RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 28 gennaio 2010 , n. 13
Ricorso per questione di legittimita'  costituzionale  depositato  in
cancelleria il 28 gennaio 2010 (della Regione Emilia-Romagna). 
 
 
(GU n. 10 del 10-3-2010) 
 
 
    Ricorso della regione Emilia-Romagna, in persona  del  Presidente
della  Giunta  regionale,  legale  pro-tempore,  sig.  Vasco  Errani,
autorizzato con deliberazione della Giunta Regionale  n.  36  del  18
gennaio 2010, rappresentata e difesa per mandato speciale  a  margine
dal prof. Avv. Giandomenico Falcon, dal prof. Franco Mastragostino  e
dall'avv. Luigi Manzi, ed elettivamente domiciliata presso lo  studio
di quest'ultimo in Roma, via Confalonieri, n. 5, contro il Presidente
del Consiglio  dei  Ministri  per  la  declatoria  di  illegittimita'
costituzionale dell'art. 15, comma 1  lett.  b), comma  1  lett.  c),
comma 1 lett. d), comma 1  lett.  e)  f)  g),  del  decreto-legge  25
settembre 2009 n. 135, convertito con  modificazioni,  con  legge  20
novembre 2009, n. 166, recante «Disposizioni urgenti per l'attuazione
di obblighi comunitari e per l'esecuzione di sentenze della Corte  di
Giustizia  delle  Comunita'  europee»  (pubblicata   sulla   Gazzetta
Ufficiale n. 274 del 24 novembre  2009  -  Suppl.  ord.  n.  215)  di
modifica, sostituzione e integrazioni all'art.  23-bis  del  D.L.  n.
112/2008, convertito con la legge n. 133/2008, sulla  disciplina  dei
Servizi Pubblici Locali, per violazione degli artt. 117, comma 1,  2,
4, 6, 114, 118 e 119 Cost. 
Premessa di ordine generale sulla presente impugnazione. 
    L'art. 15 del decreto-legge 25  settembre  2009,  convertito  con
modificazioni con la legge 20 novembre 2009, n.  166,  introduce  una
profonda revisione del quadro  generale  di  disciplina  dei  servizi
pubblici locali di tipo  economico.  La  disposizione  innova  l'art.
23-bis del decreto-legge n. 112/2008, che a sua volta aveva riscritto
la disciplina  di  riferimento,  integrando  l'originaria  previsione
contenuta nell'art. 113, d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267. 
    La «riforma» della «riforma» viene  giustificata  in  nome  della
pretesa attuazione di  obblighi  comunitari  in  materia  di  servizi
pubblici locali e sulla base  delle  competenze  statali  finalizzate
alla tutela della concorrenza, ma, come vedremo, essa e' passibile di
fondamentali  censure  di  incostituzionalita',  laddove  la   rigida
disciplina  innovativamente  prevista  dal  legislatore  statale  non
appare, nelle disposizioni che qui si censurano,  affatto  improntata
ad assicurare obiettivi di tutela della concorrenza, ma a  perseguire
altre e diverse finalita', che si pongono al di fuori dei  titoli  di
competenza  statale,  che  risultano  in  contrasto  con  la   stessa
disciplina  comunitaria  e  che  si  traducono  nella  lesione  delle
potesta' regionali/locali di imprimere, secondo valutazioni  ad  esse
Comunita' spettanti, una  pertinente  ad  adeguata  organizzazione  e
gestione dei servizi pubblici nel territorio di riferimento,  in  una
materia - quella dei servizi  pubblici  locali  e  di  organizzazione
degli enti locali - nella quale le Regioni sono dotate di  competenza
legislativa piena, ai sensi dell'art. 117, comma 4, Cost., i, salvi i
profili di cui all'art. 117, comma 2, lett. p). 
    Preliminarmente alla  esposizione  delle  specifiche  ragioni  di
impugnazione, va osservato come  cose  del  tutto  diverse  siano  la
tutela della concorrenza da un lato, i principi della privatizzazione
delle risorse pubbliche dall'altro. La tutela della concorrenza e' un
principio  comunitario  (e  oramai   costituzionale)   che   riguarda
l'organizzazione dei mercati e presuppone, percio',  che  un  mercato
esista e che  l'apparato  pubblico  debba  assicurare  le  regole  di
competitivita' tra le imprese. 
    In questi termini vale,  al  riguardo,  la  competenza  esclusiva
dello  Stato,  oltre  che   l'incombente   e   prevalente   normativa
comunitaria. Essendo questa una competenza di scopo - o, se si vuole,
una materia «finalistica» - la Corte ha anche  di  recente  ricordato
che l'esclusivita' non va, pero', intesa come esclusione a priori del
legislatore regionale, ma comporta una valutazione in concreto  della
strumentalita' di ogni legge, statale o regionale che  sia,  rispetto
alle finalita' di tutela. 
    La privatizzazione delle risorse pubbliche ha  come  sua  ragione
giustificativa la miglior utilizzazione  di  tali  risorse.  Ad  essa
dunque puo' farsi ricorso per ragioni del tutto estranee alla  tutela
della concorrenza, la quale, pero', dovra' essere assunta come metodo
della privatizzazione, affinche'  questa  non  favorisca  determinati
operatori, a scapito di altri. 
    La privatizzazione non ricade in specifiche competenze ne'  della
Comunita' europea,  ne'  dello  Stato.  Inoltre,  trattandosi  di  un
trasferimento  ai  privati  di  risorse  costituite  a  spese   della
collettivita', e' un processo che va attentamente valutato in termini
di  benefici  di  ritorno  alla  collettivita'  stessa.  Quindi,   si
giustifica soltanto laddove l'ingresso del privato sia  una  garanzia
di maggiore efficienza della gestione del bene privatizzato. 
    La questione della privatizzazione dei  servizi  pubblici  locali
con  valenza  economica,  in  parte   ricade   nella   tutela   della
concorrenza, in parte nella privatizzazione delle risorse, ma le  due
prospettive restano distinguibili e da distinguere nei termini  sopra
indicati. Perche'  solo  per  ragioni  di  concorrenza  lo  Stato  e'
abilitato ad intervenire con legge, non anche per  ragioni  attinenti
all'efficienza  del  servizio  (a  meno  che  non  si  ricada   nella
determinazione dei livelli  essenziali,  o  nel  coordinamento  della
finanza pubblica). 
    Quest'ultima - l'efficienza del servizio - infatti,  deve  essere
valutata in concreto dagli Enti esponenziali della collettivita'  che
acquisiscono il servizio, mentre disciplinarne le forme di  esercizio
in via generale ed astratta non puo' che contravvenire  al  principio
di sussidiarieta', oltre che al riparto  delle  materie  che  a  quel
principio si ispira. 
    Lo Stato, naturalmente, puo' legiferare: 
      a) per assicurare la concorrenza laddove si apra il servizio ai
privati; 
      b) per garantire i livelli essenziali delle prestazioni; 
      
      c) ponendo norme di principio  sul  coordinamento  finanziario,
laddove si tratti di  limitare  il  costo  dei  servizi  rispetto  al
bilancio pubblico. 
