N. 13 RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 29 gennaio 2004.
Ricorso per questione di legittimita' costituzionale depositato in
cancelleria il 29 gennaio 2004 (della Regione Emilia-Romagna)
(GU n. 7 del 18-2-2004)

Ricorso della Regione Emilia-Romagna in persona del presidente
della giunta regionale pro tempore, sig. Vasco Errani, autorizzato
con deliberazione della giunta regionale n. 64 del 19 gennaio 2004
(doc. 1), rappresentata e difesa, come da procura speciale a rogito
del notaio dott. Federico Stame di Bologna, rep. n. 47915 del 19
gennaio 2004 (doc. 2), dal prof. avv. Giandomenico Falcon del foro di
Padova, dal prof. avv. Franco Mastragostino del foro di Bologna e
dall'avv. Luigi Manzi del foro di Roma, con domicillo eletto presso
lo studio di quest'ultimo in Roma, via Confalonieri n. 5;

Contro Presidente del Consiglio di ministri per la dichiarazione
di illegittimita' costituzionale della legge 24 novembre 2003,
n. 326, «Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge
30 settembre 2003, n. 269, recante disposizioni urgenti per favorire
lo sviluppo e per la correzione dell'andamento dei conti pubblici»,
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 274 del 25 novembre 2003 -
supplemento ordinario n. 181, nella parte in cui converte, con
modificazioni, i seguenti articoli:
art. 21 (Assegno per ogni secondo figlio e incremento del
fondo nazionale per le politiche sociali) per violazione degli
artt. 3, 97, 117, 119 Cost.;
art. 32, comma 21 e comma 22 (inerenti all'incremento dei
canoni demaniali), quest'ultimo nel testo sostituito dall'art. 2,
comma 53 della legge finanziaria 24 dicembre 2003, n. 350, per
violazione degli artt. 3 e 117 Cost. del principio di leale
collaborazione e del canone di ragionevolezza;
art. 32 ed in particolare i commi: 1, 2, 3, 25 e 26, lett.
a), in quanto prevedono un nuovo condono edilizio; 25 in quanto non
eccettua dal condono gli abusi per i quali il procedimento
sanzionatorio sia gia' iniziato; 26, lett. a), in quanto subordina la
sanabilita' alla legge regionale per gli abusi minori in zone non
vincolate, sottraendo a questo regime gli abusi maggiori e gli abusi
minori in zone vincolate; 3, 25 26, lett. a), 28, 32, 35 lett. a) e
b), 37, 38 e 40 e allegato 1, in quanto, con disciplina dettagliata e
autoapplicativa, stabiliscono le condizioni, le modalita', i termini
e le procedure relative al condono edilizio; 25 e 35, in quanto
consentono di «far passare» per gia' costruite opere in corso di
costruzione o ancora da costruire; 37, in quanto prevede un
meccanismo di silenzio-assenso; 25, in quanto prevede un limite di
volume per ogni singola richiesta; 1, 2, 3, 25, 26 lett. a) per
mancato coinvolgimento delle regioni,
per violazione degli articoli 3, primo comma, 5, 9, 97 primo comma,
114 primo comma, 117 secondo comma, 117 terzo comma, 118 primo comma
Cost. nonche' del principio di ragionevolezza, di indisponibilita'
dei valori costituzionalmente tutelati e del principio di leale
collaborazione tra lo Stato e le regioni.

F a t t o

Con la legge 24 novembre 2003, n. 326 pubblicata nel supplemento
ordinario della Gazzetta Ufficiale 25 novembre 2003, n. 274, e' stato
convertito, con modificazioni, il decreto-legge 30 settembre 2003,
n. 269, con il quale lo Stato ha assunto misure «urgenti per favorire
lo sviluppo e per la correzione dell'andamento dei conti pubblici»,
che, al di la' del merito e della opportunita' e giustificazione
della manovra, contengono alcune disposizioni sicuramente lesive
delle competenze regionali.
Le piu' eclatanti, per ambito e portata di intervento, sono
quelle che riguardano la previsione di un nuovo condono edilizio, che
la Regione Emilia-Romagna ha gia' impugnato, con ricorso avverso
l'art. 32 del decreto-legge n. 269/2003, che risulta pendente avanti
a codesta Corte con il n. 83/2003. Poiche' la legge n. 326/2003 ha
convertito il d.l. lasciando nella sostanza inalterate quasi tutte le
disposizioni censurate con il ricorso n. 83/2003, e' evidente che la
legge sopracitata e' affetta dai medesimi vizi di costituzionalita'
denunciati in relazione al decreto-legge.
Sussistono, inoltre, profili di illegittimita' costituzionale in
relazione ad altre disposizioni della legge n. 326/2003, come
evidenziate in epigrafe, che vengono impugnate per la prima volta in
questa sede.

D i r i t t o


I

Per comodita' di esposizione conviene prendere avvio dai motivi
di impugnazione che si formulano per la prima volta avverso le
disposizioni della legge n. 326/2003.
1. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 21 della legge
n. 326/2001 (Assegno per ogni secondo figlio e incremento del fondo
nazionale per le politiche sociali) per violazione degli artt. 3, 117
e 119 Cost.
Per ogni figlio, secondo od ulteriore, nato fra il 1° dicembre
2003 e fino al 31 dicembre 2004, o adottato, la disposizione in
questione dispone che e' concesso un'assegno pari a 1000 euro. Per
tali finalita' e' istituita una speciale gestione presso l'INPS, fino
a 308 milioni di euro. L'assegno e' concesso dai comuni che, previa
informazione agli interessati, provvedono a far certificare il
possesso dei requisiti all'atto di iscrizione all'anagrafe dei nuovi
nati. L'assegno e' comunque erogato dall'INPS, sulla base dei dati
forniti dai comuni medesimi, secondo modalita' da definire con uno o
piu' «decreti di natura non regolamentare» del Ministro del lavoro e
delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell'economia e
delle finanze.
Il comma 6 prevede, inoltre, che «per il finanziamento delle
politiche in favore delle famiglie il Fondo nazionale per le
politiche sociali di cui all'art. 59, comma 44, della legge 27
dicembre 1997, n. 449, a successive modificazioni, e' incrementato di
232 milioni di euro per l'anno 2004».
Il comma 7 dispone che per «le finalita' del presente articolo e'
autorizzata la spesa di 287 milioni di euro per l'anno 2003 e di 253
milioni di euro per l'anno 2004. Al relativo onere si provvede
mediante corrispondente riduzione dello stanziamento iscritto, ai
fini del bilancio triennale 2003-2005, nell'ambito dell'unita'
previsionale di base di parte corrente «Fondo speciale dello stato di
previsione del Ministero dell'economia e delle finanze per l'anno
2003, allo scopo parzialmente utilizzando l'accantonamento relativo
al Ministero del lavoro e delle politiche sociali.». Questa
disposizione verra' poi integrata da una norma ulteriore (che sara'
oggetto di impugnazione separata da parte della Regione
Emilia-Romagna) contenuta nel comma 116 dell'art. 3 della legge 27
dicembre 2003, n. 350 (legge finanziaria per il 2004), che specifica
gli interventi per i quali tale Fondo puo' essere utilizzato nel 2004
(politiche per la famiglia e in particolare per anziani e disabili;
abbattimento delle barriere architettoniche; servizi per
l'integrazione scolastica degli alunni portatori di handicap; servizi
per la prima infanzia e scuole dell'infanzia, per i quali il comma
117 indica anche le procedure da seguire) e il relativo riparto delle
risorse.
Non vi e' dubbio che gli interventi previsti dalle disposizioni
citate rientrano nella materia «servizi sociali», di sicura spettanza
della regione. Si tratta, infatti, di misure che attengono alla
programmazione dell'assistenza alla famiglia e sono, quindi,
coessenziali alla politica sociale. Con le disposizioni impugnate, lo
Stato non solo decide unilateralmente in quale direzione svolgere
l'intervento pubblico in materia di sostegno della famiglia, ma
istituisce, incrementa e disciplina un Fondo apposito del quale poi
continua liberamente a disporre selezionando le linee di impiego e la
relativa quantificazione della spesa.
Non occorre entrare in valutazioni di merito di questi
interventi, benche' in essi appaiano quantomeno contestabili sia
l'esclusione dalle provvidenze delle famiglie di cittadini
extracomunitari regolarmente soggiornanti in Italia (esclusione
contraria a quei «diritti di cittadinanza posti tra i «Principi
generali del sistema integrato di interventi e servizi sociali»
dall'art. 1, e ribaditi dall'art. 2, comma 1, della legge 8 novembre
2000, n. 328 - legge quadro per la realizzazione del sistema
integrato di interventi e servizi sociali), sia l'attribuzione
indistinta dell'assegno, in cui non si tengono in alcun conto le
condizioni sociali ed economiche dei beneficiari, con la conseguenza
che viene a mancare un elemento di equita' e di giustizia sociale (in
violazione del principio di eguaglianza sancito dall'art. 3 Cost. e
chiaramente specificato dall'art. 2, comma 3, della legge quadro).
Queste considerazioni costituiscono gia' di per se' autonome
censure di costituzionalita' e si affiancano a quelle che dal punto
di vista della lesione delle competenze della ricorrente regione -
sono le fondamentali censure di violazione degli artt. 117 e 119
Cost.
La violazione dell'art. 117 Cost. e' resa evidente dal fatto che
gli interventi di sostegno della famiglia, come pure gli altri
interventi sostenuti dal Fondo nazionale per le politiche sociali,
cosi' come articolati e specificati dalla citata norma delle legge
finanziaria 2004, rientrano tutti nella materia «servizi sociali».
Gia' il capo II del titolo IV del decreto leg. n. 112/1998, del
resto, aveva definito con estensione la materia, come comprensiva di
«tutte le attivita' relative alla predisposizione ed erogazione di
servizi, gratuiti ed a pagamento, o di prestazioni economiche
destinate a rimuovere e superare le situazioni di bisogno e di
difficolta' che la persona umana incontra nel corso della sua vita,
escluse soltanto quelle assicurate dal sistema previdenziale e da
quello sanitario, nonche' quelle assicurate in sede di
amministrazione della giustizia» (art. 128, comma 2, richiamato
dall'art. 1, comma 2, della citata legge quadro). E' vero che la
recente giurisprudenza di codesta Corte ha spesso richiamato
l'attenzione sulla necessita' di tenere in considerazione gli altri
interessi che possono convergere nella disciplina di una materia e
attrarne la competenza ad un livello diverso, anche in nome del
principio di sussidiarieta' e di adeguatezza, ma e' altresi' vero che
per l'erogazione di provvidenze a favore delle famiglie (quanto per
gli altri interventi previsti a carico del Fondo nazionale) non
sembrano in alcun modo invocabili interessi (come quelli in materia
previdenziale, i profili professionali o l'assistenza temporanea ai
profughi, per esempio) che giustifichino l'intervento unilaterale
dello Stato. Lo comprova il fatto che gia' il conferimento disposto
dal d.lgs. n. 112/1998 prevedeva espressamente (art. 132, lett. d) i
servizi sociali diretti alla famiglia come oggetto specifico di
competenza legislativa delle regioni, cui era fatto obbligo di
conferire le relative funzioni amministrative ai comuni e agli altri
enti locali.
