Il Rapporto 2010 sulla legislazione tra Stato, Regioni e Unione europea (scaricabile in pdf) è realizzato su iniziativa e con il coordinamento dell'Osservatorio sulla legislazione della Camera dei Deputati ed in collaborazione con gli uffici legislativi delle Regioni e delle due Province autonome.
Si pubblica qui l'Introduzione alla Parte II "Tendenze e problemi della legislazione regionale" (studio elaborato dall'ISSiRFA per la Camera dei deputati).

 

INTRODUZIONE

Il significato della riforma a dieci anni dalla revisione del Titolo V della Costituzione.

  
1. Il Rapporto di quest’anno tenta di dare una valutazione dell’ultima legislatura regionale, anche se questa espressione comincia ad essere sempre meno significativa, come è giusto che sia in un ordinamento autonomista, nel quale le vicende (le legislature) delle Regioni non sono preordinate in uno scadenziario unico nazionale, ma dipendono dagli accadimenti che in ciascun ente si susseguono. Infatti, le elezioni del 2005 non hanno riguardato il Molise e l’Abruzzo e neppure le Regioni a Statuto speciale e le Province autonome.
Ne segue già adesso una valutazione variegata e articolata che, se attenua il carattere generale dell’esperienza regionale, come nel caso delle elezioni per il rinnovo dei Consigli regionali, può pur sempre dare al sistema politico nazionale segnali molteplici, articolati e territorialmente differenziati.
In questo contesto, con la valutazione della legislatura che si è conclusa nella primavera del 2010, è possibile dare una più attenta lettura dell’efficacia avuta dalla revisione del Titolo V della Costituzione, anche alla luce dell’interpretazione datane dalla giurisprudenza costituzionale.
 
2. Si deve considerare, a tal riguardo, che la riforma del Titolo V ha avuto motivazioni contingenti, legate alle vicende del sistema politico italiano e, in particolare, alla posizione politica della Lega Nord, ma ha ubbidito anche ad esigenze profonde derivate dai processi di integrazione europea e di internazionalizzazione, registrate dalle stesse espressioni adoperate dall’art. 117, comma 1, della Costituzione.
La crisi economica del 1992, la prima del nuovo genere, e la sottoscrizione del Trattato di Maastricht, entrato in vigore il 1° novembre 1993, con i criteri di convergenza e l’istituzione del sistema europeo delle Banche centrali, avevano messo in evidenza la necessità per gli Stati nazionali di rivedere la loro “forma”: sia dal punto di vista della loro strutturazione; e sia da quello del rapporto con la società civile.
Altrimenti detto, lo Stato Moloch, accentrato e caratterizzato dalla pratica della redistribuzione della ricchezza, attraverso forme di assistenzialismo pubblico, formatosi nel corso dell’esperienza statuale del secolo XX, doveva ritenersi entrato in crisi, per effetto di una economia fondata sulla concorrenza sopranazionale e internazionale, che metteva limiti alla spesa pubblica e al potere di prelievo fiscale che serviva a finanziare la prima.
Il motivo per cui lo Stato sociale, fondato su una estesa legislazione e amministrazione e finanziato con una forte pressione fiscale, non ha corrisposto più ai bisogni sociali della comunità, ha sicuramente cause molteplici e, tra le prime, la ricollocazione degli interessi nazionali fuori dal territorio statale. Venuta meno per lo Stato la possibilità di praticare politiche protezioniste, per via dell’intensificarsi degli scambi commerciali e per la creazione di un mercato finanziario globale, la sede di rappresentanza e, soprattutto, di tutela degli interessi nazionali non è stato più il Parlamento nazionale, bensì i diversi consessi ai quali l’Italia partecipava, in condizione di parità con gli altri Stati, a livello europeo (Consiglio europeo, Consiglio dei Ministri UE, Parlamento europeo, ecc.) e a livello internazionale (WTO, Ocse, FMI, ecc.).
 
