l’impugnativa della Provincia autonoma di Trento avverso gli articoli 9, 10 e 11 del decreto legislativo 19 novembre 2004, n. 297, recante “Disposizioni sanzionatorie in applicazione del regolamento (CEE) n. 2081/92, relativo alla protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni di origine dei prodotti agricoli e alimentari”.
Riguardo alle censure mosse dalla Provincia autonoma ricorrente nei confronti dell’art. 11 del d.lgs. n. 297 del 2004, che riserva al Ministero delle politiche agricole e forestali la competenza ad adottare le sanzioni amministrative accertate ai sensi degli artt. 8, 9 e 10 del medesimo decreto legislativo, la Corte rileva che la Provincia non contesta la competenza dello Stato, non solo ad operare la scelta tra sanzioni penali e sanzioni amministrative, ma anche, una volta effettuata tale scelta, a determinare l’entità delle sanzioni amministrative.
Questa premessa contraddice l’assunto della Provincia autonoma secondo il quale la disciplina dettata dal d.lgs. n. 297 del 2004 rientrerebbe integralmente nelle materie “agricoltura” e “commercio” e, pertanto, nell’area della competenza legislativa residuale che l’art. 117, comma quarto, della Costituzione, riserva alle Regioni.
Il carattere accessorio della potestà di disciplinare le sanzioni rispetto alla materia presidiata dalle sanzioni stesse implica, ove la potestà in questione spetti allo Stato, la compresenza di una pluralità di materie, talune delle quali spettanti alla competenza (quanto meno concorrente) dello Stato e, comunque, l’esigenza di una disciplina uniforme che solo il legislatore statale è in grado di assicurare (sentenza n. 361 del 2003; n. 63 del 2006).
Ne discende che l’attribuzione allo Stato del potere di irrogare le sanzioni previste dalla legislazione statale non contrasta con le norme costituzionali invocate dalla Provincia ricorrente, in quanto rispondente alla medesima esigenza di uniformità – contemplata dall’art. 118, comma primo, della Costituzione – che giustifica il potere di dettarne la disciplina (sentenza n. 63 del 2006).
Non fondate sono altresì le censure mosse agli artt. 9 e 10 del d.lgs. n. 297 del 2004, con le quali si lamenta, in sostanza, la sottrazione alla Provincia del potere amministrativo di vigilanza sugli organi di controllo operanti in materia di denominazione di origine (DOP) e di indicazioni geografiche protette (IGP).
Poiché la giurisprudenza della Corte è ferma nel negare che il potere di vigilanza sia autonomo rispetto alla materia cui inerisce, in quanto «la vigilanza è spesso la fonte dell’individuazione di fattispecie sanzionabili o comunque di carenze che richiedono interventi anche non sanzionatori diretti ad assicurare il rispetto di una determinata disciplina» (sentenze n. 384 del 2005; n. 63 del 2006), deve escludersi che le norme censurate, nella parte in cui prevedono l’esercizio di tale potere da parte di organi statali, siano affette da illegittimità costituzionale.
La censura di illegittimità costituzionale deve, a fortiori, essere respinta ove si consideri che la locuzione «accertamento delle violazioni» è tale da riservare alla competenza esclusiva del Ministero soltanto l’esito finale dell’attività di vigilanza, e cioè soltanto il potere di qualificazione, come “violazione”, dei comportamenti accertati dagli organi preposti alla vigilanza, ma non implica affatto la competenza ministeriale esclusiva in ordine alle attività di vigilanza.
L’analitica disciplina dell’attività di vigilanza, incentrata sulla competenza degli organi sia statali sia regionali (e delle province autonome), rende manifesto che tale attività non è riservata in via esclusiva allo Stato dagli artt. 9 e 10 del d.lgs. n. 297 del 2004, che, nel disciplinare l’attività di vigilanza, ne attribuisce la competenza sia allo Stato che alle regioni e province autonome.
In conclusione, si ribadisce che l’«accertamento delle violazioni», di cui agli artt. 9 e 10 censurati, consente anche allo Stato l’esercizio dell’attività di vigilanza, ma non ne espropria le regioni e province autonome, mentre riserva allo Stato il potere di qualificare come “violazione” i comportamenti accertati in sede di vigilanza e di irrogare le relative sanzioni.

4.6. L’attrazione in sussidiarietà
Con la sentenza n. 214, la Corte non rinviene i presupposti giustificativi, che consentono allo Stato l’attrazione in sussidiarietà delle funzioni, nel corso dell’esame del comma 5 dell’art. 5 del d. l. n. 35 del 2005, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 80 del 2005, il quale dispone che, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, possono essere dichiarati interventi infrastrutturali strategici e urgenti, ai sensi dell’art. 1 della legge 21 dicembre 2001, n. 443, e delle disposizioni dello stesso art. 5, le opere ed i lavori previsti nell’ambito delle concessioni autostradali già assentite, anche se non inclusi nel primo programma delle infrastrutture strategiche, approvato dal Comitato interministeriale per la programmazione economica (CIPE), con delibera n. 121/2001 del 21 dicembre 2001, la cui realizzazione o il cui completamento siano indispensabili per lo sviluppo economico del Paese.
In proposito, la Corte riafferma che, allorché sia ravvisabile, ai sensi dell’art. 118, comma primo, un’esigenza di esercizio unitario a livello statale di determinate funzioni amministrative, lo Stato è abilitato a disciplinare questa materia per legge e ciò pure se quelle funzioni amministrative siano riconducibili a materie di legislazione concorrente. Tuttavia i principi di sussidiarietà e di adeguatezza, in forza dei quali si verifica l’ascesa della funzione normativa (dal livello regionale a quello statale), convivono con il normale riparto di competenze contenuto nel Titolo V della Costituzione e possono giustificarne una deroga solo se la valutazione dell’interesse pubblico sottostante all’assunzione di funzioni regionali da parte dello Stato sia proporzionata, non risulti affetta da irragionevolezza alla stregua di uno scrutinio stretto di costituzionalità, sia oggetto di un coinvolgimento della Regione interessata (sentenze n. 383, n. 285, n. 270 e n. 242 del 2005, n. 6 del 2004, n. 303 del 2003).
Simili principi sono stati affermati anche con specifico riferimento alla legge n. 443 del 2001, la quale detta una disciplina che definisce il procedimento che deve essere seguito per l’individuazione, la localizzazione e la realizzazione delle infrastrutture pubbliche e private e degli insediamenti produttivi strategici di preminente interesse nazionale da realizzare per la modernizzazione e lo sviluppo del Paese. La citata sentenza n. 303 del 2003 ha chiarito che «predisporre un programma di infrastrutture pubbliche e private e di insediamenti produttivi è attività che non mette capo ad attribuzioni legislative esclusive dello Stato, ma che può coinvolgere anche potestà legislative concorrenti (governo del territorio, porti e aeroporti, grandi reti di trasporto, distribuzione nazionale dell’energia, etc.). Per giudicare se una legge statale che occupi questo spazio sia invasiva delle attribuzioni regionali o non costituisca invece applicazione dei principi di sussidiarietà e adeguatezza diviene elemento valutativo essenziale la previsione di un’intesa fra lo Stato e le Regioni interessate, alla quale sia subordinata l’operatività della disciplina».
L’art. 5, comma 5, del d. l. n. 35 del 2005, pur avendo anch’esso ad oggetto la realizzazione di opere e lavori previsti nell’ambito di concessioni autostradali (e dunque di opere che interferiscono con materie di potestà legislativa concorrente, quali il governo del territorio e le grandi reti di trasporto), non richiede alcun coinvolgimento delle Regioni (né, tanto meno, la necessità di un’intesa con esse), stabilendo solamente che le opere ed i lavori in questione verranno individuati con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri su proposta del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti.
Deve dunque essere dichiarata l’illegittimità costituzionale della norma nella parte in cui non prevede che le opere in essa contemplate debbano essere individuate seguendo il procedimento previsto dall’art. 1 della legge n. 443 del 2001.
Viene, invece, respinta l’impugnativa avverso il comma 7 dell’art. 5 del d. l. n. 35 del 2005, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 80 del 2005, nella parte in cui stabilisce che la nomina del commissario straordinario – al quale, in relazione alle opere di cui al precedente comma 5 dello stesso art. 5, vengono conferiti i poteri di cui all’art. 13 del decreto-legge 25 marzo 1997, n. 67, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 maggio 1997, n. 135 – avvenga «sentito il Presidente della Regione interessata».
Secondo la Corte, per quel che concerne la pretesa necessità della preventiva intesa con la Regione, si deve riconoscere che la norma impugnata prevede una forma di vigilanza sull’esercizio di funzioni che, in quanto assunte per sussidiarietà, sono qualificabili come statali, e non vi è alcuna prescrizione costituzionale dalla quale possa desumersi che il livello di collaborazione regionale debba consistere in una vera e propria intesa, anziché nella richiesta del parere del Presidente della Regione.
Per quanto riguarda la doglianza relativa alla mancata specificazione del carattere preventivo di tale parere, la piana interpretazione della norma impone di ritenere che il Presidente della Regione debba essere sentito prima della nomina del commissario straordinario. La disposizione stabilisce, infatti, che i commissari sono nominati «con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, sentito il Presidente della regione interessata» e l’uso del participio passato – «sentito» – indica che la nomina deve avvenire dopo che il Presidente della Regione abbia espresso il proprio parere.
Nella medesima decisione, la Corte ritiene che non sussistano le condizioni per la chiamata in sussidiarietà in relazione all’art. 12, comma 1, del d. l. n. 35 del 2005, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 80 del 2005, che prevede l’istituzione, tramite un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, di un Comitato nazionale per il turismo, allo scopo di assicurare il coordinamento stabile delle politiche di indirizzo del settore turistico in sede nazionale e la sua promozione all’estero.
La Corte, dopo aver premesso che il turismo, pur essendo materia di competenza legislativa residuale – circostanza che comunque non esclude la possibilità per la legge statale di attribuire funzioni legislative al livello centrale e di regolarne l’esercizio (sentenze n. 242 del 2005 e n. 6 del 2004) –, sottolinea che l’intervento legislativo statale non può essere considerato proporzionato perché il legislatore ha attratto, in capo al Comitato, una generale attività di coordinamento delle complessive politiche di indirizzo di tutto il settore turistico.
Inoltre, non è stata prevista alcuna forma di intesa con le Regioni, né la composizione del Comitato vale a colmare tale lacuna, poiché si prevede che ne facciano parte sette Ministri, il Presidente della Conferenza dei Presidenti delle Regioni, il coordinatore degli assessori regionali al turismo, cinque rappresentanti delle Regioni, tre rappresentanti delle principali associazioni di categoria, un rappresentante delle Camere di commercio, il Presidente dell’Associazione nazionale comuni d’Italia e quello dell’Unione province italiane. Come si vede, la partecipazione dei membri espressione delle Regioni non è affatto preponderante rispetto a quella dei componenti di origine statale; inoltre, Presidente del Comitato è il Ministro delle attività produttive, il quale, in relazione a specifiche tematiche in trattazione, può richiedere la partecipazione di altri Ministri. Deve dunque essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 12, comma 1, del d. l. n. 35 del 2005.
Sussistono, invece, i presupposti per l’attrazione in sussidiarietà in relazione ai commi 2, 3, 4 e 7 dell’art. 12 del d. l. n. 35 del 2005, i quali stabiliscono, rispettivamente, la trasformazione dell’ENIT in Agenzia nazionale del turismo «sottoposta all’attività di indirizzo e vigilanza del Ministro delle attività produttive», la personalità giuridica di diritto pubblico, con autonomia statutaria, regolamentare, organizzativa, patrimoniale, contabile e di gestione dell’Agenzia, la successione dell’Agenzia in tutti i rapporti giuridici attivi e passivi dell’ENIT, l’emanazione di un regolamento diretto alla definizione dell’organizzazione e della disciplina dell’Agenzia.
La Corte ritiene che dall’esame dello schema del regolamento disciplinante l’attività dell’Agenzia, sul quale è stata raggiunta l’intesa in seno alla Conferenza Stato-Regioni nella seduta del 15 dicembre 2005, emergono due dati essenziali. Il primo attiene al coinvolgimento delle Regioni, il quale risulta essere stato attuato in una forma incisiva, considerato che la previa intesa con la Conferenza Stato-Regioni è richiesta per la nomina di tutti gli organi dell’ente e che nel consiglio d’amministrazione, sui 15 componenti che si aggiungono al Presidente (nominato anch’esso con l’intesa della predetta Conferenza), sette sono espressione delle Regioni, quattro dello Stato ed altri quattro di associazioni sicuramente non riconducibili allo Stato (organizzazioni di categoria ed Unioncamere). Il secondo attiene ai limiti dell’attività dell’Agenzia, essenzialmente rivolta all’elaborazione di attività promozionale dell’offerta turistica italiana sulla base di un’immagine unitaria della stessa.
Per la Corte, l’iniziativa legislativa statale presenta tutti i caratteri richiesti dalla giurisprudenza costituzionale per la legittima attrazione a livello centrale di funzioni amministrative e della disciplina relativa al loro esercizio. In particolare, l’intervento legislativo dello Stato è giustificato attesa la rilevanza del turismo nell’ambito dell’economia italiana e l’estrema varietà dell’offerta turistica italiana. Inoltre, la valorizzazione di questa caratteristica presuppone un’attività promozionale unitaria, perché essa scaturisce solamente dalla combinazione delle offerte turistiche delle varie Regioni.