D'altra parte, non appare in alcun modo invocabile la potesta'
che lo Stato puo' esercitare in via esclusiva per la determinazione
dei livelli essenziali delle prestazioni (art. 117, comma 2, lettera
m). Tale potesta' consente allo Stato di emanare le «norma necessarie
per assicurare a tutti, sull'intero territorio nazionale, il
godimento di prestazioni garantite, come contenuto essenziale di tali
diritti, senza che la legislazione regionale possa limitarle o
condizionarle» (sent. n. 282/2002), attribuendogli «un fondamentale
strumento per garantire il mantenimento di una adeguata uniformita'
di trattamento sul piano dei diritti di tutti i soggetti, pur in un
sistema caratterizzato da un livello di autonomia regionale e locale
decisamente accresciuto» (sent. n. 88/2003). Viceversa, risulta con
tutta evidenza che la normativa impugnata non determina affatto i
livelli delle prestazioni che devono essere garantite uniformemente
dalle regioni e dagli enti locali. Ci si trova in questo caso in
situazione analoga a quella decisa da codesta Corte con la sent.
n. 370/2003, a proposito dell'art. 70 della legge finanziaria 2002;
come in quel caso (che riguardava finanziamenti per gli asili nido),
anche la disposizione ora impugnata «non ha affatto le
caratteristiche sostanziali e formali che potrebbero farlo annoverare
fra gli atti espressivi di questo potere di predeterminazione
normativa dei livelli essenziali, e per di piu' non vi sono «titoli»
diversi in nome dei quali lo Stato possa attrarre a se' la
disciplina, delegando i comuni ad attivita' di tipo istruttorio e
pretermettendo totalmente le regioni.
Nella norma impugnata viene persino esclusa qualsiasi procedura
di coinvolgimento delle regioni nella programmazione degli
interventi, come sarebbe viceversa d'obbligo, per consolidata
opinione espressa da codesta Corte, quando lo Stato intervenisse in
materie di competenza regionale in nome della tutela delle «esigenze
unitarie» (cfr. sentt. 88/2003, 303/2003, 6/2004), o quando ci si
trovasse di fronte a competenze necessariamente e inestricabilmente
connesse (sentt. 422/2002, 308/2003), ipotesi che pero' nel presente
caso non ricorrono affatto. Oltretutto, dalla concezione
«centralistica» degli intereventi a favore delle famiglie discende
anche una grave distorsione: proprio la circostanza che siano i
comuni a condurre l'istruttoria - la quale prende avvio solo se
previamente siano stati informati gli interessati e previo
accertamento del possesso dei requisiti, come risultanti da
dichiarazioni dell'interessato all'anagrafe - fa emergere un problema
di diversificazione della concreta applicazione della misura a
seconda dell'efficienza e organizzazione che il singolo ente locale
sara' in grado di assicurare e non in ragione dello stato di bisogno
delle famiglie e delle condizioni di denatalita' che si verificano
nelle specifiche realta' locali.
Una programmazione degli interventi fondata sulle competenze
delle Regioni (le quali, come stabiliva - prima della riforma
costituzionale del titolo V - l'art. 4, comma 3, della legge quadro,
«provvedono alla ripartizione dei finanziamenti assegnati dallo Stato
per obiettivi ed interventi di settore, nonche' in forma sussidiaria,
a cofinanziare interventi e servizi sociali derivanti dai
provvedimenti regionali di trasferimento agli enti locali delle
materie individuate dal citato art. 132») e delle autonomie locali (a
cui, infatti, gia' l'art. 131, comma 2, del d.lgs. n. 112/1998
attribuiva il compito di erogare i servizi e le prestazioni sociali
progettandoli in modo coordinato «in rete») avrebbe assicurato, oltre
ad un maggiore rispetto delle disposizioni costituzionali, la
chiarezza e ragionevolezza dell'intervento e con cio', in sostanza,
l'equita' nella distribuzione del premio.
Al contrario, le disposizioni impugnate, nel prevedere interventi
di questo tipo decisi dal centro, operano non in attuazione del
principio di sussidiarieta', ma contro di esso, non in nome, ma
contro i principi costituzionali di eguaglianza e di solidarieta'
sociale con i soggetti in stato di bisogno, non in nome, ma contro i
principi di «programmazione degli interventi e delle risorse,
dell'operativita' per progetti, della verifica sistematica dei
risultati in termini di qualita' e di efficacia delle prestazioni,
nonche' della valutazione di impatto di genere» (art. 3, comma 1,
della legge quadro). La norma impugnata costituisce, inoltre, una
macroscopica violazione dell'art. 119 Cost. Come la Corte ha avuto
modo di sottolineare nella gia' richiamata sent. 370/2003, «nel nuovo
sistema, per il finanziamento delle normali funzioni di regioni ed
enti locali, lo Stato puo' erogare solo fondi senza vincoli specifici
di destinazione in particolare tramite il fondo perequativo di cui
all'art. 119, terzo comma, della Costituzione». Il meccanismo di
finanziamento delineato dalla norma censurata, che gia' non sarebbe
stato coerente con il precedente assetto legislativo (infatti l'art.
129, lett. e) del d.lgs. n. 112/1998 e l'art. 9, comma 1, lett. f)
della legge quadro prevedevano che lo Stato ripartisse il Fondo tra
le regioni, e non che ne disponesse direttamente), non e' piu'
utilizzabile a seguito dei rilevanti mutamenti introdotti dalla legge
costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della
seconda parte della Costituzione). «Il nuovo art. 119 della
Costituzione - afferma la sent. n. 370 - prevede espressamente, al
quarto comma, che le funzioni pubbliche regionali e locali debbano
essere «integralmente» finanziate tramite i proventi delle entrate
proprie e la compartecipazione al gettito dei tributi erariali
riferibili al territorio dell'ente interessato, di cui al secondo
comma, nonche' con quote del «fondo perequativo senza vincoli di
destinazione», di cui al terzo comma. Gli altri possibili
finanziamenti da parte dello Stato, previsti dal quinto comma, sono
costituiti solo da risorse eventuali ed aggiuntive «per promuovere lo
sviluppo economico, la coesione e la solidarieta' sociale, per
rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l'effettivo
esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi
dal normale esercizio delle funzioni ed erogati in favore «di
determinati comuni, province, citta' metropolitane e regioni».
Dal momento che l'attivita' dello speciale servizio pubblico
costituito dagli interventi a favore della famiglia rientra
palesemente nella sfera delle funzioni proprie delle regioni e degli
enti locali, non si puo' che concludere che «e' contraria alla
disciplina costituzionale vigente la configurazione di un fondo
settoriale di finanziamento gestito dallo Stato, che viola in modo
palese l'autonomia finanziaria sia di entrata che di spesa delle
regioni e degli enti locali e mantiene allo Stato alcuni poteri
discrezionali nella materia cui si riferisce» (ancora sent.
n. 370/2003).
Ne risulta percio' l'illegittimita' non solo del singolo atto di
disposizione del Fondo, come quello contenuto nell'articolo
impugnato, ma della stessa previsione di un Fondo nazionale per le
politiche sociali, che non appare piu' compatibile con il novellato
art. 119 Cost. Ne' puo' essere invocata la perdurante inattuazione
dell'art. 119: a parte che «la permanenza o addirittura la
istituzione di forme di finanziamento delle regioni e degli enti
locali contraddittorie con l'art. 119 della Costituzione espone a
rischi di cattiva funzionalita' o addirittura di blocco di interi
ambiti settoriali» (sent. n. 370/2003), codesta Corte ha sottolineato
che «fin d'ora lo Stato puo' e deve agire in conformita' al nuovo
riparto di competenze e alle nuove regole, disponendo i trasferimenti
senza vincoli di destinazione specifica, o, se del caso, passando
attraverso il filtro dei programmi regionali, coinvolgendo dunque le
regioni interessate nei processi decisionali concernenti il riparto e
la destinazione dei fondi, e rispettando altresi' l'autonomia di
spesa degli enti locali» (sent. n. 16/2004). Da questi canoni
l'impugnato art. 21 si discosta con irrimediabile evidenza.
2. - Illegittimita' costituzionale dell'art 32, commi 21 e 22,
per violazione degli artt. 3 e 117 Cost. e del principio di leale
collaborazione, nonche' del canone di ragionevolezza. I commi sopra
citati concernono l'aumento dei canoni per le concessioni d'uso del
demanio marittimo per finalita' turistico-ricreative, di cui viene
tout court disposto l'incremento del trecento per cento.
La successiva legge finanziaria ha modificato il comma 22
stabilendo che l'aumento e' fissato con un decreto interministeriale,
da emanarsi entro il 30 giugno 2004, al quale e' fissato, come unico
parametro o indirizzo, l'obiettivo finanziario di assicurare
«maggiori entrate non inferiori a 140 milioni di euro a decorrere dal
1° gennaio 2004»: decorso il termine per l'emanazione di tale
decreto, scatta automaticamente e retroattivamente la
quadruplicazione del canone.
Come e' noto, tutte le funzioni amministrative inerenti allo
sfruttamento per finalita' turistico-ricreative del demanio marittimo
sono state conferite alle regioni a far tempo dal d.lgs. n. 112/1998.
In precedenza erano state delegate alle regioni gia' dall'art. 59 del
d.P.R. n. 616/1977, in considerazione della stretta attinenza
dell'esercizio delle funzioni concessorie con la materia turismo e
attivita' ricreative. In effetti, in molte regioni, e segnatamente
nell'Emilia-Romagna, il demanio marittimo rappresenta un fattore di
enorme importanza per la politica e l'economia del turismo.
Con la presente impugnazione la regione non contesta il diritto
dominicale dello Stato di fissare un canone per l'utilizzo dei suoi
beni demaniali. Essa contesta invece la legittimita' costituzionale
della misura, del metodo e della forma con cui l'aumento e' stato
deciso, in quanto tale illegittimita' costituzione comporta una
lesione delle competenze regionali nella materia del turismo.
Quanto alla misura, non puo' non essere rilevato che la
quadruplicazione del canone e' contemporaneamente: un intervento
dagli effetti assai gravi per la totalita' delle imprese balneari;
una misura discriminatoria rispetto agli altri canoni; non fondata su
specifiche considerazioni di fatto e sul livello dei precedenti
canoni.
