Il Rapporto 2014 sulla legislazione tra Stato, Regioni e Unione europea è realizzato su iniziativa e con il coordinamento dell'Osservatorio sulla legislazione della Camera dei Deputati ed in collaborazione con gli uffici legislativi delle Assemblee regionali.
 
L'ISSiRFA-CNR, diretto dal Prof. Stelio Mangiameli, ha curato, con il coordinamento della Dott.ssa Aida Giulia Arabia, il Capitolo II "Tendenze e problemi della legislazione regionale" .

Di seguito, l'Introduzione al Capitolo II.

 
INTRODUZIONE
 

Sommario: 

1. Le incertezze del quadro costituzionale e il problema dell’organizzazione delle politiche pubbliche

2. Le politiche pubbliche e le competenze regionali
    2.1. Il caso del “turismo”
   2.2.  Le politiche migratorie

3. Il modello della Regione italiana: la conferma delle tendenze legislative regionali

4. Il riordino istituzionale delle Regioni

 


1. Le incertezze del quadro costituzionale e il problema dell’organizzazione delle politiche pubbliche

 
     Il Rapporto sulla legislazione regionale sul 2013 mette a fuoco una condizione particolare del sistema territoriale italiano: da un lato, si assiste all’attività di adeguamento della tumultuosa legislazione della crisi che ha preso corpo negli anni precedenti; dall’altro, si osserva il perdurare dei principali fattori che continuano a mantenere l’Italia ancora nel 2013 in una condizione di recessione. Emerge, poi, un’attività regionale non direttamente guidata dal centro, ma che potremmo dire “vocazionale” del sistema regionale, la quale può dare una idea di quale potrebbe essere il funzionamento del sistema repubblicano, se l’assetto dei poteri tra Stato e Regioni fosse ispirato ad un diverso equilibrio nel riparto delle competenze - rispetto alle politiche pubbliche, determinate soprattutto dal diritto dell’Unione europea - e attraverso uno spirito di attenzione delle competenze dell’altro (quello che nel federalismo di lingua tedesca si definisce la Berücksichtigung degli «interessi compenetrati») con forme di cooperazione non gerarchiche, ma autenticamente paritarie.

     L’esame del complesso delle leggi regionali, al di là della diminuzione della loro massa (da 790 nel 2012 a 690 nel 2013, al netto delle leggi statutarie), sembra dovuta molto probabilmente all’allentamento determinato dalla circostanza che ben 6 Regioni (3 a statuto speciale e 3 ordinarie) e le Province autonome di Trento e Bolzano hanno rinnovato il Presidente e il Consiglio nel 2013; inoltre, un qualche peso sul rallentamento della produzione legislativa regionale lo hanno determinato le vicende nazionali (quanto meno sino al mese di giugno), per via delle elezioni politiche generali, della elezione del Presidente della Repubblica e della formazione del Governo.
Prescindendo dalla riduzione della produzione legislativa regionale, però, ci si avvede che le linee precedenti della legislazione, emerse negli scorsi anni, trovano un’ulteriore conferma. Il punto sarà più oltre esaminato attentamente; ma in questo momento la costanza del dato serve a osservare che di esso dovrebbe tenersi conto nel considerare le tendenze del processo riformatore che nel 2013 ha trovato un momento di riflessione alla luce della vicenda delle province, culminata nella sentenza della Corte costituzionale n. 220, il cui contenuto appare alquanto problematico con riguardo al principio autonomistico previsto dall’art. 5 della Costituzione (cfr. infra).

2. Le politiche pubbliche e le competenze regionali
 
     Il tema delle politiche pubbliche ha un suo autonomo rilievo e investe il tema dell’articolazione legislativa tra Unione europea, Stato e Regioni, alla luce  della regolazione (anche di principio), della pianificazione strategica e della programmazione. Infatti, nell’era della globalizzazione e dei processi di integrazione sopranazionale, lo Stato e le Regioni non sono chiamati semplicemente a “legiferare” e ad “amministrare”, secondo lo standard della tutela degli interessi generali, ma il loro compito si è sensibilmente modificato. Essi oggidì sono chiamati soprattutto a un ruolo di “promozione” della persona, delle comunità e dei territori, e ciò in quanto il sistema globale ed europeo si fonda essenzialmente sulla competizione aperta, nella quale i confini nazionali sono facilmente attraversabili e segnati da una mobilità che riguarda soprattutto le persone e i capitali.