L’intervento dello Stato è anche proporzionato, perché i compiti affidati all’Agenzia sono solamente quelli strettamente connessi con la menzionata esigenza di unitarietà.
Quanto all’intesa con le Regioni, essa è prevista, dall’art. 7 del d.l. n. 35 del 2005, per l’emanazione del regolamento disciplinante gli organismi e l’attività del nuovo ente.

4.7. La ripartizione del potere regolamentare
La ripartizione del potere regolamentare costituisce un tema sovente evocato unitamente alla determinazione delle competenze legislative. In taluni casi, come quello del giudizio definito con la sentenza n. 246, la potestà regolamentare viene, però, in rilievo in maniera autonoma.
Nella citata decisione, la Corte rileva che l’art. 117, sesto comma, della Costituzione, attribuendo ai Comuni la potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni attribuite, esclude che la Regione possa dettare norme suppletive.
Tanto motiva la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 16, commi 1, 6 e 7, della legge della Regione Emilia-Romagna n. 26 del 2004 (Disciplina della programmazione energetica territoriale ed altre disposizioni in materia di energia). Il comma 1 di tale disposizione stabilisce che la Giunta regionale «emana, entro dodici mesi dall’entrata in vigore della presente legge, uno o più regolamenti volti a disciplinare le procedure autorizzative di propria competenza». Ai sensi del successivo comma 6, «gli enti locali esercitano il potere regolamentare in ordine alla organizzazione ed allo svolgimento delle funzioni ad essi attribuite ai sensi della presente legge», mentre il comma 7 prevede che, fino a quando tali regolamenti non siano entrati in vigore, anche ai procedimenti autorizzativi di competenza degli enti locali si applichino i regolamenti regionali di cui al comma 1, i quali cesseranno di avere efficacia non appena entrino in vigore i regolamenti locali.
La Corte rileva che, conformemente al dettato dell’art. 117, sesto comma, della Costituzione, l’art. 16, comma 6, della legge impugnata riconosce agli enti locali il potere regolamentare concernente l’organizzazione e lo svolgimento delle funzioni che la medesima legge regionale attribuisce loro in materia di energia; tuttavia, quanto disposto dal successivo comma 7 illegittimamente contraddice questa normativa, il quale in realtà amplia, seppure in via suppletiva, l’oggetto del regolamento quale definito dal comma 1 dell’art. 16 («disciplinare le procedure autorizzative di propria competenza»), estendendolo alla disciplina dell’organizzazione e dell’esercizio delle funzioni attribuite ai Comuni e agli altri enti locali territoriali.
Tuttavia, se il legislatore regionale nell’ambito delle proprie materie legislative dispone discrezionalmente delle attribuzioni di funzioni amministrative agli enti locali, ulteriori rispetto alle loro funzioni fondamentali, anche in considerazione dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza di cui al primo comma dell’art. 118 della Costituzione, non può contestualmente pretendere di affidare ad un organo della Regione – neppure in via suppletiva – la potestà regolamentare propria dei Comuni o delle Province in riferimento a quanto attribuito loro dalla legge regionale medesima. Nei limiti, infatti, delle funzioni attribuite dalla legge regionale agli enti locali, solo questi ultimi possono – come espressamente affermato nell’ultimo periodo del sesto comma dell’art. 117 Cost. – adottare i regolamenti relativi all’organizzazione ed all’esercizio delle funzioni loro affidate dalla Regione.
La previsione oggetto di censura non potrebbe neppure giustificarsi nell’ambito dei poteri sostitutivi ordinari della Regione sugli enti locali: ammesso, infatti, che i poteri sostitutivi siano configurabili in relazione ai regolamenti degli enti locali, si tratterebbe comunque, nel caso di specie, di un intervento preventivo, configurato oltretutto in assenza di una qualunque ipotesi di inadempimento da parte dell’ente locale rispetto ad un obbligo a provvedere, come è confermato sia dal primo comma dell’art. 16, che prevede un termine di dodici mesi per l’adozione degli stessi regolamenti regionali, sia dal quarto comma dello stesso art. 16, che prevede che in attesa dei regolamenti regionali «si applichino le norme e le procedure vigenti».

5. Il principio cooperativo
Il principio di leale cooperazione connota fortemente il regionalismo italiano: nella disamina relativa al riparto delle competenze normative se ne sono avute molteplici conferme. Rinviando a quanto sin qui detto per l’analisi dell’incidenza del principio sulla ripartizione delle funzioni tra i livelli territoriali (in relazione, ad esempio, alle sentenze numeri 42 e 105), giova qui soffermarsi su alcune statuizioni e su alcuni passaggi che hanno avuto precipuamente riguardo allo scrutinio inerente ad aspetti procedimentali. Tre decisioni sono, in particolare, da menzionare.
Due pronunce si segnalano in quanto gli atti sottoposti all’esame della Corte disattendono esplicitamente il principio di leale collaborazione tra Stato e Regione.
Con la sentenza n. 21, vengono annullati i decreti del 18 novembre 2004 DEC/DPN 2211 e dell’8 giugno 2005 DEC/DPN 1048 con i quali è stato prorogato l’incarico del commissario straordinario dell’Ente Parco nazionale dell’arcipelago toscano, in quanto non spetta al Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio la nomina del commissario straordinario dell’Ente Parco nazionale dell’arcipelago toscano nel caso in cui tale nomina avvenga senza che sia stato avviato e proseguito il procedimento per raggiungere l’intesa per la nomina del Presidente.
Al riguardo, la Corte sottolinea che, investita di identica questione in relazione alla nomina del commissario straordinario dello stesso Ente, ha stabilito che – mentre l’art. 9 della legge 6 dicembre 1991, n. 394, dopo avere individuato, al comma 2, fra gli organi dell’Ente parco il Presidente, dispone, nel successivo comma 3, che lo stesso è nominato con decreto del Ministro dell’ambiente, d’intesa con i Presidenti delle Regioni o delle Province autonome di Trento e Bolzano, nel cui territorio ricada in tutto o in parte il parco nazionale – nessuna disposizione prevede fra gli organi dell’Ente il commissario straordinario, ed ha aggiunto che ciò non esclude il potere del Ministro dell’ambiente di nominarlo nell’esercizio della vigilanza sulla gestione delle aree naturali protette di rilievo internazionale e nazionale, riconosciutagli dagli artt. 9, comma 1, e 21, comma 1, della legge n. 394 del 1991, puntualizzando che tale potere non è, però, esercitabile liberamente (sentenza n. 27 del 2004).
Nella stessa decisione si è, infatti, precisato che «proprio per il fatto che alla nomina del commissario si giunge in difetto di nomina del Presidente, per il mancato perfezionamento dell’intesa ed in attesa che ad essa si pervenga, condizione di legittimità della nomina del primo è, quantomeno, l’avvio e la prosecuzione delle procedure per la nomina del secondo». Si è altresì aggiunto che «il mancato rispetto della necessaria procedimentalizzazione per la nomina del Presidente rende illegittima la nomina del commissario straordinario, mentre è irrilevante il problema concernente l’apposizione di un termine alla permanenza in carica del Commissario straordinario, poiché la nomina risulta illegittima a prescindere da qualsiasi termine che fosse stato posto alla sua durata»; si è poi concluso che «l’illegittimità della condotta dello Stato non risiede pertanto nella nomina in sé di un Commissario straordinario, senza la previa intesa con il Presidente della Regione Toscana, ma nel mancato avvio e sviluppo della procedura dell’intesa per la nomina del Presidente, che esige, laddove occorra, lo svolgimento di reiterate trattative volte a superare, nel rispetto del principio di leale cooperazione tra Stato e Regione, le divergenze che ostacolino il raggiungimento di un accordo e che sole legittimano la nomina del primo».
Questi principi risultano violati in occasione dell’emanazione dei due decreti ministeriali impugnati, non potendo considerarsi avvio e sviluppo della procedura dell’intesa per la nomina del Presidente dell’Ente parco la riproposizione dello stesso nominativo da parte del Ministro dell’ambiente (in presenza del rifiuto della controparte di aderire a tale designazione) e la mancata risposta a designazioni alternative formulate dal Presidente della Regione Toscana.
Nella successiva sentenza n. 31, la Corte dichiara che non spetta all’Agenzia del demanio escludere la partecipazione delle Regioni al procedimento diretto all’alienazione di aree situate nel territorio della stessa Regione e appartenenti al demanio idrico dello Stato.
La Corte, dopo aver menzionato l’art. 5-bis del d.l. n. 143 del 2003, che disciplina il procedimento di alienazione di aree appartenenti al patrimonio e al demanio dello Stato, escluso il demanio marittimo, interessate dallo sconfinamento di opere eseguite entro il 31 dicembre 2002 su fondi attigui di proprietà altrui, ritiene che la necessaria valutazione ponderata degli interessi pubblici coinvolti esclude che possa procedersi ad una sdemanializzazione ope legis di aree non identificate né dalle amministrazioni competenti né dallo stesso legislatore, ma individuate solo per la loro contiguità ad opere eseguite mediante sconfinamento su terreni demaniali. Lo stesso legislatore ha cura di escludere in modo assoluto e incondizionato dalla procedura accelerata di alienazione il demanio marittimo e le aree sottoposte a tutela ai sensi del testo unico in materia di beni culturali e ambientali.
Non emerge dalla norma statale in questione una volontà di generale declassificazione di aree demaniali, da cedere ai soggetti sconfinanti dietro mera richiesta e pagamento del prezzo. Al contrario, il legislatore statale mostra particolare attenzione a non pregiudicare interessi collettivi primari collegati ai beni pubblici oggetto della specifica disciplina dettata per l’alienazione. Non appare ragionevole un’interpretazione della norma in esame che presuppone, accanto all’esclusione generalizzata di alcune categorie di beni, ispirata ad una logica di forte garanzia dell’interesse pubblico, un altrettanto generalizzato abbandono di tutte le rimanenti aree demaniali, esclusa ogni valutazione concreta da parte delle amministrazioni locali competenti, ispirato all’opposta logica della dismissione incontrollata del patrimonio pubblico. Un consolidato insegnamento ermeneutico impone che, prima di constatare una contraddizione intrinseca nel corpo di una disposizione normativa, si esplori la possibilità di dare al testo da interpretare un significato coerente e ragionevole e solo nell’ipotesi di esito negativo di tale ricerca si concluda per l’irreparabile irragionevolezza della stessa.
Nel caso oggetto del presente giudizio l’interpretazione con esiti contraddittori del citato art. 5-bis del d.l. n. 143 del 2003 non è una strada obbligata, giacché è ben possibile, anzi necessario, interpretare la medesima disposizione come disciplina dei rapporti tra l’amministrazione statale ed i soggetti richiedenti, fermo restando il quadro normativo e istituzionale preesistente, che non risulta superato o alterato da alcuna delle norme in essa contenute. Di tale quadro fanno parte i rapporti tra Stato e Regioni in materia di governo del territorio, con particolare riferimento al demanio idrico, sul quale deve concentrarsi l’analisi giuridica necessaria ai fini dello scrutinio di costituzionalità dell’atto impugnato.
L’art. 86 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 dispone che «alla gestione dei beni del demanio idrico provvedono le Regioni e gli enti locali competenti per territorio»; il secondo comma aggiunge: «i proventi dei canoni ricavati dalla utilizzazione del demanio idrico sono introitati dalla Regione». I successivi artt. 89 e 105 elencano in modo dettagliato le funzioni conferite alle Regioni e agli enti locali.
Alla luce del nuovo testo dell’art. 118 Cost., dopo la riforma del Titolo V della Parte II, l’attribuzione alle Regioni ed agli enti locali delle funzioni amministrative in materia è sorretta dal principio di sussidiarietà, che implica l’allocazione delle funzioni amministrative al livello di governo il più possibile prossimo alle comunità amministrate. D’altronde, l’esercizio dei poteri dominicali dello Stato nei confronti dei beni del demanio idrico deve necessariamente ispirarsi anche al principio costituzionale di leale collaborazione, proprio perché occorre in concreto bilanciare l’interesse dello Stato proprietario e gli interessi delle collettività locali fruitrici dei beni.
La Corte ha costantemente affermato che il principio di leale collaborazione deve presiedere a tutti i rapporti che intercorrono tra Stato e Regioni: la sua elasticità e la sua adattabilità lo rendono particolarmente idoneo a regolare in modo dinamico i rapporti in questione, attenuando i dualismi ed evitando eccessivi irrigidimenti. La genericità di questo parametro, se utile per i motivi sopra esposti, richiede tuttavia continue precisazioni e concretizzazioni. Queste possono essere di natura legislativa, amministrativa o giurisdizionale, a partire dalla ormai copiosa giurisprudenza costituzionale. Una delle sedi più qualificate per l’elaborazione di regole destinate ad integrare il parametro della leale collaborazione è attualmente il sistema delle Conferenze Stato-Regioni e autonomie locali. Al suo interno si sviluppa il confronto tra i due grandi sistemi ordinamentali della Repubblica, in esito al quale si individuano soluzioni concordate di questioni controverse.
In materia di demanio idrico, in sede di Conferenza unificata è stato sottoscritto, nella seduta del 20 giugno 2002, un accordo rilevante per l’oggetto della presente controversia: «risultando in alcuni casi particolarmente attive le procedure di “sdemanializzazione” (vendita al privato di aree demaniali), il provvedimento finale di sdemanializzazione potrà essere assunto solo a seguito di parere favorevole delle Regioni e Province autonome, tenuto anche conto degli indirizzi della Autorità di bacino».