    Per il resto, le modalita' di  erogazione  dei  servizi  pubblici
locali devono rientrare nella competenza e  responsabilita'  politica
delle comunita' territoriali, alle  quali  compete  la  scelta  anche
delle modalita' di erogazione e dei modelli di gestione. 
    La  pretesa  riforma  contenuta   nelle   recenti   disposizioni,
introdotte  con  decretazione  d'urgenza,  di   modifica   di   altre
disposizioni non adeguatamente ponderate (si  ricorda,  infatti,  che
l'art. 23-bis e' maturato nel corso di una estate,  precisamente  tra
il giugno e l'agosto 2008), confonde ad avviso della  Regione  i  due
piani, che vanno, invece, mantenuti  nettamente  distinti.  E  questa
confusione nasce da un  presupposto  errato:  che  i  principi  della
tutela della concorrenza  comportino  la  necessaria  privatizzazione
delle risorse  pubbliche,  allo  scopo  di  favorire  l'insorgere  di
mercati concorrenziali, anche laddove essi attualmente non ci siano. 
    Questo, a ben vedere, significa non tutelare la  concorrenza,  ma
favorire la presenza di operatori privati, affidando loro le  risorse
pubbliche che sono patrimonio delle collettivita' territoriali. Cosi'
si contravviene a un ordine logico che, almeno per quanto riguarda  i
settori nei quali non e' gia' presente un mercato concorrenziale  (ad
es. servizio idrico), dovrebbe muovere dall'obiettivo fondamentale  e
irrinunciabile della qualita' dei servizi, (il livello di diffusione,
il  livello  delle  prestazioni,  il  livello   delle   tariffe,   la
trasparenza della gestione, la democraticita' dei controlli  e  degli
indirizzi, ecc.) 
    Sotto questo profilo, le norme sul superamento della gestione  in
house sono  palesemente  orientate  a  favorire  un  ingiustificabile
processo  di  «svendita»  (trattandosi  di  vendita  obbligatoria  e,
quindi, fuori dalle condizioni di mercato)  del  patrimonio  pubblico
capitalizzato nel valore delle societa' pubbliche, che hanno avuto in
affidamento i servizi, senza alcuna valutazione delle conseguenze che
questo processo  avrebbe  sulla  qualita'  dei  servizi.  Questo  non
corrisponde al principio comunitario di tutela della concorrenza,  ma
ad una «credo ideologico» circa la migliore capacita'  delle  Imprese
private di gestire non l'impresa in se', ma gli interessi pubblici. 
    Questa  opzione  e'  meramente  ideologica,  in  quanto  essa  e'
estranea  sia  alla  costituzione  comunitaria -   nella   quale   e'
indiscusso il diritto delle amministrazioni di gestire direttamente i
propri servizi pubblici, sia alla Costituzione italiana, nella  quale
- fermo il diritto di iniziativa economica privata  -  e'  pienamente
ammessa l'impresa pubblica, in particolare finalizzata alla  gestione
dei servizi pubblici: al punto  che  non  solo  la  Costituzione  non
contiene alcuna limitazione, ma addirittura prevede (art. 43) che per
ragioni di utilita' generale (cioe' di  interesse  pubblico)  possano
addirittura essere trasferiti alla gestione pubblica imprese gia'  in
regime di iniziativa privata. 
    E', peraltro, evidente l'interesse  della  Regione  ad  impugnare
tali disposizioni: 
      a) su un piano generale onde opporre ad una visione ideologica,
priva di qualsiasi riscontro oggettivo, una  diversa  interpretazione
degli interessi della propria comunita'; 
      b) sul piano piu' direttamente  giuridico,  al  fine  di  poter
esplicare la propria competenza legislativa  in  materia  di  servizi
pubblici, che e' lo strumento con cui la Costituzione  garantisce  la
sua autonomia politica. 
I precedenti giurisprudenziali costituzionali  sui  Servizi  pubblici
locali. 
    La riforma contiene numerose disposizioni, la cui  compatibilita'
con  la  Carta  costituzionale  deve  essere  messa  in  discussione,
soprattutto a proposito dei canoni  che  regolano  il  riparto  delle
competenze legislative tra Stato e  Regioni.  Al  riguardo,  si  deve
ricordare che gia' la Corte  costituzionale  si  e'  pronunciata  sul
punto, con la sentenza n. 272/2004. In  quell'occasione,  la  Regione
Toscana aveva impugnato le disposizioni di riforma dell'art. 113  del
TUEL,  contenute  nell'art.  14  d.l.  30  settembre  2003,  n.   269
(Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e  per  la  correzione
dell'andamento dei conti pubblici),  convertito,  con  modificazioni,
nella legge 24 novembre 2003, n. 326. Ad avviso della Regione, quelle
disposizioni violavano  l'art.  117  della  Costituzione,  in  quanto
introducevano  una  disciplina  dettagliata  ed  autoapplicativa  dei
servizi pubblici locali, materia che l'art.  117  non  contempla  fra
quelle riservate alla  legislazione  esclusiva  dello  Stato  e  che,
quindi,  spetta  alle  Regioni  disciplinare,  nel   rispetto   della
Costituzione e dei vincoli derivanti dall'ordinamento  comunitario  e
dagli obblighi internazionali. 
    La Corte ha accolto solo  in  parte  le  contestazioni  avanzate.
Infatti, ha affermato che: 
      a) l'intervento legislativo statale in una materia come  quella
dei servizi pubblici locali, non espressamente prevista nell'art. 117
Cost., si giustifica solo alla luce della competenza esclusiva che lo
Stato ha in materia di «tutela della concorrenza», la  quale,  stante
la  sua  trasversalita',   puo'   abbracciare   qualsiasi   attivita'
economica; 
      b)  tuttavia,  l'ambito  di   operativita'   della   competenza
legislativa statale attinente  alla  «tutela  della  concorrenza»  e'
definito   anche   attraverso   il   rispetto   del   principio    di
proporzionalita'  e   adeguatezza,   nel   senso   che   l'intervento
legislativo statale non puo' essere talmente dettagliato da escludere
qualsiasi possibilita' di regolazione da parte della Regione; 
      c) pertanto, sono state ritenute illegittime, sotto il  profilo
costituzionale, sia le disposizioni statali dirette a disciplinare  i
servizi  pubblici  locali  privi  di  rilevanza  economica,  sia   le
disposizioni dirette a  disciplinare  aspetti  dei  servizi  pubblici
locali di rilievo economico, ma con esasperato taglio  applicativo  e
di dettaglio. 