Va rilevato che i canoni erano stati fissati con il d.m n. 342
del 1998, per cui, dato l'andamento contenuto dell'inflazione, non
rappresentavano certo evidenti anacronismi rispetto alla attuale
realta' economico-finanziaria tanto piu' che l'art. 4 del
decreto-legge n. 400/1993 prevede che «i canoni annui relativi alle
concessioni demaniali marittime sono aggiornati annualmente, con
decreto del Ministro della marina mercantile, sulla base della media
degli indici determinati dall'ISTAT». E' singolare che proprio su
questa unica categoria di canoni si sia percio' concentrata la rapace
attenzione del Tesoro, trascurando ben altri e piu' lucrosi settori
in cui i beni pubblici sono sfruttati per produrre reddito a favore
degli operatori privati; per lo stesso sfruttamento del demanio
marittimo il provvedimento crea un'ingiustificata discriminazione tra
gli imprenditori turistici e le altre categorie di imprenditori che
usano il demanio per finalita' non turistiche.
Come detto, non si contesta il potere del Governo di valutare per
quali categorie di beni pubblici sia conveniente e in che misura
elevare i canoni dell'utilizzazione privata; ma e' evidente che
queste valutazioni non possono prescindere dal rispetto del consueti
criteri di ragionevolezza, congruita' e giustizia. Va, infatti,
considerato anche che l'art. 1, comma 2, del citato decreto-legge
n. 400/1993 fissa in sei anni la durata delle concessioni,
indipendentemente dalla natura o dal tipo degli impianti previsti per
lo svolgimento delle attivita'; alla scadenza le concessioni si
rinnovano automaticamente per altri sei anni e cosi' successivamente
ad ogni scadenza. La ratio di queste disposizioni, di evidente favor
per gli operatori turistici, e' di incentivare gli investimenti nelle
aree demaniali a vocazione turistica dando la sicurezza di
continuita' agli imprenditori di settore.
I vizi di legittimita' cosi' denunciati incidono direttamente
sugli interessi della regione e ne compromettono le attribuzioni in
materia turistica. La forte incidenza del fattore fiscale sulla
operativita' delle imprese turistiche, infatti, compromette l'azione
promozionale, di programmazione e di sviluppo che la Regione
Emilia-Romagna ha esercitato in un settore fondamentale per il suo
sviluppo economico. Inoltre, un aumento cosi' esorbitante del canone
di concessione comprime le risorse degli imprenditori turistici
impedendo loro di intraprendere gli investimenti necessari per
restare competitivi in un settore che e' ormai diventato altamente
concorrenziale, e gravemente riduce la possibilita' per essi di
proseguire in quelle opere e iniziative che tradizionalmente sono
state dirette ad interessi pubblici quali la sicurezza degli utenti,
la tutela ambientale, ecc.
Inoltre, per la stessa regione, di conseguenza, diventa
impossibile qualsiasi aggiornamento dei propri diritti di imposta,
attualmente prevista e disciplinata dalla legge regionale 31 maggio
2002, n. 9, attraverso i quali e' stato possibile finanziare
l'esercizio delle funzioni amministrative (di rilascio, rinnovo,
modifica delle concessioni demaniali marittime a finalita'
turistico-ricreative, di quelle inerenti ai porti di interesse
regionale e sub-regionale ed inerenti ad esercizio del commercio su
aree demaniali) in larga parte delegate agli enti locali. Risulti
evidente la sproporzione tra i diritti derivanti dalla mera e passiva
proprieta' dei beni demaniali e i diritti derivanti dall'attivo
esercizio di importanti funzioni amministrative, legate allo sviluppo
economico, alla sicurezza, alla tutela ambientale.
Quanto al metodo, va rilevato che il d.l. n. 400/1993, cosi' come
convertito dalla legge n. 494/1993, aveva correttamente considerato
lo stretto legame che deve sussistere fra la determinazione dei
diritti spettanti al proprietario e gli interessi dei soggetti
chiamati ad amministrare tali beni a fini turistici e a disciplinare
la materia: infatti, veniva prevista dall'art. 3 del decreto-legge
che «i canoni annui per concessioni con finalita'
turistico-ricreative di aree, pertinenze demaniali marittime e
specchi acquei per i quali si applicano le disposizioni relative alle
utilizzazioni del demanio marittimo sono determinati, a decorrere dal
1° gennaio 1994, con decreto del Ministro della marina mercantile,
emanato sentita la Conferenza permanente per i rapporti fra lo Stato,
le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano». Di questo
indispensabile passaggio procedurale si e' invece persa la traccia
sia nei commi 21 e 22 del decreto-legge impugnato, sia nel comma 53
dell'art. 2 della legge finanziaria, nonostante fosse stato esplicito
l'invito formulato alla Camera dei deputati nel corso
dell'approvazione della legge di conversione (si veda l'o.d.g.
presentato dall'on. La Malfa il 19 novembre 2003).
La deliberata esclusione del parere della Conferenza
Stato-Regione si riverbera percio' nella violazione del principio di
leale collaborazione che, come la costante giurisprudenza di questa
Corte ha sottolineato, rappresenta l'ineliminabile onere procedurale
che deve essere assolto da tutti i provvedimenti che incidono su
«materie» in cui gli interessi dello Stato convergono e devono
armonizzarsi con quelli delle Regioni.
Quanto alla forma, infine, la scarsa coerenza tra i commi 21 e 22
dell'articolo impugnato e' stata ulteriormente aggravata dalla
riforma introdotta dalla successiva legge finanziaria. Persino nei
lavori parlamentari (si veda ancora l'o.d.g. La Malfa) non risultava
affatto chiara la portata dei due commi, sembrando addirittura
possibile un'interpretazione per cui essi prevedessero due
provvedimenti diversi, il comma 21, ma non il 22, riguardando le
concessioni a finalita' turistico-ricreative. Ogni invito delle
Camere a riconsiderare la questione e a chiarire il testo legislativo
(si veda l'o.d.g. 9/4447/96 proposto dall'on. Cazzaro, approvato
dalla Camera dei deputati e accettato dal Governo) e' stato disatteso
dato che la modifica introdotta dalla legge finanziaria non chiarisce
affatto i rapporti tra i due commi, ne' introduce il doveroso obbligo
delle autorita' ministeriali di sottoporre il provvedimento al previo
parere della Conferenza Stato-regioni.
Per tutti gli enunciati profili le disposizioni impugnate
risultano lesive delle attribuzioni regionali garantite dall'art. 117
Cost., del principio di leale collaborazione, del principio di
eguaglianza sancito dall'art. 3 Cost., del principio di certezza del
diritto e del generale canone di ragionevolezza delle leggi.
Si ripropongono, ora, i motivi di impugnazione riguardanti il
corpus di disposizioni inerenti al condono edilizio, contenuti nel
ricorso n. 83/2003 promosso avverso il decreto-legge n. 269/2003, di
cui si reputa opportuno riprodurre integralmente (in carattere
corsivo) le argomentazioni gia' espresse, in quanto mantengono tutta
la loro validita' anche in relazione alla legge di conversione del
decreto-legge. Alcune brevi integrazioni, relative a norme introdotte
dopo il decreto-legge, sono evidenziate dal carattere tondo.

F a t t o

Lo «storico» condono edilizio fu infrodotto dalla legge n. 47 del
1985, come evento assolutamente eccezionale e correlato a rilevanti
innovazioni nella disciplina edilizia. A distanza di nove anni la
legge n. 724 del 1994 riapri' i termini del condono. Ed ora, a
distanza ancora di nove anni, l'art. 32 del decreto-legge n. 269 del
2003 prevede un nuovo condono, riprendendo con modifiche le regole
sostanziali e procedurali del 1985 e del 1994. L'art. 32 del
decreto-legge, che contiene la normativa qui impugnata e' intitolato
Misure per la riqualificazione urbanistica, ambientale e
paesaggistica, per l'incentivazione dell'attivita' di repressione
dell'abusivismo edilizio, nonche' per la definizione degli illeciti e
delle occupazioni di aree demaniali. Il comma 1 dichiara la finalita'
di «pervenire alla regolarizzazione del settore». Il comma 2 dichiara
altresi' che «la normativa e' disposta nelle more dell'adeguamento
della disciplina regionale al testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia edilizia, approvato con d.P.R.
6 giugno 2001, n. 380, in conformita' al titolo V della Costituzione
come modificato dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3» e
che sono «comunque fatte salve le competenze delle autonomie locali
sul governo del territorio». Il comma 3 precisa che «le condizioni, i
limiti e le modalita' del rilascio del predetto titolo abilitativo
sono stabilite dal presente articolo e dalle normative regionali». In
questi termini, pur se talune delle citate formulazioni non sembrano
davvero perspicue - come quella che non si sa a quali fini precisa
trattarsi di una normativa adottata «nelle more» di un adeguamento
che tra l'altro per la Regione Emilia-Romagna e' gia' avvenuto con la
legge regionale 25 novembre 2002, n. 31 (mod. con l.r. 19 dicembre
2002, n. 37) - l'intitolazione dell'articolo e i primi commi possono
dare l'impressione di una normativa «positiva», o comunque - per
quanto riguarda piu' strettamente il condono - di una normativa messa
a disposizione delle regioni e delle autonomie locali come un
principio facoltizzante, secondo cui la legislazione statale ha
materia di «governo del territorio» autorizzerebbe le regioni che lo
ritenessero a permettere ai propri enti locali di rilasciare
concessioni in sanatoria entro i limiti fissati in primo luogo dalle
stesse seguenti disposizioni dell'art. 32, in secondo luogo dalle
leggi delle singole regioni. Se cosi' fosse, il condono introdotto
dall'art. 32 si presterebbe pur sempre ad obiezioni di legittimita' e
merito - non sembrando davvero consono alle ragioni di garanzia che
presiedono al riconoscimento di una legislazione statale di principio
in materia di governo del territorio la fissazione di regole che
consentono invece il «non governo» o addritttura il malgoverno - ma
almeno nessuna comunita' regionale si vedrebbe costretta ad accettare
la sanzione definitiva di quanto di urbanisticamente disordinato ed
irregolare possa essere accaduto negli ultimi anni. Sennonche', il
carattere rispettoso, se non del territorio, almeno delle autonomie
territoriali si rivela esso stesso pura apparenza quando si
considerino le rimanenti disposizioni dell'art. 32, dalle quali
emergono invece i tratti inconfondibili del vecchio e classico
condono, nella stessa versione della legge n. 47 del 1985 e della
legge n. 724 del 1994: insomma, del «solito» condono, che si
prospetta cosi' come evento ciclico e ricorrente della storia
italiana.