Accordi come quello appena citato rappresentano la via maestra per conciliare esigenze unitarie e governo autonomo del territorio, poteri dominicali e interessi delle collettività amministrate. Il principio di leale collaborazione, anche in una accezione minimale, impone alle parti che sottoscrivono un accordo ufficiale in una sede istituzionale di tener fede ad un impegno assunto.
Una norma legislativa, come l’art. 5-bis del d.l. n. 143 del 2003, intervenuta ad un anno di distanza dal citato accordo, senza che sul punto ci fossero state altre forme di interlocuzione ufficiali ed istituzionali tra Stato e Regioni, si inserisce nel quadro sopra tracciato e deve essere letta al suo interno. Solo in estrema ipotesi si potrebbe concludere per una deliberata ed unilaterale deroga all’accordo da parte dello Stato, a mezzo della norma citata. Come già detto, tale conclusione non è autorizzata dal testo della disposizione in parola, che nulla dice a proposito dei rapporti tra istituzioni e si limita a fissare le regole procedurali che devono disciplinare la presentazione delle domande ed i rapporti tra privati e Agenzia del demanio territorialmente competente.
L’acquisizione del parere della Regione si colloca in un altro circuito di rapporti, che attiene alla valutazione ponderata degli interessi pubblici in gioco, rispetto ai quali viene in rilievo la competenza regionale in materia di gestione del demanio idrico stabilita dall’art. 86 del d.lgs. n. 112 del 1998, rispetto al quale l’accordo del 2002 si pone esplicitamente in funzione attuativa.
In mancanza di una chiara e inequivocabile volontà legislativa contraria, si deve ritenere che un’interpretazione sistematica dell’art. 86 del d.lgs. n. 112 del 1998, dell’accordo Stato-Regioni del 20 giugno 2002 e dell’art. 5-bis del d.l. n. 143 del 2003 conduca alla conclusione della perdurante attualità del ruolo della Regione nell’apprezzare la sussistenza di eventuali ragioni ostative alla cessione a terzi dei beni del demanio idrico. Al riguardo occorre infatti tener conto della precipua destinazione di tali beni alla soddisfazione di interessi delle comunità regionali e locali, che non possono essere sacrificati in partenza da una generale sdemanializzazione, legata soltanto all’interesse particolare dei privati sconfinanti ed all’interesse finanziario dello Stato, realizzato peraltro in misura modesta.
Il senso dell’art. 86 più volte citato è proprio quello di attribuire all’ente esponenziale della comunità regionale, con la gestione del demanio idrico, tutte le funzioni amministrative inerenti agli interessi pubblici delle collettività locali soddisfatti dai beni del suddetto. È irragionevole, pertanto, un’interpretazione dell’art. 5-bis del d.l. n. 143 del 2003 nel senso che lo stesso introduca un’innovazione particolare rispetto al regime giuridico generale precedente, escludendo in modo radicale la Regione da ogni interlocuzione nelle procedure di vendita a terzi dei beni del demanio idrico.
La totale esclusione della Regione dal procedimento delineato dall’atto impugnato non è conseguenza necessaria della legislazione ordinaria vigente, che al contrario richiede come indispensabile la partecipazione della Regione, in quanto portatrice di interessi costituzionalmente protetti delle collettività locali. Alla luce di ciò, la chiusura unilaterale del procedimento prescritto dell’Agenzia del demanio menoma, con riferimento ai beni appartenenti al demanio idrico compresi nel territorio regionale, in modo illegittimo la sfera di attribuzioni della ricorrente e si pone in violazione del principio di leale collaborazione tra Stato e Regioni.
Sempre con riferimento all’applicazione del principio di leale cooperazione, deve menzionarsi la sentenza n. 181, che ha negato fondamento alla censura di violazione del principio dedotta dalla Regione con riferimento al mancato coinvolgimento, quanto all’adozione della disposizione impugnata, della Conferenza permanente Stato-Regioni, a norma dell’art. 2 del d.lgs. n. 281 del 1997 o dell’art. 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001.
La Corte ha già avuto modo di precisare che il mancato coinvolgimento della predetta Conferenza, sia nella fase di emanazione del decreto-legge, che in quella della conversione in legge, non integra un vizio di costituzionalità della norma statale, né postula, di per sé, la lesione del principio di leale collaborazione tra lo Stato e le Regioni (sentenze n. 272 del 2005, n. 196 del 2004). È, pertanto, da escludere la fondatezza della tesi prospettata dalla Regione ricorrente secondo cui si sarebbe dovuto seguire, nella specie, «un intervento di codecisione paritaria con le Regioni».

6. L’autonomia finanziaria
Anche nel corso del 2006, la Corte ha reso diverse importanti decisioni relative alla struttura dell’autonomia finanziaria degli enti territoriali disegnata dall’art. 119 della Costituzione. Tali decisioni vengono ripartite in tre ambiti fondamentali, corrispondenti all’enunciazione di principi di coordinamento della finanza pubblica, all’istituzione di fondi a destinazione vincolata da parte dello Stato ed agli interventi speciali dello Stato.

6.1. I principi di coordinamento della finanza pubblica

Strettamente attinenti al controllo ed coordinamento della finanza pubblica, con particolare riferimento al ruolo attribuito alla Corte dei Conti, sono le affermazioni contenute nella sentenza n. 267, in occasione dell’esame della legge della Regione Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste 19 maggio 2005, n. 10, che disciplina l’istituzione ed il funzionamento dell’Autorità di vigilanza sulla gestione finanziaria «al fine di assicurare il controllo sulla corretta gestione delle risorse collettive da parte della Regione, degli enti locali, dei loro enti ed aziende strumentali in qualsiasi forma costituiti».
Secondo il ricorrente, la legge regionale n. 10 del 2005, nei suoi artt. 1, 2 e 10 – e nelle «altre disposizioni con tali articoli collegate» – violerebbe anzitutto gli artt. 117, terzo comma, e 119, secondo comma, della Costituzione. Posto, infatti, che il coordinamento della finanza pubblica è materia di legislazione concorrente, le norme denunciate si sarebbero «profondamente discostate» dai principi desumibili dagli artt. 3 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, venendosi a sovrapporre «alle funzioni del controllo proprie della Corte dei conti, le cui competenze non sono in alcun modo fatte salve».
Per la Corte, tale assunto non può essere condiviso: ben differenti, infatti, sono i fini per i quali operano ed i piani su cui si collocano la Corte dei conti, da un lato, e l’Autorità di cui alla legge della Regione Valle d’Aosta, dall’altro.
A tal fine, si rammenta che, in base all’art. 3 della legge n. 20 del 1994, il controllo “sulla gestione”, differenziandosi dal controllo interno “di gestione”, concomitante all’azione della pubblica amministrazione e di natura amministrativa, costituisce un controllo successivo ed esterno all’amministrazione, di natura imparziale e collaborativa.
L’estensione di tale controllo a tutte le amministrazioni pubbliche, comprese le Regioni e gli enti locali, è il frutto di una scelta del legislatore che ha riconosciuto alla Corte dei conti il ruolo di organo posto al servizio dello “Stato-comunità”, quale garante imparziale dell’equilibrio economico-finanziario del settore pubblico e della corretta gestione delle risorse collettive sotto il profilo dell’efficacia, dell’efficienza e dell’economicità.
La disciplina posta dalla legge n. 20 del 1994 ha assunto peraltro maggior rilievo a seguito dei vincoli derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea, tra cui, in particolare, l’obbligo imposto agli Stati membri di rispettare un determinato equilibrio complessivo del bilancio nazionale, secondo quanto precisato dalla risoluzione del Consiglio europeo del 17 giugno 1997 relativa al “patto di stabilità e crescita”. A tali vincoli si riconnette essenzialmente la normativa nazionale sul “patto di stabilità interno”, il quale coinvolge Regioni ed enti locali nella «realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica», scaturenti, appunto, dalla ricordata risoluzione, e che è stato diversamente modulato negli anni in forza di disposizioni legislative che, in ogni caso, a partire dalla legge n. 289 del 2002 (finanziaria 2003), sono qualificate come «principi fondamentali del coordinamento della finanza pubblica ai sensi degli articoli 117, terzo comma, e 119, secondo comma, della Costituzione».
In linea di continuità si pone, quindi, l’art. 7, commi da 7 a 9, della legge n. 131 del 2003, che, nel mutato quadro costituzionale, a seguito della riforma del Titolo V, valorizza, in un’ottica collaborativa, il controllo sulla gestione, attribuendo alla Corte dei conti, «ai fini del coordinamento della finanza pubblica», il compito di verificare «il rispetto degli equilibri di bilancio da parte di Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni, in relazione al patto di stabilità interno ed ai vincoli derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea». Una previsione, quest’ultima, che va letta anche nella prospettiva di quanto stabilito dall’art. 248 del Trattato CE, in ordine al controllo negli Stati membri della Corte dei conti europea, da effettuarsi «in collaborazione con le istituzioni nazionali di controllo».
In tale più ampio, ma unitario contesto, essenzialmente volto a salvaguardare l’equilibrio complessivo della finanza pubblica, si inserisce il controllo affidato alle sezioni regionali della Corte dei conti dal comma 7 del citato art. 7, secondo cui è compito delle predette sezioni verificare, «nel rispetto della natura collaborativa del controllo sulla gestione, il perseguimento degli obiettivi posti dalle leggi statali o regionali di principio e di programma, secondo la rispettiva competenza, nonché la sana gestione finanziaria degli enti locali ed il funzionamento dei controlli interni», riferendo sugli esiti delle verifiche «esclusivamente ai consigli degli enti controllati».
Risulta, quindi, evidente che la possibilità data, dal già richiamato comma 7 dell’art. 7 della legge n. 131 del 2003, alle Regioni a statuto speciale, «nell’esercizio della loro competenza, di adottare particolari discipline nel rispetto delle suddette finalità», non pone in nessun caso in discussione la finalità di uno strumento, quale il controllo sulla gestione delle risorse collettive, affidato alla Corte dei conti. Del resto, la necessità di coordinamento della finanza pubblica, nel cui ambito materiale si colloca il controllo esterno sulla gestione, riguarda pure le Regioni e le Province ad autonomia differenziata, non potendo dubitarsi che anche la loro finanza sia parte della “finanza pubblica allargata”, (in particolare, sentenza n. 425 del 2004).
Nel richiamato quadro ordinamentale, lo Stato e la Regione Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste dovranno dunque provvedere, secondo la procedura di cui all’art. 48-bis dello statuto valdostano, all’istituzione della sezione regionale di controllo della Corte dei conti.
Come detto, diverso è il piano su cui si colloca e differenti sono i fini che caratterizzano l’attività dell’Autorità di vigilanza, che, in quanto espressione dell’ordinamento regionale, agisce nell’interesse esclusivo della Regione alla corretta gestione delle risorse finanziarie destinate ai bisogni della propria collettività. Trattandosi, poi, di un controllo ovviamente limitato alle gestioni di carattere regionale e locale, esso non è in grado di invadere l’ambito del controllo che, a fini di coordinamento dell’intera finanza pubblica anche con riguardo al rispetto dei vincoli comunitari, soltanto le Sezioni regionali della Corte dei conti, in quanto componenti dell’unitario sistema di controlli esercitati dalla stessa Corte nel suo complesso, possono perseguire.
In definitiva, le disposizioni denunciate, configurando un’Autorità di vigilanza che svolge un’attività di controllo interno alla Regione, a fini di collaborazione con il Consiglio regionale, presso il quale risulta istituita, e che non si sovrappone, né pone limitazioni a quella di livello unitario da esercitarsi dalla Corte dei conti, si collocano nell’ambito delle previsioni di cui agli artt. 2, primo comma, lettere a) e b), e 3, comma primo, lettera f), dello statuto di autonomia, e cioè delle materie, rispettivamente, dell’ordinamento degli uffici regionali e degli enti locali e dell’attuazione ed integrazione delle leggi della Repubblica in tema di finanze regionali e comunali.
Di qui, l’insussistenza del contrasto con gli evocati parametri di cui agli artt. 114, 117, terzo comma, e 119, secondo comma, della Costituzione e della dedotta violazione del principio di leale collaborazione.
Sempre con riferimento ai principi di coordinamento della finanza pubblica, con la sentenza n. 88, la Corte accoglie il ricorso della Regione Friuli-Venezia Giulia avverso l’art. 1, comma 103, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, dove si dispone che «a decorrere dall’anno 2008, le amministrazioni possono, previo esperimento delle procedure di mobilità, effettuare assunzioni a tempo indeterminato entro i limiti delle cessazioni dal servizio verificatesi nell’anno precedente».
Motiva la Corte che l’art. 4, n. 1), dello statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia riconosce alla Regione potestà legislativa primaria in materia di «ordinamento degli uffici e degli Enti dipendenti dalla Regione»; locuzione che, letta in connessione con quanto la medesima norma prevede subito dopo riguardo «allo stato giuridico ed economico del personale», rende chiaro come l’autonomia regionale debba potersi manifestare non solo nel disciplinare normativamente i propri uffici, ma anche nell’organizzarli, destinando ad essi il personale ritenuto necessario.
