Ricorso per questione di legittimita'  costituzionale  depositato  in
cancelleria il 21 ottobre 2011 (della Regione Puglia). 
 
 
(GU n. 50 del 30.11.2011) 
 
    Ricorso  della  Regione  Puglia,  in   persona   del   Presidente
pro-tempore, autorizzato con deliberazione della Giunta regionale del
7 ottobre 2011, n. 2213, rappresentata  e  difesa,  come  da  procura
speciale a margine del presente atto,  dall'avv.  prof.  Ugo  Mattei,
dall'avv. Prof. Alberto Lucarelli e dall'Avv. Prof. Nicola  Colaianni
con domicilio eletto in Roma  presso  la  Delegazione  della  Regione
Puglia, via Barberini 36; 
    Contro il Presidente  del  Consiglio  dei  ministri  pro-tempore,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello  Stato,  presso
la quale e' domiciliato ex lege in Roma, alla via dei Portoghesi,  n.
12; 
    Per la dichiarazione di illegittimita' costituzionale degli artt.
3 e 4 del decreto-legge 13  agosto  2011,  n.  138,  convertito,  con
modificazioni, dalla Legge 14 settembre 2011, n. 148 pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale n. 216 del 16 settembre 2011, per violazione: 
        dell'art. 117, primo, secondo, terzo, quarto, quinto e  sesto
comma, 
        della Costituzione; 
        dell'art. 118, primo e secondo comma, della Costituzione; 
        dell'art.  119  della  Costituzione;   dell'art.   41   della
Costituzione; dell'art. 42 della  Costituzione;  dell'art.  43  della
Costituzione; 
        degli artt. 1, 5, 75, 77, 114 della Costituzione, 
    nei modi e per i profili di seguito illustrati. 
    Con il decreto-legge 13 agosto  2011,  n.  138,  convertito,  con
modificazioni, nella legge 14 settembre 2011, n. 148  il  legislatore
statale  ha  introdotto  alcune  disposizioni  che   incidono   sulle
prerogative  delle  Regioni.  In  particolare,  l'art.  3,  rubricato
"Abrogazione delle indebite restrizioni all'accesso  e  all'esercizio
delle professioni e delle attivita'  economiche",  impone  agli  enti
locali di adeguare, entro un anno dall'entrata in vigore della  legge
di conversione del decreto, i rispettivi  ordinamenti  "al  principio
secondo cui l'iniziativa e l'attivita' economica privata sono  libere
ed e' permesso tutto cio' che  non  e'  espressamente  vietato  dalla
legge" in determinati casi, tra cui e' altresi' compreso il contrasto
con i principi fondamentali della Costituzione. 
    Tale disciplina costringe anche la Regione Puglia ad adeguarsi al
presunto nuovo "principio fondamentale per  lo  sviluppo  economico",
ledendo la sua potesta' legislativa, che a norma dell'art. 117, comma
primo, della Costituzione deve essere esercitata "nel rispetto  della
Costituzione" e, quindi, nella specie, degli artt. 41, 42 e 43. 
    Altra norma che incide sulle prerogative regionali e'  l'art.  4,
che propone un "Adeguamento della  disciplina  dei  servizi  pubblici
locali  al  referendum  popolare  e  alla  normativa  europea",  come
indicato in rubrica. Questa tuttavia si  configura  come  palesemente
menzognera sotto l'uno e l'altro profilo. 
    In  effetti,  la  disciplina   introdotta   conferma   l'impianto
dell'art. 23 bis del decreto legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito
nella legge 6 agosto 2008, n. 133 e successivamente abrogato  tramite
il  referendum   del   12-13   giugno   2011   coartando,   in   modo
costituzionalmente illegittimo,  il  diritto  dell'ente  territoriale
responsabile di erogare i proprio servizi e di gestire i propri  beni
a favore della propria comunita' e  tradendo  di  fatto  l'esito  del
suddetto referendum. Infatti, l'art. 4 d.l. n. 138/2011, forzando  la
liberalizzazione delle attivita' inerenti a servizi  pubblici  locali
di rilevanza economica (cfr. co. 1) e marginalizzando le  ipotesi  di
gestione diretta attraverso soggetti di diritto pubblico,  detta  una
normativa del tutto difforme, nello spirito e  nei  contenuti,  dalla
volonta'   popolare   espressa   a   seguito   della    consultazione
referendaria,  nonche'  dagli  stessi   principi   costituzionali   e
comunitari. 
    Invero,  tutt'al   contrario   delle   dichiarate   esigenze   di
adeguamento al diritto comunitario, questo  -  pur  incentrato  sulla
tutela  della  concorrenza  come  metodo  per   garantire   la   pari
opportunita' di accesso al mercato delle commesse pubbliche per tutti
gli operatori  europei  -  ammette  pienamente  il  diritto  di  ogni
amministrazione  di   erogare   direttamente   i   servizi   pubblici
autoproducendoli corrispondentemente alla propria missione. 
    E' invece soltanto nel momento nel  quale  un'autorita'  pubblica
scelga  di  estemalizzare  il  servizio  che   il   procedimento   di
affidamento  deve  rispettare  i  principi  di  non  discriminazione,
trasparenza, parita' di trattamento, libera circolazione di persone e
imprese ed in particolare la disciplina  comunitaria  in  materia  di
appalti pubblici. 
    Anche l'art. 4 del d. l. n. 138/2011  risulta,  pertanto,  lesivo
delle competenze  costituzionali  delle  Regioni  nelle  materie  dei
servizi pubblici e dell'organizzazione  degli  enti  locali,  che  la
Regione Puglia ha esercitato per  esempio  in  materia  di  trasporto
pubblico locale, con la legge regionale 31 ottobre 2002, n. 18, ed in
materia di rifiuti urbani con la  legge  regionale  del  31  dicembre
2009, n. 36 (nonche' in materia di servizio idrico integrato - la cui
esclusione  dal  campo  di  applicazione  dell'art.  4   e'   l'unica
innovazione del d.l. n. 138/2011 - con la 1.r.  20  giugno  2011,  n.