Sommando tutti i periodi ne risulta che - tranne le eccezioni per
le zone soggette a particolari vincoli - chiunque negli ultimi venti
anni abbia effettuato opere edilizie ha spregio delle regole
sostanziali e formali di governo del territorio ha potuto o potra'
trarre vantaggio dal proprio illecito, senza che alcuna
considerazione urbanistica possa essergli opposta, alla sola
condizione di versare allo Stato una somma di danaro. E che coloro
che al contrario hanno rinunciato ad opere che pure sarebbero state
per loro vantaggiose in ossequio alla normativa urbanistica o
nell'attesa di regolari permessi avranno una nuova ragione di
chiedersi - se davvero le regole sono queste - se non avrebbero fatto
meglio in passato e non faranno meglio in futuro, a violare anch'essi
le norme.
In effetti, la «vera» disciplina del nuovo condono inizia con il
comma 25, che stabilisce che «le disposizioni di cui ai capi IV e V
della legge 28 febbraio 1985, n. 47, e successive modificazioni e
integrazioni come ulteriormente modificate dall'articolo 39 della
legge 23 dicembre 1994, n. 724, e successive modificazioni e
integrazioni nonche' dal presente articolo, si applicano alle opere
abusive che risultino ultimate entro il 31 marzo 2003 e che non
abbiano comportato ampliamento del manufatto superiore al 30 per
cento della volumetria della costruzione originaria o, in alternativa
un ampliamento superiore a 750 mc», e che «le suddette disposizioni
trovano altresi' applicazione alle opere abusive realizzate nel
termine di cui sopra relative a nuove costruzioni residenziali non
superiori a 750 mc per singola richiesta di titoli abilitativi
edilizi in sanatoria», con l'aggiunta, avvenuta in sede di
conversione «a condizione che la nuova costruzione non superi
complessivamente i 3000 mc».
Posto che «la misura dell'oblazione e dell'anticipazione degli
oneri concessori, nonche' le relative modalita' di versamento, sono
disciplinate nell'allegato 1» (comma 38), l'operativita' di quanto
enunciato e' poi assicurata dal comma 28, il quale dispone da un lato
che «i termini previsti dalle disposizioni sopra richiamate e
decorrenti dalla data di entrata in vigore dell'articolo 39 della
legge 23 dicembre 1994, n. 724, e successive modificazioni e
integrazioni, ove non disposto diversamente, sono da intendersi come
riferiti alla data di entrata in vigore del presente decreto»,
dall'altro che per «quanto non previsto dal presente decreto si
applicano, ove compatibili, le disposizioni di cui alla legge
28 febbraio 1985, n. 47, e al predetto articolo 39».
Ulteriori norme sono dettate dal comma 32 («la domanda relativa
alla definizione dell'illecito edilizio, con l'attestazione del
pagamento dell'oblazione e dell'anticipazione degli oneri concessori,
e' presentata al comune competente, a pena di decadenza, entro il 31
marzo 2004, unitamente alla dichiarazione di cui al modello allegato
e alla documentazione di cui al comma 35») e dal comma 35, il quale
prevede con precisione e dettaglio la documentazione da allegare alla
domanda (pur ammettendo che vi possa essere «ulteriore documentazione
eventualmente prescritta con norma regionale»!). L'allegato 1 precisa
addirittura che la domanda di definizione degli illeciti edilizi
«deve essere compilata utilizzando il modello di domanda allegato».
La disciplina e' completata dalle norme di chiusura del comma 37,
secondo cui «il pagamento degli oneri di concessione, la
presentazione della documentazione di cui al comma 35, della denuncia
in catasto, della denuncia ai fini dell'imposta comunale degli
immobili di cui al d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, nonche', ove
dovute, delle denuncie ai fini della tassa per lo smaltimento del
rifiuti solidi urbani e per l'occupazione del suolo pubblico, entro
il 30 settembre 2004, nonche' il decorso del termine di ventiquattro
mesi da tale data senza l'adozione di un provvedimento negativo del
comune, equivale a titolo abilitativo edilizio in sanatoria»; e dal
comma 40, che avverte il bisogno di precisare che «all'istruttoria
della domanda di sanatoria si applicano i medesimi diritti e oneri
previsti per il rilascio dei titoli abilitativi edilizi, come
disciplinati dalle amministrazioni comunali per le medesime
fattispecie di opere edilizie», e che «ai fini della istruttoria
delle domande di sanatoria edilizia puo' essere determinato
dall'amministrazione comunale un incremento dei predetti diritti e
oneri fino ad un massimo del 10 per cento da utilizzare con le
modalita' di cui all'articolo 2, comma 46, della legge 23 dicembre
1994, n. 662».
Il quadro ora esposto di una normativa statale che drasticamente
determina - tranne che per specifiche aree di particolare pregio o in
particolari situazioni - il venire meno di qualunque attivita' di
repressione degli abusi edilizi compiuti - con totale frustrazione
anche dell'attivita' amministrativa in corso - non risulta affatto
alterato dai riferimenti che lo stesso art. 32 opera a poteri o
compiti regionali. Si tratta infatti di poteri e compiti che
rimangono nel quadro marginali ed eventuali, o che addirittura
determinano situazioni paradossali. Gia' si e' accennato che secondo
il comma 3 «le condizioni, i limiti e le modalita' del rilascio del
predetto titolo abilitativo sono stabilite dal presente articolo e
dalle normative regionali». Ma e' evidente, nel contesto complessivo
sopra illustrato, che questa disposizione non puo' essere affatto
intesa come un generico rinvio a quanto sul tema volessero disporre
le leggi regionali, ma come un riferimento ai limitatissimi compiti
normativi che il «presente articolo» riconosce alle regioni;
Di quali compiti normativi si tratti e' presto detto. Su un piano
generale, il comma 33 prevede che le regioni «entro sessanta giorni
dalla data di entrata in vigore del presente decreto» (e dunque in un
termine brevissimo, tra l'altro coincidente con quello di conversione
del decreto stesso!) emanino «norme per la definizione del
procedimento amministrativo relativo al rilascio del titolo
abilitativo edilizio in sanatoria».
Per vero, non si intende di quali norme possa trattarsi, dato che
il procedimento di condono e' gia' definito dalle disposizioni
richiamate della legge n. 47 del 1985 e 724 del 1994 nonche' dallo
stesso art. 32 del decreto nei commi sopra illustrati. Ed infatti dal
seguito del comma 33 e dal comma 34 si capisce che in realta' cio'
che alle regioni e' concesso di fare e' di inasprire per i propri
cittadini i costi del condono: prevedere «un incremento
dell'oblazione fino al massimo del 10 per cento della misura
determinata nella tabella C allegata», incrementare gli oneri di
concessione fino al massimo del 100 per cento». Inoltre, secondo il
comma 34, la legge regionale dovra' stabilire le «modalita' di
attuazione» della regola che consente a coloro che intendano eseguire
in tutto o in parte le opere di urbanizzazione primaria di «detrarre
dall'importo complessivo quanto gia' versato, a titolo di
anticipazione degli oneri concessori».
Ancora, come gia' visto, il comma 35 ammette che la legge
regionale eventualmente preveda «ulteriore documentazione» da
allegare alla domanda di condono.
Questo e' il ruolo generale che l'art. 32 riserva alla
legislazione regionale.
Un discorso a parte va poi fatto con riferimento al comma 26.
Va premesso che l'Allegato 1 definisce tra l'altro la «tipologia
delle opere abusive suscettibili di sanatoria alle condizioni di cui
all'art. 7, comma 2» (per vero non si comprende tale riferimento,
dato che l'art. 7 del decreto-legge riguarda tutt'altro). In ogni
modo, tale tipologia distingue le opere abusive numerate da 1 a 6 in
categorie di gravita' decrescente. Precisamente, le tipologie sono le
seguenti:
«Tipologia 1. Opere realizzate in assenza o in difformita'
del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme
urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici;
«Tipologia 2. Opere realizzate in assenza o in difformita'
del titolo abilitativo edilizio, ma conformi alle norme urbanistiche
e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici alla data di entrata
in vigore del presente provvedimento;
«Tipologia 3. Opere di ristrutturazione edilizia come
definite dall'articolo 3, comma 1, lettera d) del d.P.R. 6 giugno
2001, n. 380, realizzate in assenza o in difformita' dal titolo
abilitativo edilizio;
«Tipologia 4. Opere di restauro e risanamento conservativo
come definite dall'articolo 3, comma 1, lettera c) del d.P.R. giugno
2001, n. 380, realizzate in assenza o in difformita' del titolo
abilitativo edilizio, nelle zone omogenee A di cui all'articolo 2 del
decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444;
«Tipologia 5. Opere di restauro e risanamento conservativo
come definite dall'articolo 3, comma 1, lettera c) del d.P.R. giugno
2001, n. 380, realizzate in assenza o in difformita' del titolo
abilitativo edilizio;
«Tipologia 6. Opere di manutenzione straordinaria, come
definite all'articolo 3, comma 1, lettera b) del d.P.R. 6 giugno
2001, n. 380 realizzate in assenza o in difformita' dal titolo
abilitativo edilizio; opere o modalita' di esecuzione non valutabili
in termini di superficie o di volume».
Cio' premesso, il comma 26 dispone che «sono suscettibili di
sanatoria edilizia le tipologie di illecito di cui all'allegato 1:
a) numeri da 1 a 3, nell'ambito dell'intero territorio
nazionale, fermo restando quanto previsto alla lettera e) del comma
27, nonche' 4, 5 e 6 nell'ambito degli immobili soggetti a vincolo di
cui all'articolo 32 della legge 28 febbraio 1985, n. 47;
b) numeri 4, 5 e 6, nelle aree non soggette ai vincoli di cui
all'articolo 32 della legge 28 febbraio 1985, n. 47, in attuazione di
legge regionale, da emanarsi entro sessanta giorni dalla data di
entrata in vigore del presente decreto, con la quale e' determinata
la possibilita', le condizioni e le modalita' per l'ammissibilita' a
sanatoria di tali tipologie di abuso edilizio».
Ne risulterebbe che, mentre gli abusi piu' gravi, e quelli di
minore gravita' compiuti su immobili vincolati (cioe' i piu' gravi
degli abusi minori), sarebbero senz'altro sanabili alle condizioni
generali; quelli di assoluta minore gravita' (restauro e risanamento
conservativo o addirittura la semplice manutenzione straordinaria)
sarebbero sanabili ... in quanto le singole regioni lo consentano con
le proprie leggi.
Precisato che la lettera b) - in quanto riconosce sia pure
limitati poteri regionali - non forma oggetto specifico di questa
impugnazione, e' tuttavia di immediata evidenza che il sistema che
risulterebbe dall'insieme del comma e' come meglio si dira' tra
breve, costituzionalmente inaccettabile per irragionevolezza e
violazione del principio di uguaglianza.
