COMITATO DI INDIRIZZO E COORDINAMENTO TECNICO-SCIENTIFICO PER L’ATTUAZIONE DELLA DELEGA DI CUI ALL’ARTICOLO 2 DELLA LEGGE 5 GIUGNO 2003, N.131

RELAZIONE

Sommario:
I) INTRODUZIONE. – 1. L’organizzazione dei lavori. – 2. I criteri generali seguiti.
 II) FUNZIONI FONDAMENTALI DI COMUNI, PROVINCE E CITTÀ METROPOLITANE – 1. Principi della delega – 2. Orientamenti emersi nel Comitato – 3. Soluzioni proposte. 
III) CITTA’ METROPOLITANE – 1. Principi della delega – 2. Orientamenti emersi nel Comitato – 3. Proposta di mediazione
IV) LA REVISIONE DELLE DISPOSIZIONI IN MATERIA DI ENTI LOCALI – 1. Premessa – 2. Ambiti territoriali e articolazioni interne di Comuni e Province – 3. Forme associative e Comunità montane – 4. Organi di governo degli enti locali – 4.1 Incandidabilità, ineleggibilità e incompatibilità – 4.2 Status degli amministratori – 5. Controlli sugli enti locali: a) controllo sugli organi – segue: b) controllo sugli atti – 6. Ordinamento degli uffici e del personale degli enti locali – 6.1 Competenza legislativa – 6.2 Soluzioni proposte – 7. Sistema integrato di garanzie – 7.1 Il fondamento del nuovo sistema dei controlli interni – 7.2 La rimodulazione del sistema di controllo interno – 7.2.1 Garanzia della legalità e della regolarità dell’attività amministrativa - 7.2.2. Controlli gestionali di funzionalità - 7.2.3. Controlli finanziari - 8. Ordinamento finanziario e contabile – 8.1 Competenza legislativa – 8.2 Principi della delega.



I). INTRODUZIONE

1. L’organizzazione dei lavori
Prima di entrare nel merito delle molteplici questioni oggetto della presente relazione, conviene evidenziare come il compito affidato al Comitato , costituito dal Ministro dell’Interno per concorrere alla predisposizione di uno o più schemi attuativi della delega prevista dall’art. 2 della legge 5 giugno 2003, n. 131, sia venuto a connotarsi per un duplice profilo di complessità, risalente, per un verso, all’ampiezza della legislazione da esaminare e, per l’altro, alla inevitabile valenza politica connessa alle scelte da effettuare sui vari temi oggetto di discussione.
Sotto il primo aspetto, riguardante essenzialmente l’organizzazione del lavoro, il Comitato ha dovuto tener conto della ristrettezza del tempo a disposizione, tale da imporre un ritmo serrato per lo svolgimento dei suoi lavori, preliminari rispetto ad un ulteriore ben più complesso iter procedimentale, secondo quanto previsto dalla legge di delega.
Per accelerare i tempi, si è deciso di operare avvalendosi anche della collaborazione di sottocomitati di studio che, supportati dai gruppi di redazione del Ministero, hanno approfondito specifiche tematiche sottoposte poi al vaglio del Comitato stesso.
Sotto il secondo profilo, nei casi in cui si è registrata una concordanza di vedute, sono stati indicati puntuali indirizzi, che i competenti uffici del Ministero potranno tener presenti nella redazione degli articolati. Quando invece tale concordanza non si è registrata, si è preso atto delle diverse posizioni emerse; posizioni di cui è stato dato conto nella relazione, lasciando alla sede politica la scelta della soluzione normativa più opportuna.

2. I criteri generali seguiti
Nel merito, il Comitato si è posto, come esigenza assolutamente preliminare, la definizione della portata della delega, enucleandone i molteplici, seppur connessi, oggetti: anzitutto quello indicato nel comma 1 dell’art. 2, concernente l’individuazione delle funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane; nonché quello indicato nel comma 2, riguardante l’adeguamento delle disposizioni in materia di enti locali alla riforma del titolo V della Costituzione. Ad essi si aggiunge un ulteriore oggetto che assume rilievo a sé stante nell’ambito della delega e cioè quello menzionato nel comma 4, concernente la definizione dell’ordinamento della città metropolitana, che si connota per la sua ampiezza, tale da richiedere, non tanto un adeguamento della normativa vigente, quanto la “costruzione” di una nuova disciplina.
Altri oggetti di delega risultanti dal medesimo comma 4 riguardano l’individuazione di principi e criteri che gli enti locali dovranno seguire nell’ambito della loro autonoma regolamentazione in materia di : a) sistemi di controllo interno (art. 2, comma 4, lett. e); b) ordinamento finanziario e contabile (art. 2, comma 4, lett. f).
Non si è ritenuto, invece, di intervenire su taluni aspetti della attuale disciplina degli enti locali che, pur meritevoli di adeguamento, sono stati reputati estranei all’oggetto della delega.
Con riguardo a temi sicuramente ricompresi in essa, il Comitato ha riscontrato, in qualche caso, la mancanza nella delega di puntuali criteri direttivi (ad esempio, in materia di organi di governo e di sistemi elettorali delle Città metropolitane). Nonostante ciò si è ritenuto, talvolta, di poter dar corso a soluzioni coerenti col nuovo quadro costituzionale. Quando ciò non è stato possibile, ci si è limitati a segnalare l’esigenza di distinti interventi legislativi ad hoc.
Tanto premesso sulla portata della delega, sembra il caso di richiamare, sempre in via preliminare, alcuni punti cardine dell’attuale sistema costituzionale delle autonomie locali che, già tenuti presenti nel corso dei lavori, potranno utilmente orientare anche l’opera di redazione definitiva dello schema (o degli schemi) di decreto legislativo da parte degli uffici del ministero; e cioè:
a) equiordinazione dei cinque livelli territoriali previsti dall’art. 114 Cost. come elementi costitutivi della Repubblica, ferma restando la differenziazione dei rispettivi poteri e funzioni (cfr. sentenza Corte Costituzionale 274/2003);
b) garanzia costituzionale del potere statutario (art. 114, secondo comma, Cost.) e regolamentare degli enti locali, quest’ultimo relativamente all’organizzazione e allo svolgimento delle funzioni loro attribuite (art. 117, sesto comma, Cost.);
c) attribuzione delle funzioni amministrative in base al principio di sussidiarietà, che “ne impone l’ordinaria spettanza agli enti territoriali minori” (v. da ultimo Corte costituzionale n. 370 del 2003), salvo il caso in cui debbano essere assicurate le esigenze di esercizio unitario.
Quanto al rapporto intercorrente fra gli oggetti della delega, il Comitato non ha mancato di avvertire la priorità logica che il tema delle funzioni fondamentali riveste rispetto a quello della revisione delle disposizioni sugli enti locali.
A favore di tale ordine di priorità logica depone, a ben vedere, lo stesso art. 2 della legge n. 131 del 2003 che correttamente distingue fra l’individuazione delle funzioni fondamentali (comma 1) e la revisione delle disposizioni in materia di enti locali (comma 2), comprovando che la revisione stessa, e in particolare quella delle norme del Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (T.U.E.L.), costituisce un posterius rispetto all’esercizio della competenza statale nelle materie indicate dall’art. 117, comma secondo, lett. p) della Costituzione.
Per quanto riguarda in particolare il quadro normativo di riferimento di tale revisione, il Comitato ha ritenuto di prendere in considerazione le disposizioni concernenti l’ordinamento degli enti locali nella sequenza del vigente T.U.E.L. n. 267 del 2000.
Per il vero, è stata considerata anche la possibilità di conferire un nuovo impianto al testo unico, limitandone di massima la struttura ai soli aspetti di competenza legislativa statale indicati alla lettera p) del secondo comma dell’art. 117 (legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali), premettendo alcune disposizioni generali (di garanzia e sulla cedevolezza) e con l’aggiunta di disposizioni connesse ad ulteriori materie riservate al legislatore statale (come i principi sull’organizzazione pubblica, i principi di coordinamento della finanza locale ed i correlativi principi riguardanti la gestione finanziaria e contabile), nonché delle norme dell’attuale testo unico da considerare cedevoli e dell’elenco delle norme abrogate.
E’ prevalsa, tuttavia, l’idea di procedere secondo la prima delle linee sopraindicate, senza, con questo escludere che, in una fase successiva, il quadro dei riferimenti normativi statali in materia di ordinamento degli enti locali possa essere ricomposto in un testo unico avente il diverso impianto di cui si è ora fatto cenno.
Sempre nell’ambito della valutazione delle esigenze di revisione, si è posto il problema se essa dovesse ricomprendere anche le disposizioni contenute in fonti diverse dal T.U.E.L., considerato che, accanto a testi normativi organici e in sé compiuti che toccano la materia degli enti locali, come ad esempio il D.P.R 24 luglio 1997, n. 616, e il più recente d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112, esistono altre, innumerevoli disposizioni, sempre relative agli enti locali, contenute in leggi generali (quali ad es. le leggi finanziarie) e in leggi di settore (urbanistica, lavori pubblici, espropriazioni, istruzione scolastica, beni e attività culturali, servizi sociali, sanità, ecc.).
Di fronte all’arduo impegno che una revisione estesa, in ipotesi, a tutte le dette disposizioni avrebbe comportato, soprattutto, nei ristretti tempi a disposizione, il Comitato ha ritenuto che la lettera e la ratio della delega consentissero di prendere in considerazione, quanto alle disposizioni contenute in fonti diverse dal T.U.E.L., le sole norme di carattere ordinamentale, ritenendo invece esorbitante dalla delega stessa tutto ciò che attiene alle varie discipline di settore riguardanti l’esercizio di funzioni locali.
Per meglio raccordare l’opera di revisione con dette disposizioni, è stata, peraltro, avanzata, da parte di alcuni componenti, la proposta di prevedere una “norma di chiusura” volta ad abrogare tutte le norme extra T.U.E.L. riguardanti a qualche titolo l’ordinamento degli enti locali, incompatibili, da un lato, con le disposizioni attuative della delega e, dall’altro, con la necessità di garantire effettivamente la sfera di autonomia organizzativa riconosciuta agli enti locali dalla novella costituzionale.
Va, inoltre, segnalato che, nella relazione, segnatamente nelle parti attinenti alle specifiche materie, sono indicate esplicitamente talune ulteriori e puntuali esigenze di intervento normativo prospettate nel corso dei lavori del Comitato.

