Il Rapporto 2013 sulla legislazione tra Stato, Regioni e Unione europea è realizzato su iniziativa e con il coordinamento dell'Osservatorio sulla legislazione della Camera dei Deputati ed in collaborazione con gli uffici legislativi delle Assemblee regionali.
 
L'ISSiRFA-CNR, diretto dal Prof. Stelio Mangiameli, ha curato, con il coordinamento della Dott.ssa Aida Giulia Arabia, la parte "Tendenze e problemi della legislazione regionale", Volume secondo, Tomo I, Capitolo II (scaricabile in pdf)

 
INTRODUZIONE
 
IL REGIONALISMO TRA CRISI ECONOMICA
E RIFORME: VERSO LA RISCRITTURA DEL MODELLO
REGIONALE?
  

Sommario: 
1.  Il regionalismo tra crisi economica e riforme
2.  I cambiamenti istituzionali nella legislazione della crisi
3. Il dimensionamento dei Consigli regionali e la sentenza n. 198 della Corte costituzionale
4.  Il contributo delle Regioni nel periodo della crisi
5.  Un nuovo modello di regionalismo



1. Il regionalismo tra crisi economica e riforme
 
Il 2012 è stato l’anno più pesante della crisi economico-finanziaria e quello in cui un nuovo governo (sorto sul finire del 2011) ha adottato misure di contrasto alla crisi particolarmente impegnative.
La consapevolezza da parte delle Regioni della difficoltà generale del Paese è stata ben presente e lo stesso Rapporto la testimonia in pieno, non solo perché le Regioni hanno intensificato la legislazione rispetto agli anni precedenti, quanto soprattutto perché una buona parte di questa attività normativa è conseguenza della legislazione statale sull’emergenza economico-finanziaria, piuttosto che espressione di un autonomo uso delle competenze concorrenti e residuali delle stesse.
Può considerarsi già questo un aspetto che incide sulla fisionomia dell’ente Regione? Forse, da solo, no! Occorre tenere conto che nel 2012 trovano conferma anche le disposizioni legislative statali di carattere istituzionale che, a partire dal decreto-legge n. 138 del 2011, sono state adottate nell’intento di riformare le istituzioni regionali e locali (in particolare le province) e che non a caso culminano, sul finire dell’anno e poco prima che il governo sorto nel novembre del 2011 entrasse a sua volta in crisi, nel disegno di legge costituzionale (A.S. 3520 – XVI Legislatura) recante “Disposizioni di revisione della Costituzione e altre disposizioni costituzionali in materia di autonomia regionale”.
 
 
2. I cambiamenti istituzionali nella legislazione della crisi
 
Per comprendere il senso di quanto accaduto occorre riprendere le fila della legislazione a partire dalla lettera della Banca centrale europea (BCE) dell’agosto 2011 sulla situazione economico-finanziaria dell’Italia. La legislazione del 2011, infatti, si può virtualmente dividere in due fasi distinte: quella prima e quella successiva alla lettera. Nel primo semestre del 2011 si segnalano due soli interventi legislativi recanti misure di carattere economico: la legge 26 febbraio 2011, n. 10 (di conversione del decreto-legge 29 dicembre 2010, n. 225, recante proroga di termini previsti da disposizioni legislative e di interventi urgenti in materia tributaria e di sostegno alle imprese e alle famiglie) ed il decreto-legge 13 maggio 2011, n. 70, significativamente intitolato "Semestre Europeo - Prime disposizioni urgenti per l'economia".
Quando, all’inizio di luglio, la situazione comincia a peggiorare, viene adottato il decreto-legge n. 98, contenente “Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria”, che affronta diverse questioni, tra le quali: il tema dei costi della politica nazionale e dei relativi apparati e del finanziamento dei partiti politici; il monitoraggio della spesa delle amministrazioni dello Stato, dei loro approvvigionamenti, del patrimonio edilizio pubblico e del pubblico impiego.
Dopo la lettera della BCE il tenore dei provvedimenti adottati cambia; essenzialmente gli atti da considerare sono: il decreto-legge n. 138 del 2011, convertito in legge n. 148 del 2011; la legge di stabilità 2012 (n. 183 del 2011); il decreto legge n. 201 del 2011, convertito in legge n. 214 del 2011.
Nel tentativo di una rapida semplificazione dell’ordinamento e di una riduzione delle spese mediaticamente rubricate come “spese della politica”, alcune disposizioni del DL n. 138 e del DL n. 201 perseguono l’obiettivo di incidere in profondità sugli enti regionali e territoriali, sia sul versante della rappresentanza, sia sul versante del superamento dei comuni più piccoli. In particolare: si è prevista col primo decreto la soppressione di tutti i comuni fino a mille abitanti, per poi limitarsi con il secondo a prevedere l’obbligo di esercizio associato di tutte le funzioni; si è prevista la soppressione delle province che non rientrassero in determinati parametri di popolazione e di superficie;  si è disposta una generale riduzione del numero dei membri dei Consigli comunali e provinciali (questi ultimi ridotti alla metà dei componenti); si è considerata come elemento di virtuosità finanziaria la riduzione del numero dei consiglieri regionali.
Tutte queste misure rischiano di mettere in discussione i caratteri stessi della rappresentanza politica negli enti territoriali, che dovrebbe conseguire due risultati: in primo luogo, l’espressione del pluralismo politico, compatibilmente con la governabilità; e, in secondo luogo, la capacità di gestione e di controllo da parte della rappresentanza dell’ente medesimo.
La legge di stabilità per il 2012 (artt. 30, 31 e 32) ha reso le disposizioni a contenuto finanziario più cogenti, imponendo ulteriori tagli alle spese regionali e locali e modificando, per la seconda volta nel corso del 2011, il patto di stabilità interno, rendendolo estremamente oneroso per Regioni ed autonomie locali.
 