3. La dimensione interna si poneva così in una prospettiva diversa. Infatti, occorreva convertire un paese fortemente protezionista come l’Italia, basato sul dualismo nord-sud, ad una logica competitiva internazionale, tenendo conto che la moneta unica impediva oramai di recuperare la competitività attraverso ripetute svalutazioni monetarie.
Di conseguenza, bisognava agire sul versante della produttività, dell’innovazione, della ricerca e della formazione e, last, not least, del recupero del meridione per l’allargamento della base produttiva.
In questo contesto, perciò, appariva necessario riordinare le istituzioni in modo da renderle funzionali, per un verso, al diverso assetto dei rapporti internazionali ed europei e, per l’altro, alla soddisfazione delle domande interne di intervento pubblico, alle quali le forze politiche nazionali non avrebbero potuto più riportarsi con strumenti ormai inadeguati, come l’assistenzialismo sociale e il clientelismo politico.
In particolare, se si ritiene che spetti al Governo statale rivolgere la propria attenzione alle negoziazioni europee e internazionali, in un contesto di normazione globale, in modo da assicurare le opportune forme di tutela degli interessi nazionali, appare logico considerare che tocchi alle autorità regionali e locali corrispondere ai bisogni politici dei cittadini: di qui la scelta del decentramento dei compiti statali ai livelli (regionali e locali) più prossimi ai cittadini, con opportuni strumenti di raccordo e di rappresentanza. Ciò non dovrebbe determinare, peraltro, una perdita di ruolo dello Stato all’interno, ma una sua precisa collocazione secondo una regolazione costituzionale di riparto dei compiti che ascriverebbe a questo livello la perequazione interna e l’omogeneizzazione della società nazionale, assicurando così, anche per questa via, la promozione del Paese, la sua coesione, lo sviluppo delle molteplicità, di cui è ricca l’Italia, e la proficua competizione tra gli ambiti regionali.
La riforma del regionalismo o del federalismo italiano si colloca esattamente qui.
 
4. Lo stesso è accaduto anche negli altri Stati membri dell’Unione europea, compresa la Francia, nella quale il decentramento dei poteri e la rappresentanza delle istanze locali e regionali, in ragione di riforme costituzionali (revisione costituzionale del 17 marzo 2003) e legislative, ha raggiunto un livello tale, per il quale, oggi, ben difficilmente si può trattare questo Stato come il prototipo dello Stato centralista.
Ma ulteriori e maggiori riferimenti possono trarsi dall’esperienza tedesca e spagnola, da sempre modelli di riferimento nell’esperienza italiana. La prima è stata caratterizzata da un processo c.d. di “rifederalizzazione” dell’intero ordinamento, anche in relazione agli effetti prodotti dalla riunificazione del 1990, nella quale ha trovato posto la sperimentazione del c.d. “federalismo fiduciario” ed una prima modifica del riparto delle competenze (in particolare, dell’art. 72 GG, e della sua giustiziabilità) con la legge di revisione del 27 ottobre 1994. Nel corso della 15. legislatura, anche con il contributo di un comitato di esperti, è stata pensata una più estesa riforma costituzionale del riparto delle competenze e delle procedure legislative federali; successivamente varata nel corso della 16. legislatura, con la legge di revisione 28 agosto 2006, e completata con una riforma della Finanzverfassung, attraverso la legge di revisione 19 marzo 2009.
Quanto all’ordinamento autonomista spagnolo, questo è stato caratterizzato da una riscrittura degli Statuti delle comunità autonome, nel segno di un rafforzamento della loro identità e della modifica del riparto delle competenze, che ha trovato riscontro nella riforma della legislazione organica sul sistema di finanziamento (LO 18 dicembre 2009 n. 3 e n. 22) e un limite nella sentenza (n. 31 del 2010) sullo Statuto della Catalogna del Tribunale costituzionale spagnolo.
 