II) FUNZIONI FONDAMENTALI DI COMUNI, PROVINCE E CITTA’ METROPOLITANE
1. Principi della delega
Momento prioritario per l’esercizio della delega conferita al Governo dall’art. 2 della legge n. 131 del 2003 è costituito, come già detto, dall’individuazione delle funzioni fondamentali, da intendere come quelle “essenziali per il funzionamento di Comuni, Province e Città metropolitane, nonché per il soddisfacimento di bisogni primari delle comunità di riferimento”.
I relativi principi e criteri direttivi sono contenuti nelle lettere b), c), e d) del comma 4 del richiamato articolo 2. Tuttavia, solo gli enunciati contenuti nelle prime due lettere appaiono rivolti a definire l’oggetto della delega (individuazione delle funzioni fondamentali), mentre il terzo riguarda strumenti atti ad assicurare il rispetto del principio di leale collaborazione nello svolgimento delle “funzioni fondamentali che richiedono per il loro esercizio la partecipazione di più enti”.
La lettura dei suddetti criteri porta ad evidenziare che:
- gli elementi connotativi della natura fondamentale delle funzioni sono individuati (con una formula ripetitiva di quella usata nel comma 1) nella “essenzialità” ed “imprescindibilità” per i concorrenti profili del “funzionamento dell’ente” e del “soddisfacimento di bisogni primari”;
- la individuazione delle funzioni fondamentali è esplicitamente finalizzata anche alla “tenuta e alla coesione dell’ordinamento della Repubblica”;
- il criterio orientativo prioritario per la individuazione delle funzioni è dato dal riferimento alle “funzioni storicamente svolte”;
- nella individuazione delle funzioni fondamentali viene prescritta la valorizzazione dei principi di sussidiarietà, di adeguatezza e di differenziazione, “in modo da assicurarne l’esercizio da parte del livello di ente locale che, per le caratteristiche dimensionali e strutturali, ne garantisca l’ottimale gestione”.
2. Orientamenti emersi nel Comitato
Il problema della individuazione delle funzioni fondamentali, per la particolare rilevanza che riveste nel nuovo quadro dei rapporti tra i vari livelli di governo, è stato oggetto di approfondita analisi, sia in termini generali, che con riguardo alla specifica enucleazione delle singole funzioni qualificabili come tali.
In sede di primo approccio al problema, si è riscontrata, nel Comitato, una generale concordanza sulle seguenti linee:
- la finalità prioritariamente perseguita dalla norma costituzionale e dalla legge di delega può essere collegata alla esigenza di garanzia degli enti locali, in ordine alla sfera delle proprie attribuzioni rispetto all’esercizio della potestà legislativa dello Stato e della Regione. Come tale, la fonte di identificazione delle funzioni fondamentali è destinata, per l’effetto proprio delle c.d. norme interposte, a costituire un limite alla futura produzione legislativa statale e regionale, sì da rendere stabile anche per il futuro la titolarità di tali funzioni in capo all’ente locale;
- la finalità di garanzia è espressamente correlata alla coesione dell’ordinamento, a sua volta correlabile alla capacità degli enti di assicurare, in forma generalizzata, un livello minimo di soddisfacimento dei bisogni primari delle comunità di riferimento;
- la competenza legislativa statale in tema di individuazione delle funzioni fondamentali riguarda, conseguentemente, anche le materie assegnate alla competenza legislativa delle Regioni, ai sensi dei commi terzo e quarto dell’articolo 117 della Costituzione;
- l’opera di enucleazione delle funzioni fondamentali prescinde dalla distinzione tra funzioni proprie e funzioni conferite contenuta nell’articolo 118, secondo comma, della Costituzione.
Ciò premesso, il Comitato, anche al fine di contemperare le due esigenze, potenzialmente antinomiche (disciplina regionale della materia e vincolo stabilito con legge statale), che si riscontrano in subjecta materia, è dell’avviso che la emananda disciplina dovrebbe ispirarsi ai seguenti criteri:
- necessità di evitare una individuazione delle funzioni fondamentali così dettagliata e specifica da tradursi in una compressione degli spazi che spettano alla potestà legislativa dello Stato e della Regione, nel disciplinare le materie di rispettiva attribuzione;
- necessità, tuttavia, di evitare anche che una eccessiva genericità delle formule di individuazione delle funzioni vanifichi le finalità di garanzia delle competenze degli enti locali che la norma persegue;
- opportunità di prevedere che il passaggio della competenza da un livello di governo ad un altro rispetto all’assetto attuale, certamente praticabile (come conferma la lettura del comma 4, lettera c, e del comma 5 della norma di delega), avvenga principalmente per finalità di razionalizzazione della distribuzione delle competenze (spesso frutto di interventi normativi stratificatisi in forma disomogenea), dando così corretto rilievo anche al criterio delle funzioni storicamente svolte;
- conseguente necessità di procedere con metodo empirico, modulando caso per caso la formula di individuazione (di definizione) di ciascuna funzione, al fine di realizzare il necessario equilibrio tra le garanzie di autonomia funzionale dell’ente locale e le competenze legislative riservate dall’articolo 117 Cost. allo Stato e alle Regioni;
- necessità che l’individuazione, senza essere correlata (nei limiti del possibile) a provvedimenti tipizzati o a specifici procedimenti, faccia riferimento piuttosto alle finalità complessive perseguite dall’intervento pubblico in un’area di interesse generale, così da lasciare spazio ad ogni futuro adeguamento dei procedimenti attraverso i quali l’intervento si realizza.
3. Soluzioni proposte
Sulla base degli orientamenti emersi in seno al Comitato, gli Uffici ministeriali hanno proceduto alla formulazione di un primo documento ricognitivo delle funzioni fondamentali, quale prima base di discussione in seno al Comitato stesso.
L’esame collegiale della relativa bozza ha fatto emergere due ordini di osservazioni.
Da parte di taluni componenti del Comitato, è stata prospettata l’esigenza di una parziale riformulazione tesa ad assicurare una migliore organicità del testo, in funzione di una maggiore e più accentuata garanzia delle prerogative degli enti locali. Altri componenti hanno avanzato, sempre con riferimento al testo base in discussione, l’esigenza di una riformulazione volta ad individuare le funzioni fondamentali, non tanto con riferimento a specifiche funzioni amministrative, quanto a compiti o funzioni più in generale esercitabili in una determinata materia. Sono stati, quindi, elaborati due ipotesi normative che, muovendo dal contenuto del documento base predisposto dagli Uffici, riflettono la diversità delle posizioni sopraindicate.
Tenuto conto che il dibattito svoltosi sul tema ha fatto progressivamente emergere un avvicinamento delle posizioni e che le corrispondenti elaborazioni hanno preso come testo base quello inizialmente prodotto dagli Uffici, questi ultimi hanno ritenuto di poter contribuire all’approfondimento della problematica attraverso la stesura di un ulteriore testo di mediazione.

II) CITTA’ METROPOLITANE
1. Principi della delega
A seguito della riforma del titolo V, sono state inserite tra gli enti costitutivi della Repubblica, previsti dal nuovo art. 114 Cost., le città metropolitane che risultano così equiparate, a tutti gli effetti, agli altri tradizionali enti locali territoriali, in termini non solo di autonomia statutaria e finanziaria, ma anche di garanzia, a livello costituzionale, delle relative competenze e dei relativi poteri.
L’espressa menzione, nell’art. 114 Cost., delle città metropolitane e la collocazione conseguentemente da esse assunta nel quadro costituzionale rendono evidente la volontà del legislatore non solo di potenziare il ruolo delle stesse, ma di riconoscerne la natura di enti che, in particolari realtà territoriali, si atteggiano quali livelli essenziali di governo.
Il mutato assetto costituzionale ha posto, perciò, l’esigenza di una revisione delle disposizioni contenute nel testo unico, che risentono, soprattutto nel procedimento di costituzione delle città metropolitane, della diversa connotazione di ente “non necessario” sulla base dell’ordinamento costituzionale previgente.
Donde la necessità di un intervento normativo che, lungi dal limitarsi alla mera modifica delle disposizioni vigenti, valga a definire un nuovo ordinamento coerente con i mutamenti intervenuti a livello costituzionale.
Avvalora tale convinzione la presenza, nella legge n. 131 del 2003, di principi di delega che presentano, quanto alle città metropolitane, una loro specificità, rispetto a quelli volti a conferire al legislatore delegato il solo compito di adeguare in via generale la normativa che contrasti “con il sistema costituzionale degli enti locali”, secondo quanto previsto nella lettera g) del comma 4 dell’articolo 2.
Infatti, in ordine alle città metropolitane, la stessa legge di delega contiene più principi – lettere h), i) e l) – che autorizzano interventi legislativi sicuramente più incisivi, consentendo, oltre all’adeguamento del procedimento per la loro istituzione, anche la realizzazione di un nuovo impianto normativo riguardante gli aspetti ordinamentali del nuovo ente, e cioè la disciplina degli organi, del regime dell’incandidabilità, dell’ineleggibilità e dell’incompatibilità, nonché del relativo sistema elettorale. Da sottolineare, al riguardo, il ripetuto rinvio nelle lettere i) e l) della delega al vigente ordinamento di comuni e province, quale paradigma da tenere presente, al fine di orientare le scelte fondamentali per la definizione del nuovo assetto.
2. Orientamenti emersi nel Comitato
Un punto di rilievo affrontato nel corso dei lavori e sul quale si è registrata una generale convergenza ha riguardato la posizione della città metropolitana quale “ente necessario” che, al pari di comuni e province, è elemento costitutivo della Repubblica.
Di qui due ordini di conseguenze: da un lato, la connotazione della città metropolitana quale ente di primo grado, con organi direttamente rappresentativi della rispettiva comunità; dall’altro, l’esigenza, per il legislatore delegato, di definire un procedimento costitutivo che porti comunque alla istituzione della città metropolitana, quale risultato costituzionalmente obbligatorio.
Una tesi, emersa nel corso dei lavori, nel farsi carico di una siffatta esigenza, ammette che il relativo territorio possa anche coincidere con quello del solo comune capoluogo, qualora il processo di aggregazione degli altri comuni non dia esito favorevole.
Un concorde punto di vista è emerso in merito al rapporto tra la città metropolitana e la provincia, nel senso che i due enti si porrebbero in rapporto di “alternatività”, sì che l’istituzione della città metropolitana sarebbe destinata a far venir meno – sul territorio metropolitano – l’ente provincia.
Ambito della città metropolitana
Posizioni differenziate si sono registrate, invece, sul rapporto fra città metropolitana e territorio, con riflessi anche sulle modalità per l’istituzione della prima.
