Lo studio, scaricabile in formato pdf, è stato elaborato dall’Istituto di Studi sui Sistemi regionali, Federali e sulle Autonomie “Massimo Severo Giannini” (ISSiRFA-CNR) su commissione della Conferenza dei Presidenti delle Assemblee legislative delle Regioni e delle Province autonome. Di seguito si riporta l'introduzione del prof. Antonio D'Atena.



Considerazioni introduttive
 
“Primo sì al federalismo”, “Federalismo, ultimo round”, “Federalismo, pronti allo sprint finale”, “Federalismo al traguardo”, “Il federalismo è legge”.
Nonostante le apparenze, questi titoli giornalistici non si riferiscono, all’adozione della legge costituzionale che nel 2001 ha riformato il tit. V Cost., né all’approvazione in ultima lettura del testo di legge costituzionale, di cinque anni successivo, che conteneva la c.d. “riforma della riforma”: testo – com’è noto – arenatosi nell’impatto con il “no” referendario del giugno 2006. Essi hanno ad oggetto la legge 5 maggio 2009, n. 42, recante delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell'articolo 119 della Costituzione.
Ebbene, non ci vuole una particolare competenza giuridico-costituzionale, per rilevare la discutibilità di tali intitolazioni: non solo perché è assai dubbio che nel nostro Paese si sia instaurato un sistema autenticamente federale (ed è altrettanto dubbio che questo obiettivo potesse conseguire alla riforma della riforma appena citata); ma anche per la ragione che, quand’anche le cose stessero diversamente, il “federalismo italiano” non sarebbe nato da una legge di attuazione del titolo V, ma dalla legge costituzionale che lo ha novellato.
L’improprietà, però – come i lapsus di cui scriveva Sigmund Freud nel 1904 –, è tutt’altro che insignificante. Essa costituisce la spia di ragioni profonde, assolutamente non banali.
Essa si lega anzitutto alla giusta consapevolezza che la finanza regionale costituisce – per riprendere la metafora usata da uno dei nostri maggiori padri costituenti: Costantino Mortati – la pietra angolare dell’intero edificio autonomistico. È, infatti, una constatazione al limite dell’ovvietà che i mezzi finanziari di cui le Regioni dispongono non possono non riflettersi sul contenuto delle decisioni politiche dalle stesse adottabili nell’esercizio delle competenze loro riconosciute. È, ad esempio, evidente che, se la Regione può contare su un livello elevato di finanziamenti, può decidere di offrire servizi di elevata qualità, mentre, se le risorse sono limitate, è costretta a ridurre corrispondentemente gli standard qualitativi dei servizi che eroga. Il che non può non riflettersi sullo stesso spessore dell’autonomia politica di cui essa è costituzionalmente dotata.
Su queste basi, può ben dirsi che, se non è sciolto il nodo della finanza, lo stesso “federalismo” (se così lo si vuole chiamare) risulta, in larga misura, depotenziato.
Ma il lapsus ha anche un’altra, meno ovvia, spiegazione, la quale affonda le sue radici in un’elaborazione politico-scientifica che in Italia si è sviluppata con notevole intensità a partire soprattutto dagli anni ’70 dello scorso secolo.
Mi riferisco alle riflessioni sullo stretto legame tra il prelievo fiscale disposto direttamente dalle Regioni (o, in altre parole, la loro potestà tributaria) e la responsabilità politica dei rispettivi organi di governo nei confronti delle collettività sottostanti. A tale stregua, l’antica massima inglese “no taxation without representation” può essere letta anche in prospettiva rovesciata, per sottolineare come non sia soltanto il carattere democratico-rappresentativo del decisore a legittimare il prelievo fiscale, ma che sia questo – se così ci si può esprimere – a conferire alla rappresentanza politica pienezza di significato. La massima che si ottiene da questo rovesciamento di prospettiva – no representation without taxation – è espressione della consapevolezza che, se una rappresentanza politica non incide sulle sostanze dei suoi elettori, la vigilanza democratica di questi risulta fatalmente attenuata.
Com’è noto, questa impostazione non è universalmente accolta. Non mancano, infatti, ordinamenti federali nei quali il potere impositivo degli Stati membri è scarsamente rilevante, se non praticamente inesistente. Un esempio al riguardo è costituito dalla Germania.
Nel nostro Paese, tuttavia, l’idea che elemento essenziale del federalismo fiscale sia l’autonomia impositiva degli enti cui è riconosciuto è stata metabolizzata in modo profondo. Essa, non solo, ha alimentato le critiche di cui era fatto oggetto il sistema di finanziamento concretamente instauratosi anteriormente alla riforma del titolo V, ma ha anche costituito la più robusta fonte d’ispirazione del nuovo art. 119.
A tale disposizione si deve la trasfigurazione della categoria dei tributi “propri”, i quali non trovano più – come accadeva in precedenza – il proprio ubi consistam nella destinazione del gettito alle Regioni, ma nella circostanza di essere da queste stabiliti ed applicati. Il debito di tale “trasfigurazione” nei confronti dell’elaborazione teorica sopra richiamata non potrebbe essere più trasparente.
Non è, tuttavia, questa la sola novità della nuova disciplina costituzionale. Ad essa si affiancano il principio della territorialità delle entrate, il principio dell’integrale finanziamento delle funzioni pubbliche attribuite alle istituzioni territoriali, il divieto di vincoli di destinazione per i finanziamenti a carico del fondo perequativo, la finalizzazione degli interventi “speciali” ad obiettivi elencati in Costituzione… Il tutto in un quadro di estensione delle nuove prerogative e garanzie costituzionali agli enti locali in senso stretto – Comuni, Province e Città metropolitane –, ovviamente nei limiti in cui ciò è tecnicamente possibile (si pensi alla riserva di legge di cui all’art. 23 Cost.).
È noto che questa disciplina gode di un diffuso apprezzamento, significativamente confermato dalla circostanza che essa non sia stata messa in discussione dalla “riforma della riforma” costituzionale che si è ricordata in apertura.
È, inoltre, altrettanto noto che i ritardi accumulatisi sul versante della sua attuazione legislativa hanno pesato non poco sul dispiegarsi delle potenzialità della complessiva riforma costituzionale di cui fa parte. E questo – si badi – nonostante la scelta della Corte costituzionale di valorizzarne gli aspetti immediatamente applicabili.
È questa la ragione per la quale – con un’enfasi comprensibile – nell’adozione della prima legge attuativa (la legge di delega ricordata all’inizio) si è potuto ravvisare, non già, l’inizio di un, non facile, processo d’attuazione, ma, più semplicemente, l’avvento del “federalismo”.
 
