Ricorso n. 10 del 16 gennaio 2015 (Regione Veneto)
Ricorso per questione di legittimita' costituzionale depositato in
cancelleria il 16 gennaio 2015 (della Regione Veneto).
(GU n. 8 del 2015-02-25)
Proposto dalla regione Veneto (codice fiscale ... -
partita IVA ...), in persona del presidente della giunta
regionale dott. Luca Zaia (codice fiscale …),
autorizzato con delibera della giunta regionale n. 2470 del 23
dicembre 2014 (allegato 1), rappresentato e difeso, per mandato a
margine del presente atto, tanto unitamente quanto disgiuntamente,
dagli avvocati Ezio Zanon (codice fiscale …)
coordinatore dell'avvocatura regionale, prof. Luca Antonini (codice
fiscale …) del foro di Milano e Luigi Manzi (codice
fiscale …) del foro di Roma, con domicilio eletto
presso lo studio di quest'ultimo in Roma, via Confalonieri n. 5 (per
eventuali comunicazioni: fax ..., posta elettronica
certificata ….
Contro il Presidente del Consiglio dei ministri pro-tempore,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, presso
la quale e' domiciliato ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12 per
la dichiarazione di illegittimita' costituzionale delle seguenti
disposizioni del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133, intitolato
«Misure urgenti per l'apertura dei cantieri, la realizzazione delle
opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione
burocratica, l'emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa
delle attivita' produttive» come convertito, con modificazioni, dalla
legge 11 novembre 2014, n. 164 (in supplemento ordinario n. 85,
relativo alla Gazzetta Ufficiale 11 novembre 2014, n. 262):
art. 17, comma 1, lettera G, per violazione degli articoli 3, 23,
117, commi 3 e 4, 118, 119, 120 della Costituzione;
art. 35, commi 1, 2, 3, 4, 5, 8 e 9, per violazione degli
articoli 3, 11, 117, commi 1, 3 e 4, 118, 119 e 120 della
Costituzione;
art. 38, commi 1, 1-bis, 2, 3, 4, 5, 6, 8 e 10, per violazione
degli articoli 3, 9, 11, 32, 97, 117, I, III e IV comma, 118, 119,
120 della Costituzione;
art. 42, comma 1, per violazione degli articoli 3, 77, 117, III
comma, 119, Costituzione e il principio di leale collaborazione di
cui all'art. 120 Costituzione.
Motivi
1) Illegittimita' costituzionale art. 17, comma 1, lettera G, per
violazione degli articoli 3, 23, 117, commi 3 e 4, 118, 119, 120
della Costituzione.
L'art. 17 (Semplificazioni ed altre misure in materia edilizia),
nell'apportare numerose modifiche al testo unico edilizia (decreto
del Presidente della Repubblica n. 380/2001), al comma 1, lettera g),
contiene una serie di disposizioni che incidono sul contributo per il
rilascio del permesso di costruire. In particolare al n. 3 della
lettera g) viene introdotto (nuova lettera d-ter del comma 4
dell'art. 16 del testo unico edilizia) un criterio di valutazione del
maggior valore generato da interventi su aree o immobili in variante
urbanistica, in deroga o con cambio di destinazione d'uso. Viene
altresi' stabilito che tale maggior valore, calcolato
dall'amministrazione comunale, venga suddiviso in misura non
inferiore al 50% tra il comune e la parte privata ed erogato da
quest'ultima, al comune stesso sotto forma di contributo
straordinario, che attesta l'interesse pubblico, in versamento
finanziario, vincolato a specifico centro di costo per la
realizzazione di opere pubbliche e servizi da realizzarsi nel
contesto in cui ricade l'intervento, cessione di aree o immobili da
destinare a servizi di pubblica utilita', edilizia residenziale
sociale o opere pubbliche. Con riferimento a tale disciplina di
calcolo del maggior valore, il nuovo comma 4-bis dell'art. 16 del
testo unico edilizia (decreto del Presidente della Repubblica n.
380/2001) - che viene introdotto dal numero 3-bis) della lettera g) -
fa salve le diverse disposizioni delle legislazioni regionali e degli
strumenti urbanistici generali comunali. La salvezza di tali
disposizioni viene ribadita dal numero 4) della lettera g)
dell'articolo che qui si censura, anche con riferimento all'utilizzo,
da parte dei comuni, dei citati criteri nel caso di mancata
definizione delle tabelle parametriche da parte della regione.
Il suddetto intervento normativo mira, in questi termini, a
disciplinare la cd. perequazione inerente all'urbanistica
contrattata, ovvero quella forma di perequazione che e' diretta alla
riappropriazione di quota parte del valore che l'amministrazione
determina con le decisioni in materia urbanistica. Tale quota viene
ritenuta vuoi una sorta di prelievo fiscale addizionale diretto al
parziale recupero del plusvalore fondiario, vuoi un contributo per il
miglioramento delle citta' in corrispettivo dell'attribuzione di una
maggiore edificabilita' o di un mutamento di destinazione urbanistica
piu' favorevole (un esempio, a livello legislativo, si trova
nell'art. 11, comma 5 della legge regionale lombarda n. 12/2005).
E' utile ricordare che su questa forma di perequazione e'
intervenuta in piu' occasioni la giurisprudenza amministrativa con
diverse pronunce, come ad esempio nel caso del piano regolatore di
Roma, bocciato dal TAR Lazio e ritenuto legittimo dal Consiglio di
Stato (in altri casi, ad es. Cons. di Stato, sez. IV, n. 4833 del
2006, previsioni analoghe, anche se non speculari, sono state
ritenute invece illegittime). Nella fattispecie si trattava delle
previsioni del PRG che introducevano la possibilita' di attribuire
un'edificabilita' aggiuntiva per mezzo di un meccanismo convenzionale
che prevedeva la corresponsione di un contributo straordinario a
favore del comune. Il Consiglio di Stato ritenne legittimo tale
contributo, in quanto derivante da un accordo con il privato ed
escludendo quindi il carattere di prestazione patrimoniale imposta in
violazione della riserva di legge di cui all'art. 23 della
Costituzione. La pronuncia evidenziava, tuttavia «l'opportunita' che
lo Stato intervenga a disciplinare in maniera chiara ed esaustiva la
perequazione urbanistica, nell'ambito di una legge generale sul
governo del territorio la cui adozione appare quanto mai auspicabile
alla luce dell'inadeguatezza della normativa pregressa a fronte delle
profonde innovazioni conosciute negli ultimi decenni dal diritto
amministrativo e da quello urbanistico» (Cons. di Stato, sez. IV, n.
4544/2010).
E' questo quindi il contesto normativo e giurisprudenziale in cui
si inserisce la disposizione impugnata, che introduce un «contributo
straordinario» (che verra' dunque a far parte del contributo per il
rilascio del permesso di costruire) parametrato alla valutazione del
maggior valore generato dagli interventi in variante urbanistica.
La disposizione, introdotta in sede di conversione del
decreto-legge n. 133/2014, cosi' come strutturata, risulta, tuttavia,
viziata di incostituzionalita' sotto molteplici profili e palesemente
irragionevole, non risolvendo in alcun modo l'esigenza prospettata
dal Consiglio di Stato.
Innanzitutto, infatti, in base alla disposizione impugnata il
contributo straordinario viene determinato autoritativamente, senza
possibilita' di contrattazione da parte del privato, sia pure con
riferimento alle tabelle parametriche regionali (se esistenti, ma la
norma, come si e' visto - numero 4 della lettera g) -, attribuisce al
comune la facolta' di determinazione autoritativa anche se queste non
sono adottate), che in ogni caso lasciano ampi margini di
discrezionalita' all'amministrazione.
Ma non solo.
Una volta determinato il maggior valore, la disposizione nulla
dice in ordine alla ripartizione tra il comune e il privato. Essa,
infatti, afferma che «tale maggior valore, calcolato
dall'amministrazione comunale, e' suddiviso in misura non inferiore
al 50 per cento tra il comune e la parte privata», ma cosi'
stabilendo implica che dopo aver individuato il maggior valore,
dovra' essere definita una parte di esso non inferiore al 50%, e
questa parte dovra' essere suddivisa tra il comune ed il privato,
secondo una percentuale di ripartizione che la norma non individua.
Con la conseguenza che la stessa norma potra' giustificare sia
previsioni perequative che sequestrino pressoche' interamente il
plusvalore, sia previsioni che lo lascino pressoche' interamente al
privato.
Da questo punto di vista e' evidente la violazione dell'art. 23
Cost., dal momento che l'amplissima discrezionalita' amministrativa
assegnata alle amministrazioni comunali non trova alcun adeguato
contenimento nella base legislativa (cfr. al riguardo corte cost.
sent. n. 435/2001).
Ma vi e' di piu'.
La norma, infatti, da un lato, si configura quale principio
fondamentale in materia di urbanistica, ma nel contempo fa salve «le
diverse disposizioni delle legislazioni regionali e degli strumenti
urbanistici generali comunali». Si tratta quindi di un principio
fondamentale con una struttura del tutto irragionevole - poiche' lo
scopo dei principi fondamentali dovrebbe essere quello di garantire
l'uniformita' su tutto il territorio nazionale - al punto che un
principio fondamentale cedevole rappresenta una contraddizione in
termini, soprattutto considerando che nel caso di specie la
cedevolezza e' disposta anche nei confronti di atti amministrativi,
ovvero degli strumenti urbanistici generali comunali.
Sotto altro profilo, anche l'affermazione secondo cui il
contributo straordinario «attesta l'interesse pubblico» appare
irragionevole, perche' sovrappone l'interesse pubblico al pagamento
del contributo straordinario allo specifico interesse pubblico
urbanistico che deve sostenere la variante o la deroga. In altre
parole, l'interesse pubblico deriva ora automaticamente dalla
corresponsione del contributo straordinario e non piu' dalla
valutazione della variante urbanistica o della deroga: in questi
termini, con le perverse conseguenze che si possono facilmente
immaginare anche in termini di rischi ambientali paesaggistici e
idrogeologici, risultano legittimati interventi edilizi rivolti solo
allo scopo dell'interesse fiscale senza piu' adeguata considerazione
dell'interesse urbanistico.