In proposito sono emerse due distinte posizioni di principio.
La prima intesa ad affermare che l’istituzione della città metropolitana dovrebbe essere preceduta dalla definizione di un’area territoriale, caratterizzata da una stretta integrazione urbana, economica, culturale e sociale, dei comuni in essa ricompresi.
La seconda volta a sostenere che la delimitazione dell’area non sarebbe condizione necessaria del processo di costituzione della città metropolitana.
Secondo la prima tesi, la città metropolitana si atteggia quale “soggetto di governo di un’area metropolitana”, e cioè quale “soggetto di governo unico” che prende il posto dei comuni e della provincia. E questo senza che ne resti impedita, comunque, la possibilità di prevedere un’articolazione interna, che giunga fino all’istituzione di veri e propri “comuni urbani”.
Secondo l’altra tesi, occorre, per contro, muovere dal presupposto che esistono comuni capoluogo che, per caratteristiche dimensionali e per livelli di sviluppo economico e sociale, coinvolgono e condizionano le comunità situate nelle aree circostanti, richiedendo l’adozione di modelli ordinamentali differenziati ed adeguati alla specificità dell’area urbana da governare. Il “modello metropolitano” sarebbe destinato a realizzarsi proprio in presenza di “città”, le cui dimensioni risultano “troppo estese” per garantire efficienti servizi alla persona e “troppo circoscritte” per poter assicurare l’ottimale funzionamento dei servizi in materia di assetto e utilizzazione del territorio.
Di qui, una concezione della città metropolitana che, pur riguardando altri comuni dell’area circostante, trova il proprio humus nelle prioritarie esigenze del “comune metropolitano”.
Ruolo del comune capoluogo, della provincia e della regione nel procedimento istitutivo.
Le diverse posizioni sopra ricordate si riflettono, come è ovvio, anche sul problema del soggetto (o dei soggetti) cui affidare l’iniziativa del procedimento costitutivo.
Mentre è stato condiviso, in linea di massima, il principio secondo il quale al Comune capoluogo spetta un ruolo essenziale nell’attivazione del procedimento stesso, sono state prospettate soluzioni divergenti sul ruolo spettante alla provincia.
Secondo una prima tesi, la provincia dovrebbe affiancare il Comune capoluogo fin dall’avvio del procedimento di costituzione, partecipando attivamente anche alla complessa operazione di “aggregazione”.
Una tesi alternativa prevede, invece, l’esclusiva attribuzione dell’iniziativa al Comune capoluogo che si fa unico “attore” del procedimento di aggregazione.
Quanto alla Regione, ad essa dovrebbe essere attribuito, secondo alcuni, un ruolo di natura consultiva, mentre, secondo altri, l’ente regionale dovrebbe costituire un punto di riferimento unitario nel processo di aggregazione con il compito di dialogare con gli attori interessati.
Momento costitutivo nell’attuale fase transitoria.
Fermo restando che la costituzione delle città metropolitane può avvenire solo con legge, si è prospettata l’eventualità che, in questa fase, l’istituzione possa realizzarsi immediatamente, attraverso la trasformazione dei comuni capoluogo delle aree individuate dall’art. 22 del testo unico, direttamente disposta dal decreto delegato, alla quale farebbe seguito il procedimento aggregativo ad opera degli stessi comuni.
A tale ipotesi è stato opposto che la lettera della delega non sembrerebbe consentire l’istituzione immediata di città metropolitane, rimettendo al legislatore delegato solo la definizione del procedimento istitutivo, opportunamente adeguato al nuovo assetto istituzionale.

3. Proposta di mediazione
Va da sé che la varietà e la diversità delle posizioni sopraccennate, relativamente alle modalità del procedimento, si riflettono sul risultato finale, condizionandone in varia misura il raggiungimento.
Proprio al fine di assicurare il risultato stesso, in adempimento di una esigenza costituzionalmente necessitata (arg. ex art. 114 Cost.), è emersa una ipotesi di mediazione che tiene conto dei punti sui quali si è riscontrato un comune orientamento.
I criteri guida del procedimento potrebbero riguardare:
- l’attribuzione dell’iniziativa di costituzione della città metropolitana al comune capoluogo delle aree metropolitane indicate nell’articolo 22 del testo unico, attraverso la presentazione di una proposta di delimitazione dell’area metropolitana. In tale fase, potrebbe anche essere prevista, come prospettato da taluni componenti del Comitato, una partecipazione attiva della provincia;
- la partecipazione significativa della Regione al procedimento istitutivo, con la delimitazione dell’area metropolitana e con la elaborazione di un progetto di istituzione della città, prevedendo il potere sostitutivo del Governo, in caso di inerzia da parte della Regione;
- la partecipazione, alla delimitazione dell’area, della provincia e dei comuni interessati che danno il proprio parere sulla proposta;
- il referendum negli altri comuni (diversi dal capoluogo) ricompresi nell’area metropolitana;
- l’istituzione, con legge statale della città metropolitana, comprendente il comune capoluogo e gli altri comuni nei quali il risultato del referendum sia stato favorevole; ovvero della città metropolitana coincidente con il comune capoluogo, in caso di esito negativo del referendum in tutti i comuni interessati;
- la revisione eventuale delle circoscrizioni provinciali, con legge statale, e delle circoscrizioni comunali, con legge regionale.

IV) LA REVISIONE DELLE DISPOSIZIONI IN MATERIA DI ENTI LOCALI
1. Premessa
Quanto alle altre disposizioni in materia di enti locali suscettibili di revisione alla luce della delega, la relativa disamina è stata effettuata valutando ciascuna norma alla luce della nuova disciplina costituzionale, come pure della legge di attuazione n. 131 del 2003, e proponendo: a) l’abrogazione di quelle norme che si appalesino in contrasto con il nuovo quadro costituzionale, salva l’applicazione del criterio di cedevolezza nei casi di cui alla successiva lett. c), o che appaiano comunque superate dalla nuova disciplina di cui alla legge n. 131 del 2003, ovvero ancora che risultino destinate ad essere sostituite da quelle emanate in attuazione della presente delega (esempio, funzioni fondamentali e città metropolitane); b) la modifica, nelle materie di competenza legislativa statale, quando tale intervento sia sufficiente a realizzare l’adeguamento ai nuovi principi costituzionali; c) l’applicazione del criterio di cedevolezza, qualora ragioni di continuità dell’ordinamento giuridico rendano necessario mantenere in vigore disposizioni che disciplinano materie ora di competenza legislativa regionale o normativa locale.
Tali norme, secondo quanto verrà indicato nel testo del decreto delegato, resteranno in vigore, nel territorio di ciascun ente, fino all’adozione della norma regionale o locale.
2. Ambiti territoriali e articolazioni interne di Comuni e Province
Seguendo tali criteri e fermo restando quanto già osservato in ordine alle linee direttrici di una futura normativa sulle funzioni fondamentali e sulle città metropolitane, il Comitato ha esaminato la disciplina degli ambiti territoriali degli enti locali, come pure i problemi concernenti l’eventuale adeguamento della normativa avente ad oggetto l’articolazione interna degli enti medesimi (titolo II della parte I del T.U.E.L.)
Alla luce del nuovo testo dell’art. 117 della Costituzione, è da ritenere che la materia dei mutamenti territoriali delle circoscrizioni comunali rientri ormai nella competenza legislativa esclusiva delle Regioni, restando affidato al legislatore statale il solo passaggio di un comune da una regione ad un’altra, che, in base all’articolo 132 Cost., va operato con legge della Repubblica.
Rimane del pari ferma la competenza legislativa statale in materia di istituzioni di province e di mutamenti delle circoscrizioni provinciali, secondo il disposto dell’art. 133 della Costituzione.
Quanto alle articolazioni interne di Comuni e Province, una delle tesi emerse in Comitato è quella che spetti agli enti locali di dettare, nell’esercizio della loro autonomia organizzativa, le disposizioni in tema di mero decentramento amministrativo, e che vadano, invece, ricondotte alla competenza statale in tema di “organi di governo” prevista dall’art. 117, secondo comma, lettera p) della Costituzione, quelle norme che autorizzano gli statuti a prevedere “particolari e più accentuate forme di decentramento di funzioni” (articolo 17, comma 5, del T.U.E.L.).
Su tale punto, è stata rappresentata da taluni membri del Comitato l’esigenza di far seguire alcune precisazioni.
Secondo taluni, va specificato che la potestà legislativa statale è da circoscrivere, in questa materia, alla sola attribuzione agli organi di decentramento del medesimo status, nonché di competenze e funzioni identiche o assimilabili a quelle riconosciute dalla legge statale agli organi di governo degli enti.
Secondo altri, la indiscussa competenza statale in materia di organi di governo non esclude, invece, che la stessa legge statale rimetta allo statuto comunale la possibilità di prevedere forme originali e incisive di decentramento comunale, ovviamente salvaguardando le responsabilità del sindaco quale ufficiale di governo.
Va, peraltro, rappresentata una diversa prospettiva del pari emersa in Comitato e cioè quella di far rifluire le competenze spettanti al comune, non solo in materia di circoscrizioni di decentramento ma anche di municipi, tra le funzioni fondamentali di tali enti. In modo analogo si dovrebbe procedere circa l’articolazione interna del territorio provinciale (circondari).
3. Forme associative e comunità montane
Nell’esame delle disposizioni relative alla disciplina delle forme associative e delle comunità montane, si è posto il problema pregiudiziale del soggetto competente a disciplinare la materia.
Secondo una prima tesi emersa in Comitato, la scelta delle soluzioni associative e di cooperazione sarebbe riservata all’autonomia normativa degli enti locali.
Altra tesi, del pari prospettata, è, invece, nel senso di riservare alla Regione il potere di individuare le regole e la tipologia delle forme associative, salvaguardando l’autonomia normativa dell’ente locale, per la parte concernente l’organizzazione interna.
Secondo un’ulteriore tesi, l’approccio più corretto al problema delle forme associative sarebbe non quello di tipo soggettivo, consistente nel prendere le mosse dalla considerazione degli enti investiti dalla disciplina de qua, bensì quello di tipo oggettivo facente leva sulle funzioni e sulle relative modalità di esercizio. In tal modo, sarebbe possibile rinvenire il fondamento della competenza legislativa statale, in tema di disciplina delle forme associative, nell’articolo 2, comma 4, lettera c) della legge di delega n. 131 del 2003, che prevede, nell’ambito dell’allocazione delle funzioni fondamentali, l’individuazione, da parte dello Stato, del livello ottimale per la gestione anche associata delle funzioni medesime.