     Due esempi possono aiutarci a comprendere meglio le tendenze descritte ed il ruolo che potrebbero giocare, da un lato, lo Stato e, dall’altro, le Regioni: il turismo e le politiche migratorie.

2.1.  Il caso del "turismo"

     Dal rapporto di quest’anno emerge che nel 2013 le Regioni hanno adottato 19 leggi e ben 26 regolamenti in materia di turismo; la produzione legislativa regionale per il turismo è al settimo posto, dopo le sei materie principali (cfr. infra), e quella regolamentare è al terzo posto, dopo tutela della salute (30) e agricoltura (28).

     Nelle poste dei bilanci del 2013, le Regioni avevano preventivato una spesa diretta sulla materia “turismo” di 577 mln. di euro e una spesa che avrebbe potuto essere coordinata sulla politica “turismo”, per le altre attività produttive di 2,6 mld. di euro. Inoltre, anche le altre voci di bilancio (Beni culturali [260 mln.]; Istruzione, formazione, cultura [6,8 mld.]; Agricoltura, foreste, caccia e pesca [3,2 mld.]; Ambiente [1,6 mld.]; Territorio ed edilizia [5,3 mld.]; Infrastrutture [2,3 mld.]; Trasporto [7,7 mld.]) avrebbero potuto avere un rilievo diretto per il turismo, così da giungere a circa 30 mld. di spesa postata nei bilanci regionali. E’ però mancato il coordinamento delle legislazioni regionali, sulla base di azioni pianificate a livello nazionale, che avrebbe potuto condurre ad un sostegno più efficiente della politica turistica.

     Il turismo può essere considerato come “materia” della legislazione e come “politica” pubblica. Nel primo senso si colloca nell’articolo 117, co. 4, della Costituzione, tra le materie esclusive (residuali) delle Regioni, e il suo contenuto è alquanto limitato, dal momento che riguarda la classificazione alberghiera, l’informazione turistica, l’accoglienza e la promozione turistica con i relativi enti regionali e di ambito locale; escluso, perciò, l’Enit, rimasto in capo allo Stato come “ente pubblico nazionale” (art. 117, co. 2, lett. g), Cost.), ma senza un Ministro di riferimento.

     Come “politica pubblica” il turismo può essere considerato una politica di coordinamento che tocca più ambiti materiali, ben oltre quelli della «materia» turismo, come la sicurezza, i trasporti, l’ambiente, l’agricoltura, i beni culturali, solo per citare le principali.

     In estrema sintesi: alle politiche attive direttamente collegate alla materia turismo messe in campo dalle Regioni, alcune delle quali si sono dimostrate particolarmente dinamiche nel tentativo di rilancio del settore, anche attraverso la disciplina di attività ricettive nuove o in via di sviluppo[1], non si è affiancata un’efficace politica di coordinamento, anche a causa delle alterne vicende che hanno interessato l’attribuzione di questa fondamentale politica pubblica in ambito governativo.

     Nel 2006, a cinque anni di distanza dalla riforma costituzionale del 2001, che aveva fatto precipitare il turismo tra le materie di competenza esclusiva (residuale) delle Regioni, nella compagine del Governo nazionale riappariva la delega al “Turismo” e il “Dipartimento per lo sviluppo e la competitività del turismo”, che ha fatto vari giri, ha avuto dal 2009 al 2013 un proprio Ministro (senza portafoglio); successivamente, con il governo Letta, la competenza  è ritornata al Ministero dei beni e delle attività culturali ed è stata confermata dal Governo Renzi.
 
     Nel 2013 il Ministro Gnudi, che curava gli Affari regionali, il turismo e lo sport, ha presentato un “Piano strategico per lo sviluppo del turismo in Italia” (Turismo Italia 2020 – Leadership Lavoro Sud – 18 gennaio 2013). Il Piano prescindeva dai Piani elaborati dalle Regioni, segnalava come prima criticità la condizione della governance del Turismo, nel senso che «manca una governance centrale forte, necessaria per far accadere le cose in un settore ‘trasversale’», ma metteva in evidenza anche la marginalità del settore turistico nella politica di sviluppo del Paese e la frammentazione della catena decisionale tra Governo e autorità regionali e locali.