La nuova norma prosegue poi precisando che il contributo
straordinario potra' essere «erogato in versamento finanziario,
vincolato a specifico centro di costo per la realizzazione di opere
pubbliche e servizi da realizzare nel contesto in cui ricade
l'intervento, cessione di aree o immobili da destinare a servizi di
pubblica utilita', edilizia residenziale sociale od opere pubbliche».
Si tratta di un periodo nel quale sembra difettare qualche
congiunzione, essendo a quanto pare intenzione del legislatore
stabilire un'alternativa tra il versamento finanziario e la cessione
di aree o immobili (mentre e' difficile interpretarla nel senso che
la cessione di aree o immobili sia riferita al centro di costo nel
quale confluisce il finanziamento del privato: si sarebbe dovuto
trattare di acquisizione - per il Comune - non di cessione, che
riguarda invece la parte privata). In ogni caso al riguardo va
ricordato che la giurisprudenza amministrativa (ad es. Cons. di
Stato, sez. IV, n. 616 del 2014), ha ribadito con grande chiarezza
che la perequazione non puo' servire ai comuni per finanziare
qualsiasi opera pubblica purche' compresa nella programmazione
triennale, essendo necessario invece che vengano finanziate opere «in
prossimita'» dell'intervento (a pena altrimenti di determinare
effetti perversi, perche' mentre l'intervento grava su una parte del
territorio comunale, sara' un'altra parte a beneficiare delle opere
rese possibili in correlazione con quell'intervento). Anche da questo
punto di vista si evidenzia quindi l'irragionevolezza della
disciplina.
Le suddette disposizioni impugnate pertanto si pongono in
contrasto con la competenza concorrente regionale in materia di
governo del territorio e urbanistica. Data l'amplissima
discrezionalita' amministrativa che assegnano alle amministrazioni
comunali si pongono altresi' in contrasto con il principio di
ragionevolezza e con quello della riserva relativa di legge, la cui
lesione ridonda in una lesione delle suddette competenze regionali.
Le suddette norme risultano pertanto in violazione degli articoli 3,
23, 117, 3 e 4 comma, 118, 119, 120 Cost.
2) Illegittimita' costituzionale dell'art. 35, commi 1, 2, 3, 5, 8 e
9 per violazione degli articoli 3, 11, 117, commi 1, 3 e 4, 118, 119
e 120 della Costituzione.
L'art. 35 del decreto-legge n. 133/2014, recante «Misure urgenti
per la realizzazione su scala nazionale di un sistema adeguato e
integrato di gestione dei rifiuti urbani e per conseguire gli
obiettivi di raccolta differenziata e di riciclaggio. Misure urgenti
per la gestione e per la tracciabilita' dei rifiuti nonche' per il
recupero dei beni in polietilene», prevede disposizioni finalizzate
alla realizzazione di una rete nazionale di impianti di
incenerimento. A tal fine, in base al comma 1, viene demandata ad un
apposito decreto del Presidente del Consiglio dei ministri non solo
l'individuazione degli impianti esistenti, ma anche quelli di
incenerimento a recupero energetico da realizzare; sia i primi che i
secondi, verranno qualificati come «infrastrutture e insediamenti
strategici di preminente interesse nazionale ai fini della tutela
della salute e dell'ambiente».
Il comma 2 attiene al recupero della frazione organica dei
rifiuti urbani (FORSU) raccolta in maniera differenziata. Con tale
comma si introduce una disposizione che, per le medesime finalita'
del comma precedente, prevede l'emanazione di un altro decreto del
Presidente del Consiglio dei ministri che dovra' effettuare la
ricognizione dell'offerta esistente e individuare il fabbisogno
residuo, articolato per regioni, di impianti di recupero della FORSU
raccolta in maniera differenziata. Tale decreto dovra' essere
emanato, su proposta del Ministro dell'ambiente, entro 180 giorni
dall'entrata in vigore della presente legge di conversione. Lo stesso
comma consente alle regioni e alle province autonome di Trento e di
Bolzano, sino alla definitiva realizzazione degli impianti necessari
per l'integrale copertura del fabbisogno residuo cosi' determinato,
di autorizzare, ove tecnicamente possibile, un incremento fino al 10%
della capacita' degli impianti di trattamento dei rifiuti organici
per favorire il recupero di tali rifiuti raccolti nel proprio
territorio e la produzione di compost di qualita'.
Il comma 3 impone che tutti gli impianti (sia nuovi che
esistenti) siano autorizzati a saturazione del carico termico,
qualora sia stata valutata positivamente la compatibilita' ambientale
dell'impianto in tale assetto operativo, incluso il rispetto delle
disposizioni sulla qualita' dell'aria dettate dal decreto legislativo
n. 155/2010. Inoltre impone l'adeguamento delle autorizzazioni
integrate ambientali degli impianti esistenti entro 90 giorni dalla
entrata in vigore della legge di conversione, qualora la VIA
(valutazione di impatto ambientale) sia stata autorizzata a
saturazione del carico termico, tenendo in considerazione lo stato
della qualita' dell'aria.
Il comma 4 prevede che tutti i nuovi impianti dovranno essere
realizzati conformemente alla classificazione di impianti di recupero
energetico di cui al punto R1 (nota 4), allegato C alla parte quarta
del Codice dell'ambiente (decreto legislativo n. 152/2006).
Il comma 5 prevede che le autorita' competenti, entro il termine
di 90 giorni dalla entrata in vigore della legge di conversione
verifichino, per gli impianti esistenti, la sussistenza dei requisiti
per la loro qualifica di impianti di recupero energetico R1,
revisionando in tal senso e nello stesso termine, quando ne ricorrano
le condizioni, le autorizzazioni integrate ambientali.
Il comma 8 dispone che siano dimezzati, o ridotti a un quarto (se
si tratta di procedura gia' in corso), i termini previsti per
l'espletamento delle procedure di espropriazione per pubblica
utilita' degli impianti di recupero da realizzare, nonche' siano
perentori i termini previsti per VIA e AIA.
Il comma 9 prevede l'applicazione del potere sostitutivo in caso
di mancato rispetto dei termini fissati dai commi 3, 5 e 8 per la
verifica degli impianti e l'adeguamento delle autorizzazioni, nonche'
dal comma 6 per l'accelerazione delle procedure autorizzative.
Si tratta di disposizioni che da diversi punti di vista violano
le competenze costituzionalmente attribuite alle regioni e che,
irragionevolmente favorendo la prospettiva dell'incenerimento (dal
1995 negli Stati Uniti non si costruiscono piu' impianti di questo
tipo, preferendo le politiche di riduzione, riuso, riciclaggio e
recupero) a discapito dell'economia del riciclo, della ricerca e
della prevenzione dei rifiuti richiesta dalle direttive comunitarie,
non tengono minimamente conto che il quadro impiantistico
sull'incenerimento in Italia e' ormai saturo: ci sono regioni dove la
potenzialita' impiantistica di combustione dei rifiuti e'
sovradimensionata e quindi dovra' essere ridotta, dismettendo, senza
sostituirli, gli impianti piu' vecchi; ci sono regioni, soprattutto
al centro sud, dove sono stati costruiti nell'ultimo decennio
numerosi impianti per bruciare i rifiuti, colmando il deficit
impiantistico; ci sono regioni dove i risibili quantitativi di
rifiuti in gioco rendono superfluo realizzare un impianto dedicato.
In questo nuovo scenario non ha piu' senso un programma nazionale per
implementare e accelerare la costruzione di nuovi impianti di
combustione dei rifiuti. Soprattutto questa prospettiva non considera
adeguatamente l'intervenuto incremento della raccolta differenziata
finalizzata al riciclaggio, che ha sostenuto sempre di piu' la
filiera industriale del recupero delle materie prime seconde e ha
notevolmente ridimensionato il bisogno, per la chiusura del ciclo nei
vari territori, del recupero energetico da combustione di rifiuti
urbani non altrimenti riciclabili. L'aumento del riciclaggio e il
trend di riduzione della produzione dei rifiuti rendera' quindi
sempre piu' problematica l'alimentazione di impianti «rigidi» come
gli inceneritori che notoriamente non possono essere modulati nel
flusso di rifiuti alimentati al forno e che quindi sono un evidente
problema per l'auspicata massimizzazione del riciclo e dello sviluppo
delle politiche di prevenzione.
Cio' premesso, riguardo a tali disposizioni, si precisa
innanzitutto che il comma 1 riproduce, ma solo in parte, quanto
previsto, all'intento di una ben piu' articolata disciplina, dalla
lettera i) del comma 1 dell'art. 195 del decreto legislativo n.
152/2006 (d'ora in poi testo unico ambiente), che gia' prevedeva
«l'individuazione, nel rispetto delle attribuzioni costituzionali
delle regioni, degli impianti di recupero e di smaltimento di
preminente interesse nazionale da realizzare per la modernizzazione e
lo sviluppo del paese, sentita la Conferenza unificata, a mezzo di un
programma, adottato con decreto del Presidente del Consiglio dei
ministri su proposta del Ministro dell'ambiente e della tutela del
territorio e del mare e inserito nei documenti di programmazione
economico-finanziaria con indicazione degli stanziamenti necessari
per la loro realizzazione. Nell'individuare le infrastrutture e gli
insediamenti strategici di cui al presente comma il Governo procede
secondo finalita' di riequilibrio socio-economico fra le aree del
territorio nazionale. Il Governo indica nel disegno di legge
finanziaria ai sensi dell'art. 11, comma 3, lettera i-ter), della
legge 5 agosto 1978, n. 468, le risorse necessarie, anche ai fini
dell'erogazione dei contributi compensativi a favore degli enti
locali, che integrano i finanziamenti pubblici, comunitari e privati
allo scopo disponibili».