Nel quadro della problematica sopra accennata, il Comitato si è soffermato, in particolare, sul tema delle comunità montane.
In proposito è emerso l’orientamento di far rientrare le comunità stesse, in virtù della loro natura associativa e dell’allocazione in esse di funzioni di livello sovracomunale, nelle forme di cooperazione fra enti locali, quale species qualificata del genus unione di comuni, a tal fine valorizzando anche la definizione contenuta nell’art. 27 del T.U.E.L..
Da tale impostazione, condivisa in linea di massima dal Comitato, consegue l’assorbimento delle disposizioni sulle comunità montane nella parte del T.U.E.L. relativa alle forme associative.
In questo contesto, è da ritenere che dovrebbe essere affidato ai comuni il potere di individuare gli ambiti territoriali delle comunità, secondo modalità concertative non più definite dalla legge regionale (come attualmente previsto dall’art. 27, comma 4, lett. b, del T.U.E.L.), bensì dai comuni stessi.
Il rigore di detta conclusione, secondo alcuni componenti del Comitato, andrebbe attenuato nel senso che le scelte dei comuni dovrebbero corrispondere a determinati criteri di massima, fissati dalla regione, evitando irrazionali discontinuità territoriali, quali, ad esempio, la costituzione di “comuni-enclave” o l’isolamento di altri comuni.
Ferme restando le attuali zonizzazioni, ove non contestate dai comuni interessati, alla regione rimarrebbe, comunque, la disciplina dei piani zonali e dei programmi annuali nonché i criteri di ripartizione tra le comunità montane dei finanziamenti regionali e di quelli dell’Unione europea.
La nuova collocazione, così attribuita alle comunità montane, potrebbe offrire l’occasione per completare, anche sotto il profilo degli organi, il processo di allineamento della loro disciplina a quella delle unioni di comuni, prevedendo che il presidente della comunità montana sia necessariamente, e non più facoltativamente, scelto tra i sindaci dei comuni associati.
Dalla valorizzazione del profilo associativo delle comunità montane dovrebbe, poi, discendere l’affidamento all’atto costitutivo ed allo statuto (approvati dai comuni partecipanti e non più con legge regionale) dell’individuazione degli organi degli stessi enti, nel rispetto delle disposizioni di principio dettate dalla legge statale.
La disciplina delle comunità montane, che potrebbe essere anche contenuta in un articolo ad hoc, dovrebbe ricomprendere, sotto il profilo delle funzioni, non solo quelle conferite dai comuni per l’esercizio in forma associata, ma anche quelle “proprie” volte alla valorizzazione delle zone montane, secondo la normativa statale e regionale di attuazione dell’art. 44 della Costituzione.
Per completezza va fatto cenno di un’altra tesi, pure emersa in Comitato, secondo la quale una disciplina legislativa statale in questa materia potrebbe ammettersi solo se rivolta ad individuare forme “tipiche” di associazionismo intracomunale, limitatamente, però, all’esercizio di funzioni direttamente e immediatamente legate alla legislazione in materia di montagna.
4. Organi di governo degli enti locali
Le norme sugli organi di governo del comune e della provincia (titolo III, parte I) appaiono, in linea di massima, non dissonanti rispetto al sistema costituzionale degli enti locali.
Si tratta di consolidate strutture istituzionali – sindaco, presidente della provincia, consiglio e giunta - riconducibili in linea generale alla competenza legislativa esclusiva dello Stato ex articolo 117, secondo comma, lettera p), rispetto alle quali il nuovo sistema dei poteri locali delineato dalla Costituzione non sembra richiedere, in questa sede, variazioni sostanziali.
Tali considerazioni hanno indotto ad ipotizzare il mantenimento delle disposizioni del T.U.E.L. relative agli organi di governo del comune e della provincia (artt. 36, 37, 38 e 39), agli adempimenti della prima seduta del consiglio (art. 41), alla garanzia delle minoranze e controllo consiliare (artt. 43 e 44), alla surrogazione e supplenza dei consiglieri provinciali, comunali e circoscrizionali (art. 45), alla elezione del sindaco e del presidente della provincia (art. 46), alla nomina e composizione delle giunte (artt. 47 e 48), alla durata del mandato del sindaco, del presidente della provincia e dei consigli (artt. 50 e 51), alla mozione di sfiducia, alle dimissioni, all’impedimento, alla rimozione, alla decadenza, alla sospensione o al decesso del sindaco o del presidente della provincia (artt. 52 e 53).
Si è ritenuto, del pari, di mantenere ferma la disciplina delle attribuzioni del sindaco nei servizi di competenza statale (art. 54), oltre che per ragioni di principio, attinenti all’essenza delle funzioni di per sé non riconducibili a quelle che sono espressione di autonomia, anche in considerazione di quanto disposto nella lettera m) del comma 4 dell’art. 2 della legge n. 131 del 2003, il quale stabilisce di “mantenere ferme le disposizioni in vigore relative […] alla vigilanza sui servizi di competenza statale attribuiti al sindaco quale ufficiale del Governo…”. Da ciò si desume, chiaramente, la volontà del legislatore delegante di lasciare intatta la sfera di competenze che il Sindaco esercita non in qualità di capo dell’amministrazione locale, bensì di organo “periferico” dell’amministrazione statale.
Per altre norme, sicuramente riconducibili anch’esse alla materia “organi di governo” e quindi alla competenza legislativa esclusiva dello Stato (art. 117, secondo comma, lett. p), si pone solo un problema di migliore riformulazione, anche per valorizzare ulteriormente l’autonomia degli enti.
A parte l’introduzione per il comune di una norma analoga a quella dell’art. 37, comma 3, secondo la quale “il presidente della provincia e i consiglieri provinciali rappresentano l’intera provincia”, potrebbe essere riformulata la disposizione che disciplina il funzionamento dei Consigli (art. 38), sia per rispondere ad una esigenza di migliore e più consequenziale sistemazione dei vari enunciati, sia, e soprattutto, per valorizzare la potestà normativa locale nella definizione di una propria disciplina, pur nell’ambito di necessari criteri di uniformità dettati dalla legge statale a garanzia della funzionalità dell’organo e della tutela delle minoranze.
Potrebbe essere, altresì, modificata la norma relativa alla convocazione obbligatoria del consiglio su richiesta delle minoranze (art. 39), con la previsione di una diversa possibilità di regolamentazione statutaria nell’ambito di principi dettati dalla legge statale.
Anche la disposizione dell’art. 50, sulla competenza del sindaco e del presidente della provincia, potrebbe essere rimodulata per meglio coordinarla con altre disposizioni del testo unico. In particolare, potrebbe essere eliminata la norma che attribuisce al sindaco e al presidente della Provincia “la responsabilità” dell’amministrazione, alla luce delle riforme che hanno riguardato la dirigenza e che hanno definito la linea di demarcazione tra la responsabilità politica affidata agli organi e quella gestionale attribuita all’apparato burocratico.
Ampia riflessione è stata dedicata al problema dei rapporti tra consiglio e giunta (artt. 42 e 48). Sul punto si sono delineate due diverse posizioni teoriche: quella secondo cui non può più riconoscersi al solo legislatore statale la potestà di distribuire le competenze fra i vari organi, dovendosi prevedere, anche in tale ambito, un intervento eventuale dello statuto locale, e quella che, viceversa, ritiene tuttora affidato alla legislazione esclusiva statale (ex art. 117, comma secondo, lett. p), Cost.), il riparto di competenze fra gli organi, per l’esigenza di uniformità che si pone per norme che connotano, unitamente al sistema elettorale, la “forma di governo locale”. E ciò, oltretutto, in relazione all’esigenza di preservare il sistema del “governo locale” da interventi differenziati che, sulla base di modifiche agli equilibri tra le competenze degli organi, potrebbero “frantumare” e rendere non più riconoscibile il modello comunale di governo.
4.1 Incandidabilità, ineleggibilità, incompatibilità
Le norme in materia di incandidabilità, ineleggibilità ed incompatibilità, riconducibili alla competenza legislativa statale, in virtù di quanto previsto dalla lettera p) del secondo comma dell’articolo 117 Cost., sono da reputare, in linea di massima, non contrastanti con il nuovo sistema costituzionale degli enti locali. Il che ovviamente non esclude specifici aggiustamenti per assicurare maggiore coerenza sistematica della relativa normativa.
Sulla base di tali premesse, il Comitato ha espresso l’avviso che possano restare ferme le disposizioni sull’elettorato passivo, sui requisiti della candidatura, sull’obbligo di opzione, sulle cause ostative alla candidatura e sulla sospensione e decadenza di diritto.
In ordine, invece, alla disciplina dell’ineleggibilità (art.60) è maturata l’idea di estendere anche ai magistrati addetti alle sezioni regionali della Corte dei Conti, sia giurisdizionali che di controllo, ivi compresi quelli designati ai sensi dell’articolo 7, comma 9, della legge n. 131 del 2003, l’ineleggibilità già prevista, nel territorio nel quale esercitano le loro funzioni, per i magistrati addetti alle corti di appello, ai tribunali, ai Tribunali amministrativi regionali e per i giudici di pace.
La disposizione secondo cui non possono ricoprire la carica di sindaco e di presidente della provincia coloro che hanno ascendenti o discendenti ovvero parenti o affini fino al secondo grado che, nelle rispettive amministrazioni, sono appaltatori di lavori o di servizi comunali o provinciali o in qualunque modo loro fideiussori, potrebbe essere meglio collocata nell’ambito delle disposizioni relative all’incompatibilità, sulla base dell’orientamento affermato nella sentenza della Corte Costituzionale n. 450 del 2000.
Le norme in materia di sistema elettorale, riconducibili alla competenza legislativa statale, in virtù del secondo comma lettera p), dell'articolo 117 della Costituzione, non sembrano richiedere interventi di modifica ai sensi della lettera g) della delega, poiché ritenute compatibili con il nuovo ordinamento costituzionale degli enti locali.
Le disposizioni in questione potrebbero, comunque, essere eventualmente corrette ed integrate in sede di redazione del decreto delegato, ove si optasse, nella definizione del sistema elettorale delle città metropolitane, di estendere a tali enti la disciplina prevista per i comuni con popolazione superiore ai quindicimila abitanti o, in alternativa, quella prevista per le province.