11). 
    Di conseguenza, gli artt. 3 e 4 d. 1. n. 138/2011,  incidendo  in
maniera consistente sulla sfera di competenza della  Regione  Puglia,
violano direttamente  gli  artt.  114,  117  e  118  Cost.;  inoltre,
entrando in conflitto con gli  artt.  1,  5,  75  e  77  Cost.,  essi
determinano una compressione dei poteri della Regione  stessa:  nella
quale si risolve, peraltro, il denunciato contrasto dell'art.  3  di.
cit. con le disposizioni contenute negli artt. 41,  42  e  43  Cost.,
ancorche' diverse da quelle attributive  di  competenza  legislativa,
che le Regioni possono nondimeno far valere  "se  tale  contrasto  si
risolva in una esclusione o limitazione dei potere regionali"  (Corte
cost. sent. 165/2007; ex multis  cfr.  anche  Corte  cost.  sent.  n.
50/2005,   n.   32/1960,   n.   961/1988).   Sussiste,   quindi,   la
legittimazione ad agire nel giudizio di cui all'art. 127 Cost. 
    Sull'illegittimita' dell'art. 3 d. 1. n. 138/2011. 
    L'art. 3 del d. 1. n. 138/2011 stabilisce che "Comuni,  provincie
e Regioni, entro un  anno  dall'entrata  in  vigore  della  Legge  di
conversione del presente Decreto adeguano i rispettivi ordinamenti al
principio secondo cui l'iniziativa e  l'attivita'  economica  privata
sono libere ed e'  permesso  tutto  cio'  che  non  e'  espressamente
vietato dalla Legge". Segue un elenco tassativo di ipotesi  esclusive
in cui il legislatore ordinario puo' intervenire  per  "espressamente
vietare" l'attivita' economica. Fra questi, alla lettera  b)  compare
il "Contrasto con i principi fondamentali della Costituzione". 
    Sebbene il riferimento espresso ad una futura modifica  dell'art.
41 della Costituzione, presente nel  testo  originario  del  d.l.  n.
138/2011  (una   vera   e   propria   "confessione"   della   propria
incostituzionalita' allo stato attuale), sia stato espunto dal Senato
nel corso del procedimento di conversione dello stesso, il  contenuto
in contrasto con il suddetto art. 41 rimane del tutto  invariato.  La
dottrina e' infatti unanime nel ritenere  che  le  norme  della  c.d.
"costituzione economica" (artt. 41, 42  e  43)  non  sono  parte  dei
"principi fondamentali della Costituzione" ed in quanto  tali  dunque
non sono presi in considerazione dall'art 3 del Decreto  fra  i  casi
tassativi che conferirebbero al legislatore ordinario  il  potere  di
limitare la liberta' di impresa. 
    In altre parole,  gli  enti  locali  dovranno  adeguarsi  ad  una
disciplina   che   implicitamente   sovverte   la    rappresentazione
costituzionale dell'iniziativa  economica,  introducendo  un  assetto
decisamente sbilanciato a favore dell'iniziativa privata ed arrivando
sino ad indicare quale regola  l'assenza  di  limiti  e  quale  unica
eccezione   l'applicazione   dei    principi    fondamentali    della
Costituzione. Tale norma  inadeguata  e  sproporzionata  integra  una
abnormita' giuridica  alla  stregua  della  Costituzione  come  legge
superiore e lede  sommamente  le  prerogative  regionali,  le  quali,
adeguandosi  al  disposto   dell'art.   3,   promuoverebbero   scelte
costituzionalmente irrituali,  rispettando  una  legge  ordinaria  ma
violando  norme  portanti  della  Costituzione,  che  il  legislatore
consente di  superare  solo  perche'  non  appartenenti  ai  principi
fondamentali. 
    Cosi', l'ordinamento autonomo degli enti  locali  e'  chiamato  a
modificarsi secondo  un  principio  (piena  liberta'  dell'iniziativa
economica)  non  fissato  dalla  Costituzione,  in  piena  violazione
dell'art.  114  co.  2  cost.  che  invece  pone  come  limite  ampio
all'autonomia locale il rispetto dei "principi  della  Costituzione",
ossia  tutto  quel  complesso   normativo   che   contribuisce   alla
costruzione della struttura istituzionale del Paese e che, in  questo
senso,  non  puo'  non  comprendere  anche  la  dinamica   proprieta'
pubblica/proprieta' privata come disciplinata dall'art. 41 Cost. 
    A cio' si aggiunga che l'equiparazione delle Regione  agli  altri
enti locali dal punto di  vista  di  tale  "adeguamento"  costituisce
un'ulteriore  forzatura  dell'ordine  costituzionale   delle   fonti.
Infatti, a  differenza  di  Provincie  e  Comuni,  le  Regioni  hanno
potesta'   legislativa   autonoma   garantita   direttamente    dalla
Costituzione (art. 117): non puo' esser quindi introdotto  per  legge
ordinaria  un  nuovo  sedicente  "principio  fondamentale"  idoneo  a
coartarne  la   sovranita'   legislativa   negli   ambiti   ad   esse
costituzionalmente riconosciuti. 
    E' dunque evidente che l'art. 3 d.l. n.  138/2011  da  una  parte
marginalizza  la  struttura  profonda  della  Costituzione  economica
italiana,  imponendo  una  scelta  centralizzatrice  e   privatistica
lontana dagli equilibri  costituzionali  vigenti,  dall'altra  ignora
l'architettura istituzionale decentrata descritta dal Titolo V  della
Carta. 