Tale disposizione, quindi, nell'individuare le infrastrutture e
gli insediamenti strategici da realizzare, prevedeva che il Governo
procedesse indicando nel disegno di legge finanziaria gli
stanziamenti necessari per la loro realizzazione, anche ai fini
dell'erogazione dei contributi compensativi a favore degli enti
locali. Inoltre, alla lettera g), l'art. 195 stabiliva, in termini
piu' generali, che lo Stato determinasse «garanzie finanziarie in
favore delle regioni». Nulla al riguardo viene invece previsto nella
nuova formulazione che produce quindi anche nuovi oneri a carico del
sistema regionale, in violazione dell'art. 119 cost., anche in forza
dell'incidenza dell'intervento governativo sui fondi gia' stanziati
dalla regione per la predisposizione dei Piani regionali di gestione
dei rifiuti.
Inoltre, se l'art. 195 del testo unico ambiente includeva
l'individuazione di impianti di recupero e di smaltimento da
realizzare di preminente interesse nazionale tra le competenze
statali in materia di rifiuti, nel successivo art. 196 del testo
unico ambiente venivano poi indicate le competenze affidate alle
regioni, quali la pianificazione regionale della gestione dei
rifiuti, la regolamentazione delle attivita' di gestione dei rifiuti,
l'approvazione dei progetti di nuovi impianti per la gestione di
rifiuti, l'autorizzazione all'esercizio delle operazioni di
smaltimento e recupero di rifiuti (fatta salva la disciplina in
materia di AIA), nonche' la definizione di criteri per
l'individuazione, da parte delle province, delle aree non idonee alla
localizzazione degli impianti di smaltimento e di recupero dei
rifiuti, nel rispetto dei criteri generali fissati a livello statale.
Nella differenza tra il testo del testo unico ambiente e quello
impugnato, che si limita a prevedere che il d.pc.m. di cui al comma 1
sia emanato solo «tenendo conto della pianificazione regionale», si
precisa quindi ulteriormente la censura di incostituzionalita' di una
disciplina che attenendo a impianti di incenerimento con recupero
energetico, si inserisce anche nell'ambito della materia «produzione
dell'energia» di cui al comma 3 dell'art. 117 Cost.
Il nuovo testo, infatti, anche nonostante la suddetta nuova
esplicita implicazione con la materia della produzione dell'energia,
non contiene piu' quella vera e propria clausola di «salvezza» («nel
rispetto delle attribuzioni costituzionali delle regioni») - cosi'
questa ecc.ma Corte costituzionale la defini' nella sentenza n. 249
del 2009 - che invece era contenuta nella lettera f) dell'art. 195
del testo unico ambiente.
Non si tratta di mera questione formale, in quanto la
generalizzata qualificazione degli impianti di incenerimento sia
esistenti che da realizzare, come «infrastrutture e insediamenti
strategici di preminente interesse nazionale ai fini della tutela
della salute e dell'ambiente» determina una evidente sovrapposizione
con numerose competenze costituzionalmente attribuite alle regioni in
materia di tutela della salute, di governo del territorio, di
valorizzazione dei beni ambientali, di turismo, ecc.
In particolare la nuova disciplina risulta violare quanto
stabilisce l'art. 196 del testo unico ambiente come competenze delle
regioni. In primis la stessa funzione di pianificazione, che prevede
che le regioni adottino, coinvolgendo province e comuni, i piani
regionali di gestione dei rifiuti e procedano a programmare la
tipologia ed il complesso degli impianti di smaltimento e di recupero
dei rifiuti urbani da realizzare nella regione (art. 196, lettera a).
Inoltre, il potere regionale di definizione di criteri (nell'ambito
dei criteri generali stabiliti dallo Stato, art. 195, comma 1,
lettera p) per l'individuazione, da parte delle province, delle aree
non idonee alla localizzazione degli impianti di smaltimento e di
recupero dei rifiuti (art. 196, comma 1, lettera n), nonche' la
definizione dei criteri per l'individuazione dei luoghi o impianti
idonei allo smaltimento (art. 196, comma 1, lettera o) (si veda al
riguardo Corte cost. sent. n. 285 del 2013). Al riguardo e' utile
ricordare che questa ecc.ma Corte nella sentenza n. 314 del 2009,
dopo aver precisato che: «La disciplina statale dei rifiuti,
collocandosi nell'ambito della "tutela dell'ambiente e
dell'ecosistema" - di competenza esclusiva statale ai sensi dell'art.
117, secondo comma, lettera s), Cost. - costituisce, anche in
attuazione degli obblighi comunitari, un livello di tutela uniforme e
si impone sull'intero territorio nazionale, come un limite alla
disciplina che le regioni e le province autonome dettano in altre
materie di loro competenza, per evitare che esse deroghino al livello
di tutela ambientale stabilito dallo Stato, ovvero lo peggiorino»
(sentenze n. 62 del 2008 e n. 378 del 2007), ha tuttavia nel contempo
chiarito: «resta, peraltro, ferma la competenza delle regioni per la
cura di interessi funzionalmente collegati con quelli propriamente
ambientali: infatti, anche nel settore dei rifiuti, accanto ad
interessi inerenti in via primaria alla tutela dell'ambiente, vengono
in rilievo altre materie, per cui la competenza statale non esclude
la concomitante possibilita' per le regioni di intervenire,
ovviamente nel rispetto dei livelli uniformi di tutela apprestati
dallo Stato (da ultimo, sentenza n. 249 del 2009). La localizzazione
degli impianti di trattamento dei rifiuti sul territorio, nel
rispetto dei criteri tecnici fondamentali stabiliti dagli organi
statali (fissati in attuazione dell'art. 195 del decreto legislativo
n. 152 del 2006), che rappresentano soglie inderogabili di protezione
ambientale, attiene al "governo del territorio"». Concludeva quindi
la sentenza ritenendo che «la disciplina dettata dalla disposizione
regionale risponde ad esigenze di coordinamento territoriale e non
appronta una disciplina dei rifiuti di minor rigore rispetto a quella
statale».
In definitiva, un'ampia gamma di poteri regionali, anche
potenzialmente rivolti a stabilire criteri di tutela dell'ambiente
piu' rigorosi di quelli statali, risulta travolta dalla pretesa
costituzione di un sistema nazionale di impianti di incenerimento che
non contiene piu' la sopra citata clausola di «salvezza» delle
competenze regionali.
A questo riguardo, a titolo esemplificativo, si evidenzia il
contrasto con le disposizioni legislative della regione Veneto: legge
regionale n. 3 del 21 gennaio 2000 e n. 52 del 31 dicembre 2012,
anche in considerazione del fatto che quest'ultima prevede, fra
l'altro, all'art. 6 (Nuovi impianti di trattamento termico per
rifiuti solidi. Disposizioni transitorie): «1. Nelle more
dell'approvazione del nuovo piano regionale per la gestione dei
rifiuti urbani e speciali, come previsto dalla legge regionale 21
gennaio 2000, n. 3, che definisce il fabbisogno gestionale di
recupero e smaltimento dei rifiuti, non puo' essere autorizzato
l'avvio e l'ampliamento di nuovi impianti di trattamento termico per
rifiuti solidi urbani in Veneto».
Il comma 1 dell'art. 35 del decreto-legge n. 133/2014, per questi
motivi, si pone in contrasto: con l'art. 3 della Costituzione, nella
misura in cui irragionevolmente favorisce la prospettiva
dell'incenerimento a discapito dell'economia del riciclo - e tale
violazione ridonda sulle competenze regionali, anche di
programmazione, in materia di tutela della salute, di governo del
territorio, di valorizzazione dei beni ambientali, di turismo, ecc.;
nonche' con gli articoli 117, III e IV comma, 118 (quanto alla
competenza regionale sui piani rifiuti) e 119 della Costituzione.
In questa prospettiva, risulta evidente anche la violazione del
principio di leale collaborazione di cui all'art. 120 Cost., perche'
la semplice previsione che sia «sentita» la Conferenza Stato-regioni,
rappresenta rispetto alla nuova e ben piu' invasiva disciplina, che
riguarda anche la produzione di energia, una forma di coinvolgimento
delle regioni che si rivela del tutto inadeguata, incidendo la
predetta disciplina significativamente sulle suddette competenze
regionali. Si ricorda al riguardo che questa ecc.ma Corte nella sent.
n. 383 del 2005 ha precisato che: «La predisposizione di un programma
di grandi infrastrutture per le finalita' indicate dalla disposizione
impugnata implica necessariamente una forte compressione delle
competenze regionali non soltanto nel settore energetico ma anche
nella materia del governo del territorio, di talche', come gia'
sottolineato nel par. 15, e' condizione imprescindibile per la
legittimita' costituzionale dell'attrazione in sussidiarieta' a
livello statale di tale funzione amministrativa, la previsione di
un'intesa in senso forte con le regioni nel cui territorio l'opera
dovra' essere realizzata» (cfr. inoltre, sentenze n. 179/2012 e n. 39
del 2013).
Ma vi e' di piu'.
La disposizione del comma 1, infatti, pur prevedendo
l'individuazione di un sistema integrato nazionale di gestione dei
rifiuti urbani e speciali mediante impianti di recupero energetico,
ovvero un vero e proprio atto di pianificazione in materia di
gestione dei rifiuti, non ne prevede l'assoggettamento ad
autorizzazione ambientale strategica (VAS), in violazione dell'art. 3
(1. I piani e i programmi di cui ai paragrafi 2, 3 e 4, che possono
avere effetti significativi sull'ambiente, sono soggetti ad una
valutazione ambientale ai sensi degli articoli da 4 a 9) e seguenti
della direttiva 2001/42/CE.