    Tale  orientamento  e'  stato  recentemente  confermato  con   la
sentenza n. 307/2009, nella quale codesta Corte ha precisato  che  la
disciplina  statale  sulle  modalita'  di  affidamento  dei   servizi
pubblici a rilevanza economica e'  costituzionalmente  legittima,  in
quanto riconducibile alla materia «tutela  della  concorrenza». Nella
stessa decisione, e' anche affermato che «Le competenze  comunali  in
ordine al servizio idrico, sia per ragioni storico-normative, sia per
l'evidente  essenzialita'  di  questo  alla  vita   associata   delle
comunita' stabilite nei territori comunali, devono essere considerate
quali funzioni fondamentali degli enti locali, la cui  disciplina  e'
stata affidata alla competenza esclusiva dello  Stato  dal  novellato
art. 117. 
    Cio' non toglie, ovviamente, che  la  competenza  in  materia  di
servizi pubblici locali resti  una  competenza  regionale,  la  quale
risulta in un certo senso limitata dalla competenza statale suddetta,
ma puo' continuare ad essere esercitata negli altri settori,  nonche'
in quello dei servizi fondamentali, purche' non sia in contrasto  con
quanto stabilito dalle leggi statali». 
    Alla luce di quanto sopra esposto e dei parametri indicati  dalla
stessa  Corte,  si  sollevano,  pertanto,  i  seguenti   profili   di
illegittimita'  costituzionale  delle  disposizioni  contenute  nella
«riforma» dei Servizi pubblici locali del 2009. 
    1. Illegittimita' costituzionale dell'art. 15, comma 1  lett.  b)
del D.L. n. 135/2009, convertito, con mod. con la legge n.  166/2009,
nella parte in cui modifica il comma 3 dell'art. 23-bis del  d.l.  n.
112/2008, per violazione degli artt. 117, commi 1, 2 e 4 e 114 e  118
Costituzione. 
    L'art. 15, del d.l. n. 135/2009, modifica il  comma  3  dell'art.
23-bis, d.l. n. 112/2008. Il nuovo testo dispone che «in deroga  alle
modalita' di affidamento ordinario di cui al comma 2, per  situazioni
eccezionali che, a causa  di  peculiari  caratteristiche  economiche,
sociali, ambientali e geomorfologiche del  contesto  territoriale  di
riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso  al  mercato,
l'affidamento  puo'  avvenire  a  favore  di  societa'   a   capitale
interamente pubblico,  partecipata  dall'ente  locale,  che  abbia  i
requisiti richiesti  dall'ordinamento  comunitario  per  la  gestione
cosiddetta «in house» e, comunque, nel rispetto  dei  principi  della
disciplina comunitaria in materia di controllo analogo sulla societa'
e di prevalenza dell'attivita' svolta dalla stessa con l'ente  o  gli
enti pubblici che la controllano». 
    La disposizione appare come un'ingiustificata invasione, da parte
del legislatore statale, della competenza legislativa regionale,  nel
momento in cui si ponga attenzione al fatto che introduce un  modello
alternativo di gestione per i servizi pubblici locali che  risultino,
in concreto, caratterizzati da elementi che escludono un  mercato  di
riferimento. La disposizione lascia intendere che ci  possono  essere
dei servizi pubblici locali economici in astratto,  i  quali  perdono
tale  rilevanza  in  concreto,  poiche'  «peculiari   caratteristiche
economiche,  sociali,  ambientali  e  geomorfologiche  del   contesto
territoriale di riferimento,  non  permettono  un  efficace  e  utile
ricorso al mercato». In questi casi, e' direttamente  il  legislatore
statale ad imporre il modello di gestione  (la  societa'  in  house).
Ora, nel momento in cui il legislatore ha riguardo,  come  condizione
applicativa della disposizione introdotta, all'assenza di un  mercato
di  riferimento  ed  alla  perdita,  in  concreto,  della   rilevanza
economica  del  servizio,  arriva  a  negare   il   suo   titolo   di
legittimazione a legiferare, che, come si e' detto,  e'  legato  alla
«tutela della concorrenza», la quale si giustifica solo  in  presenza
di attivita' che hanno un mercato  di  riferimento.  In  pratica,  il
legislatore statale puo' legiferare fin quando il  servizio  pubblico
locale presenti una rilevanza economica in astratto  e  in  concreto;
viceversa, solo il legislatore regionale puo' intervenire per dettare
la disciplina dei servizi pubblici locali privi di rilievo  economico
ab origine o che non hanno, per situazioni  di  fatto  contingenti  e
concrete, un mercato di riferimento. 
    Inoltre, bisogna sottolineare che anche ammesso (ma non concesso)
che la tutela della concorrenza possa  giustificare  in  generale  la
limitazione della gestione diretta del servizio pubblico, potra'  poi
essere rilevante per lo Stato che vi siano sistemi di verifica idonei
ad  accertare  la  reale  sussistenza  di  condizioni  di  fatto  che
impediscano il ricorso al mercato e, quindi, alla gestione  ordinaria
del servizio, e consentano di ricorrere ad una gestione in deroga; ma
non potra' mai essere rilevante per lo Stato imporre  un  determinato
modello di gestione da parte dell'ente locale. 
    Non e' certo funzionale alla garanzia della concorrenza spingersi
oltre, arrivando anche a dire quali modelli eccezionali  ed  in  ogni
caso non concorrenziali (dato che si e' accertata l'impossibilita' di
ricorrere al mercato) gli enti locali debbano scegliere  per  gestire
il servizio: appare,  cioe',  sicuramente  illegittimo  vincolare  la
forma di gestione ove si riconosca che non vi e' obbligo di ricorrere
al mercato. 
    E', quindi, evidente che lo Stato,  attraverso  tale  disciplina,
nella misura in cui e' intervenuto per ragioni non riconducibili alla
tutela della concorrenza, ma attinenti, piuttosto all'efficienza  del
servizio, imponendo una scelta obbligatoria della forma  di  gestione
alternativa (precludendo ad esempio, la gestione diretta)  in  ambiti
non concorrenziali, e' andato  ben  oltre  il  titolo  della  propria
competenza esclusiva, e cio' in violazione dell'art.117, comma 2,  ed
ha invaso ambiti di  pertinenza  delle  scelte  regionali/locali,  in
violazione dell'art.117,  comma  4,  nonche'  dell'art.114,  violando
l'autonomia  organizzativa  degli  enti  locali,  quanto  al  miglior
soddisfacimento dei servizi di  propria  titolarita'  e  dell'art.118
cost. quanto al principio di sussidiarieta',  che  vede  nel  sistema
regionale-locale, in base a quanto stabilito dallo stesso legislatore
statale per la gran parte dei servizi pubblici locali, il livello  di
allocazione delle scelte di organizzazione e gestione dei servizi  da
rendere a favore delle comunita' di riferimento. 
    La disposizione statale, dunque, dovrebbe  limitarsi  a  disporre
che nel caso  considerato  l'affidamento  puo'  avvenire  secondo  le
modalita' di gestione diretta previste dalla  legislazione  regionale
o, in mancanza, scelte dagli enti locali titolari del servizio». 
    Di  qui  l'illegittimita'   costituzionale   della   disposizione
impugnata. 
