RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 4 gennaio 2010, n. 1
Ricorso per questione di legittimita'  costituzionale  depositato  in
cancelleria il 4 gennaio 2010 (della Regione Marche). 
 
(GU n. 6 del 10-2-2010) 
  
    Ricorso della Regione  Marche,  in  persona  del  Presidente  pro
tempore della Giunta regionale, a cio' autorizzato con  deliberazione
della Giunta regionale n. 2116 del 14 dicembre 2009, rappresentato  e
difeso dall'avv. prof. Stefano Grassi  ed  elettivamente  domiciliato
presso lo studio di quest'ultimo in Roma, piazza Barberini  12,  come
da procura speciale notaio dott. Stefano Sabatini rep. 50.247 del  23
dicembre 2009; 
    Contro lo Stato, in persona  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri  pro  tempore,  per  la  dichiarazione   di   illegittimita'
costituzionale in parte qua dell'art. 40, comma 1,  lettera  f),  del
decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150 (Attuazione della legge 4
marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione  della  produttivita'
del lavoro pubblico e di efficienza  e  trasparenza  delle  pubbliche
amministrazioni), pubblicato  nella  Gazzetta  Ufficiale  31  ottobre
2009, n. 254, S.O., per violazione degli articoli 76 e 117, comma  4,
della Costituzione. 
 
                              F a t t o 
 
    1. - Con l'art. 40 del decreto legislativo 27  ottobre  2009,  n.
150, il Governo ha modificato l'art. 19 del d.lgs. 30 marzo 2001,  n.
165, in attuazione della delega legislativa contenuta negli artt. 2 e
6 della legge 4 marzo 2009, n. 15. 
    In particolare, per quanto rileva in questa sede, il citato  art.
2 della legge di delegazione individuava, al comma 1, l'oggetto della
delega al Governo: «Adottare, senza nuovi o maggiori oneri  a  carico
della finanza pubblica, entro il termine di nove mesi dalla  data  di
entrata  in  vigore  della  presente  legge,  uno  o   piu'   decreti
legislativi volti a riformare, anche mediante  modifiche  al  decreto
legislativo 30 marzo 2001, n. 165,  la  disciplina  del  rapporto  di
lavoro  dei  dipendenti  delle  pubbliche  amministrazioni,  di   cui
all'articolo 2, comma  2,  del  medesimo  decreto  legislativo,  come
modificato dall'articolo 1 della presente  legge,  e  della  relativa
contrattazione collettiva». 
    Il comma 2  del  medesimo  art.  2  della  legge  di  delegazione
prevedeva poi i principi e criteri direttivi generali  della  delega,
stabilendo che «i decreti legislativi di cui al comma 1 sono adottati
nell'osservanza dei principi e criteri direttivi fissati dai seguenti
articoli, nonche' nel rispetto del principio di pari opportunita', su
proposta   del   Ministro   per   la   pubblica   amministrazione   e
l'innovazione, di concerto con  il  Ministro  dell'economia  e  delle
finanze, e, previa intesa in sede  di  Conferenza  unificata  di  cui
all'articolo 8 del decreto legislativo 28  agosto  1997,  n.  281,  e
successive   modificazioni,   relativamente   all'attuazione    delle
disposizioni di cui agli articoli 3, comma 2, lettera a), 4, 5  e  6,
nonche'  previo  parere  della  medesima   Conferenza   relativamente
all'attuazione delle restanti disposizioni della presente legge, sono
trasmessi alle Commissioni parlamentari competenti per materia e  per
i profili finanziari, le quali  esprimono  il  proprio  parere  entro
sessanta giorni dalla data della trasmissione; decorso tale  termine,
i decreti sono adottati anche in  mancanza  del  parere.  Qualora  il
termine per l'espressione del parere parlamentare  scada  nei  trenta
giorni che precedono la scadenza del termine previsto al comma  1,  o
successivamente,  quest'ultimo  termine  e'  prorogato  di   sessanta
giorni». 
    Il successivo art. 6 della medesima legge di delegazione, rivolto
specificamente alla fissazione dei principi e criteri direttivi della
delega in materia di  dirigenza  pubblica,  al  comma  2,  lett.  h),
vincolava il legislatore delegato al rispetto del seguente  principio
e  criterio  direttivo:  «Ridefinire  i  criteri   di   conferimento,
mutamento  o  revoca  degli  incarichi  dirigenziali,  adeguando   la
relativa disciplina ai principi di trasparenza e  pubblicita'  ed  ai
principi desumibili anche dalla giurisprudenza costituzionale e delle
giurisdizioni  superiori,  escludendo   la   conferma   dell'incarico
dirigenziale  ricoperto  in  caso  di  mancato   raggiungimento   dei
risultati valutati sulla base dei criteri e degli obiettivi  indicati
al momento del  conferimento  dell'incarico,  secondo  i  sistemi  di
valutazione adottati dall'amministrazione, e ridefinire, altresi', la
disciplina relativa  al  conferimento  degli  incarichi  ai  soggetti
estranei  alla  pubblica   amministrazione   e   ai   dirigenti   non
appartenenti ai ruoli, prevedendo comunque la riduzione,  rispetto  a
quanto previsto dalla normativa vigente, delle quote  percentuali  di
dotazione organica entro  cui  e'  possibile  il  conferimento  degli
incarichi medesimi». 
    L'art. 40, comma 1, lettera f), del d.lgs. n.  150  del  2009  ha
introdotto due nuovi commi nell'art. 19 del d.lgs. n.  165  del  2001
(dedicato alla disciplina degli incarichi di funzioni  dirigenziali),
stabilendo che «dopo il comma 6 sono inseriti i seguenti: 
        "6-bis.  Fermo  restando  il  contingente   complessivo   dei
dirigenti  di  prima  o  seconda  fascia   il   quoziente   derivante
dall'applicazione delle percentuali previste dai commi 4, 5-bis e  6,
e'  arrotondato  all'unita'  inferiore,  se  il  primo  decimale   e'
inferiore a cinque, o all'unita'  superiore,  se  esso  e'  uguale  o
superiore a cinque. 
        6-ter. Il comma  6  ed  il  comma  6-bis  si  applicano  alle
amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2.". 
    Proprio grazie a quest'ultimo richiamo, dunque, la disciplina  di
cui ai commi 6 e 6-bis dell'art.  19  del  d.lgs.  n.  165  del  2001
risulta inequivocamente indirizzata ad applicarsi anche alle regioni,
alle province, ai comuni, alle comunita' montane, e ai loro  consorzi
e associazioni. 