     Il Piano definiva 60 azioni, suddivise per impatto economico, sulla base di rilevanza economica (consumi, investimenti, destagionalizzazione, ecc.), creazione di posti di lavoro e ritorno di immagine per il Paese e la cui rapidità di esecuzione è stata valutata invece sulla base del numero di stakeholder coinvolti (se pochi e omogenei, maggiore allineamento), competenze disponibili, grado di complessità e tempo di realizzazione (da alcuni mesi ad alcuni anni).

     Nell’elenco delle 60 azioni figura al primo posto “la revisione del Titolo V Cost.” e la revisione della governance del settore, con l’attribuzione di portafoglio al Ministero e il rilancio del comitato permanente per il turismo tra Governo e Regioni; la creazione di tavoli di lavoro permanenti con le Regioni e le associazioni di categoria; il rilancio e l’attribuzione di nuove funzioni all’ENIT; azioni volte ad ammodernare le strutture ricettive al fine di renderle competitive con quelle dei rivali internazionali; azioni volte a migliorare l’offerta di trasporti e infrastrutture (in particolare il servizio aereo e ferroviario); l’introduzione di specifiche iniziative formative e di comunicazione, mirando ad attrarre investimenti internazionali.

     Poco più di un mese dopo la pubblicazione del Piano strategico, il Dipartimento ha cambiato nuovamente indirizzo, avendo come riferimento un differente Ministro. Del Piano strategico per lo sviluppo del turismo in Italia non si è saputo più nulla.

 
Il disegno di legge di riforma costituzionale approvato dal Senato ed attualmente all’esame della Camera sembra volto a perseguire l’obiettivo – sia pure con formula perfettibile – di rilanciare il ruolo dello Stato, chiamato ad adottare le “disposizioni generali e comuni sulle attività culturali e sul turismo”, attribuendo alla potestà legislativa regionale la “valorizzazione e organizzazione generale del turismo”.

2.2.  Le polithce migratorie
 
      Il contesto di forte crisi economica e demografica che sta interessando l’Italia determina una ripresa dell’emigrazione all’estero ed un rallentamento dei nuovi permessi di soggiorno per i cittadini non comunitari.

     Le Regioni sembrano avere prontamente percepito questo nuovo assetto della dinamica migratoria: continua, infatti, ad aumentare il numero degli atti legislativi regionali dedicati ai cittadini italiani emigrati all’estero, mentre la legislazione nel settore dell’immigrazione ha subito un fisiologico arresto.

     Le Regioni tentano anche così di fronteggiare due fenomeni tra loro strettamente collegati, responsabili della perdita di competitività italiana. Quest’ultima è strettamente correlata alla capacità di innovazione, la quale a sua volta dipende da molti fattori: in primo luogo, dal sistema di formazione scolastica, dalle Università e dalla ricerca di base.
 
     La Germania, nel 2010, ha risanato i propri conti e ha elaborato e realizzato una manovra di 110 mld. di euro. Della manovra faceva parte anche la voce ricerca, con un 7% delle risorse investite. L’Italia a partire dal 2010 ha asciugato progressivamente tutti i capitoli riguardanti l’Università e la ricerca; per quest’ultima i tagli operati sono stati particolarmente consistenti.

     La mancanza della capacità di innovazione è diventata crescente e l’Italia ha registrato un forte declino della sua competitività. Ciò si è tradotto, tra l’altro, in un flusso di emigrazione dall’Italia: in primo luogo, dei giovani dopo la loro formazione scolastica e universitaria, per trovare un lavoro e, con una certa consistenza, anche nel settore della ricerca. Inoltre, molte imprese italiane (piccole e medie) hanno preferito trasferire la propria attività in altri Paesi. Infine, accanto al fenomeno dei pensionati all’estero, si è registrato il raddoppio della quota di persone comprese tra i 40 e i 65 anni (cioè in età lavorativa) che vanno a vivere stabilmente all’estero.

     Nel frattempo, come accennato, si è di molto ridotta l’immigrazione, stabile e regolare.