 
3. Il dimensionamento dei Consigli regionali e la sentenza n. 198 della Corte costituzionale
 
Diverse Regioni (Basilicata, Campania, Lombardia, Calabria e Sardegna) hanno impugnato davanti alla Corte costituzionale l’intero articolo 14 del decreto-legge n. 138 del 2011. Altre (Lazio, Emilia-Romagna, Umbria e Veneto) hanno impugnato il solo comma 1, mentre le Regioni Valle d’Aosta e Trentino Alto-Adige, nonché le Province autonome di Trento e Bolzano hanno impugnato il solo comma 2.
L’articolo 14, comma 1 del DL n. 138 del 2011 prevedeva che le Regioni, per collocarsi nella classe più virtuosa degli enti territoriali, avrebbero dovuto adeguare, nell’ambito della propria autonomia statutaria e legislativa, i rispettivi ordinamenti ai seguenti ulteriori parametri: a) riduzione del numero dei consiglieri regionali; b) previsione che il numero massimo degli assessori regionali fosse pari o inferiore ad un quinto del numero dei componenti del Consiglio regionale, con arrotondamento all'unità superiore; c) riduzione a decorrere dal 1º gennaio 2012, (…) degli emolumenti e delle utilità, comunque denominati, previsti in favore dei consiglieri regionali entro il limite dell'indennità massima spettante ai membri del Parlamento, così come rideterminata ai sensi dell'articolo 13 del decreto; d) previsione che il trattamento economico dei consiglieri regionali fosse commisurato all'effettiva partecipazione ai lavori del Consiglio regionale; e) istituzione, a decorrere dal 1º gennaio 2012, di un Collegio dei revisori dei conti, quale organo di vigilanza sulla regolarità contabile, finanziaria ed economica della gestione dell'ente; f) passaggio, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del decreto e con efficacia a decorrere dalla prima legislatura regionale successiva a quella in corso alla data di entrata in vigore del decreto, al sistema previdenziale contributivo per i consiglieri regionali.
Il medesimo articolo 14, al comma 2, estendeva la disciplina anche alle Regioni a statuto speciale [1].
Successivamente alla presentazione dei ricorsi, l’art. 30, comma 5, della legge n. 183 del 2011 ha modificato il primo alinea dell’art. 14, comma 1, del decreto-legge n. 138 del 2011, che, nella formulazione originaria, prevedeva un meccanismo premiale, come tale posto nella discrezionalità della Regione medesima, con una disposizione per la quale «le Regioni adeguano i rispettivi ordinamenti ai parametri previsti dal comma 1», prescindendo da ogni incentivo o premio.
Le Regioni a statuto ordinario sollevano diversi dubbi di legittimità costituzionale, tra i quali il principale (e, per certi aspetti, il più fondato) appare essere la violazione dell’art. 123 della Costituzione, in quanto la normativa statale lederebbe la potestà statutaria delle Regioni in materia di forma di governo e di principi fondamentali di organizzazione e funzionamento. Né si può ritenere che su questo profilo possa prevalere, a giustificazione della normativa statale, la competenza concorrente del “coordinamento della finanza pubblica”, in nome del quale è stata adottata. Infatti, anche a prescindere dalla circostanza che l’art. 14 non è una normativa di mero principio, ma estremamente dettagliata, l’autonomia statutaria – secondo la Costituzione – ha un carattere affatto differente rispetto alla potestà legislativa regionale, non essendo subordinata al rispetto delle leggi statali, ma solo al limite dell’armonia con la Costituzione.
I profili considerati non sono sfuggiti alla Corte costituzionale, che però ha considerato la questione non fondata.
Per giungere a questa conclusione il giudice costituzionale, nella sentenza n. 198 del 2012, ha adottato il seguente ragionamento: «La Costituzione detta norme che riguardano il rapporto elettori-eletti per i consiglieri e le modalità dell’accesso ai pubblici uffici per gli assessori». Verrebbero in rilievo, secondo la Corte, «per il diritto di elettorato attivo, l’art. 48 Cost. e, per il diritto di elettorato passivo e l’accesso agli uffici pubblici, l’art. 51 Cost.».
Da questa premessa la Corte deduce che «la disposizione censurata, fissando un rapporto tra il numero degli abitanti e quello dei consiglieri, e quindi tra elettori ed eletti (nonché tra abitanti, consiglieri e assessori), (mirerebbe) a garantire proprio il principio in base al quale tutti i cittadini hanno il diritto di essere egualmente rappresentati».
Poiché, ad avviso del giudice costituzionale, sussisterebbe una «assenza di criteri posti dal legislatore statale, che regolino la composizione degli organi regionali», come peraltro è ovvio che sia, essendo in gioco la competenza dello Statuto, potrebbe verificarsi secondo la Corte «una marcata diseguaglianza nel rapporto elettori-eletti (e in quello elettori-assessori)» e, poiché «i seggi (nel Consiglio e nella Giunta) sono ragguagliati in misura differente alla popolazione», conclude il giudice costituzionale «il valore del voto degli elettori (e quello di scelta degli assessori) (risulterebbe) diversamente ponderato da Regione a Regione».
Se ne trae la conclusione che «la disposizione censurata, quindi, non viola gli artt. 117, 122 e 123 Cost., in quanto, nel quadro della finalità generale del contenimento della spesa pubblica, stabilisce, in coerenza con il principio di eguaglianza, criteri di proporzione tra elettori, eletti e nominati».
In questo modo la Corte costituzionale privilegia le finalità di contenimento della spesa, in verità discostandosi dall’indirizzo espresso in precedenti sentenze (n. 3 del 2006 e n. 188 del 2011[2]), volto a tutelare l’autonomia regionale in materia di composizione dei Consigli.
 