    Il citato comma 6 dell'art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001,  nella
formulazione oggi vigente (anche a seguito dei «ritocchi»  introdotti
dallo stesso art. 40 del d.lgs. n. 150 del 2009),  cosi'  stabilisce:
«Gli incarichi di cui ai commi da 1 a 5 possono essere conferiti,  da
ciascuna amministrazione, entro il limite  del  10  per  cento  della
dotazione organica dei dirigenti appartenenti alla prima  fascia  dei
ruoli di cui all'articolo 23  e  dell'8  per  cento  della  dotazione
organica  di  quelli  appartenenti  alla  seconda  fascia,  a   tempo
determinato ai soggetti indicati dal presente  comma.  La  durata  di
tali incarichi, comunque, non puo' eccedere,  per  gli  incarichi  di
funzione dirigenziale di cui ai commi 3 e 4, il termine di tre  anni,
e, per gli altri incarichi di funzione  dirigenziale  il  termine  di
cinque anni. Tali  incarichi  sono  conferiti,  fornendone  esplicita
motivazione, a persone di  particolare  e  comprovata  qualificazione
professionale, non rinvenibile nei  ruoli  dell'Amministrazione,  che
abbiano svolto attivita' in organismi  ed  enti  pubblici  o  privati
ovvero aziende pubbliche  o  private  con  esperienza  acquisita  per
almeno  un  quinquennio  in  funzioni  dirigenziali,  o  che  abbiano
conseguito una particolare specializzazione professionale,  culturale
e   scientifica   desumibile   dalla   formazione   universitaria   e
postuniversitaria,  da  pubblicazioni  scientifiche  e  da   concrete
esperienze di lavoro maturate per almeno un quinquennio, anche presso
amministrazioni statali, ivi comprese  quelle  che  conferiscono  gli
incarichi,  in  posizioni  funzionali  previste  per  l'accesso  alla
dirigenza, o che provengano dai settori della ricerca, della  docenza
universitaria, delle  magistrature  e  dei  ruoli  degli  avvocati  e
procuratori  dello  Stato.  Il  trattamento  economico  puo'   essere
integrato da una indennita' commisurata alla specifica qualificazione
professionale, tenendo conto della temporaneita' del rapporto e delle
condizioni   di   mercato   relative   alle   specifiche   competenze
professionali. Per il periodo di durata dell'incarico,  i  dipendenti
delle pubbliche amministrazioni sono collocati in  aspettativa  senza
assegni, con riconoscimento dell'anzianita' di servizio». 
    Tutta  la  disciplina  appena  richiamata,  nella  parte  in  cui
pretende di applicarsi anche alle amministrazioni  regionali,  incide
direttamente su materia gia'  integralmente  regolata  dalla  Regione
Marche con la legge reg. 15 ottobre 2001, n. 20 («Norme in materia di
organizzazione e di personale della Regione»). 
    In particolare, rileva in questa sede quanto  disposto  dall'art.
28, in special modo, nei commi da 3 a 3-quater: 
        «3. Fermo restando  il  vincolo  numerico  della  complessiva
dotazione organica della qualifica dirigenziale di  cui  all'articolo
34, comma 2, gli incarichi di cui al comma 1 possono essere conferiti
anche a soggetti esterni all'Amministrazione regionale con  contratto
a termine di diritto privato, sino  al  10  per  cento  della  stessa
dotazione. Oltre al  requisito  di  cui  all'articolo  26,  comma  3,
lettera  a),  e'  richiesta  un'esperienza  almeno  quinquennale   in
funzioni dirigenziali attinenti alla posizione  da  ricoprire  ovvero
una   particolare   specializzazione   professionale,   culturale   e
scientifica   desumibile    dalla    formazione    universitaria    e
post-universitaria,  da  pubblicazioni  scientifiche  o  da  concrete
esperienze di lavoro maturate in posizioni  funzionali  previste  per
l'accesso alla dirigenza ovvero  la  provenienza  dai  settori  della
ricerca, della docenza universitaria, delle magistrature e dei  ruoli
degli avvocati e procuratori dello Stato. Il trattamento economico e'
determinato in corrispondenza con quello previsto per le posizioni da
ricoprire, secondo  quanto  previsto  dal  contratto  collettivo  per
l'area  della  dirigenza.  Il  trattamento  economico  del  dirigente
competente in materia di sanita' e' definito sulla base dei parametri
di cui all'articolo 27, comma 4.  Per  la  durata  dell'incarico  non
possono essere conferiti  ai  dirigenti  di  cui  al  presente  comma
incarichi di funzione dirigenziale diversi da  quelli  per  cui  sono
stati assunti. Sulla base  dei  medesimi  parametri  e'  definito  il
trattamento economico dei dirigenti dei servizi nel caso in cui  alla
regione sia  affidato  il  coordinamento  di  una  delle  commissioni
istituite nell'ambito della Conferenza delle regioni e delle province
autonome  e  ai  medesimi  dirigenti  sia  affidato   l'incarico   di
coordinamento della relativa commissione tecnica. 
        3-bis. Gli  incarichi  di  cui  al  comma  3  possono  essere
conferiti solo in casi eccezionali e straordinari e  comunque  quando
il loro espletamento richieda conoscenze ed esperienze  eccedenti  le
normali  competenze  del  personale  dipendente   ovvero   conoscenze
specifiche   che   non   si   possono    riscontrare    nell'apparato
amministrativo.  In  particolare  l'incarico   a   soggetti   esterni
all'amministrazione e' conferito: 
          a) previo accertamento, mediante apposito atto ricognitivo,
dell'inesistenza all'interno  dell'organizzazione  amministrativa  di
personale in possesso della specifica professionalita' richiesta; 
          b)  mediante   ricorso   a   metodologie   qualificate   di
valutazione e selezione dei curricula; 
          c) con atto motivato attestante la proporzionalita' tra  il
compenso attribuito e l'utilita' conseguita dall'amministrazione. 
        3-ter. Fermo restando il vincolo numerico  della  complessiva
dotazione organica della qualifica dirigenziale di  cui  all'articolo
34, comma 2, gli incarichi di posizione dirigenziale di progetto e di
funzione possono essere conferiti con contratto a  tempo  determinato
di diritto pubblico, a dipendenti regionali di categoria  D  a  tempo
indeterminato in possesso dei requisiti di cui al comma 3-quater, per
la copertura dei posti vacanti della stessa dotazione. Gli  incarichi
sono  conferiti  mediante  specifica  selezione,  secondo  criteri  e
modalita' definiti dalla  Giunta  regionale,  sentita  la  competente
Commissione consiliare, previa concertazione  con  le  organizzazioni
sindacali. Per la durata dell'incarico i  dipendenti  regionali  sono
collocati  in   aspettativa   senza   assegni,   con   riconoscimento
dell'anzianita' di servizio. 
        3-quater. Per il conferimento degli incarichi di cui al comma
3-ter e' necessario il possesso dei seguenti requisiti: 
          a) diploma di laurea conseguente  ad  un  corso  di  durata
almeno quadriennale o di laurea specialistica; 
          b)    una    specializzazione    professionale    altamente
qualificata, desumibile da concrete  esperienze  di  lavoro  maturate
presso pubbliche amministrazioni, enti di diritto pubblico o  aziende
pubbliche o private, della durata di almeno tre anni». 
    Come si puo' osservare,  con  una  disciplina  caratterizzata  da
limiti e modalita' di selezione assai  rigorosi,  la  Regione  Marche
prevede sostanzialmente due categorie  di  soggetti  quali  possibili
affidatari di incarichi dirigenziali a contratto: quelli indicati nel
comma 3 dell'art.  28,  ossia  soggetti  esterni  all'Amministrazione
regionale, per i quali e' imposto il limite  massimo  del  10%  della
dotazione organica complessiva della qualifica dirigenziale, e quelli
indicati nel comma 3-ter  del  medesimo  art.  28,  ossia  dipendenti
regionali  di  categoria  D  con   rapporto   di   lavoro   a   tempo
indeterminato, per i quali vale il limite della copertura  dei  posti
resisi vacanti in conseguenza di cessazioni dal servizio di dirigenti
a tempo indeterminato. 
    Tale disciplina regionale, pur conforme alla ratio (e,  in  larga
parte,  anche   alla   lettera)   delle   corrispondenti   previsioni
legislative statali, non trova coincidenza con i nuovi vincoli che il
legislatore delegato del d.lgs. n. 150 del 2009 intenderebbe  imporre
alle Regioni: da un lato, con il limite complessivo del 10% dei posti
della dotazione organica dirigenziale per l'affidamento di tutti  gli
incarichi a contratto e con l'annesso limite soggettivo dei possibili
affidatari riferito ai soli  soggetti  estranei  all'Amministrazione;
dall'altro, con il  criterio  di  arrotondamento  automatico  per  il
calcolo del suddetto limite percentuale, all'unita' inferiore qualora
il primo decimale sia  inferiore  a  cinque  o  all'unita'  superiore
qualora esso sia uguale o superiore a cinque. 