    Sull'illegittimita' dell'art. 4 d. l. n. 138/2011: a) per effetto
della centralizzazione del potere ai danni della Regione; 
    Occorre  chiarire  in  limine,  nell'ambito  di  un  ricorso   di
costituzionalita'   diretto   di   una    Regione,    necessariamente
circoscritto dalla  sua  natura,  che  tale  "scelta"  di  un  regime
concorrenziale estremo, reiterata dal legislatore nazionale  dopo  il
referendum abrogativo  del  13  giugno,  circoscrive  coercitivamente
l'ambito delle possibili scelte  che  le  Regioni  possono  porre  in
essere tanto in via di prerogative primarie quanto sussidiarie. 
    Infatti, l'analisi della disciplina impugnata evidenzia come essa
non possa essere unicamente ricondotta nella  materia  "tutela  della
concorrenza" -appartenendo quindi ad una delle  competenze  esclusive
dello Stato - ma coinvolga  necessariamente  attribuzioni  regionali,
colpendo le sfere di competenza proprie degli enti locali. Come noto,
all'abrogazione in via referendaria dell'art. 23 bis del decreto c.d.
Ronchi e prima dell'introduzione dell'articolo 4 d.l. n  138/2011  le
Regioni sono state nuovamente  considerate  protagoniste  attive  del
processo decisionale relativo alla  gestione  e  all'affidamento  dei
servizi pubblici locali. 
    Infatti, in conformita' con quanto affermato  da  codesta  Corte,
all'abrogazione referendaria dell'art.  23  bis  cit.  e'  conseguita
l'applicazione immediata nell'ordinamento  italiano  della  normativa
comunitaria, non verificandosi alcun vuoto  legislativo,  ne'  alcuna
reviviscenza di disposizioni precedentemente  abrogate  dallo  stesso
art. 23 bis (cfr. sent. n. 24 del 26 gennaio 2011, punto 4.2.2.). 
    I principi e  le  regole  del  diritto  comunitario,  cosi'  come
affermato dalla  giurisprudenza  costituzionale  richiamata,  possono
applicarsi direttamente nel nostro ordinamento, anche in  assenza  di
una disciplina nazionale di adeguamento. 
    Tale normativa, riassuntivamente esposta, prevede quanto segue: 
        1. la gestione diretta del servizio di  rilevanza  economica,
attraverso un affidatario che costituisce la longa manus di  un  ente
pubblico che lo controlla totalmente (Corte cost. 325/2010, punti 6.1
e 8.1), e' ammessa qualora Io Stato  nazionale  ritenga  di  ostacolo
alla  "speciale  missione"  dell'ente  pubblico  i  meccanismi  della
concorrenza e lo strumento dell'affidamento a terzi mediante una gara
ad evidenza pubblica (art. 106 TFUE); 
        2. l'affidamento della gestione ad una  societa'  mista  puo'
essere diretto se il socio  privato  delle  stessa  e'  stato  scelto
mediante gara ad evidenza pubblica:  la  sua  partecipazione  non  e'
subordinata ad alcun limite, ne' minimo ne' massimo; 
        3. la gestione c.d. in house e' subordinata al verificarsi di
tre   condizioni:   capitale   totalmente   pubblico   del   gestore;
possibilita' di esecuzione del controllo di c.d. «contenuto  analogo»
a quello  esercitato  dall'aggiudicante  stesso  sui  propri  uffici;
svolgimento della parte principale dell'attivita' dell'affidatario in
favore dell'aggiudicante. 
    E' agevole notare che il diritto comunitario (id est il  contesto
normativo antecedente alla  legge  impugnata)  relativo  alle  regole
concorrenziali minime in tema di gara ad  evidenza  pubblica  conceda
agli enti  locali  una  maggiore  liberta'  nella  definizione  delle
procedure  di  affidamento:  sul  piano  sostanziale,  la   normativa
comunitaria, ben  prevedendo  ipotesi  alternative  al  ricorso  alla
regola della concorrenza, e' assai "meno restrittiva" di quella posta
dall'art. 23-bis (come riconosciuto da Corte cost. n. 24/2011,  cit.)
e,  ora,  di  quella  risultante  dal  decreto  de  quo,  decisamente
orientato verso forme di gestione privatistica dei servizi  (al  pari
dell'abrogato art. 23 bis), al  punto  da  mettere  tra  parentesi  i
modelli di gestione  pubblica  (si  pensi  alla  gestione  diretta  o
all'azienda speciale di diritto italiano) e piu', in generale, la cd.
dimensione sociale europea. 
    Pertanto,   sussiste   una    chiara    lesione    dell'autonomia
costituzionale  della  Regione,  proprio  in  forza  della  descritta
compressione dei poteri ad essa attribuiti  dalla  legge:  l'art.  4,
infatti, riproponendo  nella  sostanza  la  disciplina  abrogata  dal
referendum (sia pure con le eccezioni di cui al co. 34) e comprimendo
in capo agli enti territoriali e locali il potere di  qualificare  la
natura dei servizi e conseguentemente scegliere i relativi modelli di
gestione,   stravolge   l'effetto   abrogativo   prodotto   all'esito
referendario, operando una centralizzazione del potere decisionale in
materia di beni e servizi  pubblici  incompatibile  con  gli  assetti
decentrati previsti al Titolo V della Costituzione di cui le  Regioni
sono i principali beneficiari. 
    A fronte di tale cornice giuridica, i servizi pubblici locali non
possono piu' essere esclusivamente  ricondotti  all'art.  117  co.  1
lett. e) Cost.:  oltre  al  profilo  di  tutela  e  promozione  della
concorrenza emerge una parte consistente della loro disciplina che e'
necessariamente rimessa agli  enti  locali  e  che,  prescindendo  da
valutazioni di mercato, coinvolge altresi' la competenza regionale. 
