Il Rapporto 2011 sulla legislazione tra Stato, Regioni e Unione europea è realizzato su iniziativa e con il coordinamento dell'Osservatorio sulla legislazione della Camera dei Deputati ed in collaborazione con gli uffici legislativi delle Regioni e delle due Province autonome.
 
L'ISSiRFA-CNR, diretto dal Prof. Stelio Mangiameli, ha curato, con il coordinamento della Dott.ssa Aida Giulia Arabia, la Parte II  "Tendenze e problemi della legislazione regionale", scaricabile in pdf.

 

INTRODUZIONE
Il regionalismo italiano tra processo di federalizzazione
ed effetti della crisi globale
 
Sommario:
 
 
1. L’emergenza economica e la reazione del sistema istituzionale
 
Dopo le vicende degli anni 2008 e 2009, nei quali sono state adottate misure anti-crisi nelle leggi finanziarie e in diversi decreti legge (DL 112/2008, convertito in legge 133/2008; DL 78/2009, convertito in legge 102/2009), è apparso immediato, all’inizio della nuova legislatura regionale nel 2010, che l’impatto della crisi finanziaria globale era stata sottovalutata (1).
Con l’esplosione della vicenda della Grecia la crisi si è presentata con un volto europeo e se, da una parte, si può ora arrivare al fallimento di uno Stato sovrano, dall’altro, ciò potrebbe causare la messa in discussione dell’Unione europea, così come dell’euro, quale moneta comune. Di qui alcune scelte da parte delle Istituzioni europee, compiute sul finire dell’anno 2010, di rafforzare il fondo salva stati e di imporre, a quelli che si trovano sotto il tiro della speculazione finanziaria internazionale, drastiche misure di razionalizzazione economica, come il rafforzamento della disciplina di bilancio, la verifica dei sistemi previdenziali e la precisazione sulla gestione dei debiti pubblici. Ciò, peraltro, avrebbe richiesto l’ampliamento della sorveglianza economica da parte dell’UE e l’approfondimento del coordinamento europeo, in vista di un quadro solido per la gestione delle crisi e di un rafforzamento sostanziale del pilastro economico dell'UEM, giungendo se necessario ad una modifica dell’art. 125 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) (2).
La reazione alla crisi è comunque in parte coordinata tra gli stati membri, a livello europeo, e in parte affidata all’intelligenza dei singoli governi.
Nel caso italiano, per fronteggiare gli effetti della crisi si realizza un maggiore intervento legislativo statale con un impatto diretto sul sistema istituzionale regionale e locale. Le disposizioni che riguardano i livelli di governo substatali, a partire dalla legge finanziaria (LF) 2010 (legge 191/2009), hanno avuto una ripresa immediatamente subito dopo, con il DL 2/2010, convertito in legge 42/2010, recante: «Interventi urgenti concernenti enti locali e regioni», e con la successiva azione messa in campo dal Governo, con il DL 78/2010, convertito in legge 122/2010. Questo provvedimento tende a una drastica riduzione della spesa pubblica in relazione soprattutto agli apparati politici ed amministrativi e tocca anche il pubblico impiego. Si incentiva anche il contrasto all’evasione fiscale, alle frodi e ad alcuni comportamenti distorsivi del mercato. Una parte delle misure toccano anche i trasferimenti finanziari alle Regioni e alle Autonomie locali.
Centrale appaiono in questo provvedimento la determinazione della misura del nuovo contributo che il sistema territoriale italiano, quello che assicura i servizi e che contribuisce sensibilmente alla realizzazione delle politiche, deve pagare alla crisi, in termini di tagli. Dispone, infatti, l’art. 14, co. 1, che “ai fini della tutela dell'unità economica della Repubblica, le Regioni, le Province autonome di Trento e di Bolzano, le Province e i Comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti concorrono alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica per il triennio 2011-2013 nelle misure seguenti in termini di fabbisogno e indebitamento netto: a) le Regioni a statuto ordinario per 4.000 milioni di euro per l'anno 2011 e per 4.500 milioni di euro annui a decorrere dall'anno 2012; b) le Regioni a statuto speciale e le Province autonome di Trento e Bolzano per 500 milioni di euro per l'anno 2011 e 1.000 milioni di euro annui a decorrere dall'anno 2012; c) le Province per 300 milioni di euro per l'anno 2011 e per 500 milioni di euro annui a decorrere dall'anno 2012, attraverso la riduzione di cui al co. 2; d) i Comuni per 1.500 milioni di euro per l'anno 2011 e 2.500 milioni di euro annui a decorrere dall'anno 2012, attraverso la riduzione di cui al co. 2.”
I ricavi dalla lotta all’evasione fiscale nel 2010 sono stati consistenti, ma questo problema resta ancora molto forte. Ciò è dovuto all’entità dell’evasione che si aggira sulla base di stime approssimate per difetto di circa 120 miliardi di euro.
Le misure del 2010 di contrasto alla crisi finanziaria, inoltre, hanno iniziato a operare effettivamente solo con il 2011 e nell’estate – come è noto – sono state sottoposte a revisione di fronte all’incessante speculazione dei mercati finanziari. La loro efficacia resta problematica; sulla carta avrebbero dovuto fruttare 25 miliardi di euro, di cui 7 attraverso tagli alla spesa pubblica. Tuttavia, le quantità previste nelle disposizioni del 2010 si sono rivelate ampiamente insufficienti, soprattutto per l’incapacità del Governo nazionale e del Parlamento di adottare efficaci ed esemplari misure di contenimento del debito, di ristrutturazione degli apparati statali, di semplificazione delle procedure, di rilancio della crescita economica.
Queste misure, infine, sono state adottate mentre sulla legislazione regionale e sui bilanci regionali e locali si faceva già sentire l’effetto delle disposizioni del 2008 e del 2009 e di cui si darà conto dopo.
 