    2. -  La  Regione  Marche,  con  la  deliberazione  della  Giunta
indicata in epigrafe, ha espresso la volonta' di impugnare davanti  a
questa Corte la citata  disposizione  del  d.lgs.  n.  150  del  2009
perche' costituzionalmente illegittima e lesiva dell'autonomia che la
Costituzione riconosce e garantisce alla stessa  Regione  ricorrente,
per le seguenti ragioni di 
 
                            D i r i t t o 
 
    3. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 40, comma  1,  lett.
f), del d.lgs. indicato,  per  violazione  dell'art.  117,  comma  4,
Cost., il quale attribuisce  alle  Regioni  la  potesta'  legislativa
residuale nella materia «organizzazione amministrativa e  ordinamento
del personale della Regione». 
    Come si e'  gia'  dato  conto  nelle  pagine  che  precedono,  la
disposizione censurata modifica l'art. 19 del d.lgs. 30  marzo  2001,
n. 165, introducendovi due nuovi commi, il 6-bis e il 6-ter, i  quali
- per quanto rileva in questa sede -  stabiliscono,  rispettivamente,
nuove modalita' di calcolo dei limiti percentuali complessivi per  il
conferimento,  con  contratti  a  tempo  determinato,  di   incarichi
dirigenziali a personale esterno ai ruoli della  dirigenza  pubblica,
nonche' l'applicabilita' anche alle amministrazioni regionali e  agli
enti  locali  territoriali  delle  limitazioni  previste   per   tale
conferimento nei commi 6 e 6-bis. 
    Cosi' facendo e, in particolare, rendendo la suddetta  disciplina
direttamente applicabile anche  agli  apparati  amministrativi  delle
regioni, il legislatore statale ha evidentemente invaso la competenza
legislativa regionale nella materia «organizzazione amministrativa  e
ordinamento  del   personale   della   regione»,   competenza   ormai
riconosciuta   dalla   consolidata   giurisprudenza    della    Corte
costituzionale, secondo la quale «la regolamentazione delle modalita'
di accesso al lavoro pubblico regionale e' riconducibile alla materia
dell'organizzazione  amministrativa  delle  regioni  e   degli   enti
pubblici regionali e rientra nella competenza residuale delle regioni
di cui all'art. 117, quarto comma, della  Costituzione»  (sentt.  nn.
95/2008, 233/2006, 380 e 2/2004, 274/2003). 
    La disciplina legislativa in questione e' indubbiamente rivolta a
regolare le sole «modalita' di accesso» al lavoro (in particolare,  a
quello di dirigente) presso le amministrazioni e, nella parte in  cui
si applica alle amministrazioni dello  Stato  e  agli  enti  pubblici
nazionali,  deve  essere  ricondotta  alla  materia  di  legislazione
esclusiva statale di cui  all'art.  117,  secondo  comma,  lett.  g),
Cost., non potendo in alcun modo - per come  essa  e'  configurata  -
ritenersi riconducibile ad eventuali altri titoli  di  legittimazione
della potesta'  legislativa  dello  Stato  contenuti  nell'art.  117,
secondo e terzo  comma,  Cost.  (quali,  in  ipotesi,  l'«ordinamento
civile» o il «coordinamento della finanza pubblica»),  come  tali  in
grado di consentire al  legislatore  statale  di  vincolare  anche  i
legislatori regionali. 
    3.1.   -   Quanto   alla   materia   «ordinamento   civile»,   la
giurisprudenza di questa Corte ha ormai  chiarito  inequivocabilmente
che tale titolo  di  intervento  legislativo  dello  Stato  comprende
senz'altro ogni aspetto concernente la  regolazione  degli  strumenti
riguardanti le relazioni inter privatos, quand'anche a tali strumenti
faccia ricorso una amministrazione pubblica (cosi',  ad  esempio,  la
sent. n. 322  del  2008,  concernente  «le  regole  contrattuali  che
disciplinano i rapporti privati», o le sentt. nn. 411 del 2008, 401 e
431 del 2007, relativamente alla fase negoziale  della  procedura  di
evidenza pubblica). Altrettanto chiaramente, pero', la giurisprudenza
ha evidenziato corna si resti al di fuori dell'ambito di tale materia
ove vengano in  rilievo  norme  volte  a  disciplinare  le  modalita'
tramite  le  quali  (o  i  limiti  entro  i   quali)   le   pubbliche
amministrazioni possano far ricorso a questi strumenti. 
    In tal senso depone, inequivocabilmente,  la  sent.  n.  159  del
2008, la quale ha  escluso  che  norme  che  definiscono  «il  numero
complessivo, i compensi e le indennita' dei componenti del  consiglio
di amministrazione delle "societa' a totale partecipazione di  comuni
o province" o delle "societa' a partecipazione mista di enti locali e
altri soggetti pubblici o  privati",  non  quotate  in  borsa»  siano
riconducibili  all'ordinamento  civile,   poiche'   esse   concernono
soltanto i «limiti alle forme di partecipazione degli enti locali  in
societa' di diritto privato» e non, viceversa, il regime giuridico di
queste ultime (par. 7.1 del Considerato in diritto). 
    Una conferma - anche se da altro  punto  di  vista  -  di  quanto
sostenuto in queste sede e' reperibile inoltre nella sent. n. 411 del
2006, nella quale questa Corte ha riconosciuto  la  pertinenza  della
norma oggetto del giudizio all'«ordinamento civile» in quanto volta a
disciplinare il potere dei soggetti di diritto  di  porre  in  essere
fenomeni di autonomia negoziale.  E'  del  tutto  evidente  che  tale
circostanza non ricorre nel caso di specie, posto  che  la  normativa
che  in  questa  sede  si  contesta  non  si  risolve  affatto  nella
regolazione dell'esercizio dell'autonomia negoziale: viceversa,  essa
pone dei limiti alle ipotesi in cui la pubblica amministrazione  puo'
fare uso di tale autonomia, restando  ferma  la  disciplina  del  suo
esercizio e dei rapporti contrattuali che ne derivino. 
    Per quel che qui specificamente interessa, infatti,  deve  essere
evidenziato che -  alla  luce  delle  argomentazioni  svolte  -  puo'
ritenersi di  competenza  legislativa  esclusiva  statale  in  virtu'
dell'art. 117, comma 2, lett. l), Cost., solo cio' che  concerne  gli
effetti e le modalita' dell'esercizio dell'autonomia negoziale, ed in
particolare il regime giuridico del  rapporto  di  lavoro  presso  le
pubbliche amministrazioni, e non, viceversa, quanto attiene ai limiti
ed alle forme  del  conferimento  dell'incarico  (anche  mediante  la
stipula di contratti), profili che invece ricadono  senz'altro  nella
materia, di competenza  residuale  regionale,  della  «organizzazione
amministrativa delle regioni e degli enti pubblici regionali». 