Nei termini esposti, le impugnate disposizioni dell'art. 32 del
decreto-legge n. 269 del 2003 sono invasive delle competenze
costituzionali delle Regioni e costituzionalmente illegittime per le
seguenti ragioni di

D i r i t t o

Premessa.
Conviene in primo luogo ricordare che la ricorrente regione
propose a suo tempo impugnazione avverso la riapertura del condono
operata dall'art. 39 della legge n. 724 del 1994.
Codesta ecc.ma Corte costituzionale, riconosciuta la
legittimazione all'impugnazione, giudico' nel merito del ricorso con
la sentenza n. 416 del 1995. Al punto 7 in diritto codesta Corte
cosi' si espresse:
«Innanzitutto deve escludersi che la riapertura e
l'estensione dei termini (riferiti all'epoca dell'abuso commesso) del
condono edilizio (peraltro con ulteriori limiti e presupposti
riduttivi) il cui carattere essenziale nella fattispecie e' quello di
norma del tutto eccezionale in relazione ad esigenze di contestuale
intervento sulla disciplina concessoria e a contingenti e
straordinarie ragioni finanziarie e di recupero della base impositiva
dei fabbricati, vanifichi di per se' l'azione di controllo e di
repressione delle amministrazioni ed in particolare delle piu'
attente.
Infatti l'entita' del fenomeno di applicazione ed utilizzazione
della norma impugnata nelle varie regioni (con un introito effettivo
di quasi tremila miliardi limitato alla prima fase dei pagamenti),
induce a ritenere la diffusione tutt'altro che isolata del fenomeno
dell'abusivismo edilizio e della persistenza delle relative
costruzioni, compiute nel periodo successivo al 31 ottobre 1983
(termine di riferimento dell'art. 31, legge n. 47 del 1985), fino
alla nuova data di riferimento, 31 dicembre 1993. Cio' e' avvenuto
non solo per il difetto di una attivita' di polizia locale
specializzata sul controllo del tenitorio, ma anche in conseguenza
della scarsa (o quasi nulla in talune regioni) incisivita' e
tempestivita' dell'azione di controllo e di repressione degli enti
locali e delle regioni, che non e' valsa ad impedire tempestivamente
la suddetta attivita' abusiva o almeno a impedire il completamento e
a rimuovere i relativi manufatti.
Ben diversa sarebbe, invece, la situazione in caso di altra
reiterazione di una norma del genere, soprattutto con ulteriore e
persistente spostamento dei termini temporali di riferimento del
commesso abusivismo edilizio. Conseguentemente differenti sarebbero i
risultati della valutazlone sul piano della ragionevolezza, venendo
meno il carattere contingente e del tutto eccezionale della norma
(con le peculiari caratteristiche della singolarita' ed ulteriore
irripetibilita) in relazione ai valori in gioco, non solo sotto il
profilo della esigenza di repressione dei comportamenti che il
legislatore considera illegali e di cui mantiene la sanzionabilita'
in via amministrativa e penale, ma soprattutto sotto il profilo della
tutela del territorio e del correlato ambiente in cui vive l'uomo.
La gestione del territorio sulla base di una necessaria
programmazione sarebbe certamente compromessa sul piano della
ragionevolezza da una ciclica o ricorrente possibilita' di
condono-sanatorla con conseguente convinzione di impunita' tanto piu'
che l'abusivismo edilizio comporta effetti permanenti (qualora non
segua la demolizione o la rimessa in pristino), di modo che il
semplice pagamento di oblazione non restaura mai l'ordine giuridico
violato, qualora non comporti la perdita del bene abusivo o del suo
equivalente almeno approssimativo sul piano patrimoniale».
La ricorrente, regione e' dell'avviso che tale ben diversa
situazione, ipotizzata da codesta Corte nella sentenza del 1995, si
sia purtroppo verificata.
Si deve, inoltre, aggiungere, prima dei motivi di diritto, una
considerazione che mette ulteriormente in luce quale sia la
considerazione che il legislatore statale ha delle esigenze della
tutela del territorio.
I commi 6, 9, 11 e 24 dell'art. 32 del d.l. n. 269/2003, come
convertito, prevedevano il reperimento e la destinazione vincolata di
risorse preordinata alla effettuazione di interventi di
riqualificazione di nuclei edilizi ed urbani caratterizzati da
abusivismo edilizio. Il comma 6, in particolare, destinava 10 milioni
di euro per l'anno 2004 e 20 milioni dl euro per ciascuno degli anni
2005 e 2006 al fine di concorrere alla partecipazione ad interventi e
politiche di riqualificazione dei nuclei interessati da fenomeni di
abusivismo, attivati dalla regione attraverso l'incremento della
oblazione, secondo quanto disposto dal comma 33. Parimenti, al comma
9 del d.l. come convertito, erano previste risorse finanziarie per
attivare un programma nazionale di interventi di riqualificazione
delle aree per degrado economico-sociale (i cui ambiti di rilevanza
ed interesse nazionale erano da individuarsi con decreti del
Ministero per le infrastrutture, di concerto con i Ministri
dell'ambiente e d'intesa con la conferenza unificata) e, ai
successivi commi 11 e 24, rispettivamente per interventi di recupero
e riqualificazione paesaggistica, nonche' per la valorizzazione e il
miglioramento delle aree demaniali. Senonche' tali risorse
finanziarie - gia' ritenute palesemente insufficienti dalle regioni -
sono state completamente espunte dal testo legislativo ad opera della
legge finanziaria 2004, che con il comma 70 dell'art. 2 ha abrogato
seccamente i commi 6, 9, 11 e 24, del sopra citato art. 32 della
legge n. 326/ 2003, con cio' cancellando dal sistema di reimpiego di
parte dei fondi provenienti dal condono e dalla stessa ratio
dell'art. 32, qualsivoglia concreta possibilita' di attuazione degli
interventi di riqualificazione previsti, su un piano non certamente
marginale, dalle misure di condono edilizio. Mentre ci si riserva,
pertanto ogni argomentazione piu' esaustiva in sede di autonoma
impugnazione della legge finanziaria, si rileva fin da subito, in
questa sede, la irragionevolezza e la scarsa attendibilita' del
meccanismo congegnato attraverso le varie disposizioni di cui
all'art. 32, per realizzare finalita' di reale e credibile intento di
riqualificazione del territorio.

D i r i t t o

1. - Illegittimita' costituzionale dei commi 1, 2, 3, 25, 26,
lett. a), in quanto dispongono il nuovo condono edilizio, per
violazione dell'art. 117, commi 2 e 3.
La presente impugnazione era stata presentata, prima della
riforma costituzionale operata con la legge cost. n. 3 del 2001, con
argomenti che conservano ad avviso della ricorrente regione tutta la
loro validita'.
Non si puo' tuttavia ora non considerare innanzi tutto gli
effetti che la riforma costituzionale ha comportato per quanto
riguarda il riparto di poteri legislativi ordinari tra lo Stato e le
regioni. Nel nuovo quadro, infatti, il legislatore ordinario statale,
pur godendo di una potesta' legislativa particolarmente ampia, e di
una potesta' esclusiva nei fondamentali rami dell'ordinamento
giuridico (quali l'ordinamento civile e penale e l'ordinamento
processuale), non ha piu' tuttavia una competenza legislativa
assolutamente generale.
Occorre dunque in primo luogo considerare se la discpiplina
introdotta dall'art. 32 del d.l. qui impugnato trova giustificazione
nei titoli che fondano la competenza legislativa statale alla stregua
dell'art. 117, comma secondo e terzo, Cost.
Ad avviso della ricorrente regione la risposta e' negativa, come
ora si cerchera' di illustrare.
a) Impossibilita' di giustificare la normativa statale nel
quadro della materia «governo del territorio».
Non puo' essere dubbio che la normativa relativa al condono
incide profondamente nella materia «governo del territorio». Va
tuttavia ricordato che fu tale materia, come in tutte quelle
assegnate alla potesta' concorrente dello Stato e delle regioni, a
termini dell'art. 117, comma 3, Cost., la potesta' legislativa spetta
alle regioni, «salvo che per la determinazione dei principi
fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato».
Ora sembra palese che la disciplina del condono edilizio non puo'
essere considerata in nesessun senso «determinazione dei principi
fondamentali» della materia. Al contrario, i principi fondamentali
della materia sono sempre stati e tuttora sono quelli della
disciplina edilizia del territorio, del controllo preventivo sulle
edificazioni e della repressione dei comportamenti illeciti. Cio' del
resto e' chiarissimo nella citata sentenza n. 416: il carattere della
disciplina del condono e' «quello di norma del tutto eccezionale» in
relazione a comportamenti «che il legislatore considera illegali e di
cui mantiene la sanzionabilita' in via amministrativa e penale».
E' dunque evidente che non si tratta di esercizio della potesta'
statale di porre i principi di materia, e che percio' l'intervento
non puo' essere giustificato a questo titolo.
Va precisato, infatti, che il potere statale di «determinazione
dei principi» non comprende oggi, nel nuovo contesto costituzionale,
il potere di disporre in via derogatoria di tali principi
determinandone la non applicazione per classi determinate e concluse
di comportamenti illeciti realizzati nel passato.
Al contrario, si deve ad avviso della ricorrente regione ritenere
che l'attribuzione allo Stato del compito e del potere di determinare
i principi della materia «governo del territorio» sia correlato ad
una esigenza positiva di assicurare che in tutte le regioni sia
garantita una soglia predefinita di valori connessi al governo del
territorio. Che tale sia il senso delle attribuzioni statali risulta
talora piu' evidente nello stesso testo costituzionale, come accade
ad esempio per la «tutela dell'ambiente» - che, si noti, non si
limitata agli aspetti di speciale valore paesistico - di cui
all'art. 117, comma secondo, lett. s); ma non puo' essere dubbio che
tale e' anche il senso della attribuzione allo Stato di definire i
principi in materia di governo del territorio.
Che invece l'attivazione del condono sia in diretta
contraddizione con tali valori e' del tutto evidente, solo che si
consideri che la base del condono e' il puro scambio tra rinuncia
alla salvaguardia di tali valori in cambio di una somma di denaro. Ma
sul punto non vi e' bisogno di insistere, essendo il disvalore del
condono gia' chiarissimo nella giurisprudenza costituzionale.
b) Impossibilita' di giustificare la normativa statale come
esercizio di potesta' legislativa nella materia del «coordinamento
della finanza pubblica».