    Tale interpretazione puo' essere del resto desunta  dalla  stessa
norma impugnata ed in particolare dal comma 2: infatti, l'ente locale
che non opti per la  liberalizzazione  del  segmento  di  mercato  e'
chiamato ad evidenziare "le ragioni della decisione e i benefici  per
la comunita' locale  derivanti  dal  mantenimento  di  un  regime  di
esclusiva  del  servizio",  esprimendo  dunque  una  valutazione  che
richiede  necessariamente  un   contatto   con   il   territorio   di
riferimento. In tal  senso,  non  si  comprende  perche'  secondo  il
legislatore l'attenzione alla comunita' locale di  riferimento  debba
rilevare solo qualora l'ente non opti  per  la  liberalizzazione  dei
servizi,  non  assumendo  invece  alcun  valore  al   momento   della
definizione dalla scelta gestionale. 
    Vi e' dunque un chiaro  coinvolgimento  degli  enti  locali,  che
trova peraltro conferma nella tradizione storica dei servizi pubblici
locali, la cui disciplina ha sempre avuto un collegamento  essenziale
con le comunita' di riferimento, seppur all'interno  di  una  cornice
giuridica generale statale: non e' dunque pensabile, oltre ad  essere
concretamente  impossibile,  che   il   legislatore   statale   attui
un'espropriazione totale delle funzioni in capo agli enti locali. 
    Del resto, quanto detto sinora  trova  un  autorevole  precedente
nella  giurisprudenza  di  codesta  Corte  ed  in  particolare  nella
sentenza n.  272  del  2004:  l'estremo  dettaglio  della  disciplina
inerente l'affidamento dei servizi pubblici  di  rilevanza  economica
"va al di la' della pur doverosa tutela degli aspetti  concorrenziali
inerenti alla gara", la  regolamentazione  autoapplicativa  "pone  in
essere una illegittima compressione dell'autonomia regionale, poiche'
risulta ingiustificato e  non  proporzionato  rispetto  all'obiettivo
della tutela della concorrenza l'intervento legislativo statale". 
    Cosi', se e' vero che la  mancanza  di  una  precisa  definizione
dell'ambito  di  appartenenza  dei  servizi  pubblici  locali   rende
difficile la loro collocazione nelle sfere di competenza definite con
l'art. 117 Cost., e' ancor piu' vero che inquadrarli unicamente negli
schematismi della  concorrenza  rappresenta  un'operazione  priva  di
contatto con la realta'. 
    Ed allora, il quesito che si discute in questa illustre  sede  e'
se sia legittimo che nella (e per la) concorrenza si confondano altri
capisaldi del nostro  diritto  costituzionale  e  comunitario,  quali
appunto il pluralismo normativo ed istituzionale. 
    E' di fatti indiscutibile che la previsione in sede nazionale  di
una regolamentazione contraria all'esito referendario che importa  in
piu' la messa tra parentesi di intere disposizioni dei  Trattati  (ad
es., gli arti. 14 e 106 co. 2 TFUE, ma anche l'art. 36 Carta  europea
dei diritti fondamentali), altera i delicati rapporti tra principi  e
deroghe in esse stabiliti, oltre che il principio  di  sussidiarieta'
di cui all'art. 118 Costituzione, imponendo un monismo  normativo  in
capo allo Stato che si pone in radicale contrasto con quel pluralismo
di fonti che caratterizza l'esperienza europea  contemporanea  e  che
vede come protagonisti irrinunciabili anche le Regioni. 
    Insomma, l'art. 4  straborda,  per  cosi'  dire  "in  su"  (verso
l'Europa)  ed  in  giu'  (verso  le  Regioni),  in  un  tentativo  di
restaurazione del monismo giuridico statalista che di per se' non  e'
piu' compatibile con l'ordine costituzionale vigente,  fatto  di  una
dialettica complessa  fra  Costituzione,  Trattati  Europei  obblighi
internazionali e competenze riservate agli enti locali. 
    Si prenda ad esempio il comma 13 dell'art. 4,  d.l.  n.  138/2011
che, limitando le ipotesi di affidamento in house senza  gara  al  di
sotto di 900.000 euro  alle  sole  societa'  a  capitale  interamente
pubblico, vulnera i principi di autodeterminazione degli enti  locali
(artt. 5, 114, 117, 118 Cost.), nonche' il principio  comunitario  di
neutralita' rispetto agli assetti proprietari delle  imprese  e  alle
relative forme giuridiche ex art. 345 TFUE, oltre che,  in  generale,
quello della cd. preemption, in base al quale la  regolamentazione  a
livello UE ha l'effetto di precludere l'adozione a livello  nazionale
di discipline divergenti  (cfr.  CGCE,  causa  C-478/07,  conclusioni
dell'Avvocato Generale Ruiz-Jarabo Colomer). 
    In tal modo,  in  capo  agli  enti  territoriali  e  locali  gia'
indeboliti  da  politiche  economiche  assi  recessive  rispetto   ai
trasferimenti, residuano spazi ridotti (per non dire inesistenti)  in
merito alla determinazione delle  proprie  politiche  in  materia  di
servizi pubblici locali, relativamente  sia  alla  definizione  della
natura dei servizi sia alla scelta della forma giuridica da  adottare
per organizzare ed erogare tali servizi. 
    (Segue):  b)   per   effetto   della   violazione   del   vincolo
referendario. 