    Tale conclusione risulta inequivocabilmente confermata dalla gia'
citata sent. n. 233 del 2006, la quale ha ritenuto  non  contrastante
con la competenza esclusiva dello Stato in  materia  di  «ordinamento
civile» una normativa regionale concernente la scadenza  del  termine
di durata dell'incarico dirigenziale, in  quanto  essa  attiene  agli
effetti ed «alla operativita' del provvedimento che lo ha  conferito»
e non all' eventuale  «sottostante  rapporto  di  lavoro  di  diritto
privato» (punto 4.2. del Considerato in diritto).  Analogamente,  del
resto, questa Corte ha deciso con la sent. n. 29  del  2006,  che  ha
ritenuto non contrastante con l'art. 117, comma 2, lett. l), Cost. la
normativa regionale impugnata dal Governo che  faceva  divieto  «alle
societa' a capitale interamente pubblico, alle quali sia affidato  in
via  diretta  la  gestione  di  un  servizio  pubblico   locale,   il
conferimento di  incarichi  professionali,  di  collaborazione  e  di
qualsiasi altro genere in favore di persone e/o di societa' legate da
rapporti di dipendenza e/o di collaborazione con l'ente  o  gli  enti
titolari del capitale sociale». Cio'  in  quanto  essa  non  incideva
sulla disciplina  del  contratto,  neanche  di  quello  stipulato  in
contrasto con tale  disposizione,  poiche'  le  conseguenze  di  tale
stipula avrebbero dovuto «essere eventualmente verificate in sede  di
giudizio davanti alla  competente  autorita'  giudiziaria  ordinaria»
(part. 14 e 15 del Considerato in diritto). 
    Questa giurisprudenza ha  dunque  chiarito  che  il  confine  tra
profili    organizzativi    regionali    e     profili     rientranti
nell'«ordinamento  civile»  separa   gli   aspetti   attinenti   alla
regolazione del rapporto di lavoro  -  i  quali  sono  senz'altro  da
ricomprendere in quest'ultima  materia  -  e  quelli  attinenti  alle
modalita' e ai limiti della instaurazione e della cessazione di  tale
rapporto,  i  quali  ineriscono  senza  dubbio  alla  materia   della
«organizzazione amministrativa delle Regioni e  degli  enti  pubblici
regionali». 
    3.2. - Quale eventuale fondamento  della  competenza  legislativa
statale a dettare la disciplina impugnata vincolando le  attribuzioni
spettanti alla Regione non puo' neppure essere invocata la materia di
potesta' concorrente «coordinamento della finanza pubblica». 
    Le norme in questione non hanno ne' la finalita' ne', tanto meno,
l'effetto  concreto  di  determinare  il  contenimento  della   spesa
pubblica   complessiva   per   la   remunerazione   delle    funzioni
dirigenziali. Il conferimento di incarichi di dirigente a  contratto,
infatti, sempre che avvenga entro i confini della dotazione  organica
e, dunque, per i soli posti resisi vacanti, non puo', per sua  stessa
natura,  determinare  alcuna  spesa  maggiore  per  l'Amministrazione
conferente. 
    D'altronde, la  dimostrazione  piu'  evidente  che  la  normativa
impugnata non e' in grado di produrre alcun effetto  di  contenimento
della spesa pubblica e' costituita dal  fatto  che  l'estensione  del
limite delle quote percentuali rispetto  alla  dotazione  organica  a
tutti gli incarichi  dirigenziali  a  contratto,  accompagnata  dalla
riserva   di   tali   incarichi    ai    soli    soggetti    estranei
all'Amministrazione conferente (cosi' come risulta dal nuovo comma  6
dell'art. 19 del d.lgs. n. 165 del  2001),  finisce  per  vietare  il
conferimento di  incarichi  dirigenziali  al  personale  interno  non
avente  qualifica  di  dirigente  (cosi'  come  attualmente  previsto
dall'art. 28, comma 3-ter, della legge reg. Marche n. 20  del  2001),
con cio' impedendo, di fatto, il relativo risparmio di spesa che  una
simile soluzione inevitabilmente comporta. 
    In ogni caso, anche a voler ritenere che la normativa impugnata -
non si sa come - abbia l'effetto di  imporre  il  contenimento  della
spesa pubblica,  tale  disciplina  non  potrebbe  comunque  ritenersi
conforme ai limiti che la consolidata giurisprudenza di questa  Corte
ha avuto modo di individuare in relazione alla  potesta'  legislativa
statale di  «coordinamento  della  finanza  pubblica».  Come  risulta
precisato a chiare lettere, ad esempio, nella sent. n. 120  del  2008
(par.  5  del  Considerato  in  diritto),   «e'   ormai   consolidato
l'orientamento secondo cui norme  statali  che  fissano  limiti  alla
spesa delle Regioni e degli enti locali possono qualificarsi principi
fondamentali di coordinamento della finanza  pubblica  alla  seguente
duplice condizione: in primo luogo, che si limitino a porre obiettivi
di riequilibrio della medesima, intesi nel senso  di  un  transitorio
contenimento  complessivo,  anche  se  non  generale,   della   spesa
corrente; in secondo luogo,  che  non  prevedano  in  modo  esaustivo
strumenti o modalita' per il  perseguimento  dei  suddetti  obiettivi
(sentenze n. 412 e n. 169 del 2007; n. 88 del 2006)». 
    Le norme statali  in  questione,  a  tutta  evidenza,  non  hanno
carattere transitorio o temporaneo  e,  per  di  piu',  impongono  un
vincolo  puntuale  e  specifico  che  non  lascia  alcun  margine  di
attuazione al libero apprezzamento del legislatore  regionale.  Anche
sotto tale profilo, pertanto, la disciplina impugnata non potrebbe in
alcun modo essere qualificata come «principi di  coordinamento  della
finanza pubblica». 
    3.3. - Per tutte le ragioni fin qui esposte, la disposizione  che
si impugna e' costituzionalmente illegittima nella parte in cui rende
applicabile alle regioni la disciplina dell'art. 19, commi 6 e 6-bis,
del d.lgs. n. 165 del 2001. 
    4. - L'illegittimita' costituzionale dell'art. 40, comma 1, lett.
f), del d.lgs. indicato,  per  violazione  dell'art.  117,  comma  4,
Cost., il quale attribuisce  alle  Regioni  la  potesta'  legislativa
residuale nella materia «organizzazione amministrativa e  ordinamento
del  personale  dei   comuni,   delle   province   e   delle   citta'
metropolitane». 
    Per le medesime ragioni appena illustrate, il legislatore statale
non dispone di un titolo di potesta' legislativa  che  lo  abiliti  a
disciplinare  le  «modalita'  di  accesso  al   lavoro»   presso   le
amministrazioni   degli    enti    locali    territoriali,    potendo
esclusivamente, in riferimento a tali enti, regolare la materia della
«legislazione elettorale, organi di governo e  funzioni  fondamentali
di comuni, province e citta' metropolitane» come  previsto  dall'art.
117, secondo comma, lett. p), Cost. 
    La regione, dunque, in base all'art. 117, quarto comma,  Cost.  e
fatta salva la suddetta competenza statale per  la  disciplina  degli
organi di governo e delle funzioni  fondamentali  degli  enti  locali
territoriali, nonche' la possibilita', per lo Stato,  di  intervenire
nell'ambito materiale dell'ordinamento degli enti locali in  base  ad
ulteriori titoli di legittimazione reperiti  negli  secondo  e  terzo
comma dell'art. 117 Cost., e'  titolare  della  potesta'  legislativa
residuale nella materia «organizzazione amministrativa e  ordinamento
del  personale  dei   Comuni,   delle   province   e   delle   citta'
metropolitane», ancorche' con il limite del  rispetto  dell'autonomia
organizzativa costituzionalmente riconosciuta a tali enti. 
    Tale competenza legislativa  regionale  risulta  illegittimamente
invasa dalla disposizione statale censurata, la quale,  pertanto,  e'
costituzionalmente  illegittima  anche  nella  parte  in  cui   rende
applicabile ai comuni, alle province e alle citta'  metropolitane  la
disciplina dell'art. 19, commi 6 e 6-bis, del d.lgs. n. 165 del 2001. 