Tale direttiva - rivolta a imporre che gli effetti ambientali di
piani e programmi vengano considerati «a monte», consentendo, se
necessario, di ricorrere a misure di mitigazione definite attraverso
consultazioni con le altre autorita' competenti nonche' con le parti
interessate anche attraverso lo svolgimento di consultazioni e
informative e quindi a tempo debito e non solo in fasi in cui le
possibilita' di apportare cambiamenti sensibili sono spesso limitate
- e' stata recepita dall'Italia con il testo unico ambiente, mentre
la disposizione del comma 1 del decreto-legge n. 133/2014 assume un
carattere derogatorio non consentito ne' dal suddetto testo unico
ambiente, ne' dalla citata direttiva (peraltro, sulla non
assimilazione di oggetto tra VAS e VIA si ricordano le pronunce di
questa ecc.ma Corte n. 58 del 2013 e n. 197 del 2014).
In questi termini si determina una violazione degli articoli 11 e
117, I comma della Costituzione, che ridonda evidentemente nella
lesione delle sopramenzionate competenze costituzionalmente assegnate
alle regioni, anche inerenti lo stesso procedimento di VAS (cfr.
legge regionale Veneto n. 11 del 2004; articoli 4 e 141 legge
regionale n. 4 del 2008; art. 40 legge regionale n. 13 del 2012), dal
momento che la individuazione degli impianti non potra' avvenire nel
rispetto delle procedure di tutela prescritte dalla normativa
comunitaria.
Quanto al comma 2 dell'art. 35 del decreto-legge n. 133/2014, che
prevede l'emanazione di un decreto del Presidente del Consiglio dei
ministri diretto a effettuare la ricognizione dell'offerta esistente
e individuare il fabbisogno residuo, articolato per regioni, di
impianti di recupero della FORSU raccolta in maniera differenziata,
si evidenzia che tale disposizione in modo irragionevole ed
illegittimo non prevede alcuna forma di coinvolgimento delle regioni
e quindi estromette la programmazione regionale della pretesa
definizione dell'offerta esistente su tutto il territorio nazionale.
Risulta quindi violato il principio di leale collaborazione di cui
all'art. 120 della Costituzione.
Quanto ai commi 3 e 5 con cui il legislatore statale impone
unilateralmente che tutti gli impianti (sia nuovi che esistenti) di
recupero energetico da rifiuti siano autorizzati a saturazione del
carico termico, con conseguente adeguamento delle autorizzazioni
integrate ambientali, prevendendo, nel caso del mancato rispetto dei
termini l'intervento (comma 9) del potere sostitutivo statale
(secondo l'art. 8 della legge n. 131/2003), essi si pongono in
contrasto, per i motivi sopra indicati, con le competenze regionali
relative a tutela della salute, governo del territorio,
valorizzazione dei beni ambientali, turismo, di cui agli articoli
117, 3 e 4 comma e 118 Cost., nonche' con il principio di leale
collaborazione di cui all'art. 120 Cost.
Quanto al comma 4, che impone che tutti i nuovi impianti dovranno
essere realizzati conformemente alla classificazione di impianti di
recupero energetico di cui al punto R1 (nota 4), allegato C alla
parte quarta del Codice dell'ambiente (decreto legislativo n.
152/2006), esso si pone in contrasto con gli articoli 117, 3 comma, e
119 Cost., dal momento che, a fronte di tale obbligo,
illegittimamente imposto stante la competenza regionale concorrente
in materia di energia, non vengono previste garanzie finanziarie a
favore delle regioni.
Quanto al comma 8, che dispone la riduzione (pena l'esercizio del
potere sostitutivo statale), in vista dell'irragionevole
accelerazione nella realizzazione degli inceneritori di cui al comma
1, alla meta' o addirittura a un quarto (se si tratta di procedura
gia' in corso), dei termini previsti per l'espletamento delle
procedure di espropriazione per pubblica utilita' degli inceneritori
da realizzare, nonche' che siano perentori i termini previsti per VIA
e AIA, si tratta di una disposizione dall'effetto generalizzato che,
da un lato, coinvolgendo tutte le fasi del procedimento
espropriativo, travolge tutte le differenti previsioni adottate
(legittimamente ai sensi dell'art. 5 del decreto del Presidente della
Repubblica n. 327/2001), nei vari settori, dalla legislazione
regionale e che, dall'altro, facendo riferimento ai procedimenti in
corso, determina una irragionevole violazione del principio di
legittimo affidamento che ridonda anch'essa nella violazione delle
competenze regionali in materia di governo del territorio. La
disposizione si pone pertanto in contrato con gli articoli 3 e 117, 3
comma, della Costituzione.
3) Illegittimita' costituzionale dell'art. 38, commi 1, 1-bis, 2, 3,
4, 5, 6, 8 e 10, violazione degli articoli 3, 9, 11, 32, 97, 117, I,
III e IV comma, 118, 119 e 120 della Costituzione.
L'art. 38, recante (Misure per la valorizzazione delle risorse
energetiche nazionali) qualifica le attivita' di prospezione, ricerca
e coltivazione di idrocarburi e quelle di stoccaggio sotterraneo di
gas naturale come attivita' di interesse strategico, di pubblica
utilita', urgenti e indifferibili. Vengono inoltre stabilite nuove
regole per il conferimento di titoli minerari, in modo da ridurre i
tempi necessari per il rilascio dei titoli abilitativi per la ricerca
e la produzione di idrocarburi, prevedendo il rilascio di un titolo
concessorio unico. Si modifica inoltre la disciplina che consente lo
svolgimento di attivita' mineraria in forma sperimentale.
Piu' precisamente, il comma 1 qualifica le attivita' di
prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi e quelle di
stoccaggio sotterraneo di gas naturale come attivita':
a) di interesse strategico;
b) di pubblica utilita', urgenti e indifferibili.
Di conseguenza i relativi titoli abilitativi comportano:
a) la dichiarazione di pubblica utilita', indifferibilita' ed
urgenza dell'opera;
b) l'apposizione del vincolo preordinato all'esproprio dei beni
in essa compresi;
c) e, per quanto disposto dal comma 2, se le opere da eseguire
comportano variazione degli strumenti urbanistici, hanno effetto di
variante urbanistica.
Il comma 1-bis demanda al Ministero dello sviluppo economico,
sentito il Ministero dell'ambiente, la predisposizione di un piano
delle aree in cui sono consentite le attivita' di prospezione,
ricerca e coltivazione di idrocarburi e quelle di stoccaggio
sotterraneo di gas naturale. Il piano, per le attivita' sulla
terraferma, e' adottato previa intesa con la Conferenza unificata. In
caso di mancato raggiungimento dell'intesa, si provvede con le
modalita' di cui all'art. 1, comma 8-bis, della legge n. 239/2004.
Nelle more dell'adozione del piano i titoli abilitativi di cui al
comma 1 sono rilasciati sulla base delle norme vigenti prima della
data di entrata in vigore della disposizione.
Il comma 3 trasferisce dalle regioni al Ministero dell'ambiente
la competenza al rilascio del provvedimento di VIA (valutazione di
impatto ambientale) relativamente ai progetti relativi ad attivita'
di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi sulla
terraferma.
Il comma 4 contiene una norma transitoria destinata a
disciplinare gli effetti dello spostamento di competenze operato dal
comma 3 sui procedimenti di VIA in corso presso le regioni alla data
di entrata in vigore del presente decreto-legge. Per tali
procedimenti viene previsto che se la regione non conclude il
procedimento entro il 31 marzo 2015, la stessa dovra':
a) provvedere alla trasmissione di tutta la documentazione al
Ministero dell'ambiente per i seguiti istruttori di competenza;
b) darne notizia al Ministero dello sviluppo economico.
Il comma 5 modifica la disciplina per il conferimento di titoli
minerari, con specifico riguardo al rilascio dei titoli abilitativi
per la ricerca e la produzione di idrocarburi, introducendo un
«titolo concessorio unico» in luogo di due titoli distinti (permesso
di ricerca e concessione di coltivazione). Si prevede che il titolo
sia rilasciato sulla base di un programma generale di lavori
articolato nelle seguenti fasi:
a) fase di ricerca, della durata di sei anni, prorogabile due
volte per un periodo di tre anni nel caso sia necessario completare
le opere di ricerca;
b) fase di coltivazione (nel caso in cui la prima fase abbia
condotto al rinvenimento di un giacimento riconosciuto tecnicamente
ed economicamente coltivabile da parte del Ministero dello sviluppo
economico), della durata di trenta anni, da prorogare per una o piu'
volte per un periodo di dieci anni, ove siano stati adempiuti gli
obblighi derivanti dal decreto di concessione e il giacimento risulti
ancora coltivabile. Inoltre, viene altresi' previsto che la proroga
della fase di coltivazione da parte del Ministero per lo sviluppo
economico non sia piu' automatica, ma subordinata al caso di
rinvenimento di un giacimento tecnicamente ed economicamente
coltivabile, riconosciuto dal Ministero dello sviluppo economico;
c) fase di ripristino finale.
Secondo il comma 6, il titolo concessorio unico e' accordato:
a) con decreto del Ministero dello sviluppo economico, sentita la
Commissione per gli idrocarburi e le risorse minerarie e le Sezioni
territoriali dell'Ufficio nazionale minerario idrocarburi e
georisorse, d'intesa, per le attivita' da svolgere in terraferma, con
la regione o la provincia autonoma di Trento o di Bolzano
territorialmente interessata;
b) a seguito di un procedimento unico svolto nel termine di
centottanta giorni tramite apposita Conferenza di servizi, nel cui
ambito e' svolta anche la valutazione ambientale strategica del
programma complessivo dei lavori. Si specifica che la valutazione
ambientale preliminare e' svolta entro 60 giorni con parere della
Commissione tecnica di verifica dell'impatto ambientale VIA/VAS del
MATTM. Si ribadisce anche che per il decreto ministeriale di rilascio
del titolo per le attivita' in terraferma, e' necessaria la previa
intesa con la regione.