L'art. 32 si colloca all'interno di un d.l. complessivamente
intitolato Disposizioni urgenti per favorire lo sviliqipo e per la
correzione dei conti pubblici. La finalita' complessivamente
finanziaria dell'intervento smentisce completamente, da un lato, il
presunto, scopo di «regolarizzazione del settore» proclamato dal
comma 1 dell'art. 32, ma certamente costituisce uno scopo che lo
Stato puo' e deve perseguire; cio' non toglie, pero', che lo debba
perseguire nell'ambito dei poteri legislativi che la Costituzione
riconosce al legislatore ordinario, e non al di fuori di tali poteri.
Non c'e' dubbio, ad esempio, che il legislatore statale avrebbe
potuto perseguire le proprie finalita' nel quadro della propria
potesta' esclusiva in materia di sistema tributario dello Stato.
Avrebbe potuto perseguire i propri scopi anche attravrso la potesta'
concorrente in materia di «coordinamento della finanza pubblica» di
cui all'art. 117, comma terzo, dettando nuovi principi sul sistema
tributario e finanziario delle regioni e degli enti locali come del
resto l'art. 119 gli imporrebbe di fare.
Sembra tuttavia evidente che neppure il riferimento a tale ultima
materia conduce a soddisfare la ricerca di un fondamento
costituzionale alla disciplina statale qui impugnata. Per ragioni
analoghe a quelle sopra esposte va escluso che si tratti della
posizione di principi di materia: i principi di «coordinamento della
finanza pubblica» devono essere norme fondamentali che stabilmente
disciplinano l'assetto finanziario pubblico, non certo norme
eccezionali quali quelle sul condono; ne' d'altronde la posizione di
principi in tale materia e' compatibile con il puro e semplice
asservimento della materia urbanistica ed edilizia alle esigenze
finanziarie.
c) Impossibilita' di giustificare la normativa statale come
esercizio di potesta' legislativa nella materia dell'ordinamento
penale.
Poiche' tra gli effetti del condono edilizio vi e' il venire meno
della punibilita' penale in relazione agli illeciti commessi, va
esaminata l'ipotesi che la potesta' esclusiva statale in tale materia
possa costituire il fondamento giusilficativo dell'intera normativa
sul condono edilizio.
Si osserva, in primo luogo, che l'irrinuciabilita' del condono
edilizio alla questione penale e' gia' stata affermata da codesta
ecc.ma Corte costituzionale nel momento stesso in cui essa ha
dichiarato ammissibile il ricorso regionale avverso l'art. 39 della
legge n. 724 del 1994.
In secondo luogo, va precisato che la ricorrente regione non
contesta affatto l'esclusivita' del potere statale nel disporre del
«potere di clemenza» in materia penale. Benche' sia certo, come
statuito nella sentenza n. 369 del 1988, che il potere di clemenza
puo' incontrare limiti costituzionali, non spetta alle regioni di
farli valere.
Cio' che si contesta, invece, e' che disponendo di cio' di cui lo
Stato poteva - almeno in relazione alle prerogative costituzionali
delle regioni - disporre, lo Stato abbia anche disposto di cio' di
cui non poteva disporre, cioe' della sanzionabilita' in via
amministrativa degli illeciti edilizi.
In altre parole, circa lo scambio tra denaro e punibilita' penale
la Regione Emilia-Romagna ritiene di non avere titolo ad
interloquire: e cio' anche se il venire meno della sanzione penale
determina una riduzione di tutela di valori costituzionali di cui
anche le regioni sono responsabili. Spetta infatti allo Stato di
decidere in quali casi la tutela dei valori debba essere guidata alla
sanzione penale.
La Regione contesta invece che all'esenzione dalla punibilita'
penale possa o debba accompagnarsi l'accettazione del fatto compiuto
sul terreno, specificamente regionale, dell'amministrazione
dell'urbanistica, con il venire meno della sanzionabilita'
amministrativa degli illeciti.
Ne' si puo' dire che le due cose debbano necessariamente stare
insieme, ne' dal punto di vista teorico ne' da quello pratico. Dal
punto di vista teorico, e' chiaro che l'esenzione dalla punibilita'
penale costituisce per i trasgressori un bene autonomo, distinto da
ogni altro e particolarmente prezioso, data la gravosita' della pena
sia in se' che nelle sue conseguenze generali. Dal punto di vista
pratico, e' agevolmente immaginabile ed organizzabile un sistema che
non comporti neppure sul piano operativo l'interferenza con il
sistema delle sanzioni amministrative: ad esempio organizzando la
presentazione delle domande di condono penale al di fuori del
circuito dell'amministrazione locale, o sancendo l'inutilizzabilita'
e l'irrilevanza di tali domande nell'ambito dei procedimenti
amministrativi sanzionatori.
Non puo' invece il legislatore statale ordinario decidere
unilateralmente il sacrificio di quei valori del territorio che
sarebbe suo compito costituzionale di tutelare e che le stesse
regoni, nell'ambito dei propri poteri legislativi e quelli componenti
della Repubblica ai sensi dell'art. 114 Cost., hanno il dovere di
difendere.
In conclusione, se ne' la potesta' del legislatore statale
ordinario di fissare i principi del governo del territorio, ne'
quella di fissare i principi di coordinamento della finanza pubblica,
ne' infine l'esclusiva potesta' statale in materia penale
giustificano sul piano costituzionale la normativa qui impugnata, se
ne deve concludere che essa non poteva essere adottata dallo Stato
mediante un atto avente valore di legge ordinaria.
2. - Illegittimita' costituzionale degli stessi commi 1, 2, 3,
25, 26 lett. a), in quanto dispongono il nuovo condono edilizio per
violazione dei principi di ragionevolezza e di eguaglianza
dell'art. 97, comma primo, nonche' degli artt. 117 e 118 Cost.
Si e' data qui la precedenza alle ragioni di illegittimita'
costituzionale della normativa impugnata collegati al nuovo riparto
di poteri legislativi tra lo Stato e le regioni. Cio' non toglie,
tuttavia che conservino piena validita' tutte le ragioni di doglianza
gia' prospettate dalla ricorrente regione con il ricorso rivolto
avverso il condono attivato dalla legge n. 724 del 1994: ragioni
delle quali codesta stessa Corte costituzionale ebbe ad affermare,
nella citata sentenza n. 416 del 1995, che - se pure non potevano
accogliersi di fronte od una decisione statale che ancora poteva
considerarsi contrassegnata dai caratteri di un eccezionale
intervento, collegato non solo alle contingenti e temporanee esigenze
finanziarie dello Stato, ma alla definitiva chiusura della vicenda
dell'abusivismo edilizio - sarebbero state invece pienamente valide e
necessariamente da accogliere nell'ipotesi «di altra reiterazione di
una norma del genere, soprattutto con ulteriore e persistente
spostamento dei termini temporali di riferimento del commesso
abusivismo edilizio».
Tuttavia, piu' che riproporre alla lettera quelle ragioni,
conviene qui riproporre le parole stesse di codesta Corte
costituzionale, gia' citate sopra nella Premessa. Nel caso di
ulteriore reiterazzione, osserva ancora la sentenza n. 416, verrebbe
meno «il carattere contingente e del tutto eccezionale della norma
(con le peculiari caratteristiche della singolarita' ed ulteriore
irripetibilita) in relazione ai valori in gioco, non solo sotto il
profilo della esigenza di repressione dei comportamenti che il
legislatore considera illegali e di cui mantiene la sanzionabilita'
in via amministrativa e penale, ma soprattutto sotto il profilo della
tutela del territorio e del correlato ambiente in cui vive l'uomo»,
con conseguente valutazione di irragionevolezza. Infatti prosegue la
stessa sentenza, «la gestione del territorio sulla base di una
necessaria programmazione sarebbe certamente compromessa sul piano
della ragionevolezza da una ciclica o ricorrente possibilita' di
condono-sanatoria con conseguente convinzione di impunibilita', tanto
che l'abusivismo edilizio comporta effetti permanenti (qualora non
seguo la demolizione o la rimessa in pristino), di modo che il
semplice pagamento di oblazione non restaura mai l'ordine giuridico
violato, qualora non comporti la perdita del bene abusivo o del suo
equivalente almeno approssimativo sul piano patrimoniale».
Si tratta di considerazioni che, benche' espresse con riferimento
al piano della ragionevoleza, sono agevolmente collegabili ad altri
ed espliciti parametri costituzionali. Viene in rilievo, in primo
luogo, il principio di buon andamento dell'amministrazione di cui
all'art. 97 Cost., evidentemente frustato dalla inanita' della
maggior parte degli sforzi compiuti dalle amministrazioni locali di
reprimere l'abusivismo edilizio. Se e' vero che in taluni casi - ma
non, si ritiene, se non marginalmente nei comuni della ricorrente
regione - proprio l'inerzia delle amministrazioni puo' avere favorito
gli abusi, cio' non toglie affatto che consentire indiscriminatamente
la sanatoria dell'abuso vanifica ogni sforzo gia' presente ed ogni
prospettiva futura (si rammenti che il carattere illecito della
costruzione abusiva non viene meno per il solo decorso del tempo).
Cio' tanto piu' e' vero se si considera che gli sforzi delle
amministrazioni di colpire gli abusi richiedono di necessita' un
tempo non breve per pervenire al risultato concreto, data l'esistenza
delle irrinunciabili garanzie giurisdizionali: che da un lato
doverosamente tutelano chi abusivo in realta' non sia, ma dall'altro
non raramente consentono comunque di procrastinare nel tempo la
sanzione.
Viene poi in rilievo lo stesso principio di uguaglianza, leso da
una normativa che da un lato ingiustamente uguaglia chi ha costruito
in base ad un titolo legittimo e chi ha costruito abusivamente,
dall'altro ingiustamente non consente di portare ad uguaglianza,
attraverso la sanzione, chi si e' astenuto da comportamenti illeciti
e chi illecitamente li ha compiuti.
E' chiaro, poi che questi vizi si traducono in una lesione delle
competenze costituzionali della regione, che - a causa del condono -
vede illegittimamente frustrata la propria attivita' legislativa ed
amministrativa di governo del territorio, in quanto gli abusi
compiuti possono sfuggire alle sanzioni amministrative e si
incentivano abusi futuri.
3. - Illegittimita' costituzionale degli stessi commi 1, 2, 3,
25, 26, lett. a), in quanto dispongono il nuovo condono edilizio, per
violazione dell'art. 9 Cost. e del principio costituzionale di
indisponibilita' di valori costituzionalmente tutelati.
Ad avviso della ricorrente regione le violazioni segnalate al
punto precedente si collegano ad una ulteriore e piu' profonda
violazione del principio implicito nella Costituzione di non
disponibilita' da parte del legislatore ordinario (non importa se
statale o regionale), dei valori costituzionalmente tutelati.