    4.1.  -  Questa  difesa  e'  consapevole   del   fatto   che   la
giurisprudenza di questa Corte ha affermato che «con riferimento alle
regioni a statuto  ordinario,  spetta  al  legislatore  statale  (..)
disciplinare i profili organizzativi concernenti l'ordinamento  degli
enti locali» (sent. n. 159 del 2008), e  cio'  in  quanto  «il  nuovo
testo dell'art. 117 della Costituzione ha sostanzialmente confermato,
sul punto, il previgente sistema, nel quale le regioni  ordinarie,  a
differenza  di  quelle  a  statuto  speciale,  non   avevano   alcuna
competenza in materia di ordinamento degli enti  locali  appartenenti
al rispettivo territorio» (sent. n. 337 del 2003; nel medesimo  senso
anche la sent. n. 48 del 2003). 
    La regione ricorrente intende pero' evidenziare, in primo  luogo,
come le affermazioni appena richiamate non possano vantare a  proprio
sostegno,  nelle  medesime  decisioni  che  le   contengono,   alcuna
motivazione o argomentazione specifica; in secondo luogo, come esse -
ad ulteriore riprova della loro infondatezza - non  trovino  conferma
in altre decisioni della stessa  Corte  costituzionale,  dalle  quali
risultano smentite, chiaramente anche se implicitamente. 
    In particolare, ci si riferisce alle sentt. nn.  244  e  456  del
2005 e 237 del 2009 in tema di comunita' montane. 
    La sent. n. 244 del 2005 dichiara infondate alcune  questioni  di
legittimita' costituzionale proposte in via incidentale nei confronti
dell'art. 17 della legge della Regione Molise 8 luglio  2002,  n.  12
(Riordino e ridefinizione delle comunita' montane).  In  particolare,
qui interessano le motivazioni addotte a  sostegno  dell'infondatezza
della censura che invocava,  quale  parametro,  l'art.  117,  secondo
comma, lett. p), Cost. 
    Sul punto,  la  sent.  n.  244  del  2005  prende  le  mosse  dal
riconoscimento   -   ormai    consolidato,    nella    giurisprudenza
costituzionale - della natura di ente locale delle comunta'  montane.
In particolare, si tratta «di un caso speciale di unioni di  comuni»,
«create in vista della valorizzazione delle zone montane, allo  scopo
di esercitare, in modo piu' adeguato di quanto non  consentirebbe  la
frammentazione dei  comuni  montani,  "funzioni  proprie",  "funzioni
conferite" e funzioni comunali» (cosi' anche  la  sent.  n.  229  del
2001), caratterizzate peraltro da un regime di autonomia  «(non  solo
dalle regioni ma anche)  dai  comuni,  come  dimostra,  tra  l'altro,
l'espressa attribuzione [alle stesse]  della  potesta'  statutaria  e
regolamentare». 
    Cio' e' sufficiente  per  ritenere  che  la  normativa  regionale
concernente le comunita' montane non viola l'art. 117, secondo comma,
lett. p), Cost.,  «in  quanto  la  citata  disposizione  fa  espresso
riferimento ai comuni, alle province e alle  citta'  metropolitane  e
l'indicazione  deve  ritenersi  tassativa».  Da  tale  premessa   «la
conseguenza  che  la  disciplina  delle  comunita'  montane,  pur  in
presenza della loro qualificazione come  enti  locali  contenuta  nel
d.lgs.  n.  267  del  2000,  rientra  nella  competenza   legislativa
residuale delle regioni ai sensi dell'art. 117, quarto  comma,  della
Costituzione». 
    Dalla sent. n. 244 del 2005 risulta chiaramente, dunque, che  non
basta la qualificazione delle Comunita' montane  come  «enti  locali»
per fondare una qualsivoglia competenza statale in relazione ad esse.
E   cio'   perche',   evidentemente,   non   esiste   nessuna   norma
costituzionale che attribuisce allo Stato una competenza generale  in
materia di enti locali. L'unica norma che e' espressamente rivolta  a
disciplinare  la  competenza  legislativa  su  tale  oggetto  e'   il
menzionato art. 117, secondo comma, lett. p) , Cost., il quale limita
il titolo di intervento statale non soltanto in relazione  al  «tipo»
di enti locali (comuni, province e comunita' montane),  ma  anche  in
relazione  agli  aspetti   degli   ordinamenti   di   questi   ultimi
(legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali). 
    E' dunque del tutto evidente che - per la sent. n. 244 del 2005 -
il legislatore statale ha soltanto  il  titolo  per  disciplinare  la
legislazione  elettorale,  gli  organi  di  governo  e  le   funzioni
fondamentali di comuni, province e citta' metropolitane, mentre -  in
relazione ad enti locali diversi rispetto a quelli menzionati  -  non
dispone neanche di tale titolo. 
    Ad  ulteriore  conferma  di  questa  conclusione   e'   possibile
menzionare il rifiuto, da parte della sent. n. 244  del  2005,  della
applicazione analogica -  pur  richiesta  dal  giudice  rimettente  -
dell'art. 117, secondo comma, lett. p) ,  Cost.  Secondo  l'ordinanza
che aveva sollevato la questione, infatti, la competenza  statale  di
cui  alla  disposizione  da  ultimo  menzionata  si  sarebbe   dovuta
riconoscere in via analogica anche in relazione ai  medesimi  aspetti
ivi considerati in relazione alle comunita' montane.  Questa  ipotesi
e' respinta dalla sent. n. 244, ma non a causa della assenza  di  una
«somiglianza rilevante» tra comunita'  montane  ed  enti  contemplati
dall'art. 117, secondo comma, lett. p) , Cost., la quale  viene  anzi
esplicitamente riconosciuta. 
    L'applicazione analogica richiesta dal giudice a  quo  e'  invece
rifiutata in  quanto  viene  ritenuto  mancante  l'altro  presupposto
necessario al compimento di tale operazione, oltre alla  «somiglianza
rilevante»,  ossia  la   lacuna   nell'ordinamento   che   altrimenti
sussisterebbe. La norma (sia pure implicita) che disciplina il  caso,
infatti, e' evidentemente rinvenibile nell'art.  117,  quarto  comma,
Cost., ed e' quella che assegna la potesta' legislativa in materia di
«ordinamento degli enti locali» alla competenza residuale regionale. 
    Deve inoltre essere messo in evidenza che la  sent.  n.  244  del
2005   e'   ben   lungi   dall'essere   isolata   nell'ambito   della
giurisprudenza costituzionale. Al suo fianco, infatti, devono  essere
citate le sentt. nn. 465 del 2005 (patr. parr. 4 e 5 del  Considerato
in diritto), 397 del 2006 (part. par. 7 del Considerato in diritto) e
237 del 2009, che confermano pianamente quanto  messo  in  luce  piu'
sopra. 
    All'ultima delle  decisioni  menzionate,  peraltro,  si  deve  un
ulteriore  contributo  di  chiarezza  sul  tema.  Essa   ha   infatti
sottolineato che - nonostante la pertinenza alla potesta' legislativa
residuale regionale della competenza in materia di enti locali (anche
in quella circostanza si trattava di Comunita' montane) - lo Stato e'
legittimato  ad  intervenire  in  base  ad  «un  autonomo  titolo  di
legittimazione» individuato - nel caso di specie - «nella  competenza
dello Stato relativa alla armonizzazione dei bilanci pubblici  ed  al
coordinamento della finanza  pubblica  di  cui  all'art.  117,  terzo
comma,  Cost.»  (par.  16  del   Considerato   in   diritto).   Cio',
evidentemente, puo' valere  anche  per  altri  titoli  di  competenza
statale  che  interessino,  da  altri  angoli  prospettici,  il  tema
dell'ordinamento degli enti locali. 