Ciò posto, la norma censurata comprime illegittimamente l’autonomia regionale imponendo limiti precisi e puntuali (e non già di principio – quale il «previo esperimento delle procedure di mobilità» – idonei a contenere la spesa corrente), non giustificabili dall’esigenza di coordinare la spesa pubblica; esigenza che lo Stato può salvaguardare prescrivendo “criteri ed obiettivi” ma senza «imporre nel dettaglio gli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere quegli obiettivi».
Nella sentenza n. 399, la Corte ritiene che non esuli dai poteri statali di coordinamento della finanza pubblica imporre a tutte le autorità pubbliche di garantire a tutti il diritto all’informazione ambientale utilizzando a tali fini le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente. Pertanto, non risulta fondata la questione dalla Regione Friuli-Venezia Giulia avverso l’art. 12 del d.lgs n. 195 del 2005, sollevata sul rilievo secondo cui la disposizione imporrebbe alla Regione stessa un vincolo molto puntuale.
Per la Corte, la norma impugnata non pone un vincolo puntuale relativo ad una singola voce di spesa, dal quale potrebbe derivare una lesione dell’autonomia finanziaria regionale, bensì una prescrizione a carattere generale volta a limitare la spesa pubblica complessiva, che rientra nella funzione di coordinamento finanziario spettante allo Stato per ragioni connesse ad obiettivi nazionali.
L’autonomia finanziaria regionale non risulta violata – come rilevato nella sentenza n. 214 – dal comma 5 dell’art. 12 del decreto legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge14 maggio 2005, n. 80, nella parte in cui esso prevede che, tra le entrate per mezzo delle quali l’Agenzia nazionale del turismo (succeduto all’ENIT, a seguito della sua trasformazione) provvede alle spese necessarie per il proprio funzionamento, rientrano anche contributi delle Regioni.
Ritiene la Corte che la disposizione non enuncia alcun criterio in ordine alla quantificazione dei contributi regionali, circostanza che rende palese come, in realtà, siano le Regioni che debbono stabilire se contribuire alle spese dell’Agenzia ed in quale misura.
Una simile conclusione è avvalorata dalla disciplina della materia delle entrate contenuta nello schema del regolamento previsto per il funzionamento dell’Agenzia in cui si dispone che l’Agenzia provvede alle spese necessarie per il proprio funzionamento «principalmente attraverso contributi dello Stato» e, in aggiunta, anche attraverso altre entrate, tra le quali contempla «contributi delle regioni».
Dunque, poiché l’art. 12, comma 5, del d. l. n. 35 del 2005 deve essere interpretato nel senso che il riferimento ai contributi regionali in esso contenuto non è impositivo di un obbligo finanziario a carico delle Regioni, bensì vale semplicemente quale previsione della liceità di contributi regionali al finanziamento dell’attività dell’Agenzia, la prospettata questione di legittimità costituzionale della norma per contrasto con l’art. 119 Cost. non è fondata.

6.2. L’istituzione di fondi speciali statali a destinazione vincolata
Anche nel 2006, la Corte ha proseguito l’opera demolitoria nei confronti di leggi che prevedono la istituzione di fondi speciali a destinazione vincolata, incidendo illegittimamente su sfere di competenza regionale.
In occasione della sentenza n. 118, la dichiarazione di incostituzionalità colpisce il comma 111 dell’art. 1 della legge 30 dicembre 2004, n. 311, dove si dispone che, «allo scopo di favorire l’accesso delle giovani coppie alla prima casa di abitazione, è istituito, per l’anno 2005, presso il Ministero dell’economia e delle finanze, un fondo per il sostegno finanziario all’acquisto di unità immobiliari da adibire ad abitazione principale in regime di edilizia convenzionata da cooperative edilizie, aziende territoriali di edilizia residenziale pubbliche ed imprese private».
La Corte precisa che non è consentita, nelle materie riservate alla competenza esclusiva o concorrente delle Regioni, l’istituzione di fondi speciali o comunque la destinazione, in modo vincolato, di risorse finanziarie, senza lasciare alle Regioni e agli enti locali un qualsiasi spazio di manovra. E ciò anche nell’ipotesi in cui siano previsti interventi finanziari statali, nelle medesime materie, destinati direttamente a soggetti privati. Diversamente, attraverso l’imposizione di precisi vincoli di destinazione nell’utilizzo delle risorse da assegnare alle Regioni, si violerebbero i «criteri e limiti che presiedono all’attuale sistema di autonomia finanziaria regionale, delineato dal nuovo art. 119 della Costituzione, che non consentono finanziamenti di scopo per finalità non riconducibili a funzioni di spettanza statale» (sentenza n. 423 del 2004).
Orbene, nella specie, con il comma 111 dell’art. 1, della legge n. 311 del 2004, sono state introdotte disposizioni che non trovano la loro fonte legittimante in alcuna delle materie di competenza esclusiva dello Stato, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, della Costituzione. Pertanto, poiché si verte in materie nelle quali non è individuabile una specifica competenza statale, deve ritenersi sussistente la competenza della Regione. Consegue che la disposizione impugnata è lesiva dell’autonomia finanziaria e amministrativa delle Regioni, alle quali la quota parte del fondo così istituito, a ciascuna spettante, dovrà essere assegnata genericamente per finalità sociali senza il suindicato vincolo di destinazione specifica.
Egualmente incostituzionale si rivela la seconda disposizione contenuta nel comma 153 dell’art. 1 della medesima legge, dove si dispone che «nell’ambito del Fondo nazionale per le politiche sociali di cui all’art. 59, comma 44, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, è destinata una quota di 500.000 euro per l’anno 2005 per l’istituzione di un Fondo speciale al fine di promuovere le politiche giovanili finalizzate alla partecipazione dei giovani sul piano culturale e sociale nella società e nelle istituzioni, mediante il sostegno della loro capacità progettuale e creativa e favorendo il formarsi di nuove realtà associative nonché consolidando e rafforzando quelle già esistenti».
Anche in questo caso, la norma impugnata viola l’autonomia finanziaria ed amministrativa delle Regioni, in quanto destina, in modo vincolato, risorse in una materia non riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, della Costituzione. Nella specie, inoltre, l’illegittimità costituzionale della disposizione appare vieppiù evidente, considerando che le somme destinate a costituire il nuovo fondo speciale sono tratte dalle risorse del Fondo nazionale per le politiche sociali di cui all’art. 59, comma 44, della legge 449 del 1997, vale a dire da un fondo nazionale a prevalente destinazione regionale. Né è dato individuare un qualsiasi titolo che giustifichi l’intervento finanziario diretto dello Stato, tanto nell’ipotesi in cui il fondo speciale per i giovani debba essere ripartito tra le Regioni, quanto nel caso in cui lo stesso debba essere erogato dallo Stato direttamente a favore di soggetti privati; alternativa questa non sciolta dalle norme, che nulla dispongono a tale riguardo.
In conseguenza della dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 153, della legge impugnata, resta, comunque, fermo che la quota parte della somma reintegrata nel Fondo potrà essere dalle Regioni medesime utilizzata, nella misura spettante a ciascuna di esse per finalità sociali con discrezionale apprezzamento degli scopi da perseguire.

6.3. Gli interventi speciali dello Stato

Con la sentenza n. 451, la Corte esamina le censure della Regione Emilia-Romagna avverso i commi da 112 a 115 dell’art. 3 della legge 24 dicembre 2003, n. 350, in quanto introdurrebbero, in materia di edilizia residenziale pubblica, disposizioni puntuali sulla stipula delle convenzioni tra il comune e le imprese di costruzione, sui requisiti di reddito, sulla dimensione massima degli alloggi, sulla durata dei contratti di locazione ed i loro rinnovi.
Sono poi denunciati i commi da 108 a 110 del medesimo art. 3, che istituiscono un Fondo per l’edilizia a canone speciale senza che sia prevista alcuna forma di collaborazione con le Regioni.
È censurato, inoltre, il comma 111 dello stesso art. 3, in quanto attribuirebbe al Ministro delle infrastrutture poteri di tipo regolamentare di elevata discrezionalità e rilevanza politica per la determinazione delle agevolazioni fiscali a favore degli investimenti (lettera a) e della misura in cui i redditi derivanti dalla locazione concorrono a determinare la base imponibile dei percettori (lettera b). Il predetto comma 111 viene altresì denunciato nella parte in cui prevede che il costo delle misure ivi previste vada detratto dall’ammontare della dotazione finanziaria del Fondo. Tutte le censure sono incentrate sulla pretesa violazione delle competenze regionali e del principio di leale collaborazione.
La Corte non condivide le doglianze della Regione sulla base della ratio delle disposizioni impugnate.
Il Fondo per l’edilizia a canone speciale, istituito, ai sensi del comma 108 della legge n. 350 del 2003, presso il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, è finalizzato alla stipulazione di contratti di locazione a canone speciale in favore di soggetti il cui reddito annuo sia superiore a quello massimo previsto dalle leggi regionali per la concessione di alloggi di edilizia residenziale pubblica, ma inferiore all’importo determinato, ai sensi della stessa legge n. 350 del 2003, dalla Regione nel cui territorio si trovano le unità immobiliari di cui si tratta.
L’obiettivo precipuo della disciplina si muove nella direzione di un ampliamento della platea dei soggetti beneficiari di un canone agevolato, allo scopo di rimuovere quei limiti che permangono in ordine alla fruizione del diritto sociale all’abitazione, specie là dove, in considerazione dell’alta tensione abitativa, le quotazioni di mercato delle locazioni risultano particolarmente elevate.
È dunque alla luce di siffatta finalità che si provvede, annualmente e con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, alla ripartizione del Fondo tra le Regioni nei cui territori si trovano i comuni ad alta densità abitativa, proporzionalmente alla popolazione complessiva dei comuni compresi negli elenchi, previo parere delle competenti commissioni parlamentari (comma 109). Si prevedono, quindi, le modalità del riparto del Fondo e si individuano quali destinatari delle misure previste dalla disciplina in esame i «comuni ad alta tensione abitativa».
Con siffatta ultima locuzione è evidente che il legislatore ha inteso riferirsi all’elenco di quei comuni che deve essere predisposto con delibera del Comitato interministeriale per la programmazione economica (CIPE) «sentite le regioni».
Le somme in tal modo stanziate sono, quindi, utilizzate per l’attuazione di programmi finalizzati alla costruzione e al recupero di unità immobiliari site nel territorio di comuni determinati: quelli ad alta tensione abitativa (comma 110). Pur nel silenzio della norma, deve ritenersi che la predisposizione dei programmi sia rimessa alla competenza regionale, trattandosi comunque di interventi che investono il settore dell’edilizia e che, dunque, attengono, sotto tale profilo, alla materia del “governo del territorio”, attribuita alla competenza legislativa concorrente (art. 117, terzo comma, Cost.).
Al fine, poi, di incentivare gli investimenti necessari per i predetti programmi, il comma 111 contempla talune agevolazioni fiscali in favore delle Regioni, lasciando la loro individuazione ad un decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze.
L’attuazione concreta dei programmi, predisposti dalle Regioni, spetta, come prevede il comma 112, ai comuni, i quali dovranno provvedere alla stipula con le imprese di costruzione di una convenzione.
In virtù di quanto testé evidenziato, deve ritenersi che la disciplina recata dalle norme denunciate integri uno di quegli “interventi speciali” cui fa riferimento l’art. 119, quinto comma, Cost. e cioè interventi che, come la Corte ha già avuto modo di precisare (sentenza n. 16 del 2004), essendo aggiuntivi rispetto al finanziamento (art. 119, quarto comma) delle funzioni spettanti ai Comuni o agli altri enti locali, devono riferirsi alle finalità di perequazione e di garanzia enunciate nella stessa norma costituzionale (promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale; rimuovere gli squilibri economici e sociali; favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona), o comunque a scopi diversi dal normale esercizio delle funzioni, nonché debbono essere indirizzati a determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni.
Nella fattispecie, lo strumento di finanziamento risulta qualificato sia da una specifica finalità, che è diversa dal “normale esercizio” delle funzioni dei comuni, giacché consiste nel peculiare ampliamento della platea dei beneficiari di quella normativa in tema di abitazione che la vigente disciplina regionale non riuscirebbe a soddisfare, in quanto il loro reddito sarebbe «superiore a quello massimo previsto dalle leggi regionali per la concessione di alloggi di edilizia residenziale pubblica» (art. 3, comma 113); sia perché esso è disposto in favore di “determinati” comuni, che, come si è visto, sono quelli inseriti negli elenchi predisposti ed aggiornati da parte del CIPE.
Le norme censurate, nel consentire un idoneo coinvolgimento regionale nell’attuazione delle politiche facenti capo al Fondo, soddisfano, peraltro, anche l’esigenza di non escludere le Regioni dall’esercizio di qualsiasi compito di programmazione e di riparto dei fondi all’interno del proprio territorio; esigenza che sorge qualora la peculiare misura disposta ai sensi del quinto comma dell’art. 119 Cost. coinvolga effettivamente ambiti di competenza regionale.
Nella fattispecie, all’autonomia regionale è riservato, infatti, un adeguato spazio di intervento nella fase di ripartizione delle risorse del Fondo attraverso la definizione dell’elenco dei comuni ad alta tensione abitativa, la cui consistenza demografica funge, appunto, da criterio per la distribuzione degli stanziamenti. Non solo le Regioni devono essere “sentite” dal CIPE ai fini della predisposizione dell’elenco di detti comuni, ma – come risulta dalle stesse delibere del CIPE – è stata ad esse affidata, nel rispetto di criteri sottoposti al vaglio della Conferenza permanente tra Stato, Regioni e Province autonome, l’individuazione stessa dei comuni ad alta tensione abitativa.