2. Il sistema istituzionale: la riforma costituzionale, il federalismo fiscale e la riconfigurazione dell’amministrazione ai diversi livelli di governo
 
Per comprendere il rapporto tra la crisi finanziaria globale e il federalismo interno in Italia è necessario considerare brevemente l’evoluzione dell’ordinamento a seguito della riforma costituzionale del 1999-2001, della legge 42/2009 sul federalismo fiscale e del tentativo attualmente ancora in discussione sul riordino amministrativo tra i diversi livelli di governo. Infatti, la crisi sta coincidendo con un processo di trasformazione dell’ordinamento italiano in una forma di regionalismo/federalismo inedito.
Con le leggi costituzionali del 1999 e del 2001 si è tentato di adottare un riparto delle competenze modellato sull’esperienza federale, modificando la precedente disciplina costituzionale e dotando le Regioni di una maggiore autonomia organizzativa anche in relazione alla forma di governo. L’attuazione di questa riforma costituzionale ha conosciuto una forte battuta di arresto e i suoi apporti positivi a favore delle Regioni sono stati messi in discussione da più parti. La stessa giurisprudenza della Corte costituzionale testimonia le difficoltà di costruire un modello equilibrato di legislazione, amministrazione e finanza pubblica.
La riforma costituzionale, infatti, ha complicato, anche per la mancanza di un Senato federale, il riparto delle competenze inerenti all’intervento nell’economia, nel mercato e per il welfare; e la giurisprudenza costituzionale, di fatto, ha cancellato ogni possibile vantaggio stabilito a favore della legislazione regionale: chiamata in sussidiarietà, tutela della concorrenza, prevalenza della competenza statale nel caso di materie trasversali e coordinamento della finanza pubblica sono stati gli strumenti utilizzati per ricentralizzare il potere legislativo in capo allo Stato e rendere incerta la sfera della competenza legislativa regionale prevista dal co. 3 e, soprattutto, dal co. 4 dell’art. 117 della Costituzione. A poco è servito, a tal riguardo, il particolare impegno profuso dalla Corte costituzionale per imporre, in via compensativa, per la perdita dei poteri legislativi delle Regioni, il rispetto del principio di leale collaborazione, e ciò per due ragioni: in primo luogo, gli organi, statali e regionali, chiamati a collaborare, non sono quelli cui la Costituzione affida il potere legislativo, ma sono espressione del potere esecutivo; in secondo luogo, e a prescindere dalle sedi di collaborazione impegnate, il modello cooperativo italiano si è affermato in modo squilibrato, giacché segue e non precede l’intervento del legislatore statale.
Nonostante ciò, l’esperienza concreta – come si vedrà – mostra che la riforma del regionalismo italiano passa attraverso una presa sul serio della potestà legislativa regionale. Ma, per il momento, rimaniamo nell’ambito statale.
La legge 42/2009 sul federalismo fiscale rappresentava una promessa elettorale della maggioranza di governo, anche se analoga promessa aveva fatto in campagna elettorale l’opposizione; per questa ragione essa è stata approvata in Parlamento dalla maggioranza e da una ampia parte dell’opposizione.
La sua approvazione però è avvenuta nel momento in cui la crisi finanziaria cominciava a diventare sociale ed ha potuto essere approvata perché la legge non modificava immediatamente i livelli e i poteri di imposizione, ma delegava il Governo ad adottare la riforma.
Il Governo ha provveduto nel corso del 2010 a predisporre e ad approvare i decreti sul federalismo fiscale (3), ma numerosi ostacoli politici si sono frapposti a questa attività, dal momento che la crisi ha anche incattivito la battaglia politica con la richiesta, già nel 2010, di una nuova legge elettorale in vista delle elezioni politiche (anticipate).
Si consideri, infine, che l’approvazione dei decreti non corrisponde all’avvio di un sistema di imposizione di tipo federale, ma potrebbe comportare ancora per un lungo periodo il permanere di un forte centralismo del potere tributario.