Il comma 8 dispone l'applicazione delle nuove norme sul titolo
concessorio unico anche ai titoli rilasciati successivamente alla
data di entrata in vigore del Codice ambientale e ai procedimenti in
corso, su istanza del titolare o del richiedente, da presentare entro
90 giorni dall'entrata in vigore della legge di conversione del
decreto in commento, facendo salva con riguardo all'applicazione
delle disposizioni sui procedimenti di VIA in corso presso le
regioni, l'opzione, da parte dell'istante, di proseguimento del
procedimento di valutazione di impatto ambientale presso la regione,
da esercitarsi entro trenta giorni dal medesimo termine.
Il comma 10 integra l'art. 8 del decreto-legge n. 112/2008, che
stabiliva precisi divieti e condizioni, per rendere ora possibili, e
per assicurare il relativo gettito fiscale allo Stato, progetti
sperimentali di coltivazione di giacimenti di idrocarburi in mare in
ambiti posti in prossimita' delle aree di altri Paesi rivieraschi
oggetto di attivita' di ricerca e coltivazione di idrocarburi.
I progetti sperimentali: a) sono autorizzati dal Ministero dello
sviluppo economico, di concerto con il Ministero dell'ambiente e
della tutela del territorio e del mare, sentite le regioni
interessate; b) sono corredati sia da un'analisi tecnico-scientifica,
che deve avvenire mediante VIA, sull'assenza di effetti di subsidenza
dell'attivita' sulla costa, sull'equilibrio dell'ecosistema e sugli
insediamenti antropici, sia da progetti e programmi di monitoraggio e
verifica, da condurre sotto il controllo del Ministero dello sviluppo
economico e del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio
e del mare. Si prevede poi che qualora, nel corso delle attivita' di
verifica vengano accertati fenomeni di subsidenza sulla costa
determinati dall'attivita', il programma dei lavori e' interrotto e
l'autorizzazione alla sperimentazione decade. Qualora invece, al
termine del periodo di validita' dell'autorizzazione, venga accertato
che l'attivita' e' stata condotta senza effetti di subsidenza
dell'attivita' sulla costa, nonche' sull'equilibrio dell'ecosistema e
sugli insediamenti antropici, il periodo di sperimentazione puo'
essere prorogato per ulteriori cinque anni, applicando le medesime
procedure di controllo. Infine si prevede, che nel caso di attivita'
di cui sopra, ai territori costieri non solo le regioni, ma anche gli
altri enti locali territorialmente interessati, abbiano diritto di
stipulare accordi con i soggetti proponenti che individuino misure di
compensazione e riequilibrio ambientale, coerenti con gli obiettivi
generali di politica energetica nazionale.
Nel complesso si tratta di disposizioni che, da un lato,
favoriscono di fatto una nuova e irragionevole colonizzazione del
territorio e del mare italiano da parte dell'industria petrolifera, e
dall'altro che espongono il territorio italiano, ad ulteriori rischi
geologici e ambientali, e marginalizzano, in modo costituzionalmente
illegittimo, il ruolo delle regioni. Si apre cosi' il rischio di una
nuova ondata di trivellazioni con irrilevanti benefici economici e
sociali ed elevati pericoli ambientali. Nonostante i noti rischi di
incidenti e di inquinamento legati alle trivellazioni, ad, esempio,
ma non solo, come quello avvenuto nel Golfo del Messico nel 2010, si
mettono quindi a rischio aree di pregio naturalistico e paesaggistico
e fiorenti attivita' economiche legate al turismo e alla pesca, con
lo scopo di estrarre idrocarburi di dubbia qualita' che agli attuali
tassi di consumo, valutate le riserve certe a terra e a mare censite
dal Ministero dello sviluppo economico (vedi infra), potrebbero
(prelevando tutte le riserve del sottosuolo) coprire il fabbisogno
nazionale per un periodo non superiore ad un anno.
Cio' premesso, occorre ricordare che l'art. 117, comma 3, Cost.,
ascrive alla competenza concorrente la «produzione, trasporto e
distribuzione nazionale dell'energia» e non gia' le attivita' di
ricerca e di coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi, che, in
quanto tali, non sarebbero produttive di energia e che quindi
dovrebbero collocarsi nell'ambito della competenza residuale di cui
al IV comma dell'art. 117 Cost.
In ogni caso, anche a voler ritenere la materia in oggetto
rientrante in quella di cui al terzo comma dell'art. 117 Cost.,
occorre innanzitutto ricordare che questa ecc.ma Corte costituzionale
nella sentenza n. 383 del 2005 ha stabilito, in questo ambito, la
necessita' di un'«intesa in senso forte» per giustificare
un'attrazione nella competenza statale quale quella disposta dalle
norme impugnate. Infatti: «Se dunque non sembrano esservi problemi al
fine di giustificare in linea generale disposizioni legislative come
quelle in esame dal punto di vista della ragionevolezza della
chiamata in sussidiarieta', in capo ad organi dello Stato, di
funzioni amministrative relative ai problemi energetici di livello
nazionale, al fine di assicurare il loro indispensabile esercizio
unitario, resta invece da verificare analiticamente se sussistano le
altre condizioni che la giurisprudenza di questa Corte ha individuato
come necessarie perche' possa essere costituzionalmente ammissibile
un meccanismo istituzionale del genere, che oggettivamente incide in
modo significativo sull'ambito dei poteri regionali. In particolare,
come questa Corte ha gia' chiarito nella sentenza n. 6 del 2004, e'
necessario che la legislazione "detti una disciplina logicamente
pertinente, dunque idonea alla regolazione delle suddette funzioni, e
che risulti limitata a quanto strettamente indispensabile a tal
fine"; inoltre, "essa deve risultare adottata a seguito di procedure
che assicurino la partecipazione dei livelli di governo coinvolti
attraverso strumenti di leale collaborazione o, comunque, deve
prevedere adeguati meccanismi di cooperazione per l'esercizio
concreto delle funzioni amministrative allocate agli organi
centrali". Infatti, nella perdurante assenza di ogni innovazione nei
procedimenti legislativi statali diretta ad assicurare il necessario
coinvolgimento delle regioni, la legislazione statale che preveda e
disciplini il conferimento delle funzioni amministrative a livello
centrale nelle materie affidate alla potesta' legislativa regionale
"puo' aspirare a superare il vaglio di legittimita' costituzionale
solo in presenza di una disciplina che prefiguri un iter in cui
assumano il dovuto risalto le attivita' concertative e di
coordinamento orizzontale, ovverosia le intese, che devono essere
condotte in base al principio di lealta'" (sentenza n. 303 del
2003)». (cfr, inoltre cent. n. 179/2012 e 39 del 2013).
Al contrario di quanto esplicitamente, quindi, stabilito dalla
giurisprudenza di questa ecc.ma Corte sulla necessita' di un
coinvolgimento forte delle regioni, il comma 1 dell'art. 38 con
decisione unilaterale dello Stato, in assenza di un adeguato elemento
di leale collaborazione capace di legittimare tale intervento
normativo, attrae nella competenza statale le attivita' di
prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi e quelle di
stoccaggio sotterraneo di gas naturale, e la disciplina dei relativi
titoli abilitativi, definendoli di interesse strategico, di pubblica
utilita', urgenti e indifferibili, con violazione quindi degli
articoli 117, comma 3, e 118, in materia di produzione di energia e
120 della Costituzione.
Il comma 1-bis (anche nella versione modificata dall'art. 1,
comma 554, della legge n. 190/2014) prevede, inoltre, che, senza
adeguato coinvolgimento delle regioni, sia il Ministro dello sviluppo
economico con proprio decreto, sentito il Ministro dell'ambiente e
della tutela del territorio e del mare, a predisporre il piano delle
aree in cui sono consentite le attivita' di cui al comma 1. Solo per
le attivita' su terraferma, il piano e' adottato (questa previsione
e' stata appunto aggiunta dalla legge n. 190 del 2014) previa intesa
con la Conferenza unificata, specificando tuttavia che in caso di
mancato raggiungimento dell'intesa, si provveda con le modalita' di
cui all'art. 1, comma 8-bis, della legge n. 239/2004. Al riguardo
occorre evidenziare come sebbene per le attivita' in terraferma sia
prevista ora una intesa con le regioni, si tratta in ogni caso di una
intesa debole; si tratta quindi di un coinvolgimento delle stesse non
proporzionato alla tutela degli interessi in gioco in una materia
cosi' inerente, da diversi profili, alle competenze regionali in
materia tutela della salute, governo del territorio, protezione
civile, valorizzazione dei beni culturali e ambientali, produzione di
energia (cfr. al riguardo sent. n. 6 del 2004, dove questa ecc.ma
Corte ha precisato l'esigenza di intese «forti» «a causa del
particolarissimo impatto che una struttura produttiva di questo tipo
ha su tutta una serie di funzioni regionali relative al governo del
territorio, alla tutela della salute, alla valorizzazione dei beni
culturali ed ambientali, al turismo, etc.»). Nessuna intesa viene poi
prevista per attivita' in mare, nonostante questa ecc.ma Corte in
piu' occasioni (cfr. ad esempio sent. n. 102 del 2008) abbia
precisato «Il mare, infatti, ben puo' essere oggetto della
legislazione regionale; come avviene, ad esempio, per le regioni a
statuto ordinario, nell'ambito della competenza concorrente in
materia di porti o di grandi reti di navigazione». La disposizione
del comma 1-bis si pone quindi in violazione degli articoli 117, 3
comma, e 118, in materia di produzione di energia e 120 della
Costituzione.
Ma vi e' di piu'.