Che l'ordinario assetto del territorio sia un valore
costituzionalmente tutelato non puo' essere messo in discussione, ed
e' del resto evidente - oltre che nell'art. 9, comma 2, Cost. - nella
stessa costruzione costituzionale del governo del territorio come
autonoma materia di legislazione.
Tale valore costituzionale non puo' essere scambiato con valori
puramente finanziari.
Il fatto che il sistema della finanza pubblica si trovi
attualmente - ma in realta' da molti anni - in una situazione
difficile non puo' costituire ragione che autorizzi lo Stato allo
«scambio» tra illegalita' edilizia e prestazioni in danaro.
Sia consentito ricordare alcune argomentazioni svolte nel ricorso
avverso il condono del 1994.
«Proprio la condizione disastrosa della finanza pubblica non puo'
non avvisare della circostanza che, se tale scambio dovesse essere
riconosciuto come costituzionalmente legittimo e consentito, ad esso
fatalmente ed inevitabilmente si tornerebbe a ricorrere ogni volta
che le stime di probabile gettito lo rendessero "consigliabile".
In altre parole, ogni potenziale costruttore abusivo saprebbe
bene che, poiche' il problema del disavanzo dello Stato non e'
destinato a risolversi nella sua entita' fondamentale, ne' nel breve
ne' nel medio periodo, ma semmai soltanto a trovare modi di
progressivo "contenimento" ogni suo abuso sara' tollerato e in
prospettiva persino gradito dato che cio' costituira' occasione per
periodiche "contribuzioni" al bilancio statale.
Ma basta enunciare tale prospettiva per rendere evidente come
essa drasticamente ripugni ai valori costituzionali, trasformi
l'imperativo della legalita' in una mera facolta' per chi voglia
semplicemente vivere tranquillo, trasformi la tutela degli interessi
pubblici e dei valori costituzionali cui lo Stato e' chiamato in un
termine meramente economico, rimpiazzabile per veri o presunti
equivalenti monetari secondo la necessita' dei governanti di trarre
fondi dai governati senza loro troppo dispiacere».
Come sottolinea la sentenza n. 416 del 1995, «il semplice
pagamento di oblazione non restaura mai l'ordine giuridico violato,
qualora non comporti la perdita del bene abusivo o del suo
equivalente almeno approssimativo sul piano patrimonia1e».
In questo senso, il condono edilizio non e' in nessun modo
paragonabile ad altri condoni che pure comportino «clemenza» penale,
quali i condoni fiscali, infatti se anche per questi si pone
indubbiamente il problema del complessivo sovvertimento della
legalita' e dell'incoraggiamento che da essi deriva a nuove
illegalita', va pero' osservato che, nell'oggetto specifico, si
tratta di una rinuncia ad una pretesa economica in vista di una
diversa, e sia pure piu' ridotta, pretesa economica: sicche' la
questione acquista, nel suo oggetto specifico, un connotato quasi di
transazione ordinaria in relazione ad una lite patrimoniale.
Il condono edilizio opera invece, anche nel suo oggetto
specifico, su beni e interessi indisponibili e costituzionalmente
tutelati della comunita'. Tali beni, costituzionalmente protetti sia
direttamente in se stessi, sia indirettamente mediante un equilibrato
riparto di competenze tra diversi livelli di responsabilita'
territoriale, appartengono alla comunita' e non possono in linea di
principio essere scambiati con «denaro» da nessun livello di governo,
senza contraddire quella «gerarchia di valori» sottolineata proprio
nella giurisprudenza costituzionale».
Ne' oggi si puo' trovare una circostanza legittimante nella
«eccezionalita» della disciplina del condono, ovviamente oramai
venuta meno: non si potrebbe certamente ripetere oggi quanto
affermava la sentenza n. 369 del 1988, quando rilevava come andasse
«nettamente distinto, nella legge in esame "la legge n. 47 del 1985",
cio' che attiene al futuro, nel quale il legislatore, nel riordinare
la materia, non ammette in alcun modo sanatorie per le opere
contrastanti con gli strumenti urbanistici da cio' che riguarda il
passato».
Non le vane promesse di ogni passeggero legislatore ordinario, ma
soltanto il rispetto della Costituzione puo' garantire che in ogni
momento presente, e non ogni volta in un lontano futuro, i valori
costituzionali si realizzino nella vita sociale.
Anche in relazione a questi vizi, e' chiaro che essi si traducono
in una lesione delle competenze costituzionali della regione, che - a
causa del condono - vede illegittimamente frustrata la propria
attivita' legislativa ed amministativa di governo del territorio, nei
termini gia' esposti al punto precedente.
4. In subordine: illegittimita' del comma 26, lett. a), in quanto
subordina la sanabilita' alla legge regionale per gli abusi minori in
zone non vincolate, sottraendo alla decisione regionale gli abusi
maggiori e gli abusi minori in zone vincolate.
Come gia' ricordato nella parte in fatto, il comma 26 determina
la paradossale situazione per cui chi ha commesso abusi piu' gravi
puo' senzaltro usufruire della possibilita' del condono, mentre chi
ha commesso abusi meno gravi puo' usufruirne se le regioni lo
prevedono. Sembra chiara la violazione dei principi di ragionevolezza
e di eguaglianza (e mediatamente degli artt. 117 e 118 Cost., per la
ripercussione di quei vizi sulle competenze regionali in materia di
governo del territorio).
La differenza e' verosimilmente da ricondurre - nelle intenzioni
del legislatore - al fatto che, nel d.P.R. n. 380/2001, gli
interventi di cui al comma 26 lett. b), sono soggetti solo a denuncia
di inizio attivita' e non a permesso edilizio; ma tale differenza ha
ripercussioni sul solo piano penalistico, mentre resta
costituzionalmente inaccettabile che gli illeciti amministrativi piu'
gravi siano senz'altro condonabili mentre quelli meno gravi non lo
siano.
Va precisato che ovviamente questa regione non impugna il comma
26, lett. b), ma il comma 26, lett. a) nella parte in cui non
condiziona la sanabilita' dell'illecito amministrativo all'intervento
di una legge regionale che lo preveda. Infatti, in relazione ai
profili amministrativi dell'illecito urbanistico, non trova
giustificazione la diretta sanabilita' degli interventi di cui alla
lett. a) e l'eventuale sanabilita' degli interventi di cui alla lett.
b), e la conformita' a Costituzione puo' essere ristabilita nel modo
appena indicato. Sulla scindibilita' del profilo penale dal profilo
dell'illecito amministrativo si richiama qui quanto gia' esposto al
punto 1.
5. - In subordine: illegittimita' del comma 25, in quanto non
eccettua dal condono gli abusi per i quali il procedimento
sanzionatorio sia gia' iniziato.
Anche nella denegata ipotesi che le censure sopra esposte non
risultassero da condividere, la ricorrente regione ritiene che
sarebbe comunque illegittimo che la disciplina qui impugnata non
abbia escluso - dall'ambito di applicazione del condono - gli abusi
per i quali il procedimento sanzionatorio sia gia' iniziato.
E' chiaro, infatti, che in casi di questo tipo, la possibilita'
di condono risulta ancora piu' irragionevole e maggiormente lesiva
del principio di buon andamento dell'amministrazione: perche' quando
il procedimento sanzionatorio e' gia' iniziato, il condono non arreca
alcun vantaggio al pubblico interesse, ne' in termini di «uscita allo
scoperto» di chi ha commesso l'abuso ne' in termini economici dato
che spesso le sanzioni urbanistiche hanno carattere pecuniario.
Si puo' ricordare che, nella sentenza n. 369 del 1988 di codesta
Corte, si osservava che «il fondamento sostanziale dell'estinzione di
cui all'art. 38, comma 2, legge n. 47 del 1985 va ricercato nella
valutazione «positiva» che l'ordinamento compie dei comportamenti del
reo, successivi al reato («autodenuncia» '..., pagamento
dell'oblazione ecc.), che inducono a credere ad un sia pur parziale
«ritorno» anche se non del tutto spontaneo, dell'agente alla
«normalita» (punto 4 del diritto). Pare chiaro che, nei casi in cui
il procedimento sanzionatorio sia gia' iniziato, il fondamento
dell'estinzione dell'illecito (non solo di quello penale, ma anche di
quello amministrativo) sparisce. Si tenga inoltre presente che, sia
nella sentenza n. 369/1988 (punto 6 del Diritto) sia nella sentenza
n. 416/1995 (punto 7 del Diritto) sia nella sentenza n. 427/1995
(punto 3 del Diritto) la Copte costituzionale ha dato rilievo, per
giustificare il condono, all'inefficienza delle amministrazioni nel
controllo sul territorio: inefficienza che non sussiste in relazione
agli abusi per i quali sia in corso il procedimento sanzionatorio.
Premiare chi ha violato le norme urbanistiche ed e' stato gia'
«scoperto», dunque, e' profondamente irragionevole, vanifica
l'attivita' gia' svolta dai comuni e disincentiva le future attivita'
di repressione, dato il carattere ormai ciclico dei condoni (se anche
questo fosse ritenuto legittimo).
Anche tali vizi naturalmente, si traducono in una lesione delle
competenze costituzionali della regione, che vede illegittimamente
frustrata la propria attivita' legislativa ed amministrativa di
governo del territorio.
6. - In subordine: illegittimita' costituzionale dei commi 3, 25,
26, lett. a), 28, 32, 35, lett. a) e b), 37, 38, 40 e Allegato 1, in
quanto con disciplina dettagliata ed autoapplicativa stabiliscono le
modalita', i termini e le procedure relative al condono edilizio.
E' chiaro che l'accoglimento di una delle censure di cui ai nn.
1, 2 e 3 implicherebbe la non applicabilita' delle norme che
disciplinano la procedura di condono (o, qualora codesta Corte lo
ritenesse necessario, la dichiarazione della loro illegittimita'
conseguenziale ex art. 27 legge n. 87/1953).
Qualora, invece, in denegata ipotesi, si ritenesse che la
previsione di un nuovo condono sia, per qualunque e qui imprevedibile
ragione, legittima, si dovrebbe ad avviso della regione perlomeno
ammettere l'illegittimita' di quelle norme di dettaglio che
stabiliscono le modalita', i termini e le procedure relative al
condono edilizio.
Si fa riferimento, in particolare, alle norme (gia' individuate
nella parte in fatto) di cui ai commi 28 (concernente i termini), 32
(concernente la presentazione della domanda), 35, lett. a) e b)
(concernente la documentazione da allegare alla domanda), 37 (che
prevede il meccanismo del silenzio-assenso), 38 (quanto meno nella
parte in cui fa riferimento alla misura degli oneri concessori e
delle relative modalita' di versamento) e 40 (concernente i diritti e
gli oneri previsti per l'istruttoria della domanda di sanatoria).