    2. Illegittimita' costituzionale dell'art.15,  comma  1  lett.c),
che introduce il comma 4-bis nell'art 23-bis del  d.l.  n.  112/2008,
per violazione dell'art. 117 comma 6 Cost. 
    La lett.  c),  comma  1,  dell'art.  15  del  d.l.  n.  135/2009,
introduce nell'art. 23-bis, del d.l. n. 112/2008, un comma 4-bis,  il
quale dispone che «i regolamenti di cui al comma  10  definiscono  le
soglie oltre le quali gli  affidamenti  di  servizi  pubblici  locali
assumono rilevanza ai fini dell'espressione  del  parere  di  cui  al
comma 4». 
    In  altri  termini,  la  disposizione  in  questione  affida   al
regolamento governativo il compito di individuare una soglia oltre la
quale  l'affidamento  di  un  servizio  pubblico  locale   in   forma
derogatoria (ossia a societa' in house), per assenza in  concreto  di
un mercato di riferimento, deve  essere  assoggettato  alla  funzione
consultiva  e  di  verifica  svolta  dall'Autorita'   garante   della
concorrenza e del mercato. 
    La ricorrente Regione non contesta - ovviamente - la  circostanza
che una volta stabilito (legittimamente o meno)  di  consentire  alle
amministrazioni locali la gestione autonoma del proprio servizio solo
in  circostanze  particolari,  ed  una  volta  introdotto  un  parere
dell'autorita' antitrust  per  la  verifica  dell'esistenza  di  tali
circostanze, vi sia una soglia al di sotto della  quale  tale  parere
non e' richiesto. 
    La Regione ritiene tuttavia che le determinazioni relative a tale
soglia non possano che essere assunte in sede regionale, entro limiti
fissati direttamente dalla legge statale, trattandosi di  determinare
un livello di efficienza del servizio, che solo a  livello  regionale
puo' essere concretamente e correttamente apprezzato. E  che  risulti
invece illegittimo spostare sulla fonte regolamentare parte  di  tale
disciplina, alla luce della disposizione di cui all'art.117, comma  6
cost. e dei principi enunciati dalla  giurisprudenza  costituzionale,
che consente al Governo di intervenire con fonti secondarie  solo  in
materie di esclusiva competenza statale. In sostanza, si contesta  in
radice che lo Stato  possa  arbitrariamente  individuare  una  soglia
oltre la quale l'affidamento del servizio assuma  rilevanza  rispetto
alle regole di concorrenza che presiedono il mercato e che per questo
solo motivo debba essere oggetto  del  parere  di  cui  al  comma  4.
Invero, la stessa modalita' derogatoria delineata  dal  comma  3,  in
base alla disciplina comunitaria esorbita  dalla  applicazione  delle
regole della concorrenza (autoproduzione), sicche'  non  risponde  ad
alcuna logica affermare che  la  rilevanza  o  meno  dell'affidamento
dipenda da un valore economico. E comunque, come  si  e'  piu'  sopra
rilevato, non spetta allo Stato stabilirlo. 
    Per quanto possa rilevare, puo' essere osservato che tale  soglia
e' stata fissata, stando allo schema  di  regolamento  approvato  dal
Consiglio dei Ministri in data 17 dicembre 2009, nel valore economico
del servizio  oggetto  dell'affidamento  superiore  a  200.000,00  €,
(mentre e' comunque richiesto il  parere  a  prescindere  dal  valore
economico  del  servizio  qualora  la  popolazione  interessata   sia
superiore a 50.000 abitanti). 
    Ad avviso  della  ricorrente  Regione,  la  soglia  in  tal  modo
stabilita non e'  suscettibile  di  rappresentare  alcun  livello  di
efficienza del servizio, ne' appare uno strumento in grado di fissare
la appropriatezza, la  qualita',  il  controllo  e  il  rispetto  dei
parametri della concorrenza e, quindi, il grado di concorrenzialita'.
La soglia suddetta e' espressione di un  apprezzamento  ex  ante  del
tutto forfettario, che  invade  ambiti  di  valutazione  che  debbono
necessariamente essere  rimessi  alle  competenze  regionali,  uniche
realta'  capaci  di  effettuare  una  siffatta   ricognizione   delle
situazioni locali, che risponda  ad  elementi  concreti,  parametrati
sulle singole realta', e non su un criterio  stabilito  a  priori  in
maniera del tutto astratta ed apodittica. 
    200.000,00 € e' pochissimo per alcuni mercati e tanto per  altri.
Alcuni affidamenti, poi - ci  si  riferisce  a  quelli  affidati  per
vent'anni, che non sono infrequenti - non  sono  valutabili  in  tali
termini (200.000,00 annuali o in valore assoluto?). 
    Vi saranno, cosi', affidamenti di servizi dello stesso tipo  che,
se  tenuti  al  di  sotto  della  soglia  indicata  dal   regolamento
governativo, non dovranno essere verificati dall'Autorita' antitrust.
In pratica, gli enti locali, accertata in concreto  l'assenza  di  un
mercato di riferimento, se riusciranno a contenere  l'affidamento  al
di sotto della soglia regolamentare, potranno tranquillamente evitare
la gara e gestire in house il servizio, senza che  nessuna  autorita'
tecnica possa valutare la sussistenza dei requisiti  legittimanti  la
deroga. La conseguenza in  questo  caso  e'  paradossale:  il  quadro
ordinamentale e' composto dalla disciplina del  legislatore  statale,
dall'intervento regolativo del Governo e dall'autonomia organizzativa
dell'ente locale, tre soggetti che intervengono sui servizi  pubblici
locali, mentre e' del tutto assente qualsivoglia ruolo della Regione,
pur   trattandosi   di   gestione   di   servizi   locali   la    cui
concorrenzialita' manchi quantomeno in concreto, e cioe' di un ambito
in cui vi e' competenza legislativa esclusiva regionale,  uno  spazio
del  quale  la  Regione  rivendica  competenza  piena  e   non   solo
integrativa di quella statale. 
    3. Illegittimita' costituzionale dell'art.15 comma 1 lett.d), che
ha sostituito i commi 8 e 9 dell'art.  23-bis  prevedendo  un  regime
transitorio per gli affidamenti in atto dei SPL di rilievo economico,
per violazione degli art.114, 118, 117 commi 1, 2 e 4  e  119  Cost.,
nonche'  del  principio  di  tutela  dell'affidamento  connesso  alla
responsabilita' regionale. 
    La lettera d) del c. 1  dell'art.  15,  sostituendo  il  comma  8
dell'art. 23-bis, introduce un regime transitorio per gli affidamenti
in atto dei servizi pubblici locali di rilievo economico.  Ad  avviso
della Regione, la disposizione risulta incostituzionale sotto diversi
profili. 
    a.  quanto  al  comma  8,  lettera  a),  come  sostituito.   Tale
disposizione stabilisce che «il regime transitorio degli  affidamenti
non conformi a quanto stabilito ai commi 2 e 3 e' il seguente: a)  le
gestioni  in  essere  alla  data  del   22   agosto   2008   affidate
conformemente ai principi comunitari in  materia  di  cosiddetta  "in
house" cessano, improrogabilmente e senza necessita' di deliberare da
parte dell'ente affidante, alla  data  del  31  dicembre  2011.  Esse
cessano alla scadenza prevista dal contratto di servizio a condizione
che entro il 31 dicembre 2011 le amministrazioni cedano almeno il 40%
del capitale attraverso le modalita' di cui alla lettera b) del comma
2». 