    In questo quadro, le azioni svolte a livello regionale hanno cercato di contrastare questa tendenza: le Regioni più evolute e più ricche hanno adottato atti volti a sostenere la formazione e il rientro di quanti sono andati via dal territorio, per ragione di studio e di lavoro; nel contempo, hanno attivato politiche di accoglienza degli stranieri residenti stabilmente e regolarmente soggiornanti, attraverso l’accesso non discriminatorio ai servizi sociali; anche le Regioni del centro e del sud si sono avviate lungo questa politica e in parte la ripresa dell’agricoltura meridionale è dovuta a questo ritorno di giovani alla terra con pochi sostegni pubblici di parte regionale. Nel fare ciò, le Regioni perseguono l’obiettivo di non disperdere le risorse, di ampliare la base economica e produttiva e di rafforzare l’identità regionale, che produce vari benefici ai rispettivi territori, ma di cui si avvantaggia anche lo Stato nel suo complesso; basti pensare all’incremento del gettito finanziario e al problema della sostenibilità dei sistemi pensionistici che sono di competenza statale.

     Anche in questo settore, come in altri campi e come già annotato nei precedenti rapporti, vi è stata una sorta di divisione del lavoro tra Stato e Regioni: il primo ha agito essenzialmente nell’ottica del contenimento della spesa, lasciando alle seconde il vero e proprio “governo” delle politiche attive.
 

3. Il modello della Regione italiana: la conferma delle tendenze legislative regionali

 
    La legislazione è un buon punto di osservazione per comprendere concretamente il ruolo delle Regioni.

     Da questo punto di vista non deve ingannare la scrittura dell’art. 117 della Costituzione, che da tempo ormai non sostanzia più il riparto delle competenze tra Stato e Regioni, e ciò per due ragioni: da un lato, la Corte costituzionale, nella sua giurisprudenza sul riparto delle competenze, non ha mai seguito una interpretazione delle disposizioni fondata sulla lettera, preferendo abbracciare una visione  costituzionale giurisprudenziale fondata sulla preferenza per alcune clausole (come la sussidiarietà) o alcune materie rispetto ad altre (come la concorrenza, il coordinamento della finanza pubblica, l’ordinamento civile, ecc.); per l’altro, lo stesso legislatore statale si è accorto ben presto che, per alcune politiche pubbliche, pur rivendicandone la titolarità, non potevano non essere coinvolte allo stesso tempo le Regioni, per via della diretta ricaduta delle azioni pubbliche sul territorio. Basti pensare ai rifiuti, all’acqua e all’energia (materia concorrente, attratta in sussidiarietà in capo allo Stato, ma nella quale la legislazione [e l’amministrazione] regionale ha un peso, quanto meno, di pari importanza).

     Ne è venuto fuori un intreccio tra le competenze dello Stato esercitate dalle Regioni e quelle delle Regioni esercitate dallo Stato che formalmente è stato coperto dal principio cooperativo, ma che – al di là della definizione e del modo di operare del principio stesso – sono andati ben oltre quanto la leale collaborazione avrebbe potuto consentire in termini di deroghe e modifiche alle competenze attribuite.

    Pur tuttavia, gli aggiustamenti occorsi attraverso il contenzioso costituzionale e le scelte organizzative del legislatore statale hanno permesso di raggiungere un equilibrio stabile e consolidato tra i poteri legislativi dello Stato e quelli esercitati dalle Regioni, che consente di rivelare – quasi naturalisticamente – l’immagine più propria della Regione italiana.

     È ormai osservazione che si ripete da diversi anni e non dovuta semplicemente alla situazione di emergenza determinata dalla crisi economica che, in termini quantitativi, ai primi sei posti nella legislazione regionale si situino due materie di competenza residuale/esclusiva, due materie di competenza concorrente e due materie di competenza esclusiva dello Stato.

     Le materie su cui si determina una maggiore attenzione delle Regioni nel 2013 sono ancora una volta: la tutela della salute (52), i servizi sociali (33), l’agricoltura (32), il territorio e l’urbanistica (32), i beni e le attività culturali (27), l’ambiente (26). Di rilievo sono anche le materie del turismo (19), del commercio (fiere e mercati) (18) e del lavoro (18). Un po’ più in giù stanno materie come caccia, pesca e itticoltura (15), risorse idriche e difesa del suolo (9), trasporti (9) e formazione professionale (9).