Perché possano realizzarsi i passaggi effettivi dei poteri tributari dallo Stato alle Regioni (e alle autonomie locali), occorre che si allenti la stretta sulla spesa pubblica e sull’amministrazione determinata dalla legislazione anticrisi, e cioè occorre che la fase più critica della crisi sia alle spalle. La previsione del legislatore è che l’attuale stretta finanziaria resti fino al 2013, ma nulla lascia credere che a quella data la crisi sia superata con successo. Quella data è solo la data in cui si dovrebbero tenere le elezioni politiche, se il Parlamento non viene sciolto anticipatamente, e la sua previsione significa che sarà il prossimo Parlamento a dovere gestire la ripresa o l’ulteriore congiuntura negativa.
Allo stato attuale la realizzazione del federalismo fiscale appare ancora sulla carta e carica di problemi, rimangono le promesse, sono incerte le conquiste.
Tra le incertezze si deve considerare la necessaria realizzazione di una perequazione tra i territori regionali, necessaria per non abbandonare una parte consistente del Paese, quella del centro e del sud, ad una condizione di non sviluppo. Attualmente è un dato acclarato che solo sette Regioni (5 del nord – Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia ed Emilia Romagna; e 2 del centro – Toscana e Marche) hanno un surplus fiscale (al netto del pagamento degli interessi per il debito), mentre le rimanenti 13 si trovano in una posizione sfavorevole, anche se alcune in modo limitato (come il Lazio, l’Umbria, la Liguria e il Trentino Alto Adige).
La risposta a questo dualismo non può essere ancora una volta l’emigrazione verso il nord. In un sistema di economia globale, nella quale la spesa pubblica ha limiti specifici, l’emigrazione interna, ma anche quella esterna, non può promuovere lo sviluppo di un territorio. La politica perequativa e di solidarietà, peraltro, appare essere una necessità anche per le Regioni del nord, dal momento che il loro rating, per quanto si possa elevare, va rapportato sempre all’intero paese (un discorso analogo sembra valere sempre più per l’intera Europa).
Il federalismo fiscale, perciò, risulterà accettabile e realizzabile solo se non spezza il vincolo nazionale, ma anzi lo alimenta con forme effettive di solidarietà; altrimenti si corre il pericolo di innescare una situazione di contestazione permanente che nessun partito nazionale può reggere se non predicando un neo-centralismo antifederalista. Non è un caso che la perequazione fiscale nella Costituzione sia una competenza esclusiva dello Stato e – secondo il giudice costituzionale – l’esercizio di questo potere è in grado di incidere concretamente sull’intero assetto delle competenze.
Anche dal punto di vista amministrativo la riforma costituzionale ha previsto un forte decentramento dei poteri a favore delle autonomie (comunale e provinciale), ma dal 2001 ad oggi si sono susseguiti solo tentativi di riforma dell’amministrazione, in quanto l’amministrazione statale e quella regionale hanno difeso strenuamente i loro poteri: ad ogni legislatura è stato presentato un disegno di legge per la riforma dell’amministrazione, ma questo non è stato approvato; adesso la crisi rischia di ulteriormente procrastinare la riforma dell’amministrazione e di complicarla ancora di più.
Anche nella XVI legislatura è stato presentato un disegno di legge, presentato alla Camera dei deputati (AC 3118) dal Governo e da questa approvato il 30 giugno del 2010, che reca il titolo “Individuazione delle funzioni fondamentali di Province e Comuni, semplificazione dell’ordinamento regionale e degli enti locali, nonché delega al Governo in materia di trasferimento di funzioni amministrative, Carta delle autonomie locali. Riordino di enti ed organismi decentrati”.
Il testo del ddl è stato il frutto di una lunga elaborazione in sede governativa, alla quale non sono risultati estranei le esperienze maturate con i precedenti tentativi di attuazione del Titolo V, portati avanti nella XIV e nella XV legislatura. Per questa ragione, si può persino dire che si tratta di un testo ampiamente condiviso e nel quale si rispecchia fedelmente il modello amministrativo della revisione costituzionale.
Come è noto, questo si basa: in primo luogo, sulla competenza esclusiva dello Stato a determinare le funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane (art. 117, co. 2, lett. p); in secondo luogo, sul conferimento a Comuni, Province e Città metropolitane delle funzioni amministrative nelle materie legislative di Stato e Regioni, per opera delle rispettive fonti legislative (art. 118, co. 2); e, infine, sull’utilizzo dei princìpi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza nell’allocazione delle funzioni amministrative e al fine di assicurarne l’esercizio unitario (art. 118, co. 1).