Come gia' rilevato in relazione al comma 1 dell'art. 35, anche la
disposizione del comma 1-bis dell'art. 38, infatti, pur prevedendo un
vero e proprio atto di pianificazione delle aree in cui sono
consentite le attivita' di prospezione, ricerca e coltivazione di
idrocarburi e quelle di stoccaggio sotterraneo di gas naturale, non
ne stabilisce l'assoggettamento ad autorizzazione ambientale
strategica (VAS), in violazione dell'art. 3 e seguenti della
direttiva 2001/42/CE. Anche in questo caso, quindi, per le analoghe
argomentazioni esposte in relazione al comma 1 dell'art. 35, si
determina una violazione degli articoli 11 e 117, I comma della
Costituzione, che ridonda evidentemente nella lesione delle
competenze costituzionalmente assegnate alle regioni riguardo alla
tutela della salute, del governo del territorio, alla valorizzazione
dei beni ambientali e culturali e anche inerenti lo stesso
procedimento di VAS (cfr. I. regione Veneto n. 11 del 2004; articoli
4 e 14, legge regione n. 4 del 2008; art. 40, legge regionale n. 13
del 2012), dal momento che la individuazione delle aree, proprio in
relazione ad un'attivita' a forte impatto ambientale, non potra'
avvenire nel rispetto delle procedure di tutela prescritte dalla
normativa comunitaria.
Il comma 2, inoltre prevede che se le opere da eseguire
comportano variazione degli strumenti urbanistici, i suddetti titoli
abilitativi abbiano effetto di variante urbanistica, senza
considerare quanto affermato da questa ecc.ma Corte nella sentenza n.
340 del 2009, per la quale: «Ai sensi dell'art. 117, terzo comma,
ultimo periodo, Cost., in tali materie lo Stato ha soltanto il potere
di fissare i principi fondamentali, spettando alle regioni il potere
di emanare la normativa di dettaglio. La relazione tra normativa di
principio e normativa di dettaglio va intesa nel senso che alla prima
spetta prescrivere criteri ed obiettivi, essendo riservata alla
seconda l'individuazione degli strumenti concreti da utilizzare per
raggiungere detti obiettivi (ex plurimis: sentenze n. 237 e n. 200
del 2009). Orbene la norma in esame, stabilendo l'effetto di variante
sopra indicato ed escludendo che la variante stessa debba essere
sottoposta a verifiche di conformita' ... introduce una disciplina
che non e' finalizzata a prescrivere criteri ed obiettivi, ma si
risolve in una normativa dettagliata che non lascia spazi
d'intervento al legislatore regionale, ponendosi cosi' in contrasto
con il, menzionato parametro costituzionale (sentenza n. 401 del
2007).». Tale disposizione si pone quindi in palese violazione degli
articoli 117, comma 3, e 118, in materia di urbanistica nonche' del
principio di leale collaborazione di cui all'art. 120 Cost.
Quanto al comma 3 dell'art. 38, esso modifica il decreto
legislativo n. 152/2006, che attribuiva al Ministero dell'ambiente la
competenza al rilascio del provvedimento di VIA solo per i progetti
off-shore, cioe' relativi ad attivita' di prospezione, ricerca e
coltivazione in mare e sottrae integralmente alla competenza
regionale della VIA i progetti relativi ad attivita' di coltivazione
sulla terraferma degli idrocarburi liquidi e gassosi. A questo
riguardo occorre precisare che la valutazione di impatto ambientale
costituisce indubbiamente una materia «intrinsecamente trasversale»,
essendo correlata in modo piu' che rilevante al governo del
territorio e alla valorizzazione dei beni culturali ed ambientali,
entrambi aspetti affidati alla competenza concorrente. Questa ecc.ma
Corte ha infatti evidenziato: «La materia tutela dell'ambiente ha
natura intrinsecamente trasversale, con la conseguenza che, in ordine
alla stessa, si manifestano competenze diverse che ben possono essere
anche di tipo regionale. La trasversalita' della materia emerge con
particolare evidenza con riguardo alla valutazione ambientale
strategica, che abbraccia anche settori di sicura competenza
regionale» (sentenza n. 398 del 2006). Peraltro, alle regioni e' in
ogni caso riconosciuta, come chiarito da questa ecc.ma Corte,
nell'esercizio delle loro competenze che interferiscano con la tutela
dell'ambiente, la potesta' di determinare una elevazione degli stessi
(sent. n. 93 del 2013). Gia' prima della riforma del titolo V del
2001 il decreto del Presidente della Repubblica 12 aprile del 1996,
recante «Atto di indirizzo e coordinamento per l'attuazione dell'art.
40, comma 1, della legge n. 146 del 1994, concernente disposizioni in
materia di valutazione di impatto ambientale», stabiliva criteri e
norme tecniche per l'applicazione della procedura di VIA a livello
regionale e prevedeva che le regioni stesse, attraverso l'emanazione
di proprie leggi e regolamenti, implementassero e integrassero la
normativa nazionale della valutazione di impatto ambientale. Inoltre,
in forza dell'art. 71 del decreto legislativo n. 112 del 1999, molte
categorie di progetti rientrarono nella competenza regionale, a
condizione che queste ultime provvedessero all'adozione di una mirata
e specifica normativa in materia di VIA. La competenza regionale
quanto al procedimento di VIA e' stata poi confermata dal testo unico
ambiente, in base al quale le regioni sono tenute, per un verso, a
rispettare i livelli uniformi di tutela apprestati in materia, per
l'altro, a mantenere la propria legislazione negli ambiti di
competenza fissati dal testo unico ambiente. In particolare, in base
all'art. 7, comma 4, del testo unico ambiente, «sono sottoposti a VIA
secondo le disposizioni delle leggi regionali i progetti di cui agli
allegati III e IV al decreto legislativo n. 152 del 2006». Il comma
3, pertanto, sottraendo ora integralmente alla competenza regionale
della VIA i progetti relativi ad attivita' di coltivazione sulla
terraferma degli idrocarburi liquidi e gassosi, all'evidente scopo di
ridurre la tutela ambientale in ambiti strettamente connessi alle
competenze regionali, determina una violazione degli articoli 117, 3
e 4 comma, e 118 della Costituzione in materia di tutela della
salute, governo del territorio, protezione civile, valorizzazione dei
beni culturali e ambientali, produzione di energia.
Ma non solo.
Il successivo comma 4 stabilisce che le procedure di valutazione
di impatto ambientale per la prospezione, ricerca e coltivazione di
idrocarburi a terra che siano state avviate dalla regione, se non
completate entro il 31 marzo 2015 debbano essere avocate dallo Stato
e trasmesse automaticamente al Ministero dell'ambiente. Il
legislatore statale pretende quindi che i procedimenti di VIA avviati
dalla regione, sulla base di norme diverse per ogni amministrazione e
che quindi prevedono modalita' diverse di svolgimento e di assunzione
delle decisioni finali abbiano a cessare «per decorrenza dei termini»
passando automaticamente nella mani del Ministero dell'ambiente.
Quanto previsto avra' come conseguenze un forte e irragionevole
aggravio del lavoro della Commissione VIA nazionale: infatti, a
quanto risulta dai dati ufficiali, sono 173 i progetti a terra che
con l'attuale legislazione, devono ottenere la VIA regionale (68
istanze di permessi di ricerca, 96 permessi di ricerca, 9 istanze di
concessione a coltivazione). Si tratta quindi di una disposizione
sulla quale non solo si riflettono, per gli stessi motivi esposti, le
censure dedotte in relazione al comma 3 del medesimo articolo, ma si
rispetto alla quale si evidenzia un'ulteriore vizio di
irragionevolezza e di difetto di proporzionalita', ex articoli 3 e 97
Cost., anche conseguente al carattere retroattivo della disposizione,
attuata anche in questo caso in violazione del principio di leale
collaborazione e con una evidente ricaduta sulle prime evidenziate
competenze regionali.
Quanto al comma 5, che prevede l'introduzione di un «titolo
concessorio unico» in luogo di due titoli distinti (permesso di
ricerca e concessione di coltivazione), rilasciato con decreto del
Ministro dello sviluppo economico sulla base di un programma generale
di lavori articolato nelle fase di ricerca, fase di coltivazione e
fase di ripristino, esso supera la tradizionale distinzione tra le
fasi di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi prevista
dalle leggi n. 9/1991, n. 239/2004 e dal decreto legislativo n.
625/1996 - che costituisce peraltro attuazione della direttiva
94/22/CE. Infatti, in base a tali disposizioni (art. 8, comma 1, del
decreto del Presidente della Repubblica 18 aprile 1994, n. 484; art.
6, comma 4, della legge n. 9/1991, nonche', per la terraferma, l'art.
1, comma 7, lettera n) della legge n. 239/2004) il permesso di
ricerca e' rilasciato a seguito di un procedimento unico al quale
partecipano le amministrazioni statali, regionali e locali
interessate (art. 1, commi 77 e 79 della legge n. 239/2004), e in
esso il permissionario s'impegna ad effettuare lavori per
l'individuazione di un eventuale giacimento coltivabile presente
nell'area richiesta. Le operazioni ammesse sul campo e descritte nel
programma dei lavori approvato all'atto del rilascio, sono ricerche
geofisiche e perforazioni di ricerca. In caso di ritrovamenti di
idrocarburi possono essere anche ammesse delle produzioni, ma solo
strettamente finalizzate alle valutazioni del giacimento e dei suoi
prodotti, essenziali per la richiesta della concessione di
coltivazione. La concessione di coltivazione e' invece l'atto con cui
al concessionario, a seguito di un ritrovamento positivo che egli
stesso ha ottenuto, e' dato il diritto di produrre in base ad un
programma di sviluppo del giacimento approvato all'atto del rilascio
della concessione. L'attivita' principale nella concessione e' la
coltivazione del giacimento, cioe' la produzione, con l'obiettivo di
massimizzarla. Nella nuova disciplina, invece, i poteri concessori
vengono attribuiti ben prima della dimostrazione dell'utilita'
generale, in quanto non e' ancora stato scoperto il giacimento;
inoltre il contenuto del programma dei lavori, che deve essere
predisposto prima dell'attivita' di ricerca, difficilmente potra'
specificare in maniera puntuale le singole aree interessate dalla
ricerca e successiva coltivazione (cfr. allegato n. 1 dossier Senato,
pag. 593, dove si rileva questa incongruenza). Si evidenzia quindi
l'irragionevolezza dell'intera disciplina con violazione dell'art. 3
Cost. e la conseguente lesione delle prerogative regionali di cui
all'art. 117, comma 3 e 4 della Costituzione in materia di governo
del territorio, protezione civile, valorizzazione dei beni culturali
e ambientali, produzione di energia.