    Come si è già osservato, l’art. 117, commi secondo, terzo e quarto della Costituzione, non descrive pienamente l’azione regionale. Per contro l’esame concreto della legislazione mostra il profilo della Regione come ente di competenza generale chiamato a governare il territorio e a rispondere ai bisogni primari della persona. Infatti, questa è la fisionomia costituzionale concreta della Regione, che emerge dalla legislazione. Inoltre, l’esame particolareggiato delle materie, attraverso cui si determina l’immagine regionale, indica i versanti in cui le Regioni si sono impegnate in questi anni di crisi; da un lato, infatti, nonostante i tagli, hanno mantenuto uno standard nella sanità molto elevato; sviluppato politiche anticicliche con il sostegno al lavoro e alle famiglie; mantenuto i servizi sociali riordinandone la consistenza in assenza di risorse statali e di una determinazione dei livelli essenziali. Dall’altro, la cura del territorio e dell’ambiente sono stati dominanti; e, per ciò che riguarda lo sviluppo economico, agricoltura, turismo e commercio sono stati i punti di forza seguiti a distanza dai trasporti, mentre poco o nulla è stato fatto per l’industria (5) e in termini di opere pubbliche (edilizia scolastica, porti, aeroporti, ecc.) (0). Anche in questo modo, con le scelte imposte dalla crisi economica, si evidenzia il ruolo regionale, in una società complessa che richiede, perciò, un’architettura istituzionale articolata ed efficiente per corrispondere alla sfida dell’integrazione europea e della globalizzazione.
 

4. Il riordino istituzionale delle Regioni

 
     Una segnalazione a parte meritano le leggi sull’ordinamento istituzionale delle Regioni (143, comprese 21 leggi statutarie), dalla cui nomenclatura si ricava che la maggior parte riguarda l’assetto stesso della Regione (40) e il personale (22); mentre altra parte, anch’essa consistente, attiene al decentramento e agli enti locali (34), giacché rispetto a questi le Regioni hanno un potere di disposizione delle proprie funzioni e anche di carattere finanziario, tenendo conto che molte di loro hanno già realizzato una regionalizzazione del patto di stabilità.

     Qui il Governo, anche con il sostegno delle pronunce della Corte costituzionale, è riuscito a imporre un riordino degli organi e dell’amministrazione regionale.

     Le linee di tendenza sono essenzialmente quella della riduzione dei Consigli regionali, dopo la sentenza n. 198 del 2012, e la riduzione dell’amministrazione regionale e degli oneri derivanti dal sistema degli enti dipendenti. Si tratta essenzialmente della disciplina dettata dal DL n. 95 del 2012 (c.d. Decreto sulla spending review), per il quale si veda anche la sentenza della Corte costituzionale n. 237 del 2013.

     Le misure adottate non hanno un carattere meramente finanziario, di riduzione della spesa, ma incidono direttamente sulla forma di governo regionale.

     Si tratta, in particolare, del tema della composizione dei Consigli regionali e provinciali, già trattato nel precedente rapporto, anche in comparazione con Germania e Spagna.
 
     Nel 2013 le elezioni hanno riguardato le Regioni Valle d’Aosta, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Lazio, Molise e Basilicata e le Province autonome di Trento e Bolzano: la Valle d’Aosta aveva 35 consiglieri e li mantiene tutti, così come la Lombardia (con 80 consiglieri) e le Province autonome (entrambe con 35 consiglieri ciascuna); il Friuli Venezia Giulia ha mantenuto un numero consistente di consiglieri (scendendo da circa 60 a 49); il Lazio ha ridotto il numero di 70 consiglieri, previsto originariamente dallo Statuto, a 50 in sintonia con la previsione del DL n. 95 e lo stesso hanno fatto il Molise e la Basilicata che sono passate da 30 consiglieri a 20.