5. Nel caso italiano, perciò, la riforma regionale avrebbe dovuto ubbidire ad una più estesa modifica della rappresentanza, dei raccordi e della stessa forma di governo, e non soltanto a sgravare lo Stato da una serie di oneri (da addossare a Regioni ed Enti locali). È ampiamente noto che sia il c.d. federalismo amministrativo (o a Costituzione invariata) delle leggi “Bassanini”, sia la revisione del Titolo V, con le leggi costituzionali n. 1 del 1999 e n. 3 del 2001 e degli Statuti speciali (legge costituzionale n. 2 del 2001) hanno agito sempre sul versante del riparto delle competenze e dell’autonomia organizzativa delle Regioni, senza considerare in alcun modo il cambiamento di ruolo dello Stato e la necessità di una sua diversa organizzazione costituzionale e amministrativa.
L’unico elemento normativo che avrebbe potuto innovare in qualche modo al sistema parlamentare, l’art. 13 della legge costituzionale n. 3 del 2001, è rimasto “lettera morta”.
L’attuazione della riforma, poi, ha coinciso con una ripresa della logica centralista, soprattutto dopo la sentenza n. 303 della Corte costituzionale che ha dissolto istantaneamente il carattere prescrittivo del riparto delle competenze tracciato dall’art. 117 della Costituzione; le stesse disposizioni della legge n. 131 del 2003 sono così risultate prive di efficacia già al loro apparire, dal momento che l’atrofia delle norme costituzionali è dipesa dalla fuoriuscita dalle regole costituzionali, per far prevalere ancora una volta, in via di fatto, una logica unitaria in un assetto che dichiarava di essere ispirato ai princìpi del federalismo e dell’autonomia.
Ciò nonostante, a dieci anni dalla revisione costituzionale, restano valide le ragioni profonde (cioè i processi di integrazione internazionali ed europei) che hanno spinto verso un assetto dello Stato maggiormente decentrato. Non è un caso che, a dispetto dei limiti presentati dalla revisione e dalle vicende successive, nessuna forza politica metta in discussione la necessità di rafforzare il regionalismo e di potenziare le autonomie locali. Ed anche se il discorso riformatore non riesce ancora a sortire i suoi effetti, come nel caso della riforma costituzionale del Parlamento, risultano ampiamente condivisi nel dibattito politico, non solo le eventuali ragioni di una riforma, ma persino il modello di riferimento da implementare, così come è stato elaborato sul finire della precedente legislatura dalla Commissione affari costituzionali della Camera dei Deputati (c.d. “bozza Violante”).
 