Una disposizione come quella introdotta dal decreto-legge n. 138 del 2011, nel testo modificato dalla legge di stabilità per il 2012, esisteva nell’ordinamento ed esattamente nella legge statale sulle elezioni dei consigli regionali del 1968 (la n. 108), la quale all’articolo 2 recava la rubrica “Numero dei consiglieri regionali. Ripartizione tra le circoscrizioni” e conteneva una classificazione analoga e in parte più generosa della composizione dei Consigli, soprattutto di quelli delle Regioni più piccole: «Il consiglio regionale è composto: di 80 membri nelle regioni con popolazione superiore a 6 milioni di abitanti; di 60 membri nelle regioni con popolazione superiore a 4 milioni di abitanti; di 50 membri in quelle con popolazione superiore a 3 milioni di abitanti; di 40 membri in quelle con popolazione superiore a 1 milione di abitanti; e di 30 membri nelle altre regioni».
Al contrario, la ripartizione introdotta con l’art. 14 del decreto-legge n. 138 tende a penalizzare soprattutto le Regioni di piccole dimensioni, discostandosi dalla scelta del Costituente, che fu sin dall’inizio e con motivazioni storiche ben precise di assecondare una certa multiformità che è insita nel territorio italiano, con una scelta a favore di un dimensionamento dell’ente regionale di tipo asimmetrico.
D’altra parte, ove mai esistesse un canone di relazione tra elettori ed eletti, questo non implicherebbe una riduzione generalizzata e uniforme dei consiglieri regionali, ma una riduzione articolata regione per regione e sulla base della eventuale percentuale ritenuta costituzionalmente legittima. Infatti, è proprio dell’autonomia che gli ordinamenti regionali determinino la propria rappresentanza anche e soprattutto nella consistenza, così come peraltro ha ritenuto la stessa Corte nella sua consolidata giurisprudenza (ad esempio, sentenza n. 188 del 2011).
 