4.2 Status degli amministratori
Le norme sullo status degli amministratori degli enti locali, riguardando coloro che sono chiamati a ricoprire cariche elettive negli organi di governo, possono reputarsi rientrare nella potestà legislativa esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lett. p) Cost. Ciò posto, nessuna modifica viene proposta per le disposizioni che definiscono doveri e condizione giuridica, aspettative, permessi e licenze, nonché oneri e permessi retribuiti; disposizioni che non solo non contrastano con il nuovo sistema degli enti locali, ma possono considerarsi, in parte, attuative del precetto dell’art. 51 della Costituzione sull’accesso ai pubblici uffici.
La norma che stabilisce i meccanismi di determinazione delle indennità potrebbe, peraltro, essere parzialmente riformulata, sì da confermare in capo al legislatore statale la competenza a disciplinare la materia secondo principi uniformi, ma, al tempo stesso, da lasciare la determinazione della misura delle indennità di funzione e dei gettoni al decreto del Ministro dell'interno, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, ai sensi dell'articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, sentita la Conferenza Stato-città ed autonomie locali.
5. Controlli sugli enti locali:
a) Controlli sugli organi
L’articolo 2, comma 4, lettera m) della legge n. 131 del 2003 prevede che il legislatore delegato mantenga in vita le disposizioni in vigore relative al controllo sugli organi degli enti locali.
Fermo restando, pertanto, l’impianto normativo delineato negli artt. 141-146 del T.U.E.L., si ipotizza solo una modifica della disciplina procedurale dello scioglimento e sospensione dei consigli comunali e provinciali.
Va rammentato, a questo riguardo, che nell’ambito del procedimento di scioglimento dell’organo consiliare per mancata approvazione del bilancio, l’attuale disciplina contempla la nomina, da parte del Co.re.co, di un commissario ad acta, incaricato di predisporre lo schema di bilancio da sottoporre al consiglio.
L’avvenuta soppressione, a seguito dell’abrogazione dell’art. 130 Cost., del Co.re.co, impone, perciò, l’adeguamento del procedimento, sulla base di quanto previsto alla lettera e) della norma di delega. Ciò stante, è sembrato al Comitato che, coerentemente con il mutato quadro costituzionale delle competenze degli enti territoriali, la soluzione possa essere quella di rinviare totalmente all’ente locale l’individuazione delle modalità di “uscita dall’impasse politico-amministrativa”, entro un termine fissato dal legislatore statale. Solo allo scadere del termine a disposizione dell’ente, il Prefetto potrà avviare le procedure per lo scioglimento, normativamente previste.
Va da sé che analogo adeguamento va operato anche per le altre disposizioni del T.U.E.L. indicate dalla lettera e) dell’art. 2, comma 4, della legge n. 131 del 2003 (mancata adozione dei provvedimenti di riequilibrio di bilancio, articolo 193, comma 4; mancata deliberazione del rendiconto della gestione, art. 243, comma 6, lettera b; deliberazione dello stato di dissesto, art. 247; mancata attivazione delle entrate proprie successivamente alla delibera di dissesto, art. 251).
segue: b) controlli sugli atti
L’abrogazione dell’articolo 130 della Costituzione, facendo venir meno l’organo regionale di controllo sugli atti degli enti locali, ha travolto necessariamente anche la disciplina attuativa contenuta nel T.U.E.L., con riferimento alle competenze di detto organo; disciplina attuativa ritenuta, infatti, immediatamente inefficace, proprio perché incompatibile con l’attuale normativa costituzionale.
Ciò posto, occorre espungere anche formalmente le disposizioni sul Comitato regionale di controllo contenute nel T.U.E.L., come pure quella, collegata alle prime, sui poteri sostitutivi del Governo (art. 137 T.U.E.L.) in considerazione, altresì, dell’art. 8 della legge n. 131 del 2003, con il quale si è data attuazione, sempre in materia di poteri sostitutivi del Governo, all’art. 120 della Costituzione.
Si è ritenuto, invece, che possano permanere le disposizioni in materia di pubblicazione, esecutività e comunicazione delle deliberazioni ai capigruppo, in quanto esse, benché collegate con il previgente sistema di controllo sugli atti, sembrano conservare una loro funzione strumentale di tutela degli interessi delle minoranze che ne giustifica il mantenimento in capo al legislatore statale.
Le disposizioni in questione potrebbero, comunque, trovare una diversa collocazione sistematica nell’ambito delle norme sugli organi di governo, laddove si disciplinano i diritti dei consiglieri, la garanzia delle minoranze ed il controllo consiliare.
Nell’ambito della tematica dei controlli, non è mancata una adeguata riflessione pure sulla norma che prevede le modalità di attivazione del controllo “antimafia” del Prefetto, il cui fine è quello di preservare, anche a mezzo del riscontro sugli atti, l’attività degli enti locali da infiltrazioni di tipo mafioso.
La disposizione in esame, come ha ribadito il Consiglio di Stato nel parere n. 386, del 10 dicembre 1997, non è rivolta ad incidere negativamente sull’autonomia degli enti locali, ma a preservare tale fondamentale valore, di rilevanza costituzionale, impedendo che si determinino alterazioni di così grave portata all’interno delle istituzioni rappresentative delle comunità locali.
Dalla particolare finalità di tale forma di controllo discende, dunque, la necessità di mantenere, anche nel nuovo assetto costituzionale, l’iniziativa del prefetto di attivare la verifica, già di competenza del Co.re.co, della conformità a legge, ai fini antimafia, di alcuni atti fondamentali degli enti locali.
Soppresso ormai il Coreco, potrebbe seguirsi la strada di affidare al Prefetto un potere volto a sollecitare l’attivazione degli strumenti di “auto-controllo” degli stessi enti. Soccorre a tal proposito il principio di delega recato dall’articolo 2, comma 4, lettera e) che valorizza l’autonomia statutaria, nella previsione di forme e modalità di intervento sostitutivo, segnatamente per le ipotesi di mancata approvazione del bilancio e mancata adozione delle deliberazioni di riequilibrio.
6. Ordinamento degli uffici e del personale degli enti locali.
6.1 Competenza legislativa
In materia di ordinamento degli uffici e del personale, occorre prendere le mosse dalle norme costituzionali che riconoscono espressamente autonomia organizzativa agli enti locali, nonchè dalla puntualizzazione di tale sfera di potere regolativo locale contenuta nell’art. 4 della legge n. 131 del 2003, dalla quale si evince:
• l’attribuzione a comuni, province e città metropolitane di potestà normativa “secondo i principi fissati dalla Costituzione”;
• l’attribuzione allo statuto della competenza a stabilire i principi di organizzazione e funzionamento dell’ente, in armonia “con la Costituzione e con i principi generali in materia di organizzazione pubblica”;
• la riserva alla potestà regolamentare dell’ente locale della disciplina dell’organizzazione, dello svolgimento e della gestione delle funzioni dei comuni, delle province e delle città metropolitane, “nell’ambito della legislazione dello Stato o della Regione, che ne assicura i requisiti minimi di uniformità, secondo le rispettive competenze”.
Tutto ciò concorre a delineare un quadro di principi in larga misura nuovi sulla stretta connessione tra la condizione di soggetti autonomi costituzionalmente sancita per gli enti locali e la garanzia effettiva di autoordinamento, statutario e regolamentare, ad essi spettante. Tale competenza primaria degli enti locali non esclude, peraltro, l’esigenza di circoscrivere, entro certi limiti, il loro spazio di autonomia organizzativa, riconoscendo vigenti alcuni principi generali di organizzazione pubblica applicabili ad ogni soggetto amministrativo del sistema. Conclusione, questa, avvalorata dallo stesso art. 4, comma 2, della legge n. 131 del 2003, che, affidando agli statuti il compito di stabilire i principi di organizzazione e funzionamento dell’ente, sottolinea, nel contempo, l’esigenza di armonia con i principi costituzionali (ad es. artt. 51 e 97 Cost.) e con i principi generali in materia di organizzazione pubblica.
A fondamento della persistente competenza dello Stato a dettare principi generali in materia di organizzazione e personale pubblici (riguardanti anche gli enti locali autonomi), può, d’altronde, essere richiamata anche una recentissima pronuncia della Corte costituzionale (n. 370 del 2003). In tale sentenza, a proposito del confine tra potere legislativo statale e regionale (ma la medesima ratio può ritenersi applicabile al rapporto tra potere legislativo statale e autonomia normativa riservata agli enti locali), si afferma che la non riferibilità di un determinato oggetto ad una delle materie elencate nel secondo e terzo comma dell’art. 117 Cost. non comporta la sua automatica inerenza all’ambito residuale del quarto comma dello stesso articolo, soccorrendo, in proposito, il criterio di prevalenza nonché la evenutale riconducibilità dell’oggetto stesso alla competenza legislativa dello Stato nelle materie cosiddette trasversali.
Orbene, in tema di ordinamento degli uffici e del personale vengono in considerazione settori di sicura competenza esclusiva dello Stato.
Viene in rilievo, in primo luogo, la competenza legislativa statale in materia di “ordinamento civile” (cfr. art. 117, comma 2, lett. l, Cost.), nella quale può farsi rientrare la disciplina del rapporto di impiego dei dipendenti locali, atteso il carattere negoziale da essa assunto, dopo l’avvenuta assimilazione tra lavoro pubblico e privato, a partire dal D.Lgs. 3 febbraio 1993, n.29.
Va considerato, inoltre, che spetta allo stesso legislatore statale la “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” (art. 117, secondo comma, lett. m, Cost.); diritti sociali nei quali rientrano gran parte delle prestazioni connesse alla attività lavorativa (artt. 35, 36, 37, 38, 39 e 40 Cost.).
Non va ignorato, infine, il rilievo che la contrattazione collettiva assume ai fini del quadro generale della finanza pubblica e del relativo coordinamento da ritenere spettante allo Stato (art. 119, Cost.), come risulta avvalorato dalla attribuzione alla Corte dei conti di una specifica funzione di verifica della compatibilità economico-finanziaria degli oneri derivanti dalla contrattazione stessa.
6.2. Soluzioni proposte
Muovendosi nel quadro dei sopra richiamati riferimenti normativi, il Comitato ritiene che il rinvio alle disposizioni del decreto legislativo n. 29 del 1993 e successive modificazioni e integrazioni, contenuto nell’articolo 88 (disciplina applicabile agli uffici e al personale degli enti locali), vada sostituito dalla esplicita indicazione di quelli che possono essere ritenuti principi generali desumibili dalle medesime disposizioni; principi che dovranno, ovviamente, essere tenuti presenti dagli enti locali, nell’esercizio della potestà normativa in materia di organizzazione loro riconosciuta espressamente dalla Costituzione.