Nel concreto, però, nonostante il ddl giaccia dal 2 luglio 2010 presso il Senato della Repubblica, a tutt’oggi non risulta posto in discussione per l’approvazione definitiva. Nel frattempo il legislatore non è rimasto fermo, ma ha provveduto ad introdurre proprio nel 2010 una serie di prescrizioni riguardanti le autonomie locali, estrapolandole dal contesto della riforma dell’amministrazione ed inserendolo in quello del contenimento della spesa pubblica, con la conseguenza che le misure istituzionali previste come coordinamento della finanza pubblica incidono sull’intero sistema amministrativo in modo occasionale e senza una vera prospettiva di riordino istituzionale, ma solo di contenimento della spesa.
Con la LF 2010 si è proceduto alla riduzione del contributo ordinario base spettante agli enti locali (art. 2, co. 183), collegandola alla riduzione del numero dei consiglieri comunali (art. 2, co. 184) e degli assessori comunali e provinciali (art. 2, co. 185). Inoltre, sono state imposte ai Comuni una serie di misure conseguenti (art. 2, co. 186), quali: a) soppressione della figura del difensore civico; b) soppressione delle circoscrizioni di decentramento comunale; c) possibilità di delega da parte del sindaco dell’esercizio di proprie funzioni a non più di due consiglieri, in alternativa alla nomina degli assessori, nei Comuni con popolazione non superiore a 3.000 abitanti; d) soppressione della figura del direttore generale; e) soppressione dei consorzi di funzioni tra gli enti locali.
Peraltro, l’improvvisazione di queste misure è tale che con il successivo DL 2/2010, convertito con modificazioni in legge 42/2010, art. 1, le disposizioni richiamate vengono modificate e altre sono aggiunte e, nell’insieme, le linee legislative sull’amministrazione locale in non poche occasioni si contraddicono, riammettendo sia pure in parte ciò che avevano eliminato ed eliminando ciò che avevano precedentemente lasciato. Inoltre, la disciplina della riduzione del contributo ordinario si fa più stretta e finisce con il toccare anche le Regioni ad autonomia speciale, che sono titolari, in materia di enti locali, di una competenza legislativa piena.
Il comma 185 (per ciò che riguarda la riduzione di consiglieri e assessori) è modificato in senso più restrittivo e viene aggiunto il comma 185-bis sulla soppressione dei circondari provinciali esistenti, e sempre la stessa disposizione (art. 1, co. 1-ter) ha previsto la soppressione dei primi due commi dell’art 21 del Dlgs 267/2000 (c.d. TUEL). Si tratta del primo atto concreto con cui si è cercato di minare il ruolo istituzionale del livello di governo provinciale e l’autonomia delle Province.
Tuttavia, in modo profondamente contraddittorio, il successivo co. 1-quinquies, dell’art. 1 della legge 42/2010, inserisce il co. 186-bis all’art. 2 della legge 191/2009, che ha previsto: “decorso un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge (27 marzo 2011), sono soppresse le Autorità d'ambito territoriale di cui agli artt. 148 e 201 del Dlgs 152/2006 e successive modificazioni. Decorso lo stesso termine, ogni atto compiuto dalle Autorità d'ambito territoriale è da considerarsi nullo. Entro un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, le Regioni attribuiscono con legge le funzioni già esercitate dalle Autorità, nel rispetto dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza. Le disposizioni di cui agli artt. 148 e 201 del citato Dlgs 152/2006 sono efficaci in ciascuna Regione fino alla data di entrata in vigore della legge regionale di cui al periodo precedente. I medesimi articoli sono comunque abrogati decorso un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge”. La disposizione è stata interpretata come un orientamento del legislatore centrale, in una materia di competenza esclusiva (v. Corte costituzionale, sentenza 325/2010) ad attribuire alle Province, quali enti di area vasta, la responsabilità di gestione delle reti idriche e dei rifiuti. E se questo cambiamento di regime dei servizi non si è realizzato, almeno con un’efficacia generale, ciò è conseguenza dell’inerzia delle Regioni, che non hanno rispettato i termini indicati.