In questa vicenda relativa alla consistenza dei Consigli regionali si è prestata molta attenzione alle pressioni ed agli effetti mediatici, anche se il dato puramente numerico (prescindendo cioè da valutazioni di merito sulle funzioni effettivamente svolte ed il ruolo ricoperto, che a loro volta possono pure essere influenzate dal numero dei componenti) induce a ritenere che la consistenza dei Consigli regionali italiani non fosse così ridondante se comparata con i sistemi stranieri per molti versi più affini. A titolo puramente esemplificativo, se il Consiglio regionale della Lombardia si compone di 80 membri, a fronte di una popolazione di circa 10 milioni di persone, la Baviera ha un Parlamento di 180 membri (e poco più di 12 milioni di cittadini) e la Catalogna (con poco più di 7 milioni di abitanti) ha un Parlamento di 135 membri.
La scelta dell’art. 14, ripresa dall’art. 2 del decreto-legge n. 174 del 2012, ha comportato l’effetto di alzare l’indice di rappresentanza (il numero dei cittadini rappresentati da ogni singolo consigliere regionale) dei Consigli regionali a fronte di un indice più basso per il Parlamento statale, a differenza di quanto accade in ogni Stato federale o regionale, nel quale l’indice più basso di rappresentatività rispetto ai cittadini è proprio della  rappresentanza di prossimità, e cioè di quella regionale.
È ben noto, infatti, che la presenza di governi locali, direttamente rappresentativi della popolazione, rispetto a quello centrale, rappresenti per communis opinio un elemento di equilibrio politico tra il centro e la periferia, non solo perché amplia gli ambiti della partecipazione popolare e assicura forme di autogoverno delle istituzioni locali, quanto soprattutto perché costituisce un’ulteriore forma di divisione dei poteri, appunto in senso verticale, posta pur sempre a garanzia delle libertà dei cittadini.
Coerentemente con i caratteri richiamati, l’Assemblea costituente ritenne che la Regione avrebbe avuto il merito di rafforzare il sistema democratico, impedendo una concentrazione del potere politico nelle mani dello Stato solamente, e avrebbe permesso a quest’ultimo di occuparsi effettivamente delle questioni nazionali, affidando il governo di prossimità alla prima; ipotesi questa che è stata ulteriormente perfezionata con la revisione del Titolo V.
 
 
4. Il contributo delle Regioni nel periodo della crisi
 
In questi anni di crisi le Regioni hanno contrastato attivamente la crisi, talora con maggiore efficacia dello Stato.
Per molte politiche, anche di importanza strategica (energia, rifiuti, turismo, attività produttive, servizi sociali, ecc.), la pianificazione regionale è risultata fondamentale.
In ragione della crisi, le Regioni hanno realizzato una legislazione sulla riduzione delle spese generali di organizzazione e sul trattamento del loro personale politico. Altro elemento di rilievo è il sistema dei pagamenti e la trasparenza della spesa, con l’attivazione di meccanismi di monitoraggio. Inoltre, dalle leggi finanziarie regionali emerge una partecipazione attiva delle Regioni alle politiche di risanamento nazionale.
Le Regioni e gli enti locali sono stati infatti chiamati a contribuire in maniera rilevante alla riduzione dell’indebitamento netto dell’Italia. A titolo puramente esemplificativo, in base ai dati della relazione tecnica allegata al disegno di legge di conversione del DL n. 95/2012 (c.d. Spending Review), le amministrazioni locali hanno concorso per il 73 per cento nel 2012 alle risorse recuperate grazie alla Spending Review, mentre il concorso dello Stato è stato pari al 27 per cento; per il 2013 ed il 2014 il concorso delle autonomie è pari – rispettivamente – al 68 e 67 per cento. Tutte le Regioni hanno posto in essere politiche di contenimento dei costi (compresi – come si è detto – quelli della politica), ma questo non ha impedito, soprattutto a quelle finanziariamente meglio attrezzate, di realizzare politiche di sostegno allo sviluppo e anche politiche sociali.
Occorre tuttavia ricordare che la legislazione finanziaria rischia di avere come conseguenza anche l’approfondimento del divario nord-sud all’interno del nostro Paese: infatti, il Lazio e quasi tutte le Regioni del Mezzogiorno, con le sole eccezioni della Sardegna (che ne è uscita in tempi relativamente recenti) e della Basilicata, sono sottoposte al piano di rientro sanitario ed hanno quindi dovuto applicare maggiorazioni dell’aliquota IRAP e dell’addizionale regionale sull’IRPEF. Di contro, pur con la dovuta attenzione, in alcune Regioni del nord si registra la tendenza a un alleggerimento fiscale, insieme alla proposizione di specifici strumenti (in genere, fondi regionali) anticrisi.
A fronte dei tagli alle risorse regionali, imposti dai problemi della finanza pubblica, le Regioni continuano a provvedere al finanziamento delle attività produttive e delle infrastrutture e sono state in grado di dare una particolare risposta alla crisi, proprio nei settori maggiormente sensibili dei servizi alla persona, operando come un vero e proprio ammortizzatore sociale.
Nel settore dei servizi socio-assistenziali le Regioni hanno mantenuto inalterato il loro impegno verso le persone che versano in stato di disagio e nei confronti delle famiglie. Risulta aumentata la percentuale dei provvedimenti, con riferimento al totale dei provvedimenti regionali. Nel triennio 2010-2012 l’impegno di risorse nel settore è leggermente cresciuto e i rispettivi fondi regionali sono alimentati anche da consistenti risorse proprie. Ciò risulta non solo dall’esame dei bilanci preventivi, ma anche dai riscontri sui consuntivi nei quali si mostra la crescita, ancora nel 2012, della spesa per i servizi sociali.
 