Alla luce dei criteri sopraccennati l’opinione prevalente del Comitato è stata quella che possano permanere le disposizioni del testo unico riconducibili in grandissima parte ai principi del decreto legislativo n. 29 del 1993, poi trasfuso, in larga misura, nel decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165.
Ci si riferisce, in particolare, alle disposizioni che disciplinano gli uffici di supporto degli organi di direzione politica (art. 90) in quanto non invasive, di per sé, dei poteri normativi degli enti locali,. Altrettanto vale per le disposizioni relative: ai rapporti a tempo determinato e a tempo parziale (art. 92); alla responsabilità patrimoniale per gli amministratori e per il personale (art. 93); alla responsabilità disciplinare (art. 94); alle funzioni e responsabilità della dirigenza (art. 107); al conferimento di funzioni dirigenziali (art. 109), integrando, peraltro, la relativa disciplina con un richiamo alla normazione generale in materia di incarichi dirigenziali pubblici; come pure per le disposizioni sugli incarichi a contratto (art. 110).
Tesi prevalente nel Comitato è stata anche quella di non intervenire in questa sede sulle disposizioni relative alle assunzioni (sia pure da integrare con un richiamo alla coerenza della programmazione triennale del fabbisogno di personale con le linee programmatiche generali del settore), nonché sulla norma che disciplina i dati sul personale degli enti locali, il cui fondamento va essenzialmente rinvenuto nella competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di “coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale” (art. 117, comma 2, lett. m, Cost.).
Sull’argomento qui in esame, va, peraltro, doverosamente dato atto anche del diverso orientamento espresso da taluni componenti del Comitato, i quali sono stati dell’avviso che, nel nuovo ordinamento, potrebbero permanere la maggior parte dei principi sottesi alle disposizioni del testo unico a suo tempo introdotte, in conformità dei principi del decreto legislativo n. 165 del 2001, ma non le disposizioni che dovrebbero essere riviste e modificate per essere messe in asse col nuovo sistema. A tal fine gli attuali articoli 90, 92, 93, 94, 107, 109 e 110 del T.U.E.L. dovrebbero formare oggetto di particolare attenzione, per trovare il giusto equilibrio fra la necessità di individuare i principi di competenza della legge statale e l’esigenza di assicurare il pieno rispetto dell’autonomia normativa locale.
Esigenza di adeguamento al nuovo quadro costituzionale si pone, comunque, per le seguenti disposizioni del testo unico:
- art. 89 (Fonti), che va riformulato tenendo conto del nuovo assetto delle fonti conseguente all’art. 114 Cost.;
- art. 96 (Riduzione degli organismi collegiali), da rendere norma cedevole, trattandosi di materia da rimettere totalmente al potere normativo degli enti locali;
- art. 108 (Direttore generale), per l’esigenza di dare maggiore flessibilità alla relativa disciplina, consentendo la nomina del c.d. city manager per tutti gli enti, con la possibilità di trarlo anche dai dirigenti in servizio e, al tempo stesso, rinviando al regolamento degli enti stessi, quanto alla definizione del ruolo di tale figura professionale.
Da parte di alcuni componenti del Comitato è stata anche ventilata la opportunità - da valutare in altra sede normativa - di prevedere un autonomo sistema di contrattazione collettiva per il personale degli enti autonomi territoriali.
7. Sistema integrato di garanzie
7.1 Il fondamento del nuovo sistema dei controlli interni
La riforma del titolo V, con il venir meno del sistema dei controlli esterni sugli enti locali incentrato sulla verifica di legittimità degli atti amministrativi, ha determinato la necessità di individuare, all’interno degli enti stessi, meccanismi di garanzia e di verifica della correttezza e del buon andamento dell’amministrazione, compatibili con il nuovo assetto costituzionale. Gli enti locali sono chiamati, infatti, ad una maggiore responsabilità nell’attivazione e nella gestione dei sistemi di controllo interno che devono essere idonei a verificare efficienza e rispetto della legalità e che diventano “essenziali”, in un contesto in cui le istituzioni locali sono ormai affrancate dai tradizionali vincoli di “tutela”.
La definizione di un nuovo ordinamento dei controlli nelle amministrazioni locali dovrà, comunque, tener conto del difficile bilanciamento fra il rispetto della rafforzata posizione di autonomia e l’esigenza di mantenere un sistema di verifiche e garanzie, in sintonia con i principi generali fissati dall’ordinamento vigente per tutta l’amministrazione pubblica.
Il rispetto di tali principi risponde, infatti, proprio all’esigenza di salvaguardare gli interessi primari del buon andamento e dell’imparzialità dell’Amministrazione, sanciti dall’articolo 97 della Costituzione, che vanno garantiti attraverso la definizione di parametri validi per tutte le amministrazioni locali.
In tale contesto, si tratta, da un lato, di assicurare la legittimità, la regolarità e la correttezza dell’azione amministrativa, in particolare attraverso l’attribuzione delle relative funzioni di garanzia a professionalità di sicura esperienza ed in posizione di terzietà rispetto alle strutture politiche e burocratiche; dall’altro, di garantire l’efficienza, l’efficacia e l’economicità dell’azione amministrativa, attraverso un sistema di verifiche dei risultati informato a criteri omogenei per tutti gli enti locali.
Nel rispetto dei principi fondamentali sopra delineati, spetterà, poi, all’ente locale definire le modalità e le forme di esercizio delle attività di controllo.
La presenza nella stessa legge n. 131 del 2003 di disposizioni concernenti il controllo di risultato, affidato ad un organo esterno, e cioè alla Corte dei Conti, suggerisce anche di individuare efficaci raccordi tra i compiti di quest’ultima e il sistema dei controlli interni.
Va, in proposito, considerato il ruolo di “garanzia” assegnato alla Corte dei conti, come “organo della Repubblica”, secondo una prospettiva accolta dalla legge n. 131 del 2003, laddove prevede, all’art. 7, l’attribuzione alla Corte stessa di compiti di verifica del perseguimento degli obiettivi posti dalle leggi di principio e di programma, nonché della sana gestione finanziaria degli enti locali e del funzionamento dei controlli interni, stabilendo i parametri di gestione relativi a questi ultimi.
In conclusione, l’intero sistema autonomistico, per la posizione di pari dignità degli enti territoriali, sancita dall’art. 114 della Costituzione, non tollera più logiche di tipo gerarchico. Esso richiede, dunque, il disegno di una nuova rete di controlli, fondata sulla valorizzazione della autonomia statutaria degli enti locali (art. 2, comma 4, lett. e, ed art. 4, comma 2, della legge n.131 del 2003) e del correlato raccordo con i controlli esterni affidati alla Corte dei conti, anche in vista dell’attuazione degli obiettivi dell’articolo 119 Cost..

7.2 La rimodulazione del sistema dei controlli interni
Alla luce delle considerazioni che precedono, si è in primo luogo affrontato il problema della rispondenza dell’attuale regime dei controlli interni negli enti locali alle esigenze poste dal mutato assetto istituzionale.
Valutando, tra l’altro, anche la carenza di organicità dell’attuale disciplina, che vede le disposizioni in materia collocate, in modo frammentario, nelle diverse parti del T.U.E.L. (segretari comunali e provinciali, controlli interni, ordinamento finanziario e contabile), è stata avvertita l’esigenza di procedere ad una rimodulazione dell’attuale normativa in materia, sì da creare un sistema integrato di controlli configurato in modo organico.
Tale sistema consentirà all’ente di dotarsi di una “rete” di strumenti atti a garantire la verifica incrociata dell’attività di tutti i comparti dell’amministrazione locale, stabilendo, in piena autonomia, forme e modalità di intervento e prevedendo anche appositi meccanismi di autocorrezione e di autotutela, che assicurino tempestivi interventi sulle criticità rilevate.
La disciplina del testo unico va, quindi, opportunamente razionalizzata e innovata con l’inserimento di un complesso normativo che configuri, nelle linee essenziali, l’architettura di base del sistema integrato dei controlli, con riguardo ai controlli non solo di legalità e di regolarità dell’attività amministrativa, ma anche a quelli finanziari, nonchè gestionali di funzionalità.
7.2.1. Garanzia della legalità e della regolarità dell’attività amministrativa.
Fra i mezzi di garanzia della legalità, va ricordato che l’art. 147, comma 2, lettera a) del T.U.E.L. affida all’ente locale la potestà di individuare strumenti e metodologie adeguati a garantire, tra l’altro, la legittimità, la regolarità e la correttezza dell’azione amministrativa.
Per realizzare tali finalità, è anche da tener presente l’attuale art. 97 del T.U.E.L. che demanda al segretario comunale e provinciale “compiti di collaborazione e funzioni di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi dell’ente in ordine alla conformità dell’azione amministrativa alle leggi, allo statuto, ai regolamenti”. In particolare, il segretario svolge funzioni di assistenza alle riunioni del consiglio e della giunta, curandone la relativa verbalizzazione e, più in generale, funzioni di garanzia della certezza della formazione della volontà degli organi collegiali e delle attività più rilevanti dell’ente.
Tale complesso di norme merita di essere razionalizzato, individuando, anzitutto, puntualmente, le esigenze imprescindibili di garanzia della legalità negli enti locali e prevedendo, a tal fine, l’affidamento di funzioni e responsabilità a figure professionali di sicura competenza tecnico-giuridica ed in grado di rispondere alle esigenze poste dal nuovo contesto di autonomia che dovrà caratterizzare la realtà amministrativa locale.
In questa prospettiva, il Comitato auspica la revisione della normativa concernente la formazione delle figure apicali degli enti locali, ivi compresi i segretari comunali e provinciali.
• Segretari comunali e provinciali
La disciplina dei segretari comunali e provinciali ha dato luogo ad un’ampia riflessione che ha preso le mosse dal tema dei limiti della competenza statale ad intervenire in subjecta materia.
Secondo una prima tesi, la materia dovrebbe considerarsi attratta nell’ambito della potestà normativa degli enti locali, ai quali andrebbe rimessa non solo la scelta di lasciar permanere o meno, all’interno del loro apparato, tale figura professionale, ma anche di disciplinarne, eventualmente, ruolo e funzioni. Lo Stato, secondo tale linea di pensiero, manterrebbe solo il potere di regolare l’ordinamento e l’organizzazione dell’Agenzia autonoma per la gestione dell’Albo dei segretari comunali e provinciali, essendo l’Agenzia stessa riconducibile alla categoria degli enti pubblici nazionali, per i quali il secondo comma, lettera g) dell’articolo 117 della Costituzione riconosce la competenza legislativa esclusiva dello Stato.