A ciò si aggiunga che l’intero co. 186 della LF 2010 è stato rivisto, potremmo dire “al ribasso”, dall’art. 1, co. 1-quater, della legge 42/2010. Così, le parole: «In relazione alle riduzioni del contributo ordinario di cui al co. 183, i Comuni devono altresì adottare» sono sostituite da una espressione più edulcorata: «Al fine del coordinamento della finanza pubblica e per il contenimento della spesa pubblica, i Comuni devono adottare»; e su questa premessa: a) si specifica che il difensore civico soppresso è quello comunale, e che le Province sono chiamate ad istituire il c.d. “difensore civico territoriale” (4); b) le circoscrizioni possono essere istituite di nuovo, ma solo per i Comuni con popolazione superiore a 250.000 abitanti; c) la figura del direttore generale, adesso, può essere prevista, ma solo nei Comuni con popolazione superiore a 100.000 abitanti; d) e, infine, con riferimento alla soppressione dei consorzi di funzione tra gli enti locali, si inserisce l’eccezione dei bacini imbriferi montani (BIM).
Ulteriori disposizioni di carattere istituzionale, che sono qualificate di coordinamento della finanza pubblica, si ritrovano nell’art. 14 del DL 78/2010, convertito con legge 122/2010, già menzionato (co. 25). In questo articolo, oltre alla revisione del patto di stabilità interno, con la misura dei tagli alla finanza dei diversi livelli di governo, si rinviene: l’obbligatorietà dell’esercizio delle funzioni fondamentali da parte dei Comuni (co. 26); il provvisorio riferimento alle funzioni fondamentali comunali previste dall’art. 21 della legge 42/2009 (co. 27); l’esercizio obbligatorio in forma associata delle funzioni fondamentali per i Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti (co. 28); il divieto di svolgere singolarmente le funzioni svolte in forma associata e il divieto di svolgere la medesima funzione in più di una forma associativa (co. 29); l’individuazione, limitatamente alle funzioni inerenti alle materie dei co. 3 e 4 dell’art. 117 della Costituzione, da parte della Regione, con legge e previa concertazione con i Comuni interessati, la “dimensione territoriale ottimale e omogenea per area geografica” per lo svolgimento, in forma obbligatoriamente associata da parte dei Comuni con dimensione territoriale inferiore a quella ottimale, delle funzioni fondamentali, “secondo i principi di economicità, di efficienza e di riduzione delle spese”; la previsione da parte della legge regionale del termine per i Comuni per l’avvio in forma associata dell’esercizio delle funzioni fondamentali e, infine, l’esclusione dall’obbligatorietà dell’esercizio in forma associata per i Comuni capoluogo di Provincia e i Comuni con un numero di abitanti superiore a 100.000 (co. 30). Termini per il completamento della riorganizzazione del livello comunale, secondo quanto indicato, e per la definizione del limite demografico minimo che l'insieme dei Comuni che sono tenuti ad esercitare le funzioni fondamentali in forma associata deve raggiungere, sono affidati alla determinazione di un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, adottato entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto legge (co. 31).
Un’ultima disposizione va richiamata in questa sede che incide sensibilmente sull’autonomia organizzativa dei Comuni e sulla loro capacità giuridica: quella inerente alla possibilità e ai limiti di costituzione di società commerciali (co. 32). Si prevede, infatti, che i Comuni con popolazione inferiore a 30.000 abitanti non possano costituire società e che, perciò, entro il 31 dicembre 2011, i Comuni mettano in liquidazione le società già costituite, o ne cedano le partecipazioni; inoltre, si dispone che i Comuni con popolazione compresa tra 30.000 e 50.000 abitanti possano detenere la partecipazione di una sola società e che anche i predetti Comuni, entro il 31 dicembre 2011, mettano in liquidazione le altre società già costituite.
Sull’utilità concreta di questa disciplina istituzionale, qualificata come normativa di coordinamento della finanza pubblica, si può sinceramente dubitare, se ancora le manovre del 2011 (DL 138, convertito in legge 148) hanno avuto bisogno di modificarla ulteriormente, inasprendo ancor di più le misure nei confronti di Regioni, Province e Comuni, e prorogando i termini di attuazione, nella vana illusione che questo modo di legiferare possa sortire utili effetti, sia dal punto di vista istituzionale, sia da quello del contenimento della finanza pubblica.
 