6. La crisi economica attuale e le proposte avanzate nel recente Consiglio europeo, del 28 e 29 ottobre 2010, dimostrano che persino cambiamenti epocali come quelli in atto, determinati dalla creazione di un mercato globale, in termini: sia di circolazione di merci e capitali, e sia di circolazione di persone, comprese le migrazioni di intere popolazioni, non siano governabili con logiche di chiusura protezionistica della propria economia ed identità nazionale, ma attraverso una più estesa cooperazione internazionale ed europea.
L’assetto degli Stati, perciò, deve per necessità rimanere aperto e organizzato in modo decentrato con un rafforzamento dell’articolazione interna e dei raccordi. Del resto, le misure adottate negli anni 2008, 2009 e 2010, in relazione alla necessità di uscire positivamente dalla crisi economica, hanno mostrato la migliore capacità di reazione di un ordinamento caratterizzato da un decentramento interno, rispetto ad uno contraddistinto da un modello di carattere unitario, in quanto se, per un verso, sono stati imposti tagli alla spesa pubblica dei diversi livelli di Governo, dall’altro questi hanno potuto selezionare le riduzioni di spesa secondo le esigenze territoriali e al contempo implementare misure di sostegno, al reddito o alla produzione, in base alla condizione locale (come è testimoniato molto bene dalle misure contenute nelle leggi finanziarie e di bilancio, relative soprattutto agli anni 2008, 2009 e 2010).
A questo riguardo, ha destato un consistente interesse a livello internazionale, nel corso del convegno di settembre 2010 della IACFS (International Association of Centers for Federal Studies), sul tema “Federalism and the Global Financial Crisis: Impacts and Responses”, la posizione espressa dall’Issirfa circa la possibilità (e la necessità) di implementare il federalismo fiscale in Italia, anche in costanza degli effetti negativi della congiuntura economica. Infatti, è noto che nei momenti di crisi i sistemi federali tendono a contrarsi in un complesso di decisioni di tipo centralistico (tipico esempio il New Deal rooseveltiano), per via della riduzione complessiva delle risorse, che riconduce alle Federazioni la capacità redistributiva verso i loro stati membri.
Diversamente, nel caso italiano, si può sostenere che la crisi finanziaria che stiamo attraversando sta diventando un punto di partenza utile per ridurre il forte divario esistente tra la titolarità delle competenze e la titolarità delle fonti di finanziamento necessarie al loro esercizio e per sperimentare una forma di autonomia finanziaria necessariamente parsimoniosa.
La legge n. 42 del 2009 avrebbe potuto essere scritta in modo più semplice prevedendo i margini del potere impositivo di ogni livello di Governo, affidando allo Stato il compito perequativo nei limiti delle risorse disponibili. L’intera legge n. 42, invece, appare rivolta a creare una standardizzazione di tutto il sistema economico-finanziario italiano, basato su costi standard (per il finanziamento delle prestazioni di cui alla lettera m, del comma 2, dell’articolo 117 della Costituzione) e su capacità fiscale (per il finanziamento delle altre funzioni), in modo da creare limiti di spesa, consapevolezza del prelievo e responsabilità di gestione da parte degli amministratori regionali e locali.
Ovviamente, la realizzazione di un disegno così complesso, attraverso i decreti legislativi, appare certamente ambizioso e di non sicura riuscita, soprattutto se non viene attuata per tempo la riforma della contabilità pubblica. Di conseguenza, potrebbe – quanto meno in una prima fase – non realizzarsi una effettiva e maggiore autonomia finanziaria delle Regioni, così come una autentica capacità impositiva, tale da rendere diretto e trasparente il rapporto di responsabilità degli amministratori verso i cittadini. In questo contesto, anzi, può sin d’ora dirsi che appare alquanto ideologico l’avere escluso ogni forma di trasferimento. Infatti, ancorché si tratti di uno strumento tipico di finanza derivata, questo, soprattutto nei rapporti Stato-Enti locali e Regioni-Enti locali, avrebbe reso evidente il conferimento della funzione (e la fonte legislativa competente) a norma dell’art. 118, comma 2, della Costituzione e avrebbe consentito, nel caso di inadempimento, di fare ricorso – secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale – a forme di esercizio del potere sostitutivo, rispettivamente dello Stato e delle Regioni, con un qualche effetto deterrente e responsabilizzante sugli amministratori locali. Inoltre, a nostro avviso, la frantumazione delle basi imponibili dei diversi tributi, con le addizionali e le compartecipazioni corre il rischio di non rendere trasparente l’esercizio del potere impositivo e di aggravare la pressione fiscale globale, soprattutto se lo Stato tende a mantenere il proprio gettito, per cui il contribuente corre il rischio di venirsi a trovare al centro di (e a pagare) un conflitto istituzionale, senza la percezione chiara delle rispettive responsabilità. Infine, attesa la complementarietà della leva tariffaria, rispetto a quella fiscale, bisognerebbe promuovere un utilizzo delle accise su benzina ed energia (elettricità e gas) trasparente per gli utenti dei servizi ed effettivamente finalizzata a scopi precisi e non diversamente finanziabili.
Si aggiunga qui una ultima considerazione sulla legge n. 42 del 2009: la sua efficacia istituzionale non va sottovalutata, dal momento che essa, di fatto, ha inciso su un aspetto fondamentale del rapporto tra Regioni ordinarie ed Enti locali, determinando – diversamente da quanto previsto dalle disposizioni del Titolo V della Carta – una regionalizzazione del sistema locale, al pari di quanto previsto dagli Statuti costituzionali per gli Enti locali delle Regioni speciali; e questa regionalizzazione dei sistemi di autonomia locale potrebbe essere rafforzata ulteriormente da alcuni meccanismi contenuti nella disciplina sulla Carta delle autonomie attualmente in corso di approvazione. Tuttavia, perché una siffatta prospettiva possa superare il vaglio di costituzionalità appare necessario che le Regioni dispongano misure a favore degli Enti locali, non solo di carattere economico - finanziario, quanto soprattutto di indole istituzionale, adoperandosi compiutamente nel conferimento delle funzioni e limitandosi al ruolo di legislazione e di programmazione e perequazione regionale.
 