Secondo un’altra tesi, permarrebbe, invece, in capo allo Stato la competenza a dettare norme, seppur limitatamente ad alcune parti della disciplina dei segretari comunali, per ragioni sostanzialmente analoghe a quelle già esposte a proposito dell’ordinamento degli uffici e del personale (par. 6.1), valorizzando, in particolare, la necessarietà della funzione, ascrivibile al segretario, di collaborazione e di assistenza giuridico-amministrativa, circa la conformità dell’attività alla legge, allo statuto e ai regolamenti.
E’ emersa, al tempo stesso, una posizione più radicale, volta a sostenere che il tema dei segretari comunali e provinciali esulerebbe dall’ambito della delega, in tal senso interpretando la indicazione data dal legislatore delegante, secondo cui devono restar ferme “le disposizioni volte ad assicurare la conformità dell’attività amministrativa alla legge, allo statuto e ai regolamenti” (art. 2, comma 4, lett. m, della legge 131 del 2003).
L’approfondimento delle questioni prospettate ha fatto delineare una posizione “intermedia”, in base alla quale, a fronte di un innegabile spazio riservato all’autonomia normativa degli enti locali, nella concreta disciplina delle garanzie (interne) di regolarità dell’attività amministrativa, si dovrebbe nel contempo riconoscere che spetti allo Stato la competenza legislativa a disciplinare, da un lato, l’Agenzia quale ente pubblico nazionale, seppure da raccordare strettamente al sistema delle autonomie locali (che tra l’altro ne assicurano in gran parte il finanziamento), nonchè, dall’altro, a dettare disposizioni di principio finalizzate alla salvaguardia della legalità nell’esercizio delle funzioni degli enti locali.
Secondo gli indirizzi come sopra emersi, si è ritenuto di non intervenire sulle norme che disciplinano l’Agenzia, non solo in ragione di quanto rilevato circa la riconducibilità della materia alla competenza legislativa dello Stato (ex articolo 117, secondo comma, lettera g, Cost.), ma anche in ragione dell’estraneità delle norme relative all’oggetto della delega .
Al tempo stesso, si è ritenuto che il criterio di delega ex art. 2 comma 4, lett. m), induca, per un verso, a strutturare un sistema di garanzie che assicuri, tra l’altro, la conformità dell’attività amministrativa alla legge, allo statuto e ai regolamenti, anche in considerazione dell’eliminazione dei controlli esterni sugli atti, e, per l’altro, a considerare che la presenza di una figura professionale, quale quella del segretario comunale e provinciale dotata di specifica professionalità tecnico-giuridica, apporti un qualificato contributo alla corretta gestione dell’ente.
Sono state, invece, prospettate soluzioni diverse in merito alle modalità di utilizzazione del personale in questione, per l’espletamento di tale funzione.
Secondo una prima tesi, la possibilità di utilizzare o meno il personale iscritto all’Albo dei segretari comunali e provinciali dovrebbe essere rimessa all’autonomia locale. Tale soluzione, rendendo “facoltativa” la presenza del segretario comunale e provinciale, non escluderebbe, di conseguenza, la possibilità per l’ente locale di impiegare, per l’espletamento della funzione, soggetti e professionalità diversi.
Una seconda tesi propende, al contrario, per fare del segretario comunale e provinciale il punto di riferimento delle funzioni di garanzia, lasciando alla potestà normativa dell’ente locale la disciplina dei profili organizzativi connessi alla funzione, come pure l’attribuzione di ulteriori funzioni.
Secondo tale posizione, la conferma nell’ente locale della figura del segretario non sarebbe lesiva dell’autonomia, non interferendo direttamente nella sfera organizzativa dell’ente, ma si porrebbe quale punto di riferimento di un sistema di cui l’ente locale si deve dotare per perseguire condizioni di garanzia.
La previsione di una figura professionale unitaria realizzerebbe un paradigma uniforme per tutti i governi locali nella cura del primario interesse del perseguimento della legalità nell’azione amministrativa e della garanzia della fede pubblica.
Tale ultima posizione, condivisa, in linea di massima, dai componenti del Comitato, potrebbe portare alla definizione di una disciplina che dovrebbe basarsi sulle seguenti linee fondamentali:
- costruzione di un sistema integrato delle garanzie e verifiche interne della legittimità, del buon andamento e dell’imparzialità dell’azione amministrativa, idoneo ad assicurare il rispetto della legalità e dell’efficienza dell’attività dell’ente, attribuendo all’autonomia statutaria la potestà di individuare forme e modalità di intervento, anche con la previsione di appositi meccanismi di autocorrezione e di autotutela;
- previsione dell’utilizzazione del personale iscritto all’albo dei segretari comunali e provinciali;
- prospettazione dell’esigenza di una riforma complessiva della disciplina dei segretari comunali e provinciali, ivi compresa l’Agenzia con i suoi meccanismi di finanziamento, nonché del necessario adeguamento dell’ordinamento e dei programmi formativi della Scuola, al fine di assicurare l’ottimale esercizio delle funzioni di garanzia nel quadro del nuovo assetto dei poteri territoriali;
- attribuzione alla potestà normativa dell’ente della possibilità di conferire al Segretario altri compiti, ivi compresi quelli di sovrintendenza e di coordinamento delle funzioni dei dirigenti;
- mantenimento delle disposizioni contenute nell’art. 97, comma 4, del T.U.E.L. che individuano le altre funzioni del Segretario comunale e provinciale, quali norme cedevoli in attesa di eventuali, diverse disposizioni normative da parte degli enti locali.
7.2.2. Controlli gestionali di funzionalità
La lettera e) del comma 4 dell’art. 2 della legge n. 131 del 2003 prevede che il Governo, nell’esercitare la delega relativa alla revisione delle disposizioni in materia di enti locali, attribuisca all’autonomia statutaria la potestà di individuare sistemi di controllo interno idonei a garantire il funzionamento degli enti stessi, secondo criteri di efficienza, efficacia ed economicità dell’azione amministrativa.
La delega valorizza, dunque, l’autonomia degli enti locali, che vengono chiamati ad individuare le soluzioni organizzative più appropriate, coniugando adeguatezza e flessibilità con i principi generali del sistema. Con tali strumenti gli enti locali verificano la funzionalità dell’organizzazione, attraverso l’analisi dei costi, delle funzioni, dei servizi e della loro produttività, in termini quantitativi e qualitativi (controllo direzionale), nonché l’adeguatezza delle scelte compiute, in termini di congruenza tra risultati conseguiti e obiettivi predefiniti (controllo strategico). Nelle attuali logiche di controllo vanno inseriti anche specifici strumenti di valutazione delle prestazioni del personale, in coerenza con le forme di controllo strategico e gestionale assunte dall'ente.
Come si è detto, l’art. 7, comma 7, della legge n. 131 del 2003 affida alla Corte di conti la verifica dell’effettivo funzionamento degli organi di controllo interno, con ciò sancendo un necessario raccordo, che sottende, anche alla luce della legge n. 20 del 1994, una diversità di ruoli e, allo stesso tempo, la loro interattività. In relazione all’esigenza generalmente condivisa di raccordo con i controlli esterni, un utile contributo potrà essere assicurato dagli studi condotti in materia dal Ministero dell’Interno (art. 7, comma 7, della legge n. 131 del 2003) e dai Consigli delle autonomie locali, in una logica di necessaria condivisione delle metodologie e delle finalità stesse del controllo.
In definitiva, nel rapporto tra controlli esterni ed interni, oltre ad individuare strumenti di coerenza metodologica, va costruito un sistema volto ad evitare duplicazioni o dispersioni di risorse e fornire effettiva risposta alle esigenze di funzionalità e di garanzia.
7.2.3. Controlli finanziari
Ad analoghi principi di valorizzazione dell’autonomia, ma al tempo stesso anche di raccordo con i controlli esterni, deve ispirarsi il nuovo quadro dei controlli più propriamente finanziari.
Nel rimettere agli statuti le concrete definizioni organizzative, il Comitato ritiene che vadano salvaguardati, a livello di normazione statale, taluni principi-base già presenti nel testo unico e nella generalità delle discipline settoriali di controllo. Ci si riferisce, in particolare, alla necessità di assicurare la presenza di un organo di revisione economico-finanziaria, per il quale gli statuti determinino il numero dei componenti, le modalità di nomina e la durata in carica, e i presupposti idonei a garantirne l’indipendenza, l’autonomia e la professionalità. Tali professionalità potrebbero rinvenirsi non solo tra le categorie già previste dal T.U.E.L. (iscritti nel registro dei revisori contabili, negli albi dei dottori commercialisti e dei ragionieri) ma anche tra magistrati della Corte dei conti in quiescenza e docenti universitari in materia di contabilità pubblica.
La vigente normativa, frutto di esperienze consolidate nel settore, i cui principi sono in linea di massima ritenuti tuttora validi, individua in capo all’organo di revisione un nucleo di funzioni “necessarie” di collaborazione con l’organo consiliare, che si traduce nell’espressione di pareri sulle proposte di documenti programmatici e di bilancio, come pure sul rendiconto, e nel suggerimento all’organo consiliare di misure atte ad assicurare l’attendibilità delle previsioni e la correttezza dei consuntivi.
Va sottolineato che la delega, alla lettera e) dell’art. 2, comma 4, prevede che gli statuti individuino anche modalità di intervento in relazione a compiti già rimessi ai Co.re.co., in particolare in materia finanziaria. E’ dunque necessario stabilire, con norma di principio, che gli statuti prevedano, per gli organi di revisione, l’obbligo di informare i consigli nei casi contemplati dagli artt. 193, comma 4, 243, comma 6, lettera b), 247 e 251 del T.U.E.L. e che, in caso di mancata adozione dei provvedimenti ivi previsti, vengano attivati gli strumenti di autotutela individuati dagli stessi statuti.
All’organo di revisione è affidata di norma anche la vigilanza sulla regolarità contabile, finanziaria ed economica della gestione.
In coerenza con le funzioni sopraindicate, si collocano anche i compiti affidati all’organo di revisione di rappresentare al consiglio, ai fini dell’adozione delle misure necessarie, gravi irregolarità di gestione, contabile e finanziaria (ferma restando l’eventuale denuncia ai competenti organi giurisdizionali ove si configurino ipotesi di responsabilità).