 
5. Un nuovo modello di regionalismo
 
I dati raccolti sulla legislazione regionale evidenziano una realtà in cui le Regioni si sono mostrate attive e tendenzialmente più solerti nell’adeguamento alle nuove condizioni economiche e sociali e le tendenze rese manifeste in questi anni di crisi indicano nel livello regionale un concreto sostegno alle imprese e alle famiglie. Ciò nonostante, la riduzione delle risorse economiche a disposizione delle Regioni si è riverberata sulla loro stessa autonomia.
Così, mentre persino la Francia, paese di nobili tradizioni amministrative, ma connotate del carattere del centralismo, si sta attivando per la terza volta nell’arco dell’ultimo decennio, per una riforma del sistema territoriale, rafforzando le Regioni e aumentando le competenze dei Dipartimenti, in Italia il tema delle riforme, che pure risuona nuovamente dopo gli insuccessi del 1993 e del 1997, è trattato con l’intento di ridurre gli ambiti regionali e locali, in modo critico rispetto alla riforma costituzionale del 1999/2001.
Talora si ha l’impressione che le Regioni, le Province e i piccoli Comuni siano considerati i maggiori responsabili della crisi. Di conseguenza, si è inteso procedere nella direzione di concentrare in capo allo Stato i poteri di decisione politica, assemblare i Comuni piccoli (unione o fusione, poco importa), sopprimere le Province e ridimensionare nei poteri le Regioni.
Quanto a queste ultime, le modifiche proposte nel disegno di legge costituzionale del 2012 avrebbero teso a escludere le Regioni dalla “garanzia dei diritti costituzionali”, dalle relazioni con l’Unione europea e, sul piano dell’esecuzione, a un rafforzamento del ruolo dello Stato sull’amministrazione regionale e locale.
Con riferimento al riparto delle competenze, il disegno di legge avrebbe previsto che un complesso di materie ascendessero dal terzo al secondo comma, atteso il loro carattere “nazionale”, anche se in alcuni casi (come in quello dell’energia e dei porti e degli aeroporti) le materie sarebbero state spacchettate e distribuite in ragione dell’interesse.
Nell’insieme, sulla collocazione delle materie si può esprimere la stessa insoddisfazione che era emersa già con la revisione del 2001.
Gli elementi di novità sul versante del riparto sarebbero stati dati dalla circostanza che sia nel caso delle competenze concorrenti, di cui all’art. 117, comma 3, della Costituzione, che di quelle c.d. “residuali” dell’art. 117, comma 4, la legislazione statale avrebbe potuto determinare una più marcata disciplina degli oggetti in nome dei “profili funzionali all’unità giuridica ed economica della Repubblica”.
Del resto, dopo la giurisprudenza costituzionale sulla chiamata in sussidiarietà (a partire dalla sentenza n. 303 del 2003), l’idea che non possano sussistere campi materiali della legislazione dai quali il legislatore statale sia escluso si è andata consolidando sia nella prassi politica, sia nella riflessione sulla distribuzione del potere legislativo.
Il criterio stesso della materia, strumento tipico del federalismo/regionalismo duale, sembrava essere entrato in una crisi irreversibile; e, invero, l’adozione del criterio delle “politiche pubbliche” richiede ormai, quasi sempre, l’intervento sui campi materiali di entrambi i legislatori, secondo competenze che, perciò, si dovrebbero definire diversamente, ad esempio, in base alla natura dell’intervento (si pensi alla pianificazione strategica, che dovrebbe essere affidata allo Stato, ma che in alcune materie lo Stato ha ribaltato sulle Regioni) e agli effetti territoriali delle attività (secondo l’insegnamento della teoria economica del diritto).