7. Se è esatto quanto affermava la Corte costituzionale, in una sentenza (la n. 370), del 2003, e cioè che “la attuazione dell'art. 119 Cost. (era) urgente al fine di concretizzare davvero quanto previsto nel nuovo Titolo V della Costituzione, poiché altrimenti si verrebbe a contraddire il diverso riparto di competenze configurato dalle nuove disposizioni”, la nuova articolazione della legislazione interna, tra livello statale e livello regionale, che si determina con l’entrata in funzione del federalismo fiscale non può fare a meno di guardare verso l’alto: verso l’Unione europea.
Con il Trattato di Lisbona (2009) è stata superata l’impasse nella quale l’Unione europea si trovava dopo l’abbandono del Trattato costituzionale di Roma (2004), non solo perché i 27 paesi davano esecuzione, non senza incertezze, al nuovo accordo europeo, ma soprattutto in quanto l’intera elaborazione della convenzione di Laeken veniva di fatto recuperata nell’opera di emendamento dei Trattati europei.
È ampiamente noto che la dimensione regionale all’interno di questi risulta oggi considerevolmente aumentata, sia sul versante della rappresentanza europea, con un ruolo rafforzato del Comitato delle Regioni, quanto meno per il potere a questo riconosciuto in determinate situazioni di ricorrere alla Corte di Giustizia, e sia sul versante interno, con le previsioni dei protocolli n. 1 e 2 sui Parlamenti nazionali e sui princìpi di sussidiarietà e proporzionalità.
Non è la prima volta che l’Europa impone ai suoi Stati membri, pur nel rispetto della loro identità, di adeguare le istituzioni interne alle esigenze costituzionali del livello sopranazionale. Così appare indubbio che i meccanismi interni di partecipazione prefigurati dai protocolli rappresentino delle procedure basate sul modello del c.d. “doppio federalismo”, per il quale deve chiedersi se siano sufficienti le disposizioni dell’art. 117, comma 5, della Costituzione e le prescrizioni, sia pure aggiornate, della legge n. 11 del 2005, così come una semplice revisione dei regolamenti parlamentari e di quelli dei Consigli regionali.
Il dialogo interparlamentare, da un lato, e il monitoraggio della sussidiarietà europea, dall’altro, saranno nei prossimi anni un banco di prova per l’Unione europea, anche per la crescita della democrazia del livello sopranazionale, ma lo saranno pure per gli Stati membri e per la loro democrazia interna; tornerebbe utile, qui, rimeditare la Lissabon-Urteil del Bundesverfassungsgericht e la legislazione di accompagno della ratifica del Trattato di Lisbona. Tuttavia, limitandoci all’essenziale e a prescindere dalla necessità e dalla capacità in Italia di realizzare riforme costituzionali e legislative su questo punto, un elemento si coglie in modo chiaro e netto da questa evoluzione dei rapporti europei, e cioè che – diversamente da quanto traspare dalla giurisprudenza della Corte costituzionale – le sedi di rappresentanza regionale, Assemblee e Consigli democraticamente eletti, non possono essere considerate con sufficienza e sottovalutando la loro funzione legislativa, rispetto alla rappresentanza espressa dal Parlamento nazionale e alla funzione legislativa da questo esercitata.
Già adesso, anche se appare ancora necessario superare una certa frammentazione dei Consigli regionali, si vede una diversa espressione (e qualità) della legislazione regionale rispetto a quella dell’esperienza iniziale, tanto più che le Assemblee stanno viepiù implementando strumenti di riordino della legislazione (con testi unici e codici regionali) e di verifiche delle politiche susseguenti alle previsioni legislative regionali (come è testimoniato dalla crescita degli atti di controllo ispettivo).
Di conseguenza, un atteggiamento anche di velata superiorità statale non si giustificherebbe, ma rappresenterebbe una sottovalutazione del ruolo legislativo delle Regioni e determinerebbe un indebolimento dell’intero sistema di negoziazione italiano nei confronti del livello sopranazionale e nei confronti degli altri Stati membri che prendono sul serio il loro federalismo.
 