    Qui la legge anticipa la conclusione del  rapporto  contrattuale,
ma solo per alcune gestioni, colpendo,  in  particolare,  le  imprese
pubbliche o semi pubbliche, le quali hanno ricevuto l'affidamento nel
rispetto  della  legislazione  precedentemente  vigente  e   comunque
conformemente ai principi comunitari. 
    Questa  e'  solo  apparentemente  una  norma   a   favore   della
concorrenza; in realta' essa introduce disposizioni piu' rigide della
normativa comunitaria  di  cui  si  afferma  l'attuazione,  incidendo
direttamente su profili di efficienza del servizio - poiche' non  par
dubbio che la cessazione  anticipata  del  rapporto  contrattuale  si
rifletta sugli investimenti programmati nel lasso di tempo di  durata
del rapporto e  riguardi,  quindi,  direttamente  l'efficienza  e  la
qualita' del servizio - intervenendo pregiudizialmente in  un  ambito
rispetto al quale la Regione ha sempre avuto un ruolo fondamentale. 
    Al di la' della violazione del  principio  di  uguaglianza  e  di
liberta' di iniziativa economica, che riguarda piu' propriamente  gli
operatori economici che hanno fatto affidamento su una  certa  durata
della gestione del servizio affidato, cio' che rileva in questa  sede
per la Regione ricorrente e' la  circostanza  che  tale  disposizione
incide sull'assetto di sistema regionale degli  affidamenti,  ledendo
il ruolo della Regione, anche di tipo legislativo,  nel  definire  la
durata degli affidamenti medesimi. 
    Occorre ricordare, infatti, che gia' con la prima legge regionale
sul servizio idrico integrato, la n. 25/1999, emanata  in  attuazione
della legge Galli n. 36/1994 e contenente anche  norme  sul  servizio
rifiuti, in attuazione  del  d.lgs  n.  22/1997,  la  Regione  Emilia
Romagna, nell'esercizio del potere di regolazione  ed  organizzazione
delle funzioni amministrative relative  ai  predetti  servizi,  aveva
previsto la stessa durata del regime transitorio e degli affidamenti.
Questa era fissata  in  relazione  alla  suscettivita'  dei  soggetti
affidatari  di  esprimere  un  livello  adeguato,  «industriale»,  in
termini di efficienza, efficacia ed  economicita',  di  effettuazione
del  servizio,  secondo  parametri  di  valutazione  del  livello  di
adeguatezza che comportava la salvaguardia delle gestioni  in  essere
da parte delle Autorita' d'ambito. Si consentivano cosi' durate  piu'
o meno lunghe degli affidamenti in  relazione  al  possesso  di  tali
requisiti di efficienza, efficacia ed economicita', in relazione alla
legittimita' degli affidamenti  in  essere  rispetto  alla  normativa
comunitaria,  e  alla  maggiore  o  minore  dimensione  degli  ambiti
serviti. Tale durata la  Regione  ha  fissato  -  conformemente  alla
normativa comunitaria, al dicembre 2011, consentendo un anno in  piu'
rispetto alla scadenza ora fissata dalla normativa statale (2010); ma
anche un anno di differenza comporta conseguenze rilevanti  sotto  il
profilo organizzativo delle gare, dei bandi e quant'altro  necessario
per avviare i nuovi affidamenti. La Regione ha in tal modo svolto  un
ruolo  attivo  nella  costruzione  di  un  sistema   industriale   di
effettuazione dei piu' importanti  fra  i  servizi  pubblici  locali,
quale il servizio idrico integrato e il servizio  rifiuti,  assumendo
una funzione di coordinamento degli enti  locali  e  delle  Autorita'
d'ambito  nel  frattempo  dalla  stessa  legge  regionale  istituite,
funzione che essa intende mantenere e continuare ad espletare. 
    E' del tutto evidente che su tale  assetto  incide  gravemente  e
rigidamente la disposizione  statale  sopra  menzionata,  laddove  si
mette nel nulla, mediante l'automatica e unilaterale  cessazione  dei
rapporti  in  corso  ad  una  data  molto  ravvicinata,  una   scelta
organizzativa posta in essere correttamente sulla  base  del  diritto
vigente e in conformita' alla disciplina comunitaria;  ad  esse  sono
poi seguite le scelte che le imprese (pubbliche o semi pubbliche  che
siano) hanno a loro volta effettuato, proprio facendo affidamento  su
quel  quadro  ordinamentale  di  riferimento,  come  regolato   dalla
Regione. Sotto tale profilo e', quindi, evidente la violazione  delle
disciplina legislativa legittimamente stabilita dalla Regione in base
ai suoi livelli di competenza (violazione  dell'art.117  comma  4)  e
della responsabilita'  della  Regione  nei  confronti  del  variegato
panorama delle societa' pubbliche o  semi  pubbliche  affidatane  dei
servizi pubblici, che a tale assetto si sono correttamente attenute. 
    b.  Sotto  un  secondo  profilo,  la  disposizione  impugnata  e'
costituzionalmente  illegittima  per   contrasto   con   il   diritto
comunitario, con conseguente violazione dell'art.117, comma 1: non si
comprende,  infatti,  perche'  alcune   gestioni,   che   la   stessa
disposizione definisce «affidate conformemente ai principi comunitari
in materia di cosiddetta in house», debbano necessariamente terminare
entro il  31  dicembre  2011,  a  meno  che  non  si  trasformino  in
affidamenti a societa' mista,  laddove  le  Amministrazioni  (e  loro
societa' in house) debbono necessariamente cedere almeno il  40%  del
proprio capitale. Si ricordi che nel diritto comunitario  il  modello
organizzativo dell'autoproduzione dei servizi attraverso  affidamenti
in house e' stato ritenuto in linea con i principi del Trattato,  tra
cui, come  noto,  vi  e'  quello  della  tutela  e  promozione  della
concorrenza. Ed infatti, a  cominciare  dalla  nota  pronuncia  della
Corte di Giustizia delle Comunita' Europee, sentenza Teckal,  del  18
novembre 1999, in causa C-107/98, alla Stadt Halle,  dell'11  gennaio
2005, in causa C-26/3, fino alla piu' recente  sentenza  Associazione
Nazionale Autotrasporto Viaggiatori  del  6  aprile  2006,  in  causa
C-410/04, il diritto delle Amministrazioni di erogare in  proprio  il
servizio a favore delle proprie comunita'  locali  non  solo  non  e'
precluso  dalle  regole  sulla  concorrenza,  ma   e'   espressamente
affermato e riconosciuto dalla Comunita' Europea. Diviene,  pertanto,
evidente la profonda contraddizione che caratterizza la  disposizione
statale  impugnata:  si  sacrifica,  in  nome  della   tutela   della
concorrenza, una formula organizzativa che e' stata istituita secondo
modelli ritenuti compatibili con tale esigenza di tutela. D'altronde,
secondo il diritto comunitario  il  fenomeno  dell'autoproduzione  e'
estraneo alla  materia  della  concorrenza  ed  alternativo  rispetto
all'esternalizzazione, con l'effetto che solo in questo secondo  caso
e' necessario rispettare le regole poste a tutela della  concorrenza.