    La riduzione che ha interessato le Regioni meno popolose rende indubbiamente problematico l’esercizio delle funzioni consiliari: articolarsi in gruppi politici, dare vita a giunte e commissioni, produrre testi normativi, predisporre emendamenti, procedere ad un dibattito in aula e a consultazioni pubbliche, esercitare un controllo sull’indirizzo politico, sugli atti di giunta, leggere i bilanci, i consuntivi, valutare gli impegni di spesa e i risultati degli strumenti di monitoraggio della spesa e della qualità della legislazione e, per finire, avere una composizione con rappresentanza di genere.

    A ragion veduta le rappresentanze femminili di tutti i partiti presenti nei consigli comunali e provinciali di Matera e Potenza, in un dibattito pubblico sulla bozza del nuovo Statuto regionale, proposto dalla commissione statuto del Consiglio regionale della Basilicata, hanno lamentato l’impossibilità di una rappresentanza di genere con una composizione così ristretta.

     Sino a quando il regionalismo italiano risulterà ispirato a forme di asimmetria territoriale e non si procederà ad un riordino che punti a una maggiore omogeneità tra le Regioni, sarebbe forse più logico avere, come principio organizzatore della composizione dei Consigli regionali, quello della «proporzionalità degressiva».


     Richiamando le considerazioni già svolte nel precedente rapporto, ci si limita qui a segnalare che la consistenza di un organo elettivo, verso il quale è responsabile il Presidente e la Giunta regionale, per la presenza dell’istituto della fiducia, dovrebbe essere tale da potere assolvere a due funzioni: da un lato, quella rappresentativa dei diversi orientamenti del corpo elettorale e, dall’altro lato, quella di stabilizzazione e controllo dell’esecutivo; entrambe, soprattutto se l’organo è dotato anche del potere legislativo, rispondenti al principio democratico; entrambe difficili da realizzare se il numero dei consiglieri è così limitato.
 
      Sull’altro versante, del decentramento verso gli enti locali, le Regioni nel corso del 2013 hanno continuato a riordinare i loro ordinamenti.

     Tuttavia, dalla legislazione statale è giunto più di un segnale che impone alle Regioni di sistemare diversamente le funzioni già decentrate. Infatti, il Governo ha manifestato l’intento, in un primo momento, di svuotare delle funzioni amministrative le Province e di eliminare in queste la rappresentanza democratica; e, in seguito, di puntare – con la riforma costituzionale – alla soppressione delle Province. In più, la legge n. 191 del 2009 ha disposto la soppressione delle autorità d’ambito territoriale.
 
     Come è noto, la sentenza della Corte costituzionale n. 220 del 2013 ha censurato la disciplina sulle province contenuta nell’art. 23 del DL n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, co. 1, della Legge n. 214 del 2011, e degli artt. 17 e 18 del DL n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, co. 1, della Legge n. 135 del 2012, che prevedevano una trasformazione della rappresentanza dell’ente, con la perdita della elezione diretta, e una riduzione delle funzioni. Peraltro questa disciplina, che presenta profili problematici in relazione ai principi espressi negli articoli 5 e 114 e seguenti della Costituzione, era stata motivata con l’idea di una prossima soppressione delle province medesime dal testo costituzionale.

    Nella sentenza, la Corte costituzionale ha valutato «la compatibilità dello strumento normativo del decreto-legge, quale delineato e disciplinato dall’art. 77 Cost., con le norme costituzionali (in specie, ai fini del presente giudizio, con gli artt. 117, secondo comma, lettera p, e 133, primo comma) che prescrivono modalità e procedure per incidere, in senso modificativo, sia sull’ordinamento delle autonomie locali, sia sulla conformazione territoriale dei singoli enti, considerati dall’art. 114, primo e secondo comma, Cost., insieme allo Stato e alle Regioni, elementi costitutivi della Repubblica, ‘con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione’».

     Essa ha poi concluso che «la trasformazione per decreto-legge dell’intera disciplina ordinamentale di un ente locale territoriale, previsto e garantito dalla Costituzione, è incompatibile, sul piano logico e giuridico, con il dettato costituzionale, trattandosi di una trasformazione radicale dell’intero sistema, su cui da tempo è aperto un ampio dibattito nelle sedi politiche e dottrinali, e che certo non nasce, nella sua interezza e complessità, da un ‘caso straordinario di necessità e d’urgenza’» (punto 12.1 del Considerato in diritto).