A chiusura del sistema, si può prevedere che, in caso di inerzia degli organi consiliari, l’organo di revisione o anche un suo componente informi di tali irregolarità la competente sezione regionale della Corte che è chiamata a verificare la “sana gestione finanziaria” degli enti locali. Detta sezione dovrebbe pronunciarsi in ordine alle irregolarità rispetto alle quali l’ente locale, nonostante la segnalazione, non abbia adottato le conseguenti misure correttive. In presenza di “gravi e persistenti violazioni di legge” di rilievo contabile e finanziario da parte dei Consigli, al loro accertamento formale ad opera della Corte dei conti dovrebbe seguire la comunicazione al Prefetto, ai fini dell’eventuale attivazione delle procedure di scioglimento dell’organo consiliare (art. 141 del T.U.E.L.).
La prevenzione generale delle irregolarità finanziarie potrebbe essere resa più agevole dalla creazione di un raccordo sistematico fra l’organo di controllo esterno e l’organo interno di revisione, il quale dovrebbe, pertanto, operare nell’osservanza di indirizzi e di parametri uniformi annualmente indicati dalla Corte dei conti.
A completamento del quadro prospettato, va segnalata la norma di cui all’art. 227 del T.U.E.L., ora ripresa dall’art. 28, comma 6, della legge n. 289 del 2002 (legge finanziaria 2003), in base alla quale gli enti locali inviano telematicamente alla Corte dei conti il rendiconto completo di allegati, le informazioni relative al rispetto del patto di stabilità interno, nonché i certificati del conto preventivo e consuntivo. In tale disposizione si ravvisa non solo un necessario adeguamento tecnologico ed informatico, ma uno strumento necessario all’esercizio di una funzione di garanzia del sistema, da realizzarsi sulla base di principi di trasparenza, tempestività e compiutezza delle informazioni ed insieme di semplificazione delle procedure a carico degli enti locali, superando in prospettiva l’attuale pluralità di adempimenti.
A conclusione, il Comitato evidenzia lo stretto raccordo tra regime dei controlli e principi dell’ordinamento finanziario e contabile più avanti esaminato, osservando come l’uniformità e la leggibilità dei bilanci, oltre a rendere effettiva ed operante l’accennata rete dei controlli, siano necessarie per garantire l’ordinata attuazione degli interventi perequativi e di sviluppo previsti dall’art. 119, terzo e quinto comma, della Costituzione.
8. Ordinamento finanziario e contabile
8.1 Competenza legislativa
L’adeguamento delle norme relative all’ordinamento finanziario e contabile (parte II del T.U.E.L.) presenta particolari difficoltà, tenuto conto che le disposizioni in parola disciplinano materie in parte riconducibili alla potestà legislativa concorrente (armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario) ed in parte alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, la cui base si rinviene nell’art. 117, secondo comma, lett. e (perequazione delle risorse finanziarie) e lett. m (determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni); come pure nei principi dell’art. 119 Cost. e segnatamente in quelli relativi agli interventi dello Stato, in funzione perequativa, di riequilibrio e di sviluppo.
In questo quadro, trovano fondamento anche le norme statali sul sistema della tesoreria e sul risanamento finanziario degli enti locali dissestati.
La competenza esclusiva dello Stato nell’ ambito del dissesto è fondata anche sulla presenza, nell’attuale disciplina, di norme di diritto civile e di diritto processuale (sospensione delle esecuzioni forzate, sospensione della decorrenza degli interessi moratori, ecc.).
8.2 Principi della delega
Ai fini dell’attuazione della delega di cui all’art. 2 della legge n. 131 del 2003, vengono in rilievo i criteri contenuti nelle lettere f) e g) del comma 4:
- il primo che prevede la definizione di una “disciplina idonea a garantire un ordinamento finanziario e contabile degli enti locali che consenta, sulla base di parametri obiettivi e uniformi, la rilevazione delle situazioni economiche e finanziarie degli enti locali ai fini dell’attivazione degli interventi previsti dall’art. 119, terzo e quinto comma, della Costituzione, anche tenendo conto delle indicazioni dell’Alta Commissione di studio di cui all’art. 3, comma 1, lettera b), della legge 27 dicembre 2002, n. 289”;
- il secondo che contempla l’adeguamento delle disposizioni che contrastano con il nuovo sistema costituzionale degli enti locali, comportando, per le norme che siano riconducibili alla competenza legislativa concorrente (armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica), la necessità di sostituire le attuali norme di dettaglio con norme di principio.
Tanto premesso, va considerato, in linea generale, che l’attuazione della delega di cui all’art. 2 della legge n. 131 del 2003, per la parte che attiene alla potestà legislativa concorrente spettante allo Stato in materia di ordinamento finanziario e contabile, pone indubbie esigenze di coordinamento con la delega contenuta nell’art. 1 della stessa legge. Quest’ultima disposizione, dopo aver previsto, al comma 3, che “Nelle materie appartenenti alla legislazione concorrente, le Regioni esercitano la potestà legislativa nell’ambito dei principi fondamentali espressamente determinati dallo Stato o, in difetto, quali desumibili dalle leggi statali vigenti.”, stabilisce, al successivo comma 4, che in sede di prima applicazione e fino all’entrata in vigore delle leggi con le quali il Parlamento definirà i nuovi principi fondamentali, il Governo è delegato ad adottare “uno o più decreti legislativi meramente ricognitivi dei principi fondamentali che si traggono dalle leggi vigenti, nelle materie previste dall’articolo 117, terzo comma, della Costituzione” .
In forza delle citate previsioni, il passaggio dalle vecchie alle nuove leggi di principio, nel cui ambito le Regioni potranno legiferare, avviene sulla base di un complesso meccanismo attuativo, ispirato a criteri di gradualità. Si pone, dunque, un problema di necessario raccordo con la Commissione che, presso la Presidenza del Consiglio, sta lavorando all’attuazione dell’art. 1, sì da evitare disallineamenti o contrasti di orientamenti.
In tale complessa materia il Comitato ritiene, comunque, che un utile punto di riferimento per le successive elaborazioni normative possa essere costituito anche dalle proposte formulate, in un apposito studio, dall’Osservatorio per la finanza e la contabilità degli enti locali, che siede presso il Ministero dell’interno.
Ferma la riserva di cui sopra, occorre, in ogni caso, considerare, che l’attuale ordinamento finanziario e contabile degli enti locali non contiene, di per sé, elementi sufficienti per costruire i parametri economici e finanziari cui si riferisce la lettera f), comma 4, dell’articolo 2 della legge n. 131 del 2003.
Lo stesso ordinamento necessita, dunque, di essere integrato secondo i criteri di cui alla stessa lettera f), tenendo conto anche delle indicazioni dell’Alta Commissione di cui all’articolo 3 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, a tutt’oggi non esplicitate. In proposito, vedasi anche quanto previsto dall’articolo 2, lettera c), comma 20, della legge finanziaria 2004 che fissa il termine dei lavori di detta Commissione al 30 settembre 2004.
Nonostante quanto detto, possono essere qui fornite talune indicazioni di massima che attengono:
- alla definizione, ai fini dell’attivazione del fondo perequativo di cui al terzo comma dell’articolo 119 della Costituzione, di nuovi principi fondamentali integrativi dell’ordinamento finanziario e contabile con l’inserimento di almeno due parametri: il gettito dei tributi (avuto riguardo anche alla sua composizione) e la base imponibile degli stessi;
- al mantenimento in vigore di quelle disposizioni che assicurano l’omogeneità dei contenuti degli elementi strutturali dei bilanci. In particolare, dovrebbe essere codificato il contenuto dell’unità elementare della spesa costituita dall’intervento, anche attraverso un esplicito rinvio a quanto previsto nel D.P.R. 31 gennaio 1996, n. 194. Detta codificazione garantirebbe una conoscenza uniforme della spesa degli enti locali, con particolare riferimento a quei settori socio-economici oggetto di intervento dello Stato, ai sensi dell’articolo 119 della Costituzione. Inoltre, dovrebbero essere confermate tutte quelle disposizioni che prevedono la redazione di documenti contabili, in base a specifici parametri gestionali, da adottare in vista dell’attuazione dell’articolo 119 della Costituzione.
Con riferimento, poi, ai criteri di cui alla lettera g), comma 4, dell’articolo 2, si dovrebbe procedere come segue:
- eliminazione e modifica di quelle disposizioni che non sono più in linea con l’attuale quadro costituzionale, estraendo da esse, se del caso, i corrispondenti principi, e ferma restando, comunque, l’esigenza di assicurare i requisiti minimi di uniformità di cui all’art. 4, comma 4, della legge 131;
- coordinamento con le modifiche da apportare nella parte I del testo unico;
- individuazione delle disposizioni così dette cedevoli, ossia delle norme che, secondo il nuovo quadro costituzionale, pur disciplinando settori che rientrano nella potestà normativa degli enti locali, non possono essere abrogate fino all’adozione della relativa disciplina locale, al fine di evitare un vuoto normativo.
Particolare attenzione occorre riservare, poi, alle modifiche che si intendono apportare ad alcune disposizioni, che disciplinano il risanamento degli enti locali dissestati, rammentando, in particolare, che, ai sensi dell’articolo 119, sesto comma, della Costituzione, gli enti locali possono indebitarsi solo per finanziare spese di investimento.
Si ricorda, inoltre, che, proprio in attesa che venga data attuazione allo stesso articolo 119 e che venga formulata da parte dell’Alta Commissione di cui all’articolo 3, comma 1, lettera b), della legge n. 289 del 2002, la proposta al Governo in ordine ai principi generali del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, le disposizioni che consentivano agli enti locali dissestati di assumere mutui a totale carico dello Stato per il ripiano dell’indebitamento pregresso sono state abrogate dall’articolo 31, comma 15, della stessa legge.
Nel procedere alla revisione di questa parte del T.U.E.L. si segnala, infine, l’opportunità di tenere presenti le disposizioni contenute nell’ultima legge finanziaria che investono la materia, comportando innovazioni talora di non poco rilievo.
* * *
Come emerge dalla lettura della presente relazione, i temi che sono stati affrontati non mancano di rilevanti aspetti di problematicità, tali da dar luogo sovente anche a posizioni differenziate, delle quali non si è mancato di dar puntualmente conto.
Il Comitato, in relazione ai compiti ad esso affidati dal decreto istitutivo, conferma naturalmente la propria disponibilità per ogni ulteriore esigenza di riflessione e di approfondimento che l’On.le Ministro dovesse richiedere, in ordine all’attuazione della delega di cui all’articolo 2 della legge n. 131 del 2003.

Roma, 6 febbraio 2004

Il Presidente del Comitato




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