La scelta organizzativa fra  le  due  opzioni  e'  demandata  in  via
esclusiva all'ente locale titolare  delle  funzioni.  Il  legislatore
statale non puo' ingerirsi in tale scelta  imponendo  una  delle  due
opzioni all'ente in quanto, procedendo in tal  modo,  esorbita  dalla
propria potesta' legislativa in materia di tutela della concorrenza. 
    e. per contrasto con i criteri di distribuzione della  competenza
legislativa tra Stato e Regioni  e  per  ingiustificato  e  travisato
esercizio del titolo di competenza  statale  attinente  alla  «tutela
della concorrenza», con violazione, quindi, dell'art. 117 commi 2 e 4
Cost.: e' vero che spetta allo Stato la  disciplina  di  determinanti
aspetti dei servizi pubblici locali di rilievo  economico  in  virtu'
del titolo competenziale «tutela della concorrenza»,  tuttavia,  tale
disciplina   non   puo'   essere   cosi'   dettagliata   da    essere
auto-applicativa  ed  escludere   qualsiasi   successivo   intervento
regionale e locale. Codesta  Ecc.ma  Corte  costituzionale,  infatti,
nella richiamata sentenza n. 272/2004 ha precisato che  «il  criterio
della proporzionalita' e dell'adeguatezza  appare  quindi  essenziale
per definire l'ambito di operativita'  della  competenza  legislativa
statale attinente alla «tutela della concorrenza» e  conseguentemente
la  legittimita'  dei  relativi  interventi   statali.   Trattandosi,
infatti,  di  una   cosiddetta   materia-funzione,   riservata   alla
competenza esclusiva dello  Stato,  la  quale  non  ha  un'estensione
rigorosamente  circoscritta  e  determinata,  ma,  per  cosi'   dire,
«trasversale» (cfr. sentenza n. 407 del 2002), poiche'  si  intreccia
inestricabilmente con una pluralita' di altri interessi - alcuni  dei
quali rientranti nella sfera di competenza  concorrente  o  residuale
delle Regioni  -  connessi  allo  sviluppo  economico-produttivo  del
Paese,  e'  evidente  la  necessita'  di  basarsi  sul  criterio   di
proporzionalita-adeguatezza  al  fine  di  valutare,  nelle   diverse
ipotesi, se la tutela della concorrenza legittimi o meno  determinati
interventi legislativi dello Stato. 
    Nella disposizione qui in  contestazione  in  piu'  occasioni  si
entra nel dettaglio, senza che tale scelta risulti funzionale ad  una
maggiore promozione della concorrenza nel settore. Come  si  e'  piu'
sopra  rilevato,  si  stabilisce  che  per  evitare   la   cessazione
anticipata del contratto di servizio con le  societa'  in  house,  le
Amministrazioni locali di controllo debbano cedere almeno il 40%  del
capitale ad un socio, attraverso procedure  competitive  ad  evidenza
pubblica, che abbiano  anche  ad  oggetto,  «allo  stesso  tempo,  la
qualita' di socio e l'attribuzione di specifici  compiti  operativi».
La disposizione fissa condizioni di privatizzazione molto rigide, che
riducono il campo di azione di un eventuale legislatore regionale  ed
il  potere  di  scelta  degli  enti  locali:  procedura  di  evidenza
pubblica, almeno il  40%  del  capitale,  attribuzione  di  specifici
compiti operativi al  socio  selezionato.  Cio',  pero',  non  sempre
assicura la promozione e la  tutela  della  concorrenza.  Infatti,  i
privati potrebbero non avere interesse ad acquistare, a volte con  un
notevole impegno economico,  un  pacchetto  di  azioni  significativo
(almeno il 40%), ma che difficilmente garantira'  loro  il  controllo
sulla societa', e avere in cambio solo singoli  e  specifici  compiti
operativi e non l'intera gestione  (a  volte,  unica  condizione  per
poter rientrare degli investimenti fatti per «comprare» la  qualifica
di socio). Al contrario, in alcuni casi la situazione  gestionale  di
fatto potrebbe essere piu' consona ad una privatizzazione  attraverso
la selezione di un socio privato  mero  finanziatore,  al  quale  non
affidare  alcun  compito  operativo,  ma  da  coinvolgere  solo   nel
finanziamento della attivita'. 
    Tali profili di incostituzionalita' sono particolarmente evidenti
anche con riferimento alla lettera d) del comma 8  del  23-bis,  come
sostituito dall'art.15, che qui parimenti specificamente si  impugna.
Con tale disposizione  e'  imposta  alle  societa'  a  partecipazione
pubblica gia' quotate in borsa alla data del 1°  ottobre  2003,  e  a
quelle da esse controllate, l'obbligatorieta' della cessione del  40%
entro il 30 giugno 2013 e del 30% entro il  31  dicembre  2015,  come
condizione per poter continuare negli affidamenti diretti  fino  alla
scadenza del contratto di servizio. 
    Anche qui si assiste ad una forzata «privatizzazione», posta  del
tutto impropriamente come condizione per attuare la  concorrenza,  ma
che nulla ha a che  fare  con  la  concorrenza  e  che  stravolge  la
governance pubblica esistente. Lo  Stato  ha  deciso  unilateralmente
come deve essere l'assetto di  autonomia  finanziaria  e  legislativa
delle comunita' regionali-locali, depositarie della  titolarita'  dei
servizi pubblici locali, passando sopra alle loro  scelte,  contro  i
principi del federalismo  fiscale.  Questa  non  e'  concorrenza.  In
sostanza, lo Stato dice: se ti apri  al  mercato  puoi  continuare  a
gestire con gli affidamenti in essere. Allora  si  ammette  che  tali
affidamenti sono legittimi; allora la condizione che  il  legislatore
statale  pone  e'  una  condizione  di  politica  istituzionale  (che
meritava  ben  altra  valutazione  e  condivisione  con   i   livelli
regionali-locali), ma non di concorrenza. Come si e' gia' evidenziato
nella premessa di inquadramento del problema posto dalla  riforma  da
ultimo attuata,  la  «privatizzazione»  del  capitale  sociale  delle
societa'  in  house  non  ha  alcun  riflesso  sulla   tutela   delle
concorrenza, provocando in  realta'  unicamente  una  svendita  delle
risorse  pubbliche,  perche'  non  cambia  il  monopolio   da   parte
dell'operatore (societa' privatizzata), ma solo la titolarita'  delle
sue azioni, delle quali il 30% o il 40% del  capitale  pubblico  deve
essere ceduto. Il che, ovviamente, produrra' un danno economico  alle
Societa' quotate, in evidente  contraddizione  con  la  tutela  della
concorrenza. 