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In questa fase, una ricognizione delle “parole-chiave” del federalismo fiscale, considerato nei diversi aspetti in cui è scomponibile, appare operazione non inutile.
Attraverso essa, gli autori del volumetto che si licenzia – frutto della collaborazione tra l’ISSiRFA-CNR e la Conferenza dei Presidenti delle Assemblee legislative delle Regioni e delle Province autonome – confidano di fornire ad un pubblico non solo specialistico le coordinate fondamentali del quadro di riferimento: un quadro, che si è venuto stabilizzando, per effetto, oltre che della nuova disciplina costituzionale, della giurisprudenza della Corte, dell’esperienza maturata in settori strategici (come sanità od attività produttive), del mandato conferito dal legislatore “delegante” al legislatore “delegato”.
L’impostazione e l’elaborazione del lavoro sono frutto di discussione e decisione comune. I capitoli sono redatti, nell’ordine, da: Laura Ronchetti (cap. 1); Enrico Buglione (cap. 2); Antonio Ferrara (cap. 3.1); Giulia M. Napolitano (cap. 3.2); Gorge France (cap. 3.3); Chiara Cavallaro (cap. 3.4); Aida G. Arabia e Carlo Desideri (cap. 4); Sofia Mannozzi (cap. 5); Vincenzo Santantonio (cap. 6).
 
Antonio D’Atena

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