3.  Una valutazione del ruolo regionale
 
La posizione delle Regioni nel sistema istituzionale – proprio in questi anni e, ancor di più, con la crisi – si è affinata sensibilmente. A fronte di una diminuzione della produzione legislativa, confermata anche nell’anno 2010, si registra una più attenta legislazione nei settori che caratterizzano l’identità regionale stessa e in altri, come le fonti di energia rinnovabile, che stanno diventando un ambito di esclusiva pertinenza regionale.
Le Regioni mostrano di avere imparato a legiferare e continuano a migliorare i loro ordinamenti attraverso una attenta “manutenzione” delle leggi di organizzazione e di settore. Risulta, perciò, poco giustificato il comportamento del legislatore statale che, invece di coordinare il suo compito con quelle del legislatore regionale, come imporrebbe lo stesso riparto delle competenze, comprime l’autonomia e svaluta il sistema di governo territoriale che le Regioni possono svolgere.
Il rapporto del 2010, inoltre, mostra che le Regioni, nonostante la stretta finanziaria, sono in grado di produrre politiche molto avanzate in settori nei quali da tempo la legislazione statale non riesce ad andare oltre la previsione di principi, quasi sempre derivati dalla normativa europea.
Questo vale soprattutto per la materia dell’agricoltura, in quella del turismo, in quella dell’ambiente, all’interno della quale si rinviene anche una disciplina di beni pubblici come le risorse idriche e i beni culturali, e nella materia dell’energia rinnovabile.
Come si vede le materie in cui la qualità legislativa delle Regioni si manifesta, caratterizzandone il ruolo, sono varie e attengono ad ambiti di competenza diversa, compreso quello di pertinenza esclusiva del legislatore statale, come nel caso dell’ambiente. Ciò è dovuto essenzialmente alla circostanza che dopo la revisione del Titolo V, di fatto, i limiti che caratterizzano i diversi tipi di competenza sono diventati più elastici, non differenziando così i tipi di competenza, e costanti, per cui i diversi titoli di competenza si possono ritenere ricompresi in un unico quadro sistematico. Esemplare è proprio la competenza ambientale che, pur essendo prevista al co. 2, dell’art. 117 della Costituzione, disegna quasi naturalmente una ripartizione di compiti con le Regioni che denota l’importanza della prossimità per la salvaguardia ambientale.
Se, a quanto sin qui detto, si aggiungono le materie legislative regionali più tradizionali, come quelle che rientrano nei servizi alla persona e alla comunità, risulta evidente che le Regioni hanno consolidato un ruolo importante nella Repubblica delle autonomie. Infatti, esse rappresentano un livello di governo che ha assunto il ruolo di snodo, non solo verso lo Stato, ma anche verso il territorio, e le autonomie locali, e verso l’Europa.
Non è un caso che, anche di fronte alla caotica legislazione istituzionale, rivestita della maglia del “coordinamento della finanza pubblica”, la legislazione regionale in materia di enti locali si sia consolidata, ad un punto tale da dare vita ad una vera e propria regionalizzazione del sistema di autonomia locale. Ciò era in parte inevitabile, nonostante la riserva della lettera p) del co. 2 dell’art. 117 della Costituzione, per via della circostanza che la maggior parte delle competenze locali rientrano nella sfera della competenza legislativa regionale. Ma, ciò che ha accentuato questo processo sono due aspetti ormai ben evidenti, e cioè: la regionalizzazione del patto di stabilità, che nel 2010 ha conquistato un ulteriore spazio, e la fiscalizzazione dei trasferimenti regionali a favore degli enti locali, per le funzioni amministrative che questi svolgono nell’ambito delle competenze regionali. Quest’ultimo aspetto produrrà maggiori effetti negli anni futuri, con l’applicazione delle regole del federalismo fiscale, ma già adesso si lascia chiaramente intravvedere.
Nei confronti dell’Europa le Regioni hanno con tempestività adeguato i loro ordinamenti alle prescrizioni del Trattato di Lisbona, con particolare riferimento alla verifica della sussidiarietà, e sono particolarmente attive nelle procedure volte alla partecipazione con lo Stato alla determinazione delle politiche europee, essenzialmente disciplinate al momento da atti di natura convenzionale. Si tratta di compiti assolti direttamente e prevalentemente dai Consigli regionali.
Se si vuole dare una valutazione del ruolo svolto dalle Regioni, nella situazione della crisi, può dirsi che queste hanno consolidato la loro posizione come livello di governo necessario, assolvendo una funzione di sostegno dell’ordinamento nel suo complesso, come mostrano molto bene le politiche svolte.
 