8. Se quanto sin qui espresso può costituire una chiave di lettura valida del rapporto sulla legislazione, allora è possibile ricavare immediatamente le indicazioni più importanti che da esso possono trarsi.
La prima considerazione riguarda il lento processo di costruzione degli ordinamenti regionali, a partire dalla riscrittura degli Statuti ordinari, con ancora tre Regioni che non hanno proceduto al loro aggiornamento, e dalla revisione degli Statuti speciali.
Questa condizione di ritardo che si registra nella loro realizzazione e nell’implementazione della stessa impalcatura da essi prevista: organo di garanzia statutaria, Consiglio delle autonomie locali, ecc., non deve sorprendere, dal momento che – sia detto senza infingimenti – le Regioni sono state poco incentivate dal dibattito politico nazionale a diventare effettivamente confrontabili con gli enti omologhi tipici di un ordinamento federale, anzi la discussione pubblica ha teso a riproporre di nuovo una visione della Regione come di un grande “Ente locale” e, soprattutto, si è fatto di tutto per escludere dal novero della classe politica nazionale quella che siede nei Consigli regionali, delegando al Presidente della Regione, scelto con una diversa logica politica, la funzione di raccordo non con lo Stato, ma solo con il Governo centrale.
Il superamento di questa impostazione, che ha afflitto il decennio successivo alla revisione costituzionale, dipende oggi non tanto dalla volontà di riforma della classe politica interna, quanto dalla necessità di un adeguamento della forma di Stato italiana al diritto europeo. A questo adeguamento le Regioni medesime, e in particolare i Consigli regionali, possono da subito dare un contributo significativo completando i loro sistemi istituzionali e prevedendo nel loro ordinamento le procedure più adeguate per il riscontro della legislazione europea.
Si deve aggiungere che un diverso assetto del sistema regionale e una più compiuta considerazione delle rappresentanze regionali, sarà tanto più necessaria nel momento in cui le proposte di modifica dei Trattati europei, ipotizzate nel Consiglio europeo del 28 e 29 ottobre 2010, saranno formulate e successivamente discusse e approvate. Infatti, il rafforzamento della disciplina di bilancio, l’ampliamento della sorveglianza economica e l’approfondimento del coordinamento europeo, in vista di un quadro solido per la gestione delle crisi e di un rafforzamento sostanziale del pilastro economico dell'UEM, imporrà agli Stati membri una verifica dei sistemi previdenziali e una precisazione sulla gestione dei debiti pubblici alla luce dell’art. 125 TFUE. È facile osservare che la natura della materia richiamata, dal punto di vista dell’ordine costituzionale interno e la stessa formulazione della disposizione citata, non possono formalmente e sostanzialmente escludere le Regioni dalla decisione dei percorsi da seguire per le politiche di risanamento.
 