    I  tratti  di  incostituzionalita'  denunciati   nel   precedente
paragrafo  che,  violando  il  pluralismo  normativo  danneggiano  le
Regioni, non possono  essere  colti  in  tutta  la  propria  gravita'
sostanziale se non in rapporto alla vicenda referendaria dello scorso
giugno. Infatti, prima del referendum, codesta Corte  aveva  respinto
il ricorso di diverse Regioni (fra cui  l'esponente  Puglia)  avverso
l'art.  23  bis  (successivamente  abrogato  da  voto   referendario)
ammettendone l'astratta  costituzionalita'  rispetto  ad  un  ricorso
diretto. 
    La ricorrente Regione Puglia ha ben dimostrato che  proprio  dopo
tale voto referendario il contesto sia  cambiato  e  che  le  lesioni
apportate ai suoi danni e l'espropriazione di potesta' costituzionali
siano illegittime non solo per il loro contenuto,  ma  anche  per  lo
strumentario giuridico con cui sono state perpetrate. Come  si  dira'
di seguito, la norma che ripristini una disciplina  abrogata  in  via
referendaria e' evidentemente incostituzionale nella forma, in quanto
lesiva della volonta' popolare espressa ex art 75  Cost.  Per  questo
motivo l'art. 4 d. 1. n. 138/2011  e'  inadatto  a  produrre  effetti
sostanziali  costituzionalmente   ammissibili   e   a   limitare   le
prerogative degli enti locali. Codesta Corte ha  stabilito  in  varie
pronunce il  "divieto  di  formale  o  sostanziale  ripristino  della
normativa abrogata dalla volonta' popolare" (Corte cost. n.  9/1997).
Invero,  il  legislatore  "pur  dopo  l'accoglimento  della  proposta
referendaria, conserva il potere d'intervenire nella materia  oggetto
di referendum senza limiti particolari che non siano quelli  connessi
al divieto di far rivivere la normativa  abrogata"  (Corte  cost.  n.
32/1993 e n. 33/1993). Insomma, "il referendum manifesta una volonta'
definitiva e irripetibile", di guisa che la caducazione di una  norma
non puo'  "consentire  al  legislatore  la  scelta  politica  di  far
rivivere la normativa ivi  contenuta  a  titolo  transitorio"  (Corte
cost. n. 468/1990, lungo il solco tracciato con la  celebre  sentenza
n. 68/1978, con cui fu dichiarato illegittimo l'art. 39  della  legge
n. 352 del 1970 "limitatamente alla parte in cui non prevede  che  se
l'abrogazione  degli  atti  o  delle  singole  disposizioni  cui   si
riferisce il referendum venga accompagnata da altra disciplina  della
stessa materia, senza modificare  ne'  i  principi  ispiratori  della
complessiva  disciplina  preesistente  ne'  i   contenuti   normativi
essenziali dei singoli precetti,  il  referendum  si  effettui  sulle
nuove disposizioni legislative"). 
    Orbene, nel caso di specie e' evidente che il  legislatore  abbia
ripristinato la normativa abrogata dal referendum,  introducendo  una
disciplina   che   riproduce   non   solo   i   principi   ispiratori
(privatizzazione  dei  servizi  pubblici  locali  e  scelta  politica
pro-concorrenza piu'  restrittiva  rispetto  a  quella  dello  stesso
dritto  comunitario),  ma  ne  riprende  persino  le   modalita'   di
applicazione: scadenza degli affidamenti, gara a data  certa  per  la
gestione dei servizi pubblici locali, che  si  applicano  a  tutti  i
servizi  pubblici  locali  (con  esclusione   del   servizio   idrico
integrato). 
    Per una piena  comprensione  della  (illegittima)  operazione  di
ripristino, e' necessario procedere al confronto  dell'abrogato  art.
23 bis e successive modifiche con la  nuova  normativa  dell'art.  4,
utilizzando per una corretta interpretazione  la  piu'  volte  citata
sentenza n. 24 del 2011 di codesta Corte. 
    Per cio' che interessa questa sede, l'art. 23 bis 
    - si applicava a tutti  i  servizi  pubblici  locali,  prevalendo
sulle discipline di settore  con  esso  incompatibili,  salvo  quelle
relative ai quattro settori esclusi: distribuzione di  gas  naturale,
distribuzione di energia elettrica, gestione delle farmacie comunali,
trasporto ferroviario regionale (comma 1); 
    - disciplinava  il  conferimento  dei  servizi  pubblici  locali,
descrivendo due ipotesi di affidamento ordinarie (comma 2): 
        a) a favore di imprenditori o di societa' in qualunque  forma
costituite individuati mediante  procedure  competitive  ad  evidenza
pubblica, nel rispetto dei principi del Trattato  che  istituisce  la
Comunita' europea e  dei  principi  generali  relativi  ai  contratti
pubblici e, in particolare, dei principi di economicita',  efficacia,
imparzialita',     trasparenza,     adeguata     pubblicita',     non
discriminazione,  parita'  di  trattamento,  mutuo  riconoscimento  e
proporzionalita'; 
        b) a societa' a partecipazione mista pubblica  e  privata,  a
condizione che la selezione  del  socio  avvenga  mediante  procedure
competitive ad evidenza pubblica, nel rispetto dei  principi  di  cui
alla lettera a), le quali abbiano ad oggetto,  al  tempo  stesso,  la
qualita' di socio e l'attribuzione  di  specifici  compiti  operativi
connessi alla gestione del servizio e che al socio sia attribuita una
partecipazione non inferiore al 40 per cento; 
    -  ammetteva  l'affidamento  in  house  come  deroga  al   regime
ordinario, richiedendo da una parte  la  verifica  -  oltre  che  dei
requisiti richiesti dall'ordinamento comunitario (controllo analogo e
prevalenza dell'attivita' svolta) - della sussistenza di  "situazioni
eccezionali che, a causa  di  peculiari  caratteristiche  economiche,
sociali, ambientali e geomorfologiche del  contesto  territoriale  di
riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso  al  mercato"
(comma 3), dall'altra delle aggravanti  procedurali  (svolgimento  di
un'analisi  del  mercato  per  motivare  la  scelta  dell'in   house,
consultazione dell'AGCM, comma 4); 
    - introduceva un regime transitorio per gli affidamenti  gia'  in
essere all'entrata in vigore della nuova disciplina che prevedeva una
scadenza degli stessi ed una data  certa  per  la  messa  a  gara,  a
seconda del tipo di affidamento  e  della  natura  dell'ente  gestore
(comma 8). 