4. Le politiche regionali di risposta alla crisi
 
In quest’ambito, nel quale viene in discussione innanzi tutto la materia dell’organizzazione istituzionale, le Regioni, ancor meglio dello Stato, hanno saputo realizzare una legislazione sulla trasparenza, sulla riduzione delle spese generali di organizzazione e sul trattamento dei consiglieri regionali. Anche l’implementazione del decreto “Brunetta” (Dlgs 150/2009) da parte regionale è stato funzionale a formulare il piano delle performance delle amministrazioni regionali e a introdurre i sistemi di monitoraggio e valutazione dell’attività amministrativa.
Una comprensione più chiara del peso della crisi si evidenzia dall’esame delle leggi finanziarie regionali, che ricomprendono anche disposizioni con le quali si (ri)modellano i diversi settori di intervento regionale.
Dalle leggi finanziarie emerge una partecipazione attiva delle Regioni alle politiche di risanamento nazionale, rispetto alle quali sarebbe auspicabile una loro partecipazione, per la definizione di obiettivi e modalità, in una sede istituzionale appropriata, quale potrebbe essere il Senato federale.
Tutte le Regioni hanno posto in essere politiche di contenimento dei costi (compresi – come si è detto – quelli della politica), ma questo non ha impedito, soprattutto a quelle finanziariamente meglio attrezzate, di realizzare politiche di sostegno allo sviluppo e anche politiche sociali.
L’esame della legislazione finanziaria mostra, però, anche l’approfondimento del divario nord-sud all’interno del nostro Paese, soprattutto con riferimento alle disponibilità per le politiche di sostegno e alla politica tributaria delle Regioni.
In particolare, le politiche di limitazione dell’indebitamento hanno imposto per le Regioni soprattutto del sud di aumentare (sino al massimo) la pressione tributaria, soprattutto nell’ipotesi di Regioni sottoposte al piano di rientro nel settore della sanità. Di contro, pur con la dovuta attenzione, in alcune Regioni del nord si registra la tendenza ad un alleggerimento fiscale, insieme alla proposizione di specifici strumenti (in genere, fondi regionali) anticrisi.
A fronte dei tagli alle risorse regionali, imposti dai problemi della finanza pubblica, le Regioni restano il livello di governo nel quale più concreto è il finanziamento delle attività produttive e delle infrastrutture. Queste, inoltre, sono state in grado di dare una particolare risposta alla crisi, proprio nei settori maggiormente sensibili dei servizi alla persona, operando come un vero e proprio ammortizzatore sociale.
Nel settore dei servizi socio-assistenziali le Regioni hanno mantenuto inalterato il loro impegno verso le persone che versano in stato di disagio e nei confronti delle famiglie. Risulta aumentata la percentuale dei provvedimenti, con riferimento al totale dei provvedimenti regionali, in questo ambito nel 2010 (20%), rispetto a quella dell’anno precedente (10%). Anche l’impegno di risorse nel settore è leggermente cresciuto e i rispettivi fondi regionali sono alimentati altresì da consistenti risorse proprie. Si mantiene costante l’interesse regionale nelle politiche abitative, mentre sembrano ridursi gli interventi per le politiche migratorie e per quelle di genere.
In conclusione, le Regioni mostrano una particolare sensibilità verso le famiglie con redditi bassi e verso le famiglie numerose, attivandosi in questo modo anche nel contrasto alla povertà. La loro azione si svolge con l’utilizzo di strumenti diversi: dalle leggi specifiche di settore, alle leggi finanziarie, ai regolamenti e agli atti amministrativi. In questo settore, peraltro, di fronte alla contrazione dei trasferimenti statali, le Regioni sembrano consapevoli della necessità di mantenere quanto meno costante il rifinanziamento dei diversi fondi regionali.
Una considerazione particolare deve farsi per il settore della sanità, nel quale rientrano tutti gli interventi svolti dalle Regioni per tutelare e promuovere la salute delle proprie popolazioni. Qui, nonostante la riduzione dello spazio d’azione delle Regioni, per via del controllo della spesa, specie per le realtà regionali impegnate nell’adempimento dei Piani di rientro, permane il tentativo delle singole Regioni di realizzare, attraverso la politica della salute, una propria identità. Questa circostanza – già rilevata lo scorso anno – consente di vedere nei sistemi sanitari regionali dei veri e propri laboratori di federalismo, in quanto consentirebbero di sviluppare, fuori dall’uniformità, i modelli di autonomia, senza compromettere l’unitarietà del sistema e la salvaguardia dei diritti di cittadinanza.
Parecchie Regioni sono impegnate in politiche di prevenzione da determinate malattie e di screening dell’intera popolazione. Gli interventi nel settore dell’alimentazione e della salubrità dell’ambiente appaiono in crescita nella considerazione dei legislatori regionali.
La differenziazione regionale risente ovviamente dei problemi connessi al contenimento della spesa, soprattutto per quelle Regioni che ancora stanno in una condizione di difficoltà con il rispetto del piano di rientro. Così, accanto alle Regioni che possono permettersi il potenziamento di prestazioni extra-lea, si incontrano severe politiche del personale e dell’organizzazione territoriale del servizio sanitario regionale.
Dal punto di vista della spesa, inoltre, le Regioni mostrano di incontrare spesso le medesime problematiche, attinenti, oltre che all’organizzazione della rete, con particolare riferimento alla lunghezza delle liste di attesa, al campo delle urgenze e ai laboratori, al settore farmaceutico, all’acquisto di beni e servizi e ai requisiti inerenti all’accreditamento dei privati.
 