Sempre alle Regioni, nel rispetto della loro competenza concorrente in materia di “governo del territorio”, è rimessa la predisposizione dei programmi abitativi, alla cui attuazione concreta dovranno poi provvedere i comuni interessati.

7. Il potere sostitutivo
Nella sentenza n. 397, la Corte ha modo di pronunciarsi compiutamente sul potere sostitutivo regionale, con specifico riguardo all’art. 11, comma 3, della legge della Regione Sardegna 2 agosto 2005, n. 12, nella parte in cui prevede che il Presidente della Regione nomina un commissario ad acta qualora i presidenti delle Comunità montane non provvedano, entro il termine stabilito dal primo comma dello stesso art. 11, ad inviare all’assessore degli enti locali una serie di dati indicati al precedente comma 2). Secondo il ricorrente la Regione avrebbe disatteso i limiti che la Corte ha fissato con riferimento alla modalità di esercizio dei poteri sostitutivi ed in particolare non sarebbe stato garantito il rispetto del principio di leale collaborazione attraverso la previsione di un procedimento volto a promuovere il coinvolgimento degli enti inadempienti.
Al riguardo, la Corte – richiamando, in particolare la sentenza n. 43 del 2004 – ribadisce che l’art. 120, secondo comma, della Costituzione «non può essere inteso nel senso che esaurisca, concentrandole tutte in capo allo Stato, le possibilità di esercizio di poteri sostitutivi». La Corte ha, pertanto, ritenuto ammissibile che la legge regionale, intervenendo in materie di propria competenza, preveda «anche poteri sostitutivi in capo ad organi regionali, per il compimento di atti o di attività obbligatorie, nel caso di inerzia o di inadempimento da parte dell’ente competente, al fine di salvaguardare interessi unitari che sarebbero compromessi dall’inerzia o dall’inadempimento medesimi» (così la citata sentenza n. 43 del 2004).
In particolare, la Corte ha affermato che la legge regionale deve «apprestare congrue garanzie procedimentali […], in conformità al principio di leale collaborazione […], non a caso espressamente richiamato anche dall’articolo 120, secondo comma, ultimo periodo, della Costituzione a proposito del potere sostitutivo “straordinario” del Governo, ma operante più in generale nei rapporti fra enti dotati di autonomia costituzionalmente garantita». E le garanzie procedimentali, assicurate dalla previsione di idonee forme collaborative, devono essere osservate anche quando venga in rilievo una attività interamente vincolata nel contenuto.
Orbene, l’esercizio di detti poteri presuppone che ci si trovi di fronte ad «enti dotati di autonomia costituzionalmente garantita». Deve cioè trattarsi degli enti previsti dagli articoli 114 e 118 della Costituzione, vale a dire Comuni, Province e Città metropolitane.
Soltanto quando la Regione eserciti il suddetto potere sostitutivo nei confronti di tali enti si rende necessario, sul piano costituzionale, il rispetto di una procedura articolata di garanzia che impone, tra l’altro, la costante osservanza di regole di cooperazione e consultazione con i soggetti inerti o inadempienti. In altri termini, la Regione, mediante l’esercizio di un siffatto potere sostitutivo, subentra, per il soddisfacimento di interessi unitari, nell’esercizio di funzioni amministrative di cui all’art. 118 Cost. Venendo, pertanto, in rilievo funzioni costituzionalmente garantite a tali soggetti, trova giustificazione la necessità che sia previsto e disciplinato un «procedimento nel quale l’ente sostituito sia comunque messo in grado di evitare la sostituzione attraverso l’autonomo adempimento, e di interloquire nello stesso procedimento» (sentenza n. 43 del 2004). La ragione insita nella necessità costituzionale di un rigido meccanismo cooperativo risiede, dunque, nella esigenza di consentire all’ente locale, all’esito di una puntuale contestazione o diffida da parte del competente organo regionale, di potere svolgere le funzioni che la Costituzione direttamente gli attribuisce. In quest’ottica, soltanto nel caso in cui detto ente persista nell’inerzia o nell’inadempimento può giustificarsi un esercizio in via sostitutiva delle relative funzioni da parte della Regione.
La medesima procedura di garanzia, caratterizzata dagli stessi limiti, non deve necessariamente essere prevista dalla normativa regionale, a pena di incostituzionalità, nella ipotesi in cui si consenta l’esercizio di poteri sostitutivi regionali nei confronti di enti sub-regionali sforniti di autonomia costituzionale, come appunto le Comunità montane dopo la riforma del Titolo V.
Ciò in diretta conseguenza della circostanza che gli artt. 114 e 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione non trovano applicazione nei confronti delle Comunità montane, in quanto in tali disposizioni si fa esclusivo riferimento ai Comuni, alle Province e alle Città metropolitane e l’indicazione deve ritenersi tassativa (sentenze numeri 456 e 244 del 2005). Allo stesso modo non si estende alle Comunità montane il sistema delle garanzie, in sede di esercizio delle funzioni amministrative, assicurato dal nuovo art. 118 della Costituzione.
In conclusione, dunque, non venendo in rilievo enti ad autonomia costituzionalmente garantita, non possono essere utilmente richiamati i criteri e i limiti che la giurisprudenza costituzionale ha elaborato in relazione al modello di potere sostitutivo – diverso da quello contemplato dalla norma impugnata – esercitato nei confronti degli enti che, invece, per espressa statuizione costituzionale, godono di siffatte garanzie.
Tuttavia, ciò non significa che nei casi in cui il potere sostitutivo concerne enti non dotati di autonomia costituzionalmente garantita, quali sono le Comunità montane, esso possa essere esercitato senza alcuna garanzia per gli enti stessi.
L’esercizio di un siffatto potere – inserendosi in un procedimento amministrativo in funzione di controllo sostitutivo – soggiace alle regole procedimentali eventualmente predeterminate di volta in volta dal legislatore, nonché al principio generale del giusto procedimento, che impone di per sé la garanzia del contraddittorio a tutela degli enti nei cui confronti il potere è esercitato.
Pertanto, ai presidenti delle Comunità montane dovranno comunque essere assicurate, sulla base dei suddetti principi, forme di partecipazione e consultazione nel corso del procedimento amministrativo così come definito dalla legge. E l’eventuale violazione delle prescritte regole partecipative, ricorrendone i presupposti, potrà essere fatta valere innanzi ai competenti organi della giurisdizione amministrativa nelle forme di rito.

8. La libera circolazione delle persone e delle cose tra le Regioni
La sentenza n. 440 reca una perentoria dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 26, comma 2, lettera c), della legge della Regione Valle d’Aosta n. 12 del 1996, come modificato dall’art. 25 della legge regionale n. 19 del 2005, nella parte in cui introduce il criterio della «migliore idoneità di localizzazione», fra i criteri di selezione di due terzi dei candidati ammessi alla procedura ristretta per l’affidamento di lavori pubblici di importo pari o inferiore a 1.200.000 euro. In proposito, la Corte riafferma che «discriminare le imprese sulla base di un elemento di localizzazione territoriale» contrasta con il principio di eguaglianza, nonché con il principio in base al quale la regione «non può adottare provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose fra le regioni» e «non può limitare il diritto dei cittadini di esercitare in qualunque parte del territorio nazionale la loro professione, impiego o lavoro» (sentenza n. 207 del 2001). Da tale principio, «che vincola anche le Regioni a statuto speciale», e che più volte è stato ritenuto applicabile all’esercizio di attività professionali ed economiche (sentenze n. 6 del 1956, n. 13 del 1961, n. 168 del 1987, n. 372 del 1989, n. 362 del 1998), discende anche «il divieto per i legislatori regionali di frapporre barriere di carattere protezionistico alla prestazione, nel proprio ambito territoriale, di servizi di carattere imprenditoriale da parte di soggetti ubicati in qualsiasi parte del territorio nazionale (nonché, in base ai principi comunitari sulla libertà di prestazione dei servizi, in qualsiasi paese dell’Unione europea)» (sentenza n. 207 del 2001).
Nella specie, la norma stabilisce proprio una «condizione rivolta a frapporre barriere all’ingresso nel territorio regionale, in qualità di soggetti appaltatori, di imprese provenienti da altre aree e prive di legami stabili con il territorio medesimo». Questa condizione non è infatti fondata su alcuna ragione tecnica, né può ritenersi ragionevolmente giustificabile in nome dell’efficienza e del buon andamento dell’amministrazione, in quanto è «ben possibile che anche imprese aventi sede e organizzazione stabile fuori del territorio regionale possiedano i requisiti tecnico-organizzativi necessari – e richiesti dalla normativa e dai bandi di gara – per assicurare un’efficiente esecuzione degli appalti».

9. Le questioni decise sulla base del Titolo V nel testo anteriore alla riforma del 2001
Esaurito, nel corso del 2005, il contenzioso in via principale avente ad oggetto atti legislativi anteriori all’entrata in vigore del nuovo Titolo V della Parte seconda della Costituzione, la Corte ha avuto modo, nel 2006, di operare lo scrutinio in relazione ai “vecchi” parametri nel quadro del giudizio in via incidentale.
Nella sentenza n. 107, la Corte non condivide le doglianze del Tribunale di Roma nei confronti dell’art. 1 della legge della Regione Lazio 20 marzo 1995, n. 9, limitatamente ai commi 1 – quale sostituito dall’art. 1 della legge della Regione Lazio 20 marzo 1995, n. 10 – e 2, nella parte in cui tali commi dispongono l’aumento del cento per cento della tassa di rinnovo della concessione regionale di costituzione di azienda faunistico-venatoria e della correlativa soprattassa, a far data dal 1° gennaio 1996.
Il giudice a quo deduce la violazione degli artt. 117 e 119 della Costituzione, nel testo sia anteriore che successivo alla riforma del Titolo V, in quanto le norme censurate eccederebbero i limiti previsti dalla norma statale interposta di cui all’art. 3, comma 5, della legge 16 maggio 1970, n. 281 e successive modificazioni.
La Corte, dopo aver premesso che, tra i parametri costituzionali evocati, rilevano soltanto gli artt. 117 e 119 Cost., nel testo anteriore alla riforma del Titolo V, ritiene non fondata la questione, perché basata su un’erronea interpretazione della menzionata disposizione interposta.
Quest’ultima attribuisce alle Regioni il potere di disporre con legge aumenti degli importi delle tasse sulle concessioni regionali stabiliti dalla tariffa approvata con il decreto legislativo 22 giugno 1991, n. 230, con i seguenti limiti: gli aumenti della tariffa possono essere disposti «ogni anno»; le norme che dispongono l’aumento devono avere «effetto dal 1° gennaio dell’anno successivo» a quello in cui esso è stato disposto; l’entità dell’aumento medesimo è rimessa alla scelta del legislatore tra due misure, la prima, «non superiore al 20 per cento degli importi determinati per il periodo precedente», la seconda, contenuta entro «la maggiore percentuale di incremento disposta dallo Stato per le tasse sulle concessioni governative».
La locuzione «ogni anno», nell’ipotesi dell’aumento delle tasse sulle concessioni regionali in misura superiore al venti per cento, va intesa nel senso che il potere di aumento può essere esercitato una sola volta l’anno per l’anno successivo e non nel senso che deve esercitarsi nell’anno immediatamente successivo a quello in cui è stato disposto dallo Stato l’aumento delle tasse sulle concessioni governative.
Né dal fatto che, ai sensi della medesima disposizione, il potere d’aumento deve essere contenuto in una misura non «eccedente la maggiore percentuale di incremento disposta dallo Stato» può trarsi argomento per identificare l’anno in cui tale potere deve essere esercitato con quello immediatamente successivo all’emanazione della legge statale che dispone l’aumento delle tasse sulle concessioni governative. Con tale formulazione, infatti, il legislatore statale si limita ad assumere come percentuale di aumento consentita alle Regioni quella stabilita per l’incremento delle tasse sulle concessioni governative dalla legge statale, condizionando l’esercizio del relativo potere alla sola circostanza che la legge medesima – ancorché emanata nell’anno non immediatamente precedente – sia ancora in vigore al momento in cui il legislatore regionale dispone l’aumento.
Da tali premesse discende che l’unica circostanza che vieta al legislatore regionale di fissare detto aumento è l’aver già effettuato l’altra opzione consentita dalla norma interposta, e cioè l’opzione di aumento delle tasse sulle concessioni regionali in una misura non eccedente il venti per cento. Ciò risulta testualmente dall’uso, nella disposizione interposta, del termine «ovvero» per indicare, appunto, l’alternatività della scelta tra l’aumento in misura non eccedente e l’aumento in misura eccedente il venti per cento.
Nella specie, dopo l’aumento del cento per cento delle tasse sulle concessioni governative, la Regione Lazio ha lasciato immutati gli importi di tutte le tasse sulle concessioni regionali e, quindi, anche quelli dovuti per il rinnovo delle concessioni relative alla costituzione di azienda faunistico-venatoria, e li ha aumentati del cento per cento con la norma censurata solo nel 1995, nella perdurante vigenza della predetta norma statale.