    Nel giudizio di ammissibilita' della richiesta di  referendum  su
tale norma, codesta Corte ha rilevato come la sua  ratio  consistesse
nel "favorire la gestione dei servizi pubblici  locali  di  rilevanza
economica da parte di soggetti scelti a seguito di gara  ad  evidenza
pubblica e, a tal fine limita i casi  di  affidamento  diretto  della
gestione, consentendo la gestione in house (cioe' una peculiare forma
di  gestione  diretta  del  servizio  da  parte  dell'ente  pubblico,
affidata senza gara pubblica) solo ove ricorrano situazioni del tutto
eccezionali, che  non  permetto  un  efficace  ed  utile  ricorso  al
mercato". In piu' parti della sentenza n. 24, la Corte ha chiaramente
affermato che la norma disciplinava  le  ipotesi  di  affidamento  di
tutti i servizi pubblici locali, compreso il servizio idrico; cio' ha
consentito ai Giudici di ritenere che il  quesito  1  rispettasse  il
requisito di omogeneita', richiesto ai fini dell'ammissibilita' dalla
giurisprudenza della Corte, giacche'  "l'evidente  unitarieta'  della
disciplina di cui si richiede  l'abrogazione  comporta  l'omogeneita'
del quesito". 
    Contrariamente a  quanto  sostenuto  dal  Governo  nella  memoria
depositata il 7 gennaio 2011, in cui si lamentava  la  disomogeneita'
del quesito "perche'  ha  ad  oggetto  l'affidamento  di  svariati  e
complessi  servizi",   la   Corte   ha   ritenuto   che   "l'astratta
riconducibilita' alla previsione dell'art. 23  bis  di  un'indefinita
pluralita' di servizi pubblici locali di rilevanza economica  non  e'
di ostacolo a tale conclusione [la matrice razionalmente unitaria del
quesito, n. d.r.], perche' non esclude la sottolineata unitarieta' di
disciplina  e,  quindi,  la  complessiva  coerenza  della   richiesta
referendaria.". E pertanto: "appare evidente  che  l'obiettiva  ratio
del quesito n. 1 va ravvisata, come sopra rilevato,  nell'intento  di
escludere l'applicazione delle norme contenute nell'art. 23 bis,  che
limitano, rispetto al diritto comunitario, le ipotesi di  affidamento
diretto e, in particolare, quelle di gestione in house di  pressoche'
tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica (ivi  compreso
il servizio idrico)". 
    La ratio dell'art. 23 bis,  identificabile  nel  favor  verso  lo
strumento della gara per l'affidamento dei servizi pubblici locali  e
nei limiti posti all'affidamento in house, e le relative modalita' di
applicazione, elencate sopra, rappresentano  quella  "intenzione  del
legislatore" che un intervento normativo  successivo  all'abrogazione
in  via  referendaria  non  puo'  riprodurre.  E  che,  tuttavia,  e'
sostanzialmente ripresa nell'art. 4 del decreto legge 13 agosto 2011,
n. 138, come la seguente analisi per  punti  consente  facilmente  di
dimostrare. Tale norma: 
        - introduce la gestione concorrenziale dei  servizi  pubblici
locali di rilevanza economica, a  meno  del  servizio  idrico  e  dei
settori gia' esclusi dal Decreto  Ronchi,  "liberalizzando  tutte  le
attivita' economiche e limitando, negli altri casi, l'attribuzione di
diritti di esclusiva alle ipotesi in cui, in base  ad  un'analisi  di
mercato, la libera iniziativa economica privata non risulti idonea  a
garantire  un  servizio  rispondente  ai  bisogni  della  comunita'",
attraverso una verifica volta a verificare i fallimenti  del  sistema
concorrenziale (commi 1, 2, 4); 
        -  nell'ipotesi  in  cui  l'ente  locale  intenda  attribuire
diritti di esclusiva, prevede che l'affidamento  sia  svolto  in  via
ordinaria secondo un'unica procedura: il conferimento della  gestione
dei  servizi  pubblici  locali  avviene   infatti   "in   favore   di
imprenditori o di societa' in qualunque forma costituite  individuati
mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, nel rispetto del
Trattato  sul  funzionamento  dell'Unione  europea  e  dei   principi
generali relativi  ai  contratti  pubblici  e,  in  particolare,  dei
principi  di  economicita',  imparzialita',   trasparenza,   adeguata
pubblicita',  non  discriminazione,  parita'  di  trattamento,  mutuo
riconoscimento e proporzionalita'" (comma 8); 
        - stabilisce che in caso di procedure "a doppio oggetto", con
svolgimento della gara anche per  la  qualita'  di  socio  (e  quindi
relative all'affidamento delle gestioni  nei  confronti  di  societa'
miste), a quest'ultimo debba essere conferita "una partecipazione non
inferiore al 40 per cento" (comma 12); 
        - Ritiene possibile, in via derogatoria  rispetto  al  regime
ordinario, l'affidamento "a favore di societa' a capitale interamente
pubblico che abbia i requisiti richiesti dall'ordinamento europeo per
la gestione cosiddetta in house", a patto che  "il  valore  economico
del servizio oggetto dell'affidamento [sia]  pari  o  inferiore  alla
somma complessiva di 900.000 euro annui" (comma 13); 
        - definisce un regime transitorio per gli affidamenti gia' in
essere all'entrata in vigore della nuova disciplina: viene  stabilita
la scadenza a data certa degli  affidamenti  che  non  rispettino  la
normativa ex art. 4 e la relativa messa a gara (comma 32, lett. a, b,
c, d). 