    In sintesi, risulta evidente che la giurisprudenza costituzionale
appena citata riconosce implicitamente, ma chiaramente, la  spettanza
alla potesta' legislativa residuale  regionale  della  competenza  in
materia di «ordinamento degli enti locali», facendo salve da un lato,
ovviamente, le norme che lo Stato puo' porre in attuazione  dell'art.
117,  secondo  comma,  lett.  p),  Cost.  -  e  dunque  in  tema   di
legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di
comuni, province e citta' metropolitane -  e  dall'altro  quelle  che
trovino copertura in ulteriori titoli di legittimazione individuabili
nei secondo e terzo comma dell'art. 117 Cost., quali ad esempio, come
riconosce la citata sent. n. 237 del 2009, quelle poste in vista  del
fine del «coordinamento della finanza pubblica». 
    4.2. - In sintesi, in relazione alla censura  qui  sottoposta  al
giudizio della Corte, e' possibile osservare quanto segue. 
    Nella  giurisprudenza  costituzionale  esistono  due   differenti
filoni concernenti la  spettanza  della  potesta'  legislativa  circa
l'ordinamento degli enti locali. Secondo  un  primo  indirizzo,  essa
continuerebbe a spettare, immutata, allo Stato anche  dopo  l'entrata
in vigore della legge  cost.  n.  3  del  2001;  secondo  un  diverso
indirizzo - che si e' sviluppato in relazione alle comunita' montane,
ma in base ad argomenti valevoli, in generale,  per  tutti  gli  enti
locali - questa potesta' legislativa deve ormai ritenersi  ricompresa
nell'area affidata alla residualita'  regionale  ai  sensi  dell'art.
117, quarto comma, Cost., fatta salva la competenza  statale  di  cui
all'art. 117, secondo comma, lett. p), Cost., e quella  derivante  da
ulteriori titoli di intervento che giustifichino  «incursioni»  nella
materia in  questione,  quale,  ad  esempio,  quello  concernente  la
competenza  statale  a  porre  norme  di   principio   in   tema   di
«coordinamento della finanza pubblica». 
    In virtu' dell'inversione del  criterio  della  residualita'  nel
riparto di  competenze  avvenuto  ad  opera  della  menzionata  legge
costituzionale - come questa Corte ha da subito riconosciuto  -  «nel
quadro del  nuovo  sistema  di  riparto  della  potesta'  legislativa
risultante dalla riforma del titolo V, parte 11,  della  Costituzione
realizzata con la legge costituzionale n. 3 del 2001»,  infatti,  per
scrutinare la legittimita' costituzionale di una legge dello Stato in
relazione alle norme  che  regolano  il  riparto  di  competenza,  e'
necessario muovere «non tanto dalla ricerca di uno  specifico  titolo
costituzionale di legittimazione dell'intervento  regionale,  quanto,
al contrario, dalla indagine sulla esistenza di riserve, esclusive  o
parziali, di competenza statale» (sent. n. 282 del 2002, par.  3  del
Considerato in diritto). 
    Partendo da questa premessa, e' evidente che la prima  delle  due
ricostruzioni  presenti  nella  giurisprudenza  costituzionale  ha  a
proprio carico l'onere di individuare la norma in grado di fondare la
«riserva, esclusiva o parziale», di competenza  statale.  Tale  norma
potrebbe  essere  individuata  alternativamente:  o  nell'art.   117,
secondo comma, lett. p), Cost., a prezzo  pero'  della  inaccettabile
conseguenza  di  ritenere  che   il   legislatore   della   revisione
costituzionale, con la formula «legislazione  elettorale,  organi  di
governo  e  funzioni  fondamentali  di  comuni,  province  e   citta'
metropolitane»  abbia  in   realta'   fatto   riferimento   a   tutto
l'ordinamento  degli  enti  locali;  ovvero  in  altra   disposizione
costituzionale. 
    La prima ipotesi della suddetta alternativa supera  evidentemente
le possibilita' ermeneutiche del testo costituzionale,  e  del  resto
nessuna delle tre decisioni piu' sopra evocate (sentt.  nn.  159  del
2008, 377 e 48 del 2003) si spinge a tanto. 
    La seconda  ipotesi,  invece,  trova  un  ostacolo  difficilmente
superabile nella totale «assenza» di  un  titolo  costituzionale  che
affidi allo Stato la competenza generale in  materia  di  ordinamento
degli  enti  locali   (alla   maniera   dell'art.   128   del   testo
costituzionale originario, espressamente abrogato dalla  legge  cost.
n. 3 del 2001). Il che, del resto, e' ben comprensibile, dal  momento
che, se si ritenesse sussistente una norma siffatta, non risulterebbe
in alcun modo spiegabile l'esistenza dell'art.  117,  secondo  comma,
lett. p), Cost., posto che quest'ultimo si troverebbe  ad  attribuire
allo Stato una  competenza  normativa  in  ambiti  gia'  al  medesimo
affidati dalla menzionata norma generale  la  cui  esistenza  si  sta
ipotizzando a fini argomentativi. 
    In  conclusione,  non  resta  che  ritenere  che  la   competenza
legislativa in materia di  «ordinamento  degli  enti  locali»  ricada
nell'ambito  disciplinato  dall'art.  117,   quarto   comma,   Cost.,
spettando dunque  alla  potesta'  residuale  regionale,  fatto  salvo
quanto previsto dall'art. 117, secondo comma, lett. p), Cost.,  e  da
eventuali  ulteriori  titoli  di  intervento  statale  in  grado   di
giustificare «incursioni» nella materia de qua. 
    La  regione  ricorrente  e'  ben   consapevole   della   notevole
estensione  che  caratterizza  i  settori  affidati  alla  competenza
esclusiva statale dall'art. 117, secondo comma, lett. p), Cost.  Cio'
che  e'  certo,  pero',  e'  che  tale  notevole  estensione  non  e'
sufficiente a ricondurre ai  medesimi  la  disciplina  impugnata  nel
presente giudizio. Quest'ultima, infatti, disciplinando le  modalita'
di  accesso  al  lavoro  dirigenziale   presso   le   amministrazioni
pubbliche,  nella  parte  in  cui  si  applica   agli   enti   locali
territoriali    rientra    nella    «sub-materia»     «organizzazione
amministrativa e ordinamento del personale» dei medesimi, a sua volta
facente parte del piu' ampio «ordinamento degli enti locali»  ma  non
ascrivibile ai settori della «legislazione elettorale», degli «organi
di governo» e delle «funzioni fondamentali». 
    Tale conclusione, d'altronde, ha trovato da ultimo inequivocabile
conferma nella sent. n. 326 del 2008, nella quale questa Corte si  e'
trovata  a  giudicare  di  una  disposizione  che  imponeva   «alcune
limitazioni alle societa' partecipate da (...)  enti  locali  per  lo
svolgimento di funzioni amministrative o attivita'  strumentali  alle
stesse» (par. 1 del Considerato in  diritto).  In  questa  decisione,
infatti, la Corte ha ricondotto la  norma  censurata  alla  «potesta'
legislativa regionale in materia di organizzazione degli uffici (...)
degli enti  locali,  fondata  sull'art.  117  Cost.  »,  argomentando
espressamente addirittura sulla applicabilita' di  questa  competenza
di tipo residuale ex quarto comma dell'art. 117 anche alle regioni ad
autonomia speciale - pure dotate della potesta' legislativa  primaria
nella materia dell' «ordinamento degli  enti  locali»  in  base  alle
norme degli statuti speciali -  in  quanto  la  potesta'  legislativa
conferita alle regioni dall'art. 117 Cost.  «assicura  una  autonomia
piu' ampia di quella prevista dagli statuti speciali» (par.  8.1  del
Considerato in diritto). 