Sono stati, pertanto, rispettati dalla Regione Lazio i limiti stabiliti dalla norma interposta per l’esercizio del potere di aumentare detta tassa di rinnovo in misura superiore al venti per cento con effetto dal 1° gennaio 1996.

10. Le Regioni a statuto speciale e le Province autonome
In un buon numero di decisioni, la Corte si sofferma sullo status costituzionale delle Regioni speciali e le Province autonome, esaminando vari profili nei quali si estrinseca la «specialità».
Due pronunce, di notevole rilievo, affrontano il problema dell’applicabilità alle regioni a statuto differenziato dell’art. 123, ultimo comma, della Costituzione, che prevede l’istituzione del Consiglio delle autonomie locali, in virtù della c.d. “clausola di maggior favore” prevista dall’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3.
Con la prima pronuncia (sentenza n. 175) la Corte esamina gli artt. da 1 a 11, nonché l’art. 15 della legge della Regione Sardegna 17 gennaio 2005, n. 1 (Istituzione del Consiglio delle autonomie locali e della Conferenza permanente Regioni-enti locali), ritenuti in contrasto con l’ultimo comma dell’art. 123 della Costituzione, il quale prevede che, «in ogni Regione, lo statuto disciplina il Consiglio delle autonomie locali, quale organo di consultazione fra la Regione e gli enti locali».
Per il ricorrente, tale disposizione si applicherebbe anche alle Regioni speciali in virtù dell’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, in quanto le «forme di maggiore autonomia» – cui questa norma fa riferimento, quale presupposto per la estensione delle disposizioni della stessa legge costituzionale n. 3 del 2001 alle Regioni speciali «sino all’adeguamento dei rispettivi statuti» – sarebbero «naturalmente riferite anche agli enti locali». Da ciò deriva che le Regioni a statuto speciale risulterebbero anch’esse tenute ad istituire il Consiglio delle autonomie locali mediante «fonte statutaria» e non attraverso una «fonte legislativa ordinaria», con conseguente illegittimità costituzionale delle disposizioni censurate.
Premette la Corte che l’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001 «configura un particolare rapporto tra norme degli statuti speciali e norme del Titolo V della seconda parte della Costituzione» (sentenza n. 314 del 2003), che si risolve in un giudizio di preferenza, nel momento della loro applicazione, a favore delle disposizioni costituzionali che garantiscono forme di autonomia «più ampie» rispetto a quelle attribuite dalle disposizioni statutarie.
Dalla formulazione del citato art. 10 emerge con chiarezza che è insita, nel meccanismo di estensione dallo stesso prefigurato, una valutazione necessariamente comparativa tra i due sistemi (ordinario e speciale) di autonomia regionale.
Ciò implica che nel momento in cui il ricorrente, impugnando una legge di una Regione a statuto speciale, adduce, come nel caso di specie, la violazione di una disposizione contemplata nel Titolo V, ha l’onere di prendere in esame anche i parametri costituzionali ricavabili dal relativo statuto, al fine di valutare se effettivamente le forme di autonomia riconosciute dalla legge costituzionale n. 3 del 2001 siano più estese rispetto a quelle già risultanti dalle disposizioni statutarie. In altri termini, perché possa svolgersi un giudizio di preferenza tra diversi sistemi di autonomia, occorre che vengano considerati i “due termini” della comparazione, in quanto soltanto all’esito di una disamina complessiva dei sistemi posti a raffronto è possibile ritenere che l’uno garantisca una forma di autonomia eventualmente «più ampia» rispetto all’altro.
Nel caso in esame, lo Stato ricorrente ha semplicemente richiamato l’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, omettendo di svolgere le necessarie argomentazioni a sostegno della sua applicabilità nel caso di specie, mediante la valutazione dei parametri costituzionali ricavabili dallo statuto speciale della Regione Sardegna, che, tra l’altro, attribuisce alla potestà legislativa primaria della Regione la competenza in materia di “ordinamento degli enti locali” (art. 3, lettera b). Le carenze argomentative in ordine a quale rapporto, ai fini dello scrutinio di legittimità costituzionale delle invocate norme della Costituzione e quelle, anch’esse di rango costituzionale, contenute nello statuto speciale comportano, pertanto, la inammissibilità delle censure.
Il problema, esposto ma non risolto con la pronuncia che precede, viene compiutamente affrontato nella sentenza n. 370, in occasione dell’impugnativa della legge della Provincia autonoma di Trento 15 giugno 2005, n. 7, con la quale è stato istituito e disciplinato, in ambito regionale, il Consiglio delle autonomie locali. La questione è sollevata sotto il profilo della violazione dell’art. 123, ultimo comma, della Costituzione e dell’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, in quanto la istituzione del Consiglio delle autonomie locali sarebbe avvenuta con legge ordinaria e non con «fonte statutaria».
Premette la Corte che l’ultimo comma dell’art. 123 della Costituzione, stabilendo che «in ogni Regione, lo statuto disciplina il Consiglio delle autonomie locali, quale organo di consultazione fra la Regione e gli enti locali», ha previsto un organo costituzionalmente necessario che deve essere disciplinato dallo statuto, al fine di garantire la presenza di una nuova forma organizzativa stabile di raccordo tra le Regioni e il sistema delle autonomie locali in attuazione del principio di leale collaborazione nei rapporti infraregionali.
Si tratta, dunque, di una disposizione da cui potrebbero trarre vantaggio gli enti territoriali minori, ai quali verrebbe assicurata la rappresentanza dei propri interessi in un organismo, obbligatoriamente istituito, di coordinamento tra i diversi livelli istituzionali di governo.
Ciò precisato, occorre stabilire se l’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001 consenta l’estensione dell’ultimo comma dell’art. 123 della Costituzione al sistema delle autonomie speciali.
La disposizione costituzionale di cui all’art. 10 è caratterizzata da «assoluta specialità», il che la rende insuscettibile sia di interpretazione estensiva che di applicazione analogica, ed ha una finalità essenzialmente transitoria: quella di garantire alle Regioni speciali e alle Province autonome – attraverso un procedimento di adeguamento automatico e all’esito di una valutazione complessiva dei due sistemi in comparazione – quegli spazi di maggiore autonomia previsti dalle norme contemplate dal nuovo Titolo V, in attesa della revisione dei singoli statuti speciali attraverso il procedimento introdotto dalla legge costituzionale 31 gennaio 2001, n. 2. Il legislatore costituzionale del 2001 ha, pertanto, perseguito, con la norma in esame, l’obiettivo di evitare che il rafforzamento del sistema delle autonomie delle Regioni ordinarie, attuato dalla riforma del Titolo V, potesse determinare un divario rispetto a quelle Regioni che godono di forme e condizioni particolari di autonomia.
Occorre ora verificare se il citato art. 10 trovi applicazione soltanto quando il meccanismo dallo stesso prefigurato si risolva in una maggiore autonomia per le Regioni ovvero se, come sostenuto dal ricorrente, si possa applicare anche quando l’adeguamento garantisca una maggiore autonomia degli enti territoriali minori. La Corte ritiene che il meccanismo di estensione di cui al citato art. 10 possa funzionare soltanto quando esso miri a garantire, all’esito di una valutazione complessiva, maggiore autonomia all’ente Regione e non anche all’ente locale.
Ciò discende, innanzitutto, dalla stessa formulazione letterale della norma che fa esclusivo riferimento alle Regioni a statuto speciale, non inserendo così nel proprio ambito applicativo gli enti territoriali minori che – godendo, dopo la riforma del Titolo V, di una sicura sfera di autonomia costituzionalmente garantita – avrebbero altrimenti ricevuto una esplicita menzione da parte del legislatore costituzionale.
A ciò è da aggiungere che, qualora si ritenesse che il citato art. 10 postuli, ai fini della sua applicazione, una valutazione del complessivo sistema delle autonomie sia regionale che locale, si potrebbe verificare il caso in cui ad una ipotetica maggiore autonomia dell’ente locale corrisponda una minore autonomia dell’ente regionale.
Questa possibile valenza non univoca della direzione di una norma costituzionale contenuta nel Titolo V impedisce la stessa applicabilità della clausola di equiparazione di cui all’art. 10, la quale presuppone una comparazione tra «grandezze omogenee». E tale comparazione non è possibile quando la confluenza di elementi divergenti impedisce di stabilire se una disposizione costituzionale introdotta dalla legge costituzionale n. 3 del 2001 comporti o meno, per gli enti destinatari, spazi di maggiore autonomia. Per queste ragioni deve, dunque, ritenersi che l’adeguamento automatico previsto dal citato art. 10 operi esclusivamente a favore delle autonomie regionali e non anche delle autonomie locali.
La Corte, però, precisa che quando la competenza legislativa di una Regione a statuto speciale si radica sulle norme contenute nella legge costituzionale n. 3 del 2001 – perché le stesse attribuiscono una competenza legislativa «più ampia» rispetto allo statuto – le disposizioni contenute nel Titolo V trovano applicazione nella loro interezza. Il che significa che la legge regionale dovrà regolamentare il settore rientrante nell’ambito della propria potestà legislativa nel rispetto dei limiti e delle condizioni che la suddetta legge costituzionale ha posto anche a garanzia delle autonomie territoriali minori espressamente menzionate.
Tuttavia, anche a prescindere dai profili sopra esaminati, l’art. 123, ultimo comma, Cost. non è, comunque, estensibile alle Regioni speciali, in virtù della clausola contemplata dall’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, in quanto, per il suo contenuto precettivo, si può applicare soltanto nei confronti delle Regioni a statuto ordinario, attesa la non comparabilità tra le forme di potestà statutaria delle autonomie regionali ordinarie e speciali.
Le prime hanno, infatti, una potestà di auto-organizzazione che si manifesta mediante l’emanazione di uno statuto che, a seguito dell’entrata in vigore della legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1, è una fonte regionale, sia pure caratterizzata da un procedimento speciale di approvazione.
Per le Regioni speciali è, invece, prevista, da un lato, una fonte statale, quale è lo statuto speciale approvato con legge costituzionale, ai sensi dell’art. 116 Cost., con la parziale modifica introdotta dalla legge costituzionale n. 3 del 2001; dall’altro, una fonte di auto-organizzazione, quale è la c.d. legge statutaria, introdotta dalla legge costituzionale n. 2 del 2001.
Avendo riguardo al suindicato statuto speciale, è evidente che sussiste una incompatibilità strutturale con il disposto di cui all’ultimo comma dell’art. 123 Cost.: quest’ultima disposizione, imponendo una espressa riserva statutaria, presuppone ovviamente che la fonte regolatrice sia nella disponibilità della Regione.
Del pari, è insostenibile che il vincolo statutario, posto dall’ultimo comma dell’art. 123 della Costituzione, debba intendersi riferito alle c.d. leggi statutarie e, dunque, ad una fonte rientrante nella disponibilità della stessa Regione o Provincia. Non solo, infatti, la legge statutaria è una fonte facoltativa, ma sussistono talune diversità sostanziali e formali rispetto agli statuti delle Regioni ordinarie – afferenti all’oggetto, ai limiti e al procedimento di formazione – che non consentono l’adeguamento automatico previsto dalla citata norma costituzionale.
L’esistenza, pertanto, di un articolato sistema eterogeneo – che rende non comparabili la potestà statutaria ordinaria e quella speciale – implica la impossibilità di ritenere applicabile alle Regioni ad autonomia differenziata e alle Province autonome l’ultimo comma dell’art. 123 Cost.
Rimane, comunque, fermo il potere di detti enti di prevedere, in armonia con le proprie regole statutarie, particolari modalità procedimentali volte ad introdurre nel rispettivo sistema forme organizzative stabili di raccordo tra l’ente Regione e gli enti locali ispirate dalla esigenza di assicurare la osservanza del principio di leale collaborazione. Ciò tanto più se si considera che lo statuto speciale del Trentino-Alto Adige attribuisce potestà legislativa alla Regione in materia di “ordinamento degli enti locali” (art. 4, n. 3).
Per le ragioni esposte, deve, pertanto, ritenersi non fondata la questione di legittimità costituzionale che ha investito l’intera legge provinciale n. 7 del 2005.
Nella medesima pronuncia, la Corte affronta, quindi, la censura che investe il terzo comma dello stesso art. 8 della legge provinciale, il quale demanda ad un regolamento interno del Consiglio provinciale di disciplinare modalità, termini e procedure mediante le quali il Consiglio delle autonomie locali partecipa, nel rispetto dello statuto di autonomia, all’iter di formazione delle leggi provinciali. Al riguardo, la Corte non riscontra indebite interferenze nella potestà legislativa attribuita esclusivamente al Consiglio regionale e ai Consigli provinciali. La norma impugnata si limita ad attribuire al Consiglio delle autonomie locali un compito, da definire mediante il regolamento interno del Consiglio provinciale, nella fase di formazione delle leggi provinciali, che comunque, per espressa statuizione, deve rispettare quanto previsto dallo statuto speciale e, quindi, non può incidere in alcun modo sulla titolarità della iniziativa legislativa, né tantomeno sulle competenze legislative attribuite a determinati organi dallo statuto stesso.
Di rilievo, per le affermazioni che reca, è anche la sentenza n. 51, in cui la Corte esamina l’impugnativa avverso gli articoli 3, 4, commi 1 e 2, 7 ed 8, comma 3, della legge della Regione Sardegna 25 novembre 2004, n. 8, essenzialmente basata sul rilievo che la Regione Sardegna non sarebbe titolare di alcuna competenza in tema di tutela paesaggistica.