    Si segnala, infine, l'assoggettamento delle societa' in house  al
patto di stabilita' interno (comma 14), norma gia' prevista dall'art.
23  bis,  comma  10,  lett.  a)   e   dichiarata   costituzionalmente
illegittima da codesta Corte con la sentenza  n.  325  del  2010  sul
presupposto   dell'attrazione   della   materia    nell'ambito    del
coordinamento della finanza pubblica di competenza concorrente e  non
esclusiva dello Stato. 
    Oltre alla riproduzione della ratio e del contenuto, una  lettura
delle disposizioni consente di rilevare altresi' una vera  e  propria
identita'  linguistica  tra  le  due.  Questo  quadro  rende  percio'
evidente che il legislatore  abbia  ripristinato  sostanzialmente  la
disciplina abrogata in via referendaria,  disattendendo  la  volonta'
popolare; del resto, la stessa Commissione Affari Costituzionali  del
Senato, esprimendosi in data 24 agosto 2011 sul testo del disegno  di
legge della manovra aggiuntiva, aveva espresso un parere non ostativo
"a   condizione   che,   salvo   contrasto   insanabile   con   norme
costituzionali,  siano  in  ogni   caso   riformulate   le   seguenti
disposizioni. [.] l'articolo 4, che introduce  disposizioni  volte  a
liberalizzare i servizi pubblici locali di  rilevanza  economica,  al
fine di creare  le  condizioni  per  l'apertura  al  mercato:  appare
necessaria,   al   fine   di    evitare    possibili    censure    di
incostituzionalita' e perche' sia assicurato il pieno rispetto  della
volonta' popolare, un'attenta verifica della compatibilita'  di  tale
nuova disciplina con gli  effetti  abrogativi  prodotti  da  due  dei
quattro referendum  popolari  del  12  e  13  giugno  2011  relativi,
rispettivamente, alle modalita' di affidamento e gestione dei servizi
pubblici locali di rilevanza economica e  alla  determinazione  della
tariffa  del  servizio  idrico   integrato   in   base   all'adeguata
remunerazione del capitale investito". 
    La  strategia  del  legislatore,  che  qui   si   denuncia   come
costituzionalmente illegittima e lesiva delle prerogative  regionali,
e' chiara. Riconoscere l'esito referendario limitatamente all'"acqua"
tramite un "accorpamento"  del  senso  politico  dei  due  referendum
(servizi pubblici locali e tariffa del servizio idrico integrato)  e,
simultaneamente, disconoscere  l'autonomia  del  primo  quesito  (pur
chiarissimamente  stabilita  da  Codesta  Corte  nella  sentenza   n.
24\2011) rispetto al  secondo,  negando  l'estensione  degli  effetti
abrogativi ai servizi  pubblici  diversi  da  quello  idrico.  Questa
strategia e' palesemente inammissibile. 
    Tanto piu' che, come risulta chiaramente dalla lettera  dell'art.
4, comma 34 (a mente del quale "sono  esclusi  dall'applicazione  del
presente articolo il  servizio  idrico  integrato,  ad  eccezione  di
quanto previsto dai commi da 19 a 27, il servizio di distribuzione di
gas naturale, di cui al decreto legislativo 23 maggio 2000,  n.  164,
il servizio di distribuzione di energia elettrica, di cui al  decreto
legislativo 16 marzo 1999, n. 79 e alla legge 23 agosto 2004, n. 239,
il servizio di trasporto ferroviario regionale,  di  cui  al  decreto
legislativo 19 novembre 1997,  n.  422,  nonche'  la  gestione  delle
farmacie comunali, di cui alla legge  2  aprile  1968,  n.  475")  lo
stesso    legislatore    e'    perfettamente    consapevole     della
incompatibilita' del nuovo  regime  normativo  con  gli  esiti  della
consultazione referendaria celebratasi il  12  ed  il  13  giugno  di
quest'anno.  Ne  e'  indice   inequivoco   proprio   la   (maldestra)
equiparazione,  in  punto  di  esenzione  da  quella   che   vorrebbe
candidarsi ad essere la disciplina  -  quadro  dei  servizi  pubblici
locali, del servizio idrico  integrato  alla  medesima  tipologia  di
servizi che, illo tempore, come si e'  gia'  ricordato,  erano  stati
sottratti  all'applicazione  dell'art.  23  bis  del   c.d.   decreto
"Ronchi". 
    E' evidente,  infatti,  che  se  non  vi  fosse  una  sostanziale
continuita' tra la regola abrogata a seguito del referendum  popolare
e quella introdotta dagli artt. 3 e 4  del  decreto-legge  13  agosto
2011, n. 138, risulterebbe del tutto incomprensibile la  ragione  per
la quale il legislatore (che  con  l'art.  23  bis  non  aveva  avuto
nessuna esitazione ad assimilare il servizio idrico a tutti gli altri
servizi  pubblici  locali  muniti  del  requisito   della   rilevanza
economica), avverta  oggi  l'esigenza  di  scorporare  quel  medesimo
servizio dalla nuova disciplina di diritto comune. 