    d)  per  contrasto  con  il  principio  di  pluralismo  paritario
istituzionale, in violazione degli artt. 114 e  118  Cost:  la  nuova
disciplina, come si e' visto, e' cosi' rigida da annullare  qualsiasi
autonomia  esercitabile  in  materia,  a  cominciare   dall'autonomia
organizzativa spettante agli enti locali, i  quali  comunque  sono  i
titolari di tali attivita', sia pur affidati alla gestione di imprese
esterne.  Viene  violato,  cosi',  il   principio   fondamentale   di
sussidiarieta', che richiede  appunto  una  valutazione  in  concreto
della situazione locale (che puo' enormemente variare  da  un  ambito
ottimale all'altro), anche per verificare le specifiche condizioni di
mercato in cui si svolge il servizio e  in  cui  si  «privatizza»  il
patrimonio pubblico. 
    e) per violazione dell'art.119 u.c. cost. secondo cui «i  Comuni,
le Province  le  Regioni  hanno  un  proprio  patrimonio,  attribuito
secondo i principi generali determinati dalla legge dello Stato».  La
norma sopra censurata impone, infatti, alle Amministrazioni pubbliche
di liberarsi  di  una  quota  del  proprio  patrimonio  societario  a
prescindere dalla convenienza  economica  dell'operazione,  e  quindi
dalla considerazione in concreto del tempo,  delle  modalita',  della
quantita', valutazioni indispensabili ad evitare che si  produca  una
svendita coatta di capitali pubblici.  Per  come  e'  strutturata  la
norma non c'e' alcuna possibilita' di realizzare un ritorno economico
che equilibri il depauperamento, obbligato per legge, del  patrimonio
della collettivita', e  si  determina  un  indebolimento  finanziario
della governance pubblica senza  adeguata  giustificazione  e  idonee
contromisure, con  evidente  violazione  della  norma  costituzionale
sull'autonomia  finanziaria  di  Regioni  e  Comuni  che,  per   tali
finalita' costituzionalmente riconosciute, ha espressamente  ad  essi
attribuito un proprio patrimonio, il quale non puo' essere inciso per
finalita' contrastanti con la sua stessa  conservazione  ed  ottimale
gestione. Per non dire, poi, delle conseguenze  che  puo'  comportare
sul valore delle azioni di una societa' quotata in borsa, la  vendita
massiccia e obbligatoria della propria quota azionaria. 
    Quanto  al  comma  9  dell'art.  23-bis,  come   sostituito.   La
disposizione  stabilisce  che  «le  societa',  le  loro  controllate,
controllanti e controllate da una medesima  controllante,  anche  non
appartenenti a Stati membri dell'Unione europea,  che,  in  Italia  o
all'estero, gestiscono di fatto o per disposizioni di legge, di  atto
amministrativo o per contratto servizi pubblici locali in  virtu'  di
affidamento diretto, di una procedura non ad evidenza pubblica ovvero
ai sensi del comma 2, lettera b), nonche' i soggetti cui e'  affidata
la gestione delle  reti,  degli  impianti  e  delle  altre  dotazioni
patrimoniali degli enti locali, qualora  separata  dall'attivita'  di
erogazione dei servizi, non possono acquisire la gestione di  servizi
ulteriori ovvero in ambiti territoriali diversi, ne' svolgere servizi
o attivita' per altri enti pubblici o privati, ne' direttamente,  ne'
tramite  loro  controllanti  o  altre  societa'  che  siano  da  essi
controllate o partecipate, ne' partecipando a gare. Il divieto di cui
al primo periodo opera per tutta la durata della gestione  e  non  si
applica alle societa' quotate in mercati  regolamentati  e  al  socio
selezionato ai sensi  della  lettera  b)  del  comma  2.  I  soggetti
affidatari  diretti  di  servizi  pubblici  locali  possono  comunque
concorrere  su  tutto  il  territorio  nazionale  alla   prima   gara
successiva alla cessazione del servizio,  svolta  mediante  procedura
competitiva ad evidenza pubblica, avente ad oggetto i servizi da essi
forniti». 
    Come si puo' notare, anche  tale  disposizione,  che  attiene  ai
limiti e divieti in ordine all'ambito di  operativita'  riservato  ai
soggetti titolari di affidamenti diretti e agli altri soggetti che  a
questi ultimi siano collegati, e' in contrasto  con  i  principi  del
diritto comunitario, appare irragionevole e non conforme al principio
di proporzionalita' fra i  contenuti  preclusivi  della  norma  e  le
finalita' di tutela della concorrenza perseguite. 
    Innanzitutto,  il  profilo  della  contrasto  con   l'ordinamento
comunitario. Per tale ordinamento, e come piu' volte ricordato  dalla
Corte di giustizia CE  a  proposito  delle  societa'  in  house,  una
societa' a partecipazione pubblica, assoggettata al controllo analogo
dei soci, titolare di un affidamento diretto, e' tenuta a svolgere  a
favore degli enti di riferimento  solo  l'attivita'  prevalente,  ben
potendo  destinare  l'attivita'  residua  anche  al  mercato.   Nella
prospettiva  del  comma  dell'art.  23-bis,  cosi'  come   riformato,
l'affidamento diretto di un servizio determina una impossibilita' per
la societa' destinataria di svolgere qualsiasi attivita' al di  fuori
del c.d. mercato domestico. In altri termini, la norma  in  questione
trasforma il concetto di «prevalenza»  dell'attivita'  in  «attivita'
esclusiva»,  costringendo  il  soggetto   titolare   dell'affidamento
diretto (non solo in house provider) a svolgere la propria  attivita'
esclusivamente nei confronti degli enti affidanti.  Del  resto,  gia'
questa  Corte  costituzionale,  con  la  sentenza  n.  439/2008,  nel
declinare  il  concetto  di   attivita'   «prevalente»   in   termini
quantitativi e qualitativi, ha  implicitamente  riconosciuto  che  il
concessionario diretto affidatario di servizi pubblici  locali  possa
svolgere una parte della propria  attivita',  seppure  marginale,  in
mercati diversi da quello del servizio gestito. 
    In secondo luogo, la  disposizione  appare  irragionevole  ed  il
regime limitativo che introduce per determinate categorie di  imprese
poco proporzionale agli scopi di tutela della concorrenza prefissati.
E'  irragionevole   estendere   le   conseguenze   limitative   degli
affidamenti diretti anche alle societa' miste costituite ai sensi del
comma 2, lett. b), art. 23-bis, considerato che, per  volonta'  dello
stesso legislatore, tale modello di gestione e'  stato  equiparato  a
quello dell'esternalizzazione, nella comune categoria  delle  formule
ordinarie di organizzazione dei servizi pubblici  locali  di  rilievo
economico. 