5. Crisi e fratture nel regionalismo italiano: tensioni territoriali e conflitti
 
La crisi economica ha avuto l’effetto di ridurre sensibilmente il potere d’acquisto dei salari e ha inciso sui risparmi delle famiglie. La crisi ha determinato una caduta della competitività delle imprese. Questi eventi hanno accentuato la spaccatura storica tra nord e sud dell’Italia.
È dalla crisi del 1992 che la politica per il mezzogiorno ha subito uno stop in termini non solo di assistenza, ma anche di progetti e di sostegno allo sviluppo. Dal 2008, ad oggi, la situazione è sostanzialmente peggiorata e all’erosione dei margini economici si aggiunge anche una sfiducia verso le prospettive future, anche per responsabilità della legislazione anti-crisi, priva di una prospettiva istituzionale di vero cambiamento, tutta protesa verso tagli (lineari) e aumento dell’imposizione, senza vere misure a favore della crescita. Basti pensare, a tal riguardo, ai consistenti tagli al finanziamento della ricerca, contrabbandati dal Governo per misure volte a rendere efficiente la spesa, rispetto ad una situazione di spreco delle risorse, senza accorgersi che sono scomparse dai bilanci delle Università e degli Enti di ricerca le voci relative alle borse di studio, agli assegni di ricerca e ai posti di ricercatore.
A ciò si aggiunga che il reddito, l’occupazione, i servizi pubblici, la qualità amministrativa e la formazione, la scuola e la ricerca nel sud hanno standard più bassi che al nord. Questa condizione è dipesa storicamente dal modo in cui è stata realizzata l’unità dell’Italia. È paradossale che la parte del paese che nel processo di unificazione del XIX secolo ha guadagnato maggiori risorse e ha utilizzato il sud per politiche di sostegno alla propria economia, oggi contesti l’unità d’Italia e accentui i conflitti territoriali, non solo con richiami alla secessione, ma soprattutto con il tentativo di fare passare nelle maglie della legislazione un “federalismo separatista”.
In realtà, non si considerano con sufficiente attenzione che le condizioni storiche determinate dalla globalizzazione consentirebbero di affrontare in modo nuovo e positivo la spaccatura nord-sud e che una struttura federale dell’ordinamento appare la forma di stato più adatta a tale scopo, capace di generare responsabilità e consapevolezza politica. Non serve perciò che sia messo in discussione il vincolo nazionale e accentuata strumentalmente una tensione territoriale. Per il sud il federalismo e la stessa crisi globale rappresentano una opportunità.
In tal senso il gap culturale, che impedisce al Sud di affrontare adeguatamente la questione meridionale del XXI secolo, sembra affliggere anche il nord che dà più di un segnale verso una politica regionale autoreferenziale, declinando la propria responsabilità verso una autentica perequazione orizzontale.
Se il sistema regionale vuole rivendicare una maggiore rappresentanza e responsabilità a livello statuale, le Regioni devono farsi carico della “tenuta e della coesione dell’ordinamento della Repubblica”, altrimenti non possono pretendere una pari-ordinazione con le istituzioni nazionali, come è solito essere negli ordinamenti federali.
 
 
Stelio Mangiameli
 
Note
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(1)  È difficile dire se le risposte legislative date alla crisi economica dalla legislazione statale con i tre decreti-legge abbiano avuto l’effetto di mantenere il sistema economico italiano in equilibrio. Sicuramente le misure che hanno avuto maggiore efficacia sono quelle relative al mercato del lavoro e agli ammortizzatori sociali (decreto del 2009); mentre le misure per le imprese, le esportazioni, le infrastrutture, il sud del paese e la casa (sostanzialmente le misure del decreto del 2008) non hanno avuto un grande effetto di contrasto alla crisi.
(2) “1. L'Unione non risponde né si fa carico degli impegni assunti dalle amministrazioni statali, dagli enti regionali, locali, o altri enti pubblici, da altri organismi di diritto pubblico o da imprese pubbliche di qualsiasi Stato membro, fatte salve le garanzie finanziarie reciproche per la realizzazione in comune di un progetto economico specifico. Gli Stati membri non sono responsabili né subentrano agli impegni dell'amministrazione statale, degli enti regionali, locali o degli altri enti pubblici, di altri organismi di diritto pubblico o di imprese pubbliche di un altro Stato membro, fatte salve le garanzie finanziarie reciproche per la realizzazione in comune di un progetto specifico”.
(3) I decreti legislativi approvati nel 2010 sono: quello sul federalismo demaniale (85/2010); quello su Roma Capitale (156/2010); quello in materia di determinazione dei costi e dei fabbisogni standard di Comuni, Città metropolitane e Province (216/2010). A lungo dibattuti, con ripetute e diverse stesure, nel corso del 2010 sono state le proposte di decreto legislativo riguardante il federalismo fiscale municipale e quello riguardante l’autonomia di entrata delle Regioni a statuto ordinario e delle Province, al cui interno sono state collocate anche le disposizioni concernenti la determinazione dei costi e dei fabbisogni standard nel settore sanitario. Entrambi questi decreti legislativi hanno avuto la luce nel 2011 (il primo Dlgs 23; e il secondo Dlgs 68). Sempre nel 2011 è stato adottato il Dlgs 149, sui Meccanismi sanzionatori e premiali relativi a Regioni, Province e Comuni.
(4)  La questione inerisce al ruolo della difesa civica per il rispetto dei diritti dei cittadini nei confronti della pubblica amministrazione, prevista in accordi internazionali cui l’Italia ha preso parte. La soppressione dei difensori civici, pertanto, avrebbe esposto lo Stato italiano sul piano del diritto internazionale, tanto più che questo manca a tutt’oggi della figura di un mediatore nazionale e questa mancanza è stata considerata compensata dalla presenza di una rete di difensori civici locali.
 
 

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