9. Nell’ambito della legislazione si registrano alcune significative conferme che consentono di valutare adeguatamente i cataloghi delle materie enumerate e lo stesso sistema delle competenze. Così, se per un verso la normazione regionale tende ormai ad avere un carattere quantitativo stabile e tendenzialmente contenuto, sì che sembra fugato un pericolo di iper-regolazione per opera delle fonti regionali, per l’altro invece le innovazioni più significative introdotte dal nuovo art. 117 Cost. a favore delle Regioni, in termini di campi materiali suscettibili di regolazione regionale, non sono state sufficientemente considerate.
Ne risulta confermata una fisionomia dell’Ente Regione ancora piuttosto tradizionale, limitata alle maggiori competenze della precedente enumerazione. Infatti, mentre il nuovo Titolo V configura una Regione tendenzialmente Ente di promozione dello sviluppo economico del proprio territorio e centro di relazioni istituzionali con i livelli di Governo locale, emerge invece una Regione molte volte ancora dedita alla propria amministrazione e soggetto di erogazione di assistenza; in un contesto di funzioni, come quello della sanità, o dell’assistenza dove forse maggiormente bisognerebbe sperimentare forme di sussidiarietà orizzontale.
Di certo a marcare questo quadro un po’ deludente del sistema regionale può dirsi che sia stato il susseguirsi delle crisi economiche del 2001 e del 2008, ma – accanto a questo elemento significativo – si situa anche la preoccupazione, iniettata alle Regioni e, in particolare, ai Consigli regionali, di non essere gli Enti propriamente adatti a disciplinare determinate materie. Come è noto i giudizi sulla struttura del riparto delle competenze e, in modo specifico, dell’art. 117, commi 3 e 4, della Costituzione sono stati molto critici, con la scelta compiuta dal legislatore di revisione, di avere regionalizzato, non solo lo Stato sociale, ma anche gli elementi della politica economica. Di conseguenza, la stessa legislazione di attuazione si è basata su un accordo, imposto dal Governo e accettato dalle Regioni, di non legiferare autonomamente sui campi materiali in precedenza statali che è stato reso manifesto negli artt. 1 e 3 della legge n. 131 del 2003. Queste disposizioni, infatti, prevedevano la previa ricognizione dei princìpi fondamentali e il riordino della legislazione di dettaglio. Nel complesso questa disciplina di delega non ha sortito l’effetto sperato, in quanto è risultata ampiamente disattesa dal Governo, ma ha di fatto limitato (anche in conseguenza di alcune pronunce costituzionali) l’autonomia legislativa regionale sino a registrare in alcune materie (come l’industria, la ricerca, le comunicazioni, ecc.) l’assenza pressoché completa di legislazione regionale.
Ne è nata una sorta di gabbia psicologica nella quale sono state poste le Regioni e i Consigli regionali dalla quale – in base a ciò che si registra – non si riesce ad uscire anche per il protrarsi degli inadempimenti da parte del legislatore statale, che non ha reso agevole la legislazione regionale, e per l’accentuarsi del divario tra riparto costituzionale delle competenze e prassi delle legislazioni ad opera della giurisprudenza della Corte costituzionale.
Resta indubbio che il comma 3 dell’art. 117 della Costituzione sia quello meno riuscito della revisione, soprattutto per determinate materie che non si prestano al frazionamento regionale (come commercio con l’estero, professioni, ordinamento sportivo, grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia) e che tutt’al più consentono un intervento complementare e locale rispetto ad un assetto prevalentemente generale di tipo nazionale.
 
10. I Consigli regionali, pur tuttavia, hanno dimostrato di avere saputo reagire in modo adeguato al tentativo – emerso nella giurisprudenza costituzionale – di farli apparire organi di formazione secondaria e si sono appropriati compiutamente della fonte “legge”, portando avanti una legislazione più complessa per settori organici e materie.
Inoltre, essi hanno saputo rimettere quasi sempre il compito di attuazione delle decisioni politiche assunte con la legislazione alle Giunte attraverso la fonte regolamentare loro attribuita dagli Statuti, mantenendo e migliorando il controllo dell’attività di esecuzione con strumenti di monitoraggio.
Ne sono esempio palese le discipline sui servizi sociali delle Regioni e prima fra tutti ormai la legislazione sugli immigrati, che consentono al nostro paese di reggere alla presenza di un sempre maggiore numero di stranieri.
Nel settore specifico della sanità, inoltre, il sistema regionale – pur con quattro Regioni in difficoltà – è stato in grado, nelle sue performance migliori, di integrare i livelli di assistenza imposti dallo Stato, andando così oltre un ruolo attuativo delle decisioni ministeriali. Ne sono una testimonianza le innumerevoli “linee guide” che le Regioni hanno prodotto.
Sicché, si può dire che le Regioni, in questo campo, hanno dato vita ad una vera e propria diversità territoriale, per qualità e quantità con politiche socio-sanitarie dai target diversi (come lo screening oncologico di massa, o la cura dentaria con protesi, o la salvaguardia dei soggetti danneggiati da vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni o somministrazione di emoderivati). Si tratta di un vero e proprio modello di federalismo competitivo, per il quale alcune Regioni, attraverso la sanità cercano anche di radicare la loro identità specifica.
In conclusione, appare possibile affermare che – come emerge anche dall’esame delle leggi finanziarie – l’importanza e la poliedricità dell’azione delle Regioni, a dieci anni dalla revisione costituzionale del Titolo V della Costituzione, risulta ormai con chiarezza dalla capacità di queste di sapere gestire il loro ordinamento giuridico, innovando periodicamente alle discipline materiali con nuove leggi e attraverso forme di vera e propria manutenzione delle leggi vigenti. 
 
                                                                             Stelio Mangiameli

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