    Non vi e', poi, ragionevole ragione nella scelta  legislativa  di
escludere da tale regime limitativo, invece, le societa' quotate e di
prevedere una specie di moratoria con riferimento alla partecipazione
alle cc.dd. prime gare: anche le societa' quotate  sono  destinatarie
di affidamenti diretti e la  tutela  della  concorrenza  deve  valere
sempre e non «congelarla» nella fase di avvio della riforma. 
    Ma  ancora  piu'  grave,  sotto  il  profilo  della  mancanza  di
ragionevolezza e proporzionalita' nella previsione del comma 9, e' la
circostanza che detta norma riguardi non solo il gestore  affidatario
diretto,  rispetto  alla  cui   posizione   potrebbero   configurarsi
potenziali rischi  di  distorsione  della  concorrenza,  ma  anche  i
soggetti societari ad esso collegati e da esso controllati,  i  quali
conservano  in  ogni  caso  una  loro  autonomia  soggettiva  e   ben
potrebbero operare in altri mercati. In pratica,  il  legislatore  ha
collegato all'affidamento diretto di  un  servizio  ad  una  societa'
partecipata dagli enti pubblici una conseguente incapacita' di  agire
al di fuori dei confini territoriali e funzionali  determinati  dallo
stesso affidamento, la quale e'  destinata  a  colpire  non  solo  la
societa' incaricata del servizio, ma, come  se  fosse  un  virus,  ad
infettare  altre  possibili  societa'  che  per   controllo   o   per
collegamento siano riconducibili al gestore. 
    Obiettivamente  la   portata   della   disposizione   appare   un
po'eccessiva e  non  proporzionata  alla  tutela  della  concorrenza:
primo, perche', un vincolo di azione ad una societa' non e' di per se
stesso elemento atto a garantire  la  concorrenza;  secondo,  perche'
vale solo per le imprese  pubbliche  o  semi-pubbliche,  ma  non  per
quelle private, ben potendosi verificare in concreto  affidamenti  di
servizi a privati non preceduti da gara (come dimostra  l'esperienza,
giustificabili per ragioni di emergenza, ad esempio,  nel  campo  dei
servizi ambientali). 
    Sicche' la norma in questione,  nella  sua  correlazione  con  il
periodo  transitorio  introdotto  dal  comma  8   (come   sostituito)
contribuisce ad ingessare ancora  di  piu'  il  sistema  di  gestione
regionale-locale dei  servizi  pubblici,  con  evidente  compressione
della autonomia legislativa ed organizzativa degli enti titolari  dei
servizi,  senza   che   cio'   sia   giustificato   in   termini   di
proporzionalita' rispetto alle finalita' di tutela della  concorrenza
pretesamente  perseguite,  con  la   conseguenza   che   anche   tale
disposizione    e'    passibile    delle    medesime    censure    di
incostituzionalita' evidenziate in epigrafe. 
    4. Illegittimita' costituzionale dell'art 15 comma 1, lettere  e)
f) g) in relazione al comma 10 dell'art 23-bis del d.l.  n.  112/2008
per violazione dell'art. 117 commi 2 e 4. 
    Le lettere e), f) e g) dell'articolo della riforma del  2009  qui
analizzato rivedono il comma 10 dell'art. 23-bis, d.l.  n.  112/2008.
Si tratta del comma che sposta su  un  regolamento  governativo  gran
parte della portata della riforma dei servizi pubblici locali di tipo
economico, in quanto e' all'intervento del governo che si  chiede  di
specificare in dettaglio molti degli aspetti della  nuova  disciplina
introdotta. 
    Mentre le lettere f) e  g)  contengono  ritocchi  al  regime  del
rinvio operato dal legislatore ad apposito  regolamento  governativo,
la  lettera  e),  invece,  sposta  il  termine  per  l'adozione   del
regolamento al 31 dicembre 2009. 
    Si possono ricordare i dubbi  gia'  sopra  espressi  a  proposito
della  scelta  del  legislatore  di  affidare   ad   un   regolamento
governativo un settore la cui disciplina, se gia'  contenuta  in  una
fonte  primaria,  deve  limitarsi  a  disposizioni  proporzionate  ed
adeguate  in  un  ottica  di   funzionalita'   della   tutela   della
concorrenza. I rischi, poi, di invadere campi rispetto  ai  quali  la
competenza legislativa delle Regioni e' certa sono evidenti, come, ad
esempio, risulta eclatante la previsione secondo cui  il  regolamento
dovra' occuparsi anche di come i «comuni con un  limitato  numero  di
residenti possano svolgere le funzioni  relative  alla  gestione  dei
servizi pubblici locali in forma associata».  «Invero,  il  comma  10
dell'art. 23-bis e' gia' stato impugnato dalla Regione Emilia Romagna
con il ricorso  promosso  avverso  varie  disposizioni  del  d.l.  n.
112/2008, (R.G. n. 69/08) evidenziandosi in quella sede come  i  temi
del  regolamento  nelle  diverse  lettere   da   a)   ad   l)   siano
inestricabilmente intrecciati con le materie di potesta'  concorrente
(come il coordinamento della finanza pubblica) di  cui  alla  lettera
a), o esclusiva delle Regioni (come nel caso delle gestione associata
dei servizi locali, oggetto della lettera c)  ovvero  come  nel  caso
della lettera h) che, nel prevedere come rientrante nella  disciplina
degli affidamenti intesa come materia «esclusiva» statale, in  quanto
dettata per finalita' di concorrenza, forme  di  «ammortamento  degli
investimenti   e   una   durata   degli   affidamenti    strettamente
proporzionale  e  mai  superiore   ai   tempi   di   recupero   degli
investimenti», tocca, in realta', un tema delicatissimo, che riguarda
il patrimonio delle  reti  e  degli  impianti  pubblici  e  che  puo'
comportare, se non  rispondente  alle  esigenze,  come  apprezzate  e
valutate  dalle  Amministrazioni  proprietarie  delle  reti  e  degli
impianti, ad un inevitabile depauperamento dei patrimoni comunali. 

        
      
 
                              P. Q. M. 
 
    Voglia   l'Ecc.ma   Corte   costituzionale    adita    dichiarare
l'illegittimita' costituzionale dell'art.15 comma 1,  lett.  b),  c),
d), e), f, g) del d.l. n. 135/2009, come convertito con modificazioni
con la Legge 20 novembre 2009 n. 166, per violazione degli  artt.117,
comma 1, 2, 4, 6; 114; 118 e 119 cost. nei termini e sotto i  profili
esposti nel presente ricorso. 
      Bologna-Roma, 21 gennaio 2010 
 
                         Avv. Mastroagostino 
 
 
                             Avv. Falcon 
 
 
                             Avv. Manzi 
 

        

Menu

Contenuti