Al di là della riflessione teorica che la distribuzione delle competenze dovrebbe innescare, resta da sottolineare una caratteristica peculiare che avrebbe differenziato la proposta costituzionale del Governo Monti dalla “chiamata in sussidiarietà” e dal restante strumentario sul riparto delle competenze messo in piedi dalla Corte costituzionale. Infatti, la Corte ha sempre accompagnato l’ingerenza dello Stato nelle materie di pertinenza regionale, a titolo concorrente o esclusivo, prevedendo l’obbligo di rispettare il “principio di leale collaborazione”, e ciò soprattutto “nella perdurante assenza di una trasformazione delle istituzioni parlamentari e, più in generale, dei procedimenti legislativi – anche solo nei limiti di quanto previsto dall’art. 11 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione)” (sentenza n. 6 del 2004); di conseguenza, si asseriva che la legislazione statale interferente con le materie regionali “(potesse) aspirare a superare il vaglio di legittimità costituzionale solo in presenza di una disciplina che (prefigurasse) un iter in cui assumano il dovuto risalto le attività concertative e di coordinamento orizzontale, ovverosia le intese, che devono essere condotte in base al principio di lealtà”.
Le modifiche costituzionali adombrate nel citato disegno di legge, invece, avrebbero permesso allo Stato ingerenze nella competenza regionale semplicemente sulla base di “profili funzionali all’unità giuridica ed economica della Repubblica”, senza la previsione di garanzie anche meramente procedurali; tanto più che il disegno di legge non modificava la struttura delle Camere e il funzionamento dell’attuale bicameralismo, né incentivava una qualche forma di partecipazione delle Regioni al procedimento legislativo statale come pure faceva l’art. 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001, il quale continuava a restare lettera morta.
Si può notare così che l’idea di fondo di quella proposta era collegata a una gerarchizzazione dei rapporti tra Stato e Regioni, attenuandosi sensibilmente il riparto basato sul canone della competenza. Il regionalismo italiano, riprendendo distinzioni che caratterizzano il dibattito sul federalismo statunitense, non avrebbe più un carattere cooperativo, bensì assumerebbe una connotazione di tipo “coercitivo”.
Le riforme sono ancora da fare e appare chiaro che quando il Paese si risolleverà dalla crisi il regionalismo italiano sarà profondamente diverso, in forza del contenimento del principio autonomista.
 
 
Stelio Mangiameli
 
 
[1] «L'adeguamento ai parametri di cui al co. 1 da parte delle Regioni a Statuto speciale e delle province autonome di Trento e di Bolzano costituisce condizione per l'applicazione dell'articolo 27 della legge 5 maggio 2009, n. 42, nei confronti di quelle Regioni a statuto speciale e province autonome per le quali lo Stato, ai sensi del citato articolo 27, assicura il conseguimento degli obiettivi costituzionali di perequazione e di solidarietà, ed elemento di riferimento per l'applicazione di misure premiali o sanzionatorie previste dalla normativa vigente».
[2] Nella sent. n. 3 del 2006 (sulla legge elettorale della Regione Marche, n. 27 del 2004, il cui art. 4 stabiliva che «il Consiglio regionale è composto da 42 consiglieri e dal Presidente della Giunta regionale») la Corte costituzionale  ha evidenziato come, in quanto la composizione dell’organo legislativo rappresenta una fondamentale «scelta politica sottesa alla determinazione della “forma di governo” della Regione», la determinazione del numero dei membri del Consiglio sia da ritenere competenza statutaria. Nella sentenza n. 188 del 2011 il Giudice costituzionale ha precisato che qualora la Regione intenda introdurre la previsione del c.d. “doppio premio”, tale scelta deve allora presupporre che lo statuto stabilisca espressamente che il numero dei consiglieri possa essere aumentato.

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