Prontamente la Corte sottolinea come il ricorrente non abbia in alcun modo dato conto né della presenza, in tema di tutela paesaggistica, di apposite norme di attuazione dello statuto speciale della Regione Sardegna, né della stessa esistenza di una risalente legislazione della medesima Regione in questo specifico ambito e di cui le disposizioni impugnate nel presente giudizio rappresentano una parziale modificazione ed integrazione.
Le affermazioni contenute nel ricorso, secondo le quali le disposizioni impugnate sarebbero illegittime perché «eccedono dalla competenza statutaria di cui agli articoli 3 e 4 dello Statuto d’autonomia, ponendosi in contrasto con l’art. 117, comma 2, lettera s) della Costituzione, che riserva allo Stato la competenza esclusiva in materia di tutela dell’ambiente e dei beni culturali», anzitutto non prendono in considerazione che il Capo III del d.P.R. 22 maggio 1975, n. 480 (Nuove norme di attuazione dello Statuto speciale della Regione autonoma della Sardegna), intitolato “Edilizia ed urbanistica”, concerne non solo le funzioni di tipo strettamente urbanistico, ma anche le funzioni relative ai beni culturali e ai beni ambientali; infatti, l’art. 6 dispone espressamente, al comma 1, che «sono trasferite alla Regione autonoma della Sardegna le attribuzioni già esercitate dagli organi centrali e periferici delle amministrazioni statali». Al tempo stesso, il comma 2 del medesimo art. 6 del d.P.R. n. 480 del 1975 prevede puntualmente che il trasferimento di cui al primo comma «riguarda altresì la redazione e l’approvazione dei piani territoriali paesistici, di cui all’art. 5 della legge 29 giugno 1939, n. 1497».
Tenendo presente che le norme di attuazione degli statuti speciali possiedono un sicuro ruolo interpretativo ed integrativo delle stesse espressioni statutarie che delimitano le sfere di competenza delle Regioni ad autonomia speciale, e che non possono essere modificate che mediante atti adottati con il procedimento appositamente previsto negli statuti, prevalendo in tal modo sugli atti legislativi ordinari, è evidente che la Regione Sardegna dispone, nell’esercizio delle proprie competenze statutarie in tema di edilizia ed urbanistica, anche del potere di intervenire in relazione ai profili di tutela paesistico-ambientale. Ciò sia sul piano amministrativo che sul piano legislativo (in forza del cosiddetto “principio del parallelismo” di cui all’art. 6 dello statuto speciale), fatto salvo, in questo secondo caso, il rispetto dei limiti espressamente individuati nell’art. 3 del medesimo statuto in riferimento alle materie affidate alla potestà legislativa primaria della Regione (l’armonia con la Costituzione e con i principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica e il rispetto degli obblighi internazionali e degli interessi nazionali, nonché delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica).
A tale ultimo riguardo, il legislatore statale conserva quindi il potere di vincolare la potestà legislativa primaria della Regione speciale attraverso l’emanazione di leggi qualificabili come “riforme economico-sociali”: e ciò anche sulla base – per quanto qui viene in rilievo – del titolo di competenza legislativa nella materia “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, comprensiva tanto della tutela del paesaggio quanto della tutela dei beni ambientali o culturali; con la conseguenza che le norme fondamentali contenute negli atti legislativi statali emanati in tale materia potranno continuare ad imporsi al necessario rispetto del legislatore della Regione Sardegna che eserciti la propria competenza statutaria nella materia “edilizia ed urbanistica”. Invece, come la Corte ha più volte affermato, il riparto delle competenze legislative individuato nell’art. 117 della Costituzione deve essere riferito ai soli rapporti tra lo Stato e le Regioni ad autonomia ordinaria, salva l’applicazione dell’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, peraltro possibile solo per le parti in cui le Regioni ad autonomia ordinaria disponessero, sulla base del nuovo Titolo V, di maggiori poteri rispetto alle Regioni ad autonomia speciale.
In questo quadro costituzionale di distribuzione delle competenze, il legislatore nazionale è intervenuto con il recente codice dei beni culturali e del paesaggio, il cui art. 8 è esplicito nel dichiarare che «restano ferme le potestà attribuite alle Regioni a statuto speciale ed alle Province autonome di Trento e Bolzano dagli statuti e dalle relative norme di attuazione». In quest’ultimo testo, l’art. 135 individua gli strumenti della pianificazione paesaggistica e affida alle Regioni la scelta di approvare “piani paesaggistici” ovvero “piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici.
Per quanto specificamente attiene alla Regione Sardegna, proprio sulla base dell’esplicito trasferimento di funzioni di cui alle norme di attuazione dello statuto speciale contenute nel d.P.R. n. 480 del 1975, la Regione – già con la legge n. 45 del 1989 – aveva appositamente previsto e disciplinato i piani territoriali paesistici nell’esercizio della propria potestà legislativa in tema di “edilizia ed urbanistica”, solo in parte modificata dalla legge regionale n. 8 del 2004, oggetto del ricorso, per ciò che concerne il recepimento del modello fondato sul piano urbanistico-territoriale, appunto attualmente contemplato nel richiamato art. 135, comma 1, del codice dei beni culturali.
Sulla base delle considerazioni svolte, le questioni vengono dichiarate inammissibili, poiché il ricorrente, muovendo dall’erroneo presupposto secondo il quale la Regione Sardegna risulterebbe priva di potestà legislativa in tema di tutela paesaggistica, omette conseguentemente di argomentare in base a quale titolo la legislazione dello Stato in materia dovrebbe imporsi come limite per il legislatore regionale e non individua le specifiche norme legislative statali che dovrebbero considerarsi violate.
Ancora con riferimento alla specialità, la Corte, con la sentenza n. 447, dichiara l’incostituzionalità dell’art. 1, comma 3, della legge della Provincia autonoma di Bolzano 3 ottobre 2005, n. 8, per avere la norma impugnata disatteso, nella materia di revisione dei prezzi negli appalti pubblici, uno dei principi fondamentali di riforma economico-sociale desumibile dalla legislazione statale.
È indubbio, infatti, che l’istituto della revisione prezzi risponda ad un interesse unitario, afferendo a scelte legislative di carattere generale che implicano «valutazioni politiche e riflessi finanziari, che non tollerano discipline differenziate nel territorio» (sentenza n. 308 del 1993).
Ne consegue che al legislatore statale, nella materia de qua, deve riconoscersi, nella regolamentazione del settore, il potere di vincolare la potestà legislativa primaria anche delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome.
Alla luce della evoluzione normativa, deve ritenersi che la disciplina statale, e, in particolare, l’art. 26 della legge n. 109 del 1994, come modificato dalla legge n. 311 del 2004, possegga i caratteri sostanziali identificativi delle norme fondamentali di riforma economico-sociale.
La Corte verifica, quindi, se la norma impugnata si ponga effettivamente in contrasto con la richiamata disciplina statale.
La disposizione censurata prevede testualmente che, «qualora per effetto di circostanze imprevedibili si siano verificati aumenti o diminuzioni nel costo dei materiali o della mano d’opera tali da determinare un aumento o una diminuzione superiore al decimo del prezzo complessivo convenuto ovvero superiore al quinto del prezzo per categoria di lavoro convenuto, l’appaltatore interessato o il committente possono chiedere una revisione del prezzo medesimo. La revisione può essere accordata a fine lavori solo per quella differenza che eccede il decimo». Orbene, è evidente come, in tal modo, il legislatore provinciale abbia disciplinato l’istituto della revisione del prezzo in modo difforme rispetto alla vigente regolamentazione statale. Mentre, infatti, quest’ultima si caratterizza per la previsione del divieto di revisione dei prezzi, con espressa enunciazione della inapplicabilità dell’art. 1664 del codice civile, il legislatore provinciale ha, invece, introdotto il principio della revisione del prezzo proprio secondo le modalità stabilite dall’art. 1664 cod. civ., di cui viene riprodotto pressoché testualmente il contenuto.
Anche l’art. 39, comma 9, della legge della Regione Siciliana 15 maggio 2000, n. 10, che disciplina un aspetto del trattamento economico di alcuni dipendenti degli enti locali siciliani e, precisamente, di quelli immessi in ruolo ai sensi della legge della Regione Siciliana 25 ottobre 1985, n. 39, viene dichiarato, con la sentenza n. 308, in contrasto con una norma fondamentale di riforma economico-sociale della Repubblica, e segnatamente con quella secondo la quale la contrattazione collettiva costituisce metodo di disciplina del rapporto di pubblico impiego.
In effetti, l’art. 1, comma 3, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, dispone che «i principi desumibili dall’articolo 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, e successive modificazioni, costituiscono, per le Regioni a statuto speciale e per le Province autonome di Trento e di Bolzano, norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica». In particolare, l’art. 2, comma 1, della legge 23 ottobre 1992, n. 421, ha imposto al legislatore delegato di prevedere, «salvi i limiti collegati al perseguimento degli interessi generali cui l’organizzazione e l’azione delle pubbliche amministrazioni sono indirizzate, che i rapporti di lavoro e di impiego dei dipendenti delle amministrazioni dello Stato e degli altri enti siano ricondotti sotto la disciplina del diritto civile e siano regolati mediante contratti individuali e collettivi».
Pertanto, rilevato che la norma censurata è stata emanata in epoca anteriore alla riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione e che le norme fondamentali di riforma economico-sociale costituiscono un limite all’esercizio di qualunque tipo di potestà legislativa della Regione Siciliana, viene dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 39, comma 9, della legge regionale n. 10 del 2000, poiché, concorrendo alla disciplina del trattamento economico del personale degli enti locali, viola il principio della disciplina di quel trattamento per mezzo di contratti.
La sentenza n. 327 annulla il decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti 5 dicembre 2003, n. 392, che introduce una nuova normativa sui rischi di frane o valanghe relative alle funicolari aeree e terrestri in servizio pubblico destinate al trasporto di persone, e che viene riferita espressamente anche alle Province autonome ricorrenti.
La Corte, dopo aver motivato che il suo sindacato non può che basarsi sul parametro offerto dallo statuto di autonomia speciale, ritiene che l’atto oggetto di conflitto altera il riparto delle competenze tra Stato e Province autonome, come disegnato dalle norme statutarie e di attuazione dello statuto.
L’art. 8, n. 18, dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige e le relative norme di attuazione contenute nel d.P.R. 19 novembre 1987, n. 527 (art. 1, comma 1), attribuiscono espressamente alla competenza legislativa delle Province autonome di Trento e di Bolzano le “comunicazioni e trasporti di interesse provinciale, compresi la regolamentazione tecnica e l’esercizio degli impianti di funivia”.
È ben vero che nella materia dei trasporti, secondo la giurisprudenza della Corte, spetta in linea di principio alla competenza dello Stato la disciplina concernente la sicurezza degli impianti e dei veicoli, ai fini della tutela dell’interesse generale all’incolumità delle persone. Tuttavia, con riguardo agli impianti di funivia, lo statuto speciale non si limita a determinare la competenza delle Province autonome in relazione alle modalità di gestione e di organizzazione dei servizi “di interesse provinciale”, ma espressamente allarga il perimetro alla “regolamentazione tecnica” degli stessi, ossia a quel complesso di prescrizioni concernenti la realizzazione dell’opera che in larga parte si sostanziano nei profili connessi alla sicurezza, e che comunque da essi non possono prescindere.
In accoglimento del ricorso proposto dalla Provincia autonoma di Trento, la Corte dichiara inoltre, con la sentenza n. 328, che non spettava allo Stato dettare norme regolamentari relative ai requisiti essenziali che le società scientifiche devono possedere per svolgere le attività formative e di collaborazione con le istituzioni pubbliche competenti in materia di sanità ed attribuire poteri amministrativi di verifica dei predetti requisiti, di riconoscimento delle associazioni scientifiche e di revoca del medesimo riconoscimento al Ministro della salute. Conseguentemente, viene annullato il decreto del Ministro della salute 31 maggio 2004, recante “Requisiti che devono possedere le società scientifiche e le associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie”.
Al riguardo, la Corte rileva che l’oggetto del decreto impugnato non è riconducibile in termini esclusivi ad un’unica materia, incidendo contestualmente su più settori. In particolare, con riferimento all’aggiornamento professionale, esso contiene profili inerenti alla “formazione professionale” e, nella parte in cui definisce i requisiti che le predette società ed associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie – che chiedono il riconoscimento – devono possedere per poter svolgere attività di collaborazione con le istituzioni sanitarie, incide sulla materia sanità, con profili che attengono, in particolare, all’organizzazione sanitaria.
Entrambe le materie richiamate sono attribuite dallo statuto speciale della Regione Trentino-Alto Adige alla competenza della Provincia autonoma di Trento: l’art. 8, n. 29), stabilisce, infatti, la competenza legislativa primaria della Provincia nell’“addestramento e formazione professionale”; l’art. 9, n. 10), le assegna una competenza legislativa concorrente in tema di “igiene e sanità, ivi compresa l’assistenza sanitaria ed ospedaliera”; l’art. 16 dispone che “nelle materie e nei limiti entro cui la regione o la provincia può emanare norme legislative, le relative potestà amministrative [...] sono esercitate rispettivamente dalla regione o dalla provincia”.