    In  altri  termini,  e'  lo  stesso  legislatore  ad   ammettere,
attraverso la esplicita previsione di  un  regime  differenziato  cui
assoggettare il servizio idrico, che la nuova disciplina si  pone  in
continuita' con quella abrogata:  e  poiche'  quest'ultima  aveva  ad
oggetto tutti i  servizi  pubblici  locali,  e  non  soltanto  quello
idrico, ne consegue che le disposizioni oggetto del presente  ricorso
si pongono in palese contrasto con i pronunciamenti di codesta  Corte
in ordine al rispetto  della  volonta'  popolare  come  manifestatasi
nelle forme di cui all'art. 75 Cost. 
    Ne' puo' ritenersi  innovativo,  e  indice  sintomatico  del  non
tradimento della volonta' referendaria, il diverso modo per  limitare
il  ricorso  all'affidamento  in  house,  consistente  nel  ricordato
innalzamento del  tetto  massimo  al  di  sotto  del  quale  esso  e'
possibile al valore  di  900.000  euro.  Se  tale  innovazione  fosse
rispettosa dell'esito referendario lo sarebbe anche per  il  servizio
idrico integrato, sicche', ancora una volta, la  esclusione  espressa
di  questo   settore   dalla   nuova   disciplina   comune   non   si
giustificherebbe o, comunque, non si riterrebbe necessitata. 
    La  verita'  e'  che  il  legislatore  ha  violato   il   vincolo
referendario, ricorrendo nuovamente  per  l'affidamento  dei  servizi
pubblici  locali  ad  un'interpretazione  estrema  delle  regole  del
mercato e della concorrenza, ignorando peraltro le indicazioni emerse
dalla sentenza n. 325 del 2010 di codesta Corte, che  aveva  chiarito
come  l'art.  23  bis  rappresentasse  soltanto  "una  delle  diverse
discipline possibili della materia che il legislatore avrebbe  potuto
legittimamente adottare senza violare" il diritto comunitario. Orbene
e' chiaro che  quell'opzione  politica  concretantesi  in  una  delle
diverse discipline possibili a livello europeo, ancorche' aperta  nel
2010 (ai tempi della  sentenza  n.  325)  non  lo  e'  piu'  dopo  il
referendum del 13 giugno  2011  perche'  il  popolo  italiano  si  e'
orientato  nel  senso  di  escluderne  la  possibilita'.  Come  detto
chiaramente da codesta Corte a seguito dell'abrogazione  referendaria
di  quella  disciplina  (art.  23  bis   sostanzialmente   riprodotto
nell'art. 4) risulta oggi  direttamente  applicabile  in  Italia  del
diritto comunitario che, oltre ad essere da sempre  "neutrale"  circa
il quantum di proprieta' pubblica  o  privata  presente  in  ciascuno
Stato membro (art. 345 TFUE), riequilibra con il Trattato di  Lisbona
il  c.d.  modello  socio  -  economico   europeo,   riconoscendo   un
fondamentale collegamento tra beni, servizi, cittadinanza  europea  e
tutela  dei   diritti   fondamentali   (il   cd.   diritto   pubblico
dell'economia). 
    L'illegittimita' dell'operazione rileva pertanto sia dal punto di
vista  della  forma  tecnico-normativa,   relativamente   al   regime
giuridico vigente in seguito all'approvazione del referendum, sia dal
punto di vista sostanziale, relativamente  alle  opzioni  individuate
nell'art. 4 del decreto n. 138/2011. 
    E' stato illustrato come i  principi  e  le  regole  del  diritto
comunitario, cosi' come affermato dalla giurisprudenza costituzionale
richiamata, possono applicarsi direttamente nel  nostro  ordinamento,
anche in assenza di' una disciplina nazionale di adeguamento. In  una
prospettiva di legittimita', anche legata al fraseggio  dell'art.  77
Cost.,   risulta   percio'   difficile   scorgere   le   ragioni   di
"straordinaria necessita' ed  urgenza"  per  le  quali  adottare  una
disciplina interna  "di  adeguamento"  alla  normativa  europea,  che
oltretutto con questa contrasta. 
    Un intervento legislativo interno  in  conseguenza  del  prodursi
dell'effetto  abrogativo   sarebbe   dovuto   essere   di   razionale
sistemazione di una materia,  quella  del  rapporto  fra  pubblico  e
privato nella gestione dei servizi di interesse generale, quanto  mai
necessitante di un intervento legislativo  coerente  con  il  dettato
degli artt. 41, 42, 43 della Costituzione.  Lungi  dal  poter  essere
portato avanti con urgenza e senza dibattito  parlamentare,  un  tale
intervento di  adeguamento  alla  volonta'  popolare  avrebbe  semmai
dovuto svolgersi nelle forme e nei modi  meditati  di  un  intervento
strutturale  di  riforma,  capace  di  cogliere  appieno  le  novita'
politiche ed istituzionali introdotte dal referendum e tradurle in un
quadro articolato di principil e  regole  coerenti  con  gli  assetti
decentrati introdotti dalla Costituzione  italiana  e  con  il  pieno
rispetto della volonta' del suo popolo, che attraverso il  referendum
ha esercitato la sua sovranita'  "nelle  forme  e  nei  limiti  della
Costituzione" (art. 1).  
 
                               P.Q.M. 
 
    Voglia codesta ecc.ma Corte costituzionale accogliere il ricorso,
dichiarando l'illegittimita' costituzionale degli artt.  3  e  4  del
decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con  modificazioni,
nella legge 14 settembre 2011. n. 148 per violazione  degli  articoli
dell'art. 117, primo, secondo, terzo, quarto, quinto e  sesto  comma;
118, primo e secondo comma, 119; 41; 42; 43; nonche' degli  artt.  1,
5, 75, 77, 114 della Costituzione. 
        Bari - Roma, addi' 10 ottobre 2011 
 
            Prof.ri Avv.ti Mattei -  Lucarelli - Colaianni 
 
    Si allega delibera Giunta regionale n. 2213/2011  

 

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