    5. - L'illegittimita' costituzionale dell'art. 40, comma 1, lett.
f), del d.lgs.  indicato,  per  violazione  dell'art.  76  Cost.,  in
ragione del contrasto  della  disposizione  censurata  con  l'oggetto
della delega legislativa individuato  nell'art.  2,  comma  1,  della
legge di delegazione 4 marzo 2009, n. 15. 
    La citata disposizione della  legge  di  delegazione  limitava  i
poteri normativi del Governo alla sola riforma della «disciplina  del
rapporto di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, di
cui all'articolo 2, comma 2», del  decreto  legislativo  n.  165  del
2001. 
    Le norme  impugnate,  come  si  e'  gia'  osservato,  recano  una
disciplina concernente «i limiti e  le  modalita'  di  accesso»  agli
incarichi di dirigente pubblico a contratto, fuoriuscendo palesemente
dall'ambito oggettivo individuato dalla  delega  che,  al  contrario,
risultava circoscritto alla materia del «rapporto di lavoro». 
    E' dunque evidente il vizio di eccesso  di  delega  in  relazione
all'oggetto della medesima, vizio che,  per  costante  giurisprudenza
costituzionale, si traduce  in  violazione  dell'art.  76  Cost.  (ex
multis, cfr. la sent. n. 281 del 2004). 
    5.1. - Al riguardo, la ricorrente ritiene necessario  evidenziare
le ragioni che rendono ammissibile la presente censura,  proposta  in
riferimento al parametro costituito dall'art. 76 Cost. 
    In via generale deve essere notato  che,  secondo  l'insegnamento
della giurisprudenza costituzionale, e' possibile,  per  la  regione,
invocare nel giudizio in  via  principale  un  parametro  diverso  da
quelli  che  regolano  il  riparto  costituzionale  delle  competenze
soltanto nei casi in cui la violazione di tale parametro  ridondi  in
lesioni delle sfere di competenza regionale. 
    Tale evenienza,  in  particolare,  secondo  quanto  precisato  da
questa Corte, si  verifica  soltanto  ove  «il  contrasto  con  norme
costituzionali diverse» da quelle  che  disciplinano  il  riparto  di
competenze «si risolva in una esclusione  o  limitazione  dei  poteri
regionali» (sentenza n. 50  del  2005,  par.  3  del  Considerato  in
diritto). In altre parole,  perche'  la  relativa  questione  sia  da
considerare  ammissibile,  «dalla  invocata  violazione»   di   norme
extracompetenziali deve «derivare una compressione dei  poteri  della
ricorrente»  (cosi'  la  sentenza  n.  383  del  2005,  par.  8   del
Considerato in diritto), ossia «una compromissione delle attribuzioni
regionali costituzionalmente garantite» (cosi' la sent.  n.  371  del
2008, par. 6 del Considerato in diritto, che richiama le  sentt.  nn.
216 del 2008 e 401 del 2007). 
    Cio'  e'  precisamente  quanto  si  verifica  in  relazione  alla
violazione lamentata in questa sede, posto che la indebita estensione
della normativa posta del decreto legislativo anche ai «limiti e alle
modalita' di accesso» al lavoro pubblico  oltre  che  al  regime  del
rapporto di lavoro impedisce alla normativa  regionale  esistente  di
dispiegare la propria efficacia, e alla Regione di  porre  in  essere
nuove norme in un ambito materiale che - come si e' argomentato  piu'
sopra  -  per  quel  che  riguarda  l'organizzazione   amministrativa
regionale  e  quella  degli  enti  locali  e'  senz'  altro  di   sua
competenza. 
    E' dunque  possibile  affermare  che,  nel  caso  di  specie,  la
violazione di  un  parametro  costituzionale  extracompetenziale  «si
traduce in una diretta  lesione  delle  (...)  competenze»  regionali
(sent. n. 235 del 2009). A differenza di  quanto  accaduto  in  altre
circostanze, anche recenti, in cui la giurisprudenza di questa  Corte
ha negato  1'  ammissibilita'  della  questione  perche'  le  censure
proposte dalla Regione vertevano su un ambito di interessi certamente
rilevante, a livello politico, per la medesima, che pero' nulla aveva
a  che  vedere  con  «l'esercizio  delle   competenze   proprie»   di
quest'ultima (sent. n. 233 del 2009),  cio'  e'  precisamente  quanto
accade nel caso che in questa sede si  porta  alla  attenzione  della
Corte. 
    La violazione dell'art. 76 Cost. - sub specie  della  ultroneita'
del decreto legislativo rispetto all'oggetto definito dalla legge  di
delegazione - e', in conseguenza, sicuramente ridondante sulla  sfera
delle competenze  costituzionalmente  attribuite  alla  regione,  dal
momento che la disciplina censurata, per la parte in cui  si  rivolge
direttamente  alle  pubbliche  amministrazioni  regionali  e  locali,
determina una compressione dell'autonomia legislativa  regionale.  Da
qui la sicura ammissibilita' della questione sollevata. 
    5.2. - Quanto al merito, la Regione Marche ritiene di  aver  gia'
sufficientemente argomentato nelle pagine che  precedono  le  ragioni
che sostengono l'estraneita' della disciplina impugnata -  incentrata
sulla definizione di limiti e di modalita' di accesso agli  incarichi
di dirigente pubblico a contratto - rispetto all'oggetto della delega
individuato nell'art. 2, comma 1, della legge n. 15  del  2009,  che,
invece, risultava limitato  alla  sola  disciplina  del  rapporto  di
lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni. 
    Deve precisarsi, peraltro, che la violazione ad opera delle norme
impugnate  dei  limiti  imposti   dalla   delimitazione   dell'ambito
oggettivo della  delega  risulta  palese  anche  qualora  si  volesse
ritenere che il legislatore delegante, in sede di determinazione  dei
principi e criteri direttivi della delega  in  materia  di  dirigenza
pubblica (cfr. l'art. 6 della legge n. 15 del 2009), abbia - sia pure
impropriamente -  provveduto  ad  estendere  l'oggetto  della  delega
medesima attribuendo al Governo il potere di disciplinare,  oltre  al
rapporto di lavoro del dirigente, anche i limiti e  le  modalita'  di
accesso agli incarichi di dirigente pubblico a contratto.  Il  citato
art. 6, al comma 2, lett. h), contemplava il  seguente  «principio  e
criterio direttivo» (cosi' espressamente qualificato): «Ridefinire  i
criteri  di  conferimento,  mutamento  o   revoca   degli   incarichi
dirigenziali, (...), e ridefinire, altresi', la  disciplina  relativa
al conferimento degli incarichi ai soggetti  estranei  alla  pubblica
amministrazione e ai dirigenti non appartenenti ai ruoli,  prevedendo
comunque la riduzione, rispetto a  quanto  previsto  dalla  normativa
vigente, delle quote percentuali di dotazione organica entro  cui  e'
possibile il conferimento degli incarichi medesimi». 
    Lo  stesso  tenore  testuale  di  questa  disposizione  non  puo'
lasciare spazio a dubbi di sorta: la delega a prevedere «la riduzione
delle  quote  percentuali  di  dotazione  organica»  entro  le  quali
ammettere l'attribuzione di incarichi dirigenziali «a contratto»  era
espressamente riferita  solo  al  conferimento  degli  incarichi  «ai
soggetti estranei alla pubblica amministrazione e  ai  dirigenti  non
appartenenti ai ruoli» dell'Amministrazione conferente. 