Quanto al comma 6, laddove prevede che il titolo concessorio e'
accordato (lettera b) con decreto del Ministero dello sviluppo
economico, sentita la Commissione per gli idrocarburi e le risorse
minerarie e le sezioni territoriali dell'Ufficio nazionale minerario
idrocarburi e georisorse, solo d'intesa, e unicamente per le
attivita' da svolgere in terraferma, con la regione territorialmente
interessata, esso determina una retrocessione della posizione in
precedenza garantita alla regione. Infatti, la disciplina prima
prevista dall'art. 1, commi 78, 82-ter della legge n. 239/2004
disponeva che riguardo alle attivita' su terraferma il suddetto
decreto fosse rilasciato a seguito di un procedimento unico al quale
partecipano le amministrazioni statali e regionali interessate. La
regione quindi aveva (anche in base alla interpretazione deducibile
dalla citata sentenza n. 6 del 2004 di questa ecc.ma Corte) una
posizione forte, che non risulta piu' prevista nella normativa
impugnata che non configura l'intesa «nel senso che il suo mancato
raggiungimento costituisce ostacolo insuperabile alla conclusione del
procedimento». La mera previsione di una Conferenza di servizi di cui
alla lettera a) del comma 6 non implica invece analoga garanzia. In
ogni caso l'intesa e' esclusa quando si tratti di attivita' in mare
(a differenza della citata previgente normativa che invece prevedeva
che la concessione di coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi
fosse in ogni caso rilasciata a seguito di un procedimento unico al
quale partecipavano anche le amministrazioni regionali e locali). La
disposizione risulta pertanto violare gli articoli 117, commi 3 e 4,
e 118 della Costituzione in materia di tutela della salute, governo
del territorio, protezione civile, valorizzazione dei beni culturali
e ambientali, produzione di energia, nonche' il principio di leale
collaborazione di cui all'art. 120 Cost. Inoltre, la previsione che
la valutazione ambientale del programma complessivo dei lavori «sia
espressa, entro sessanta giorni, con parere della commissione tecnica
di verifica dell'impatto ambientale VIA/VAS del Ministero
dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare» espropria le
regione delle proprie competenze in materia di VIA: si ripropongono,
pertanto, al riguardo le stesse censure esposte in relazione al comma
4 dell'art. 38.
Quanto al comma 8, che dispone l'applicazione delle nuove norme
sul titolo concessorio unico anche ai titoli rilasciati
successivamente alla data di entrata in vigore del Codice ambientale
e ai procedimenti in corso, si tratta di una disposizione nella quale
si riflettono le censure precedentemente esposte, cui si aggiunge
quella della violazione del principio di ragionevolezza ex art. 3
Cost. stante l'effetto retroattivo che ridonda in una violazione
delle competenze regionali in precedenza indicate in riferimento alla
nuova disciplina dei titoli abilitativi.
Quanto infine al comma 10, e' utile premettere che secondo le
valutazioni dello stesso MISE nei nostri fondali marini esistono
circa 10 milioni di tonnellate di petrolio di riserve certe, che
stando ai consumi attuali, coprirebbero il fabbisogno nazionale per
soli 2 mesi; quanto alle riserve certe di Gas presenti nei fondali,
queste ammontano complessivamente a 33,1 miliardi di Gmc, a fronte di
un fabbisogno annuo (dato 2013) di oltre 70 mld di Gmc: portando a
intero esaurimento queste riserve di Gas si riuscirebbe a coprire
quindi il fabbisogno annuo per meno di 6 mesi (cfr, allegato n. 2
dossier MISE, pag. 35). Cio' premesso, al fine di evidenziare, i
profili di incostituzionalita' della disposizione impugnata, e' utile
ricordare che la legge n. 179/2002 all'art. 26 «Disposizioni relative
a Venezia e Chioggia», comma 2, a fronte di accertati fenomeni di
subsidenza, ha esteso il divieto di prospezione, ricerca e
coltivazione alle acque del Golfo di Venezia, nel tratto di mare
compreso tra parallelo passante per la foce del fiume Tagliamento e
il parallelo passante per la foce del ramo di Goro del fiume Po. E'
poi seguito il decreto-legge n. 112/2008 che all'art. 8, comma 1, ha
stabilito che: «Il divieto di prospezione, ricerca e coltivazione di
idrocarburi nelle acque del golfo di Venezia, di cui all'art. 4 della
legge 9 gennaio 1991, n. 9, come modificata dall'art. 26 della legge
31 luglio 2002, n. 179, si applica fino a quando il Consiglio dei
ministri, d'intesa con la regione Veneto, su proposta del Ministro
dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, non abbia
definitivamente accertato la non sussistenza di rischi apprezzabili
di subsidenza sulle coste, sulla base di nuovi e aggiornati studi,
che dovranno essere presentati dai titolari di permessi di ricerca e
delle concessioni di coltivazione, utilizzando i metodi di
valutazione piu' conservativi e prevedendo l'uso delle migliori
tecnologie disponibili per la coltivazione.». Senza che
l'accertamento di questa definitiva inesistenza di rischi
apprezzabili di subsidenza delle coste sia mai stata accertata (anzi
la regione Veneto interviene sovente a stanziare risorse per
fronteggiare questo fenomeno - cfr. solo a titolo esemplificativo
allegato n. 3 DGR n. 180 del 27 febbraio 2014 - che ha portato nella
zona del Polesine a fenomeni di abbassamento dei terreni anche in
termini di metri), il comma 10 legittima, anche in queste aree,
l'attivita' di ricerca e coltivazione di idrocarburi nella forma di
progetti sperimentali. La disposizione impugnata trasforma, infatti,
gli studi che dovevano essere portati a termine dal Ministero
dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare in «progetti
sperimentali di coltivazione», soggetti al regime dei titoli
abilitativi accelerati cui allo stesso art. 38, da portare avanti
sotto il controllo del Ministero dello sviluppo economico e del
Ministero dell'ambiente. In modo del tutto contraddittorio, infatti,
nella relazione al decreto-legge n. 133/2014, con riguardo al
suddetto comma si afferma: «L'obiettivo e' la realizzazione degli
studi volti a escludere rischi apprezzabili di subsidenza,
permettendo cosi' di acquisire i dati necessari per il superamento
dell'attuale blocco delle attivita' in alcune aree, stabilito proprio
in attesa di acquisire i risultati di tali studi per la ripresa delle
attivita' di produzione interrotte nel 2002. Tale disposizione
permettera' di sviluppare nuove tecnologie nazionali, garantire
produzioni significative di gas (oltre un miliardo di Smc/anno),
effettuare importanti investimenti privati con rilevanti ricadute
occupazionali e monitorare lo svolgimento delle attivita' estrattive
gia' in corso in aree limitrofe ad opera di Paesi frontisti». Delle
due l'una: o lo scopo e' realizzare gli studi (e quindi logicamente
si dovrebbe attendere quanto previsto originariamente dall'art. 8 del
decreto-legge n. 112/2008 o in ogni caso ci si dovrebbe riservare una
grande prudenza nel prospettare lo sbocco delle attivita') o lo scopo
e' piuttosto quello di soprassedere alla esigenza di tutela
ambientale del territorio italiano e sboccare l'attivita' di
coltivazione per garantire «produzioni significative di gas» ed
effettuare «importanti investimenti privati». I due scopi, antitetici
fra di loro, vengono invece artatamente sovrapposti dalla
disposizione impugnata, rendendo evidente l'intenzione del
legislatore statale di sacrificare il primo scopo al secondo. In
questi termini, da un lato, la finalita' economico-finanziaria di
«assicurare il relativo gettito fiscale allo Stato», viene a
prevalere decisamente su beni primari come la tutela dell'ambiente,
dell'integrita' del territorio nazionale, della tutela della salute
e, dall'altro, vengano esautorate le competenze della regione del
Veneto, in particolare svilendo la partecipazione della stessa che
non si vedrebbe piu' quale interlocutrice dello Stato in termini di
intesa (che considerando gli interessi regionali in gioco dovrebbe
essere del tipo «forte», cfr. al riguardo la gia' citata sent. n. 39
del 2013), dovendo, invece, solo essere sentita. La nuova effettiva
finalizzazione teleologica della disciplina emerge, peraltro, anche
dal coinvolgimento del MISE, mentre in precedenza era solo al
Ministero dell'ambiente che facevano capo gli studi sui rischi di
subsidenza legati alle attivita' di prospezione, ricerca e
coltivazione di idrocarburi nell'Alto Adriatico. Per motivi di
gettito fiscale, si espone quindi, irragionevolmente e senza rispetto
del principio di proporzionalita', il territorio italiano e in
particolare quello della regione Veneto (e delle altre regioni
soggette al fenomeno della subsidenza, con conseguente lesione anche
dell'integrita' territoriale del demanio regionale) a rischi
gravissimi in relazione proprio a quelle attivita' che erano state
giustificatamente interdette per motivi ambientali, di tutela della
salute e di protezione civile in questa delicatissima zona, le cui
esigenze di tutela la legislazione statale in altre occasioni, non ha
mancato di rilevare (si pensi a tutta la legislazione a tutela della
Laguna di Venezia a partire gia' dalla legge n. 294/1956 e quindi
dalla legge n. 171/1973 e seguenti). Tutto questo nonostante le
evidenze del fenomeno. Ad esempio secondo i dati Arpa (allegato n. 4)
il litorale ravennate (dove e' presente un'intensa attivita'
estrattiva offshore), presenta abbassamenti generalmente fino a circa
5 mm/anno, con alcune aree piu' critiche come l'area costiera
compresa tra il Lido Adriano e la foce del Bevano che presenta una
depressione piu' importante, facendo registrare un abbassamento pari
a 20 mm/anno in corrispondenza della foce dei Fiumi Uniti. Inoltre,
un ulteriore profilo di irragionevolezza e di violazione del
principio di proporzionalita' della disciplina si evidenzia
considerando che la disposizione prevede una durata della
sperimentazione che puo' arrivare a ben cinque anni, al termine della
quale - precisa la norma - «qualora al termine del periodo di
validita' dell'autorizzazione accertato che l'attivita' e' stata
condotta senza effetti di subsidenza dell'attivita' sulla costa,
nonche' sull'equilibrio dell'ecosistema e sugli insediamenti
antropici, il periodo di sperimentazione puo' essere prorogato per
ulteriori cinque anni, applicando le medesime procedure di
controllo». Si tratta di un periodo di tempo eccessivamente lungo,
durante il quale possono essere stati prodotti effetti irreversibili
proprio sull'ecosistema e sugli insediamenti antropici: il fatto
stesso che la norma ritenga perlomeno necessario stabilire una
verifica ex post, dimostra evidentemente i controlli ex ante previsti
dalla norma non sono in grado di escludere il pericolo di danni
ambientali.