     Tuttavia, la Corte non ha effettivamente precluso la via al Parlamento di procedere in relazione al livello provinciale. Infatti, in forza di un’interpretazione rigorosa del principio di cui all’articolo 5 della Costituzione, anche in relazione agli articoli 1 e 48 della stessa, Regioni, province e Comuni dovrebbero godere sia della garanzia di stabile esistenza, sottratta persino al legislatore di revisione costituzionale, sia della necessità insopprimibile di una rappresentanza direttamente elettiva.

     Del resto, la stessa Corte ha affermato, a proposito delle «idee sulla democrazia, sulla sovranità popolare e sul principio autonomistico (…) presenti e attive sin dall’inizio dell’esperienza repubblicana», che «il nucleo centrale attorno al quale esse ruotavano abbia trovato oggi una positiva eco nella formulazione del nuovo art. 114 della Costituzione, nel quale gli enti territoriali autonomi sono collocati al fianco dello Stato come elementi costitutivi della Repubblica quasi a svelarne, in una formulazione sintetica, la comune derivazione dal principio democratico e dalla sovranità popolare» (sentenza n. 106 del 2003, punto 3 del Considerato in diritto).

    Invece, con la decisione n. 220, il giudice costituzionale giunge a un pronunciamento sull’autonomia dei livelli di governo territoriale (autonomie locali e Regioni), non privo di elementi problematici, quando asserisce che le considerazioni sull’inidoneità del decreto legge a tracciare una riforma radicale del sistema autonomistico «non (entrerebbero) nel merito delle scelte compiute dal legislatore e non (porterebbero) alla conclusione che sull’ordinamento degli enti locali si possa intervenire solo con legge costituzionale – indispensabile solo se si intenda sopprimere uno degli enti previsti dall’art. 114 Cost., o comunque si voglia togliere allo stesso la garanzia costituzionale – ma, più limitatamente, che non sia utilizzabile un atto normativo, come il decreto-legge, per introdurre nuovi assetti ordinamentali che superino i limiti di misure meramente organizzative».

     La posizione della Corte ha alimentato immediatamente un nuovo percorso di riforma delle Province, poi culminato nella Legge n. 56 del 2014.

     Prescindendo dall’esame di quest’ultima disciplina normativa, maturata nel corso dell’anno considerato, dopo la sentenza della Corte si poneva, da subito, per le Regioni la necessità di ripensare alla propria organizzazione e al proprio ruolo. La sentenza, infatti, ha alimentato delle incertezze istituzionali sulla ricostruzione dell’intero sistema: in primo luogo, il decentramento delle funzioni regionali di area vasta, attribuite alle Province, avrebbe dovuto essere riassunto o trasferito ulteriormente ai Comuni; in secondo luogo, la Regione da ente di programmazione avrebbe dovuto riconvertirsi in ente di amministrazione attiva, con il rischio di una certa ‘provincializzazione’ del proprio ruolo; infine, per le ragioni espresse, la difficoltà in cui la Regione si sarebbe ritrovata nell’articolare le politiche pubbliche nel proprio territorio, rispetto allo Stato e all’Unione europea.

     Ora, le Regioni, che nel corso dell’ultimo decennio hanno decentrato le loro funzioni amministrative prevalentemente a questi enti di area vasta, in ragione della loro adeguatezza a sostenere nel territorio lo sviluppo delle politiche pubbliche, in vista del compimento del disegno di riforma, sono state indotte a fermare il loro decentramento.

 
     Anche in questo caso, però, non si tratta di un semplice spostamento di funzioni amministrative, quanto di un vero e proprio cambiamento ordinamentale, che sembrerebbe configurare la Regione come un grande ente locale (sulla falsariga dei Dipartimenti vagheggiati da Urbano Rattazzi nel 1859), anziché come l’ente di legislazione e di programmazione, voluto dal Costituente per rinnovare, nella forma della “Repubblica democratica”, la legislazione statale.
 
Stelio Mangiameli
 
 
[1] Il riferimento è, in particolare, alle leggi di riordino approvate da Umbria e Veneto ed alle leggi sull’albergo diffuso approvate da Abruzzo, Sicilia e Toscana.

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