    Il legislatore delegato non era dunque  abilitato  ad  estendere,
come invece risulta dal testo del nuovo  comma  6  dell'art.  19  del
d.lgs. n. 165 del 2001, il suddetto limite delle quote percentuali di
dotazione organica a tutti i conferimenti di incarichi dirigenziali a
contratto, comprendendovi  oltre  a  quelli  concernenti  i  soggetti
espressamente  individuati  dalla  citata  norma   della   legge   di
delegazione anche quelli  concernenti  i  soggetti  dipendenti  della
medesima Amministrazione conferente ma non  aventi  la  qualifica  di
dirigente. Di qui l'evidente  violazione  dei  limiti  imposti  dalla
delega legislativa, sotto il particolare profilo  del  contrasto  con
l'oggetto della delega medesima, anche se interpretato estensivamente
attraverso il disposto dell'art. 6, comma 2, lett. h), della legge n.
15 del 2009. 
    Il vizio di eccesso  di  delega  appena  evidenziato,  ovviamente
nella sola parte in cui esso e' reso applicabile alle amministrazioni
regionali e locali dalle norme qui censurate, vulnera direttamente le
attribuzioni legislative della  regione  ricorrente.  Basti  pensare,
infatti, a quanto gia' esposto nelle premesse del  presente  ricorso,
ossia alla attuale vigenza dell'art. 28, commi da 3 a 3-quater, della
legge reg. Marche n. 20 del 2001, in base alla  quale  sono  previste
due categorie di soggetti quali  possibili  affidatari  di  incarichi
dirigenziali a contratto: quelli indicati nel comma 3, ossia soggetti
esterni all'Amministrazione regionale, per  i  quali  e'  imposto  il
limite massimo del 10% della  dotazione  organica  complessiva  della
qualifica dirigenziale, e quelli indicati nel  comma  3-ter  ,  ossia
dipendenti regionali di categoria D con rapporto di  lavoro  a  tempo
indeterminato, per i quali non vale il limite della quota percentuale
bensi' il diverso limite della copertura dei posti resisi vacanti  in
conseguenza  di  cessazioni  dal  servizio  di  dirigenti   a   tempo
indeterminato. 
    6. - L'illegittimita' costituzionale dell'art. 40, comma 1, lett.
f), del d.lgs.  indicato,  per  violazione  dell'art.  76  Cost.,  in
ragione del contrasto della disposizione censurata con i  principi  e
criteri direttivi contenuti nell'art. 2,  comma  2,  della  legge  di
delegazione 4 marzo 2009, n. 15. 
    Si e' gia' posto in evidenza che i principi e  criteri  direttivi
generali della delega, contenuti nell'art. 2, comma 2, della legge n.
15 del 2009, imponevano al Governo l'adozione dei decreti legislativi
«previa intesa in sede di Conferenza unificata di cui all'articolo  8
del  decreto  legislativo  28  agosto  1997,  n.  281,  e  successive
modificazioni, relativamente all'attuazione delle disposizioni di cui
agli articoli 3, comma 2, lettera a), 4, 5 e 6, nonche' previo parere
della medesima Conferenza relativamente all'attuazione delle restanti
disposizioni della presente legge». 
    La disposizione censurata, in  particolare  nella  parte  in  cui
introduce il nuovo comma 6-ter nell'art. 19 del  d.lgs.  n.  165  del
2001, e' stata introdotta dal Governo all'interno del d.lgs.  n.  150
del 2009 a seguito dei pareri espressi dalle  competenti  Commissioni
parlamentari, rispettivamente il  23  settembre  (Commissione  affari
costituzionali del Senato) e il 2 ottobre 2009 (Commissioni riunite I
e XI della Camera dei deputati), senza essere stata  sottoposta  alla
prescritta intesa in sede  di  Conferenza  unificata  (la  quale  era
intervenuta il 29 luglio 2009). 
    L'acquisizione  di  tale  intesa  nella  sede   istituzionalmente
preposta alla rappresentazione delle posizioni delle regioni e  degli
enti locali territoriali era invece espressamente prevista  dall'art.
2, comma 2, della legge di delegazione n. 15 del 2009 come  principio
e criterio direttivo generale imposto  al  Governo  per  l'attuazione
della delega legislativa nella materia della «dirigenza pubblica»  di
cui all'art. 6 della medesima legge n. 15. 
    Il legislatore delegato statale e' dunque incorso in  una  palese
violazione proprio di quei principi e criteri direttivi della  delega
posti  a  tutela  della  posizione  costituzionale  delle   autonomie
regionali  e  locali;  e  tale  vizio,  per  costante  giurisprudenza
costituzionale, si traduce nella violazione dell'art. 76 Cost.,  alla
cui denuncia in sede di giudizio di  legittimita'  costituzionale  in
via principale la Regione vanta senza dubbio uno specifico interesse,
quanto meno in riferimento all'adozione di norme legislative  statali
che pretendano di imporre direttamente limiti alle sfere di autonomia
costituzionale regionale. 
    A questo riguardo, la regione ricorrente e' confortata da diversi
precedenti della giurisprudenza di questa Corte. 
    Sul punto rileva, innanzi tutto, la sent. n. 110 del 2001, con la
quale e' stata accolta la questione di  legittimita'  costituzionale,
proposta in  via  principale  da  una  regione,  avverso  un  decreto
legislativo adottato in violazione della norma posta dalla  legge  di
delega a mente della quale il primo avrebbe  dovuto  essere  adottato
«sentita la regione  interessata».  Secondo  quanto  affermato  nella
sentenza in questione, mancando la acquisizione del  punto  di  vista
regionale, l'atto normativo impugnato andava  considerato  senz'altro
costituzionalmente illegittimo. 
    Analogamente, del resto, questa Corte ha deciso  nella  sent.  n.
206 del 2001, nella  quale  e'  stata  dichiarata  costituzionalmente
illegittima, per violazione  dell'art.  76  Cost.,  la  norma  di  un
decreto legislativo che era stata approvata dal Governo in  un  testo
(solo) «parzialmente diverso da quello risultante dall'intesa sancita
nella Conferenza Stato-regioni», in una circostanza in  cui  l'intesa
era invece prescritta dalla legge delega. 
    Da tale giurisprudenza e' possibile desumere, con  certezza,  due
conclusioni  di  estrema  importanza  in  riferimento   al   presente
giudizio. 
    Innanzi tutto, che la censura di violazione dell'art. 76 Cost.  -
cosi' come qui prospettata - e'  senz'altro  ammissibile,  in  quanto
ridonda nella compressione di poteri  propri  della  regione.  Questa
Corte, infatti, ha gia' affrontato nel  merito,  e  sovente  accolto,
analoghe questioni di legittimita' costituzionale proposte  da  parte
regionale, riconoscendo dunque che esse fossero caratterizzate  dalla
necessaria «ridondanza». 
    In secondo luogo, che la medesima censura non puo' che  ritenersi
fondata, avendo gia' la giurisprudenza costituzionale  -  chiaramente
ed in svariate occasioni - affermato la assoluta  necessita'  che  il
decreto legislativo delegato si adegui  ai  vincoli  procedurali  che
derivano dalla legge di delegazione nella quale  esso  trova  il  suo
diretto fondamento di legittimita'. 

        
      
 
                              P. Q. M. 
 
    Si chiede che questa ecc.ma Corte costituzionale, in accoglimento
del  presente  ricorso,  dichiari   l'illegittimita'   costituzionale
dell'art. 40, comma 1,  lettera  f)  ,  del  decreto  legislativo  27
ottobre 2009, n. 150 (Attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15,  in
materia di ottimizzazione della produttivita' del lavoro  pubblico  e
di efficienza e trasparenza  delle  pubbliche  amministrazioni),  nei
termini sopra esposti. 
        Roma, addi' 24 dicembre 2009 
 
                     Avv. Prof.: Stefano Grassi 
 

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