Da questo punto di vista la disciplina introdotta dal comma 10 si
pone in contrasto con l'art. 191 del Trattato sul funzionamento
dell'Unione europea, ove e' fissato il principio di precauzione,
disatteso nella specie attraverso la legittimazione di attivita'
economica in assenza di una piena certezza scientifica e di prove
sufficienti a dimostrare l'inesistenza di un nesso causale tra
l'esercizio di talune attivita' e gli effetti nocivi sull'ambiente e
sul territorio. Il bene ambiente e' esposto infatti ad una
possibilita' di danno che non potrebbe essere adeguatamente riparato
attraverso un intervento successivo, in considerazione della
dimensione spaziale e temporale e della diffusivita' dei potenziali
eventi dannosi. Al riguardo va anche ricordata la comunicazione
1/2000 (COM(2000) 1 final del 2 febbraio 2000) dove la commissione ha
chiarito che si deve fare ricorso al principio di precauzione quando
«le informazioni scientifiche sono insufficienti, non conclusive o
incerte e vi sono indicazioni che i possibili effetti sull'ambiente e
sulla salute degli esseri umani, degli animali e delle piante possono
essere potenzialmente pericolosi e incompatibili con il livello di
protezione prescelto». Cosi' come deve essere ricordata la
giurisprudenza della Corte di giustizia, che ha stabilito le
autorita' pubbliche, pur in presenza di incertezze scientifiche, sono
tenute all'adozione di misure appropriate al fine di prevenire taluni
rischi potenziali per l'ambiente, facendo cosi' prevalere le esigenze
connesse alla protezione di tali interessi nei confronti di quelli
economici (Corte di giustizia, sentenza 5 maggio 1998, causa
C-180/96) e ancora (Corte di giustizia, 7 settembre 2004, causa
C-127/02) che tenuto conto del principio di precauzione, un rischio
di pregiudizio sussiste quando non puo' essere escluso, sulla base di
elementi obiettivi, che il piano o il progetto pregiudichino in modo
significativo il sito interessato. Cio' implica che in caso di dubbio
(e in questo caso l'esistenza di rischi di subsistenza era stata
proprio affermata dal legislatore statale con le citate disposizioni
del 2002 e del 2008 ora irragionevolmente superate), quanto alla
mancanza di effetti significativi, vada effettuata una tale
valutazione proprio allo scopo di evitare che vengano autorizzati
piani o progetti in grado di pregiudicare l'integrita' del sito
interessato.
Il comma 10 risulta pertanto, in contrasto con gli articoli 11 e
117, I comma, Cost. nonche', avendo il legislatore statale
sacrificato rilevantissimi interessi in gioco senza aver effettuato
un (perlomeno adeguato) bilanciamento, con i principi di
proporzionalita' e di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost., e con
gli articoli 9, 32 e 97 Cost., con una ripercussione sulle competenze
regionali, che risultano violate anche direttamente, previste dai
commi 3 e 4 dell'art. 117 Cost. in materia di tutela della salute,
governo del territorio, protezione civile, valorizzazione dei beni
culturali e ambientali, produzione di energia, turismo; oltre a porsi
in contrasto con l'art. 119, comma 6, per la lesione all'integrita'
del demanio regionale, nonche' con il principio di leale
collaborazione di cui all'art. 120 Cost., dal momento che prevede che
sia solo sentita la regione, senza una forma di intesa, che peraltro
ai sensi della citata giurisprudenza di questa ecc.ma Corte relativa
alla materia concorrente produzione dell'energia, nel caso di specie,
considerando gli interessi regionali in gioco, dovrebbe configurarsi
come intesa forte.
4) Illegittimita' costituzionale dell'art. 42 comma 1, per violazione
degli articoli 3, 77, 117, III comma, 119, Costituzione e il
principio di leale collaborazione di cui all'art. 120 Costituzione.
L'art. 42, al comma 1, in relazione al contributo alla finanza
pubblica delle regioni a statuto ordinario gia' disposto dall'art.
46, commi 6 e 7 del decreto-legge n. 66 del 2014 (rispetto ai quali
la regione Veneto ha provveduto, con la DGR n. 1322 del 28 luglio
2014, a proporre ricorso in via principale) ha anticipato in modo del
tutto arbitrario e irragionevole, senza peraltro che esistesse alcun
reale presupposto di necessita' e urgenza, dal 31 ottobre al 31
settembre 2014, il termine originariamente previsto per l'intesa sul
riparto dei tagli in Conferenza Stato-regioni. Tale disposizione,
entrata in vigore il 13 settembre 2014, ha quindi improvvisamente
anticipato di un mese la scadenza originariamente prevista e ha reso
quindi impossibile di fatto il raggiungimento di una delicatissima e
rilevante intesa diretta a permettere di evitare, attraverso
l'autocoordinamento regionale, l'applicazione del criterio di riparto
stabilito dal comma 6, che individua come criteri il Pil e la
popolazione residente (criterio particolarmente penalizzante per la
regione Veneto). Se come questa ecc.ma Corte ha ribadito «costituisce
un insuperabile motivo di illegittimita' costituzionale la
predeterminazione di un termine irragionevolmente breve» (sent. n.
274 del 2013) (che nel caso di specie era di 60 giorni) in relazione
a complesse questioni, appare del tutto evidente, in una questione
come quella in oggetto, dove in cui gioco erano i criteri di riparto
di un taglio di 750 ml di euro per ciascuno degli anni dal 2015 al
2018, l'arbitrarieta' e l'irragionevolezza della disposizione che ha
improvvisamente ridotto il termine a 17 giorni, rendendo quindi di
fatto impossibile l'intesa, probabilmente solo allo scopo di poter
presentare gia' in sede di disegno di legge di stabilita' (presentato
in data 23 ottobre 2014) una piena contabilizzazione del taglio
relativo all'anno 2015.
La suddetta disposizione si pone pertanto in contrasto con un
corretto e leale esercizio della funzione di coordinamento della
finanza pubblica di cui all'art. 117, III comma, Cost, nonche' con
gli articoli 3 e 77 Cost. la cui violazione ridonda sulla sfera
costituzionalmente garantita alla regione dagli articoli 117, III e
IV comma, e 119 comma, Cost. riflettendosi sul livello di
finanziamento delle funzioni regionali, nonche' con il principio di
leale collaborazione di cui all'art. 120 Cost.
P. Q. M.
La regione del Veneto chiede che l'ecc.ma Corte costituzionale
dichiari l'illegittimita' costituzionale delle seguenti disposizioni
del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133, intitolato «Misure
urgenti per l'apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere
pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione
burocratica, l'emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa
delle attivita' produttive», come convertito, con modificazioni,
dalla legge 11 novembre 2014, n. 164 (in supplemento ordinario n. 85,
relativo alla Gazzetta Ufficiale 11 novembre 2014, n. 262):
art. 17, comma 1, lettera G, per violazione degli articoli 3, 23,
117, commi 3 e 4, 118, 119, 120 della Costituzione;
art. 35, commi 1, 2, 3, 4, 5, 8 e 9 per violazione degli articoli
3, 11, 117, commi 1, 3 e 4, 118, 119 e 120 della Costituzione;
art. 38, commi 1, 1-bis, 2, 3, 4, 5, 6, 8 e 10, violazione degli
articoli 3, 9, 32, 11, 97, 117, I, III e IV comma, 118, 119, 120
della Costituzione;
art. 42, comma 1, per violazione degli articoli 3, 77, 117, III
comma, 119, Costituzione e il principio di leale collaborazione di
cui all'art. 120 Costituzione.
Si depositano:
1) delibera della giunta regionale n. 2470 del 23 dicembre 2014,
di autorizzazione a proporre ricorso e affidamento dell'incarico di
patrocinio per la difesa regionale;
2) allegato n. 1 dossier Senato, pag. 593;
3) allegato n. 2 dossier MISE;
4) allegato n. 3 DGR n. 180 del 27 febbraio 2014;
5) allegato n. 4 dati Arpa.
Venezia-Roma, 9 gennaio 2014
L'avvocato: Zanon
L'avvocato professore: Antonini
L'avvocato: Manzi