Nelle stesse materie, tuttavia, l’art. 117 e l’art. 118 della Costituzione, a seguito della riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione, delineano forme più ampie di autonomia rispetto a quelle già attribuite dallo statuto.
La “formazione professionale” è, infatti, materia riconducibile alla competenza residuale delle Regioni (quarto comma), soggetta ai limiti generali stabiliti dal primo comma dell’art. 117 della Costituzione, fra i quali non vi è, ad esempio, quello delle norme fondamentali di riforma economico-sociale (sentenza n. 274 del 2003), né quello dell’interesse nazionale, indicati dallo statuto speciale. La sanità, d’altro canto, è ripartita fra la materia di competenza regionale concorrente della “tutela della salute” (terzo comma), la quale deve essere intesa come «assai più ampia rispetto alla precedente materia assistenza sanitaria e ospedaliera», e quella dell’organizzazione sanitaria, in cui le Regioni possono adottare «una propria disciplina anche sostitutiva di quella statale». Soprattutto, la più ampia autonomia riconosciuta dalle norme del Titolo V alle Regioni ad autonomia ordinaria nelle indicate materie di competenza residuale e/o concorrente, rispetto a quella attribuita alla Provincia dalle norme statutarie nelle corrispondenti materie, è confortata dalla considerazione che in esse l’art. 117, sesto comma, della Costituzione impedisce, in ogni caso, allo Stato di adottare regolamenti e che, ai sensi dell’art. 118 della Costituzione, le funzioni amministrative, attribuite ai Comuni, possono essere conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato «sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza» solo «per assicurarne l’esercizio unitario».
Pertanto – ai sensi dell’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001 – la particolare «forma di autonomia» espressa dalle norme del Titolo V in favore delle Regioni ad autonomia ordinaria si applica anche alle Province autonome ed in specie alla Provincia di Trento in quanto «più ampia» rispetto a quella prevista dai rispettivi statuti.
Alla luce delle suesposte considerazioni, deve ritenersi che il decreto impugnato, dettando norme regolamentari che si pongono all’incrocio delle suddette materie di competenza residuale e concorrente della Provincia, vulneri le rispettive sfere di competenza provinciale, definite in particolare dall’art. 117, terzo, quarto e sesto comma, della Costituzione.
Inoltre, l’atto, attribuendo poteri amministrativi nelle predette materie di competenza provinciale ad un organo statale, contrasta anche con l’art. 118 della Costituzione. Infatti, indipendentemente dalla valutazione in ordine alla idoneità del decreto a determinare l’“attrazione in sussidiarietà” della funzione, non è in alcun modo dimostrata la necessità dell’esercizio unitario della medesima e non è stato rispettato il principio della leale collaborazione, essendo stato adottato l’atto impugnato senza il necessario coinvolgimento delle autonomie regionali e provinciali.
Sempre avendo riguardo ad una Provincia autonoma, la Corte, con la sentenza n. 405, in tema di maso chiuso, esamina l’art. 14 della legge della Provincia autonoma di Bolzano 23 luglio 2004, n. 4, così formulato: «1. Il diritto di prelazione di cui agli articoli 60, 61 e 62 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, non trova applicazione nel caso di trasferimento della proprietà in seguito a successione aziendale entro il quarto grado di parentela in immobili soggetti a tutela storico-artistica e facenti parte di un maso chiuso.
«2. Per gli immobili di cui al comma 1 non trova applicazione l’obbligo di denuncia di cui all’art. 59 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42».
Secondo il ricorrente, tali disposizioni sono in contrasto con gli artt. 4 e 8, numeri 3 e 8, dello statuto della Regione Trentino-Alto Adige, e con le norme di attuazione dello Statuto speciale concernenti la tutela e conservazione del patrimonio storico, artistico e popolare, dove si prevedono le modalità e i termini per l’esercizio del diritto di prelazione da parte dello Stato e delle Province autonome. Sarebbero, altresì violati gli artt. 3 e 9 della Costituzione.
Successivamente, la Provincia di Bolzano, con l’art. 12 della legge provinciale 20 giugno 2005, n. 4, ha sostituito le disposizioni denunciate, stabilendo che «il diritto di prelazione di cui agli articoli 59, 60 e 61 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, non trova applicazione nel caso di trasferimento della proprietà, in caso di successione aziendale entro il terzo grado di parentela in edifici soggetti a tutela storico-artistica e facenti parte di un maso chiuso. Resta fermo l’obbligo di denuncia dei trasferimenti di proprietà».
Il Presidente del Consiglio dei ministri, con altro ricorso, ha impugnato anche tale disposizione, adducendo ragioni analoghe a quelle che sorreggono il primo.
Sul merito delle questioni, la Corte premette che fin dalla prima sentenza, fondamentale per quanto concerne la disciplina dell’istituto del maso chiuso, si è affermato che esso «non trova precedenti nell’ordinamento italiano, non può qualificarsi né rivivere se non con le caratteristiche sue proprie derivanti dalla tradizione e dal diritto vigente fino all’emanazione di quel r.d. 4 novembre 1928, n. 2325, in base al quale esso istituto cessò di avere formalmente vita». Ha precisato, inoltre, che il legislatore provinciale, in virtù dell’art. 11, n. 9), dello statuto speciale (nel testo originario), «può disciplinare la materia dei masi chiusi nell’ambito della tradizione e del diritto preesistente e, in conseguenza, con una potestà necessariamente più ampia, data la natura dell’istituto, che per le altre materie nello stesso art. 11 contemplate» (sentenza n. 4 del 1956).
Il principio è stato successivamente ribadito (sentenze n. 5 e n. 40 del 1957; n. 55 del 1964; n. 35 del 1972; ordinanza n. 28 del 1956), per ritenere la legittimità costituzionale di disposizioni della legislazione provinciale incidenti anche sul diritto privato e sulla giurisdizione (materie, in via generale, di attribuzione statale esclusiva).
Più di recente la Corte ha però precisato che la particolare tutela accordata all’istituto non giustifica qualsiasi deroga alla disciplina generale, ma soltanto quelle che sono funzionali alla conservazione dell’istituto nelle sue essenziali finalità e specificità (sentenza n. 340 del 1996).
L’istituto in oggetto, secondo la sintesi fattane dalla Corte nella menzionata sentenza n. 4 del 1956, ha caratteristiche tutte particolari, «come quelle della indivisibilità del fondo, della sua connessione con la compagine familiare e della assunzione di esso fondo come maso chiuso da un unico soggetto, cui un sistema particolare – anche relativo al procedimento di assegnazione e di determinazione del valore del fondo nel caso di pluralità di eredi – permette di perpetuare e garantire nel maso stesso il perseguimento delle finalità economiche e sociali proprie dello istituto».
Alla luce dei principi enunciati, la cui validità la Corte ribadisce ancora, la questione della legittimità costituzionale delle disposizioni di entrambe le leggi prevedenti l’esclusione della prelazione nei casi indicati non è fondata.
Le norme censurate, infatti, essendo non soltanto predisposte alla tutela della indivisibilità del maso, ma soprattutto finalizzate a mantenerne la connessione con la compagine familiare, non contrastano con le norme statutarie invocate che giustificano, in materia di masi chiusi, le deroghe alla disciplina generale senza violazioni dell’art. 3 della Costituzione.
Si soggiunge che non è rilevante la differenza di un grado di parentela tra alienante e destinatario del trasferimento per l’esclusione della prelazione intercorrente tra la disposizione impugnata con il primo ricorso e quella oggetto del secondo, in quanto entrambe le disposizioni sono in funzione della connessione tra maso e famiglia, cui esso appartiene.
Poiché entrambe le disposizioni impugnate sono dirette alla tutela del maso chiuso con riguardo alle peculiarità di siffatto bene, esse non contrastano neppure con l’art. 9 Cost., che attribuisce lo sviluppo della cultura e la tutela dei beni culturali e del paesaggio alla Repubblica in tutte le sue articolazioni, e non soltanto allo Stato.
In relazione, poi, alle disposizioni che, nell’una e nell’altra legge provinciale, fanno riferimento alla denuncia del trasferimento del maso chiuso nelle circostanze indicate (nella prima per escludere il relativo obbligo, nella seconda per imporlo), la Corte osserva, per quanto concerne quest’ultima, che la censura trova la sua confutazione nel rilievo che la lettera della disposizione – nello stabilire che «resta fermo l’obbligo di denuncia dei trasferimenti di proprietà» – non consente dubbi sull’esistenza dell’obbligo stesso. Tuttavia, anche con specifico riguardo alla disposizione sulla esclusione dell’obbligo della denuncia contenuta nella legge provinciale n. 4 del 2004, persiste l’interesse del ricorrente e su questo specifico punto la questione è fondata.
Infatti, anche se lo scopo principale e immediato della denuncia è quello di mettere l’amministrazione provinciale, cui spetta il diritto di prelazione, nella possibilità di esercitarlo (sicché nei casi in cui la prelazione è esclusa verrebbe meno la ratio della denuncia), deve ritenersi che esso non si esaurisca nel rendere possibile la prelazione stessa. La denuncia ha la fondamentale funzione di rendere nota la titolarità dei beni, nei tempi e con le modalità stabilite, all’organo cui spetta la tutela (ancorché questo possa altrimenti acquisire i dati necessari); tutela che può esplicarsi in attività diverse dall’esercizio della prelazione, a garanzia dei beni di cui all’art. 9 della Costituzione. D’altra parte, l’eliminazione dell’obbligo della denuncia – già ripristinato con la successiva legge della Provincia autonoma di Bolzano n. 4 del 2005 – non è funzionale al regime del maso chiuso.
Con riferimento ai profili organizzativi connessi alla materia sanitaria, nel giudizio definito con la sentenza n. 449 viene sottoposto l’art. 12-bis, comma 6, della legge della Provincia autonoma di Bolzano 5 marzo 2001, n. 7 – nel testo sostituito dall’art. 9, comma 1, della legge della Provincia autonoma di Bolzano 2 ottobre 2006, n. 9 (Modifiche del riordinamento del Servizio sanitario provinciale) –, nella parte in cui consente l’accesso alla pubblica selezione per il conferimento dell’incarico di dirigente tecnico-assistenziale anche a coloro che hanno frequentato un corso, organizzato dalla Provincia autonoma di Bolzano o da un istituto pubblico o privato riconosciuto in Italia o all’estero, in tecniche organizzative e manageriali in ambito sanitario, con superamento di un esame finale.
La Corte ritiene che tale materia deve essere individuata nella “sanità”, ai sensi dell’art. 9, primo comma, n. 10), dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige. Rileva, infatti, la stretta inerenza che la disciplina dell’accesso alla dirigenza professionale del Servizio sanitario provinciale presenta con le condizioni per la fruizione delle prestazioni rese agli utenti, essendo queste ultime dipendenti, sotto molteplici aspetti, dalla professionalità e dall’impegno di tutti i sanitari addetti ai servizi, e segnatamente di coloro che rivestono una posizione apicale.
Deve pertanto escludersi che vengano in considerazione i titoli di legittimazione legislativa indicati dalla resistente, concernenti l’“ordinamento degli enti sanitari ed ospedalieri” (art. 4, primo comma, numero 7, dello statuto, in rapporto all’art. 16), l’“ordinamento degli uffici provinciali e del personale ad essi addetto” (art. 8, primo comma, numero 1) e l’“addestramento e formazione professionale” (art. 8, primo comma, numero 29).
La dirigenza delle professioni sanitarie infermieristiche, tecniche, della riabilitazione, della prevenzione e della professione ostetrica è disciplinata dalla legge statale 10 agosto 2000, n. 251. In particolare, l’art. 6 di quest’ultima legge – il quale reca una norma che enuncia un principio fondamentale della materia – prevede, a regime, che alla dirigenza infermieristica si accede con requisiti analoghi a quelli richiesti per l’accesso alla dirigenza del Servizio sanitario nazionale di cui all’art. 26 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, ossia con il possesso del relativo diploma di laurea e di un’esperienza maturata in anni di servizio effettivo corrispondente alla medesima professionalità prestato in enti del Servizio sanitario o in altre pubbliche amministrazioni.
La norma provinciale sopra descritta viola l’indicato principio fondamentale. Né la deroga a quel principio può trovare fondamento giustificativo nella previsione – contenuta nel terzo comma dell’art. 5 del d.P.R. 1° novembre 1973, n. 689 (Norme di attuazione dello statuto speciale per la Regione Trentino-Alto Adige concernente addestramento e formazione professionale), aggiunto dall’art. 3 del d.lgs. 16 marzo 1992, n. 267 – che attribuisce alle Province la competenza ad attivare e gestire corsi di studio orientati al conseguimento della formazione richiesta da specifiche aree professionali, e a rilasciare, al termine di tali corsi, attestati che abilitano all’esercizio di un’attività professionale in corrispondenza alle norme comunitarie. Difatti, la speciale competenza della Provincia autonoma ad attivare corsi e di rilasciare diplomi con effetto equipollente vale ai fini dell’iscrizione negli albi professionali (e non per l’accesso alla dirigenza nel Servizio sanitario provinciale) e limitatamente a quelle attività professionali per il cui esercizio l’ordinamento richiede il diploma universitario (non quando la legge – come nel caso del dirigente infermieristico – richiede il diploma di laurea).
Il comma 6 dell’art. 12-bis della legge della Provincia autonoma di Bolzano 5 marzo 2001, n. 7, viene, pertanto, in parte qua, dichiarato costituzionalmente illegittimo.

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