Nonostante quanto disposto dall'art. 32, comma 3 (secondo cui «le
condizioni, i limiti e le modalita' del rilascio del predetto titolo
abilitativo sono stabilite nel presente provvedimento e dalle
normative regionali») e comma 33 (secondo cui «le regioni entro
sessanta giorni dall'entrata in vigore del presente provvedimento
emanano norme per la definizione del procedimento amministrativo
relativo al rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria»),
la legge, cosi' come il d.l. disciplina il procedimento di condono
con norme non cedevoli, dato che, in casi specifici (gia' ricordati
nel fatto), prevede poteri di intervento regionali.
Ora, la presenza di norme di dettaglio, per giunta non cedevoli
potrebbe giustificarsi solo sulla base di una competenza statale
esclusiva ma non si vede quale materia - fra quelle previste
dall'art. 117, comma 2, Cost. - possa comprendere le norme sulle
modalita' sui termini e sulle procedure relative al condono edilizio.
Qualora, invece si ritenesse che, in virtu' dei commi 3 e 33, le
norme di dettaglio di cui sopra siano cedevoli, esse sarebbero
comunque illegittime. Si puo' ricordare che codesta Corte si e' gia'
espressa sul punto, con un accenno nella sentenza n. 282/2002, punto
4 del diritto («La nuova formulazione dell'art. 117, comma 3,
rispetto a quella previgente dell'art. 117, comma 1, esprime
l'intento di una piu' netta distinzione fra la competenza regionale a
legiferare in queste materie e la competenza statale, limitata alla
determinazione dei principi fondamentali della disciplina») e in modo
piu' chiaro nella sentenza n. 303/2003, punto 16 del Diritto, dove si
statuisce l'inammissibilita' di norme statali di dettaglio cedevoli,
salvo il caso che cio' sia necessario per «assicurare l'immediato
svolgersi di funzioni amministrative che lo Stato ha attratto per
soddisfare esigenze unitarie e che non possono essere esposte al
rischio della ineffettivita» («Non puo' negarsi che l'inversione
della tecnica di riparto delle potesta' legislative e l'enumerazione
tassativa delle competenze dello Stato dovrebbe portare ad escludere
la possibilita' di dettare norme suppletive statali in materie di
legislazione concorrente, e tuttavia una simile lettura dell'art. 117
svaluterebbe la portata precettiva dell'art. 118, comma primo, che
consente l'attrazione allo Stato, per sussidiarieta' e adeguatezza
delle funzioni amministrative e delle correlative funzioni
legislative, come si e' gia' avuto modo di precisare. La disciplina
statale di dettaglio a carattere suppletivo determina una temporanea
compressione della competenza legislativa regionale che deve
ritenersi non irragionevole, finalizzata com'e' ad assicurare
l'immediato svolgersi di funzioni amministrative che lo Stato ha
attratto per soddisfare esigenze unitarie e che non possono essere
esposte al rischio della ineffettivita»).
Poiche' le norme impugnate non attraggono allo Stato ex art. 118,
comma 1, tanto e' vero che attribuiscono la competenza ai comuni, le
norme statali di dettaglio risultano, alla stregua dei principi
enunciati, chiaramente illegittime.
Si noti che, nel caso di specie, la lesivita' di una disciplina
di dettaglio, seppure in ipotesi astrattamente cedevoli, e'
particolarmente evidente: visto che le domande di condono devono
essere presentate entro il 31 marzo 2004, ben poca utilita' avrebbe
una legge regionale che intervenisse a disciplinare il relativo
procedimento, dato che essa si applicherebbe solo alle domande non
ancora presentate: con ulteriore disuguaglianza e violazione del
principio di buon andamento dell'Amministrazione.
Dunque se si legittima l'inserimento di norme di dettaglio
cedevoli nelle leggi statali, si rischia di legittimare il completo
esproprio della potesta' legislativa regionale, nel caso in cui
l'applicazione dei nuovi principi statali sia destinata ad esaurirsi,
per volonta' dello stesso legislatore stata1e, in breve tempo. Ne'
pare possibile eccepire che, in casi come questi, e' l'urgenza di
applicazione della legge statale a giustificare l'invasione della
competenza regionale. A parte il fatto che proprio il caso che ci
occupa dimostra come la valutazione di urgenza sia molto soggettiva,
un equilibrato bilanciamento delle ipotetiche ragioni di urgenza e
dell'autonomia regionale potrebbe giustificare, al massimo, che lo
Stato detti una disciplina di dettaglio destinata ad operare qualora
le regioni non si attivassero entra un certo termine, ma non certo
una disciplina che immediatamente produca i suoi effetti, in pratica
annullando qualsiasi margine d'azione regionale.
Ne risulta confermata l'illegittimita' delle norme sopra
indicate.
7. - In subordine: ulteriore illegittimita' dei commi 25 e 35 in
quanto consentono di «far passare» per gia' costruite opere In corso
costruzione o ancora da costruire. Violazione degli artt. 3, 9, 97,
117 e 118 Cost.
Il comma 25 dell'art. 32 estende il condono alle opere abusive
ultimate entro il 31 marzo 2003: dunque, solo sei mesi prima della
pubblicazione del decreto-legge (l'art 39 legge n. 724/1994 si
applicava alle opere ultimate solo un anno prima, l'art. 31 legge
n. 47/1985 alle opere ultimate diciassette mesi prima). Il comma 32
prevede che la domanda sia corredata dalla documentazione «di cui ai
comma 35». Questo stabilisce che «la domanda di cui al comma 32 deve
essere corredata dalla seguente documentazione:
a) dichiarazione del richiedente resa ai sensi dell'art. 4
della legge 4 gennaio 1968, n. 15, e successive modificazioni e
integrazioni, con allegata documentazione fotografica, dalla quale
risulti la descrizione delle opere per le quali si chiede il titolo
abilitativo edilizio in sanatoria e lo stato del lavori relativo;
b)qualora l'opera abusiva superi i 450 metri cubi, da una
perizia giurata sulle dimensioni e sullo stato delle opere e una
certificazione redatta da un tecnico abilitato all'esercizio della
professione attestante l'idoneita' statica delle opere eseguite;
c) ulteriore documentazione eventualmente prescritta con norma
regionale».
Ora, e' intuitivo, ed e' comprovato dall'esperienza del
precedenti condoni, che, in assenza di norme rigorose sul punto, la
possibilita' del condono fa sorgere la «tentazione» di «far passare»
per gia' costruite opere in corso di costruzione o ancora da
costruire. In altre parole, il condono, che ufficialmente e' rivolto
ad eliminare la sanzionabiita' degli abusi passati, in realta'
produce nuovi abusi presenti.
I commi 25 e 35 contengono norme che non fanno nulla per evitare
questa possibilita' e, anzi la favoriscono.
In primis, la fissazione di un termine ad quem ravvicinato nel
tempo rende piu' difficile se non impossibile distinguere le opere
ultimate da quelle non ultimate, sia in relazione all'attivita' di
vigilanza amministrativa (che ha avuto poco tempo per svolgersi) sia
in relazione allo stato di degrado del materiali. Inoltre, il comma
35 si accontenta, in pratica, di un'autocertificazione per la prova
dello «stato del lavori» solo «qualora l'opera abusiva superi i 450
metri cubi» si richiede «una perizia giurata sulle dimensioni e sullo
stato delle opere» (che, a quanto pare, dovrebbe esser anch'essa
redatta «da un tecnico abilitato all'esercizio della professione»,
anche se, letteralmente, il tecnico e' menzionato solo con
riferimento alla cerlificazione sull'idoneita' statica).
Ora, e' evidente che questa norma, collegata a quella che fissa
il dies ad quem al 31 marzo 2003, rende concreta la possibilita' di
«far passare» per gia' costruite opere che in quella data erano solo
in corso di costruzione e, addirittura, si presta ad incoraggiare
nuove costruzioni abusive e condonabili, data la difficolta' di
verificare la veridicita' dell'autocertificazione.
E' del tutto irragionevole una norma che fa affidamento sulla
sincerita' di chi ha gia' commesso un abuso; le ragioni della buona
amministrazione e della tutela dal territorio (e dunque gli art. 9,
97, 117 e 118 Cost.) non solo sono menomate dalla sanatoria delle
opere realmente ultimate ma sono ulteriormente poste a repentaglio
dalla possibilita', insita nelle norme di cui sopra, di perpetrare
nuovi abusi e di farli condonare.
Ne' si dica che l'amministrazione puo' dimostrare la non
preesistenza dell'opera: perche' e' veramente chiedere una probatio
diabolica pretendere che il comune sia in grado di dimostrare che un
determinato manufatto edilizio non esisteva nel marzo 2003!
Dunque, il comma 35 e' illegittimo nella parte in cui non prevede
in tutti i casi la necessita' che il costruttore o il direttore del
lavori attesti, sotto la propria responsabilita' anche penale,
l'ultimazione del lavori alla data prevista. Se pure anche in questo
modo non si potrebbe escludere la possibilita' di' falsi attestati,
e' tuttavia evidente in primo luogo che una dichiarazione falsa
nell'interesse di terzi e' meno probabile di una dichiarazione falsa
nell'interesse proprio, e inoltre che, dovendo in questa ipotesi di
regola la dichiarazione essere fatta da professionisti la perizia
falsa rappresenterebbe un illecito particolarmente grave e dunque
poco probabile.
Dal canto suo, il comma 25 e' illegittimo, per violazione del
medesimi parametri, nella parte in cui fissa il termine del 31 marzo
2003 anziche' uno piu' risalente, che potrebbe essere individuato
considerando quale minimo intervallo ragionevole per la
condonabilita' di abusi passati quello fissato a suo tempo
dall'art. 31 legge n. 47/1985.
8. - In subordine: ulteriore illegittimita' del comma 37 in
quanto prevede un meccanismo silenzio-assenso, Violazione delgi
art. 3, 9, 97, 117 e 118 Cost.
Il comma 37 prevede che, avvenuti alcuni adempimenti, «il decorso
del termine di ventiquattro mesi (dal 30 settembre 2004]... senza
l'adozione di un provvedimento negativo del comune equivale a titolo
abilitativo edilizio in sanatoria». Il decreto-legge n. 269/2003,
dunque, prevede il meccanismo del silenzio-assenso in relazione alle
domande di sanatoria, laddove tale istituto non e' contemplato
neppure dalla disciplina generale del permesso edilizio (v. art. 20
d.P.R. n. 380/2001).
Pare chiara l'irragionevolezza di una norma che consente la
sanatoria degli abusi, con tutte le rilevanti conseguenze, in virtu'
del solo decorso del tempo. Tale norma viola gli art. 9, 97, 117 e
118 Cost. perche' rende eventuale Il controllo del comuni
sull'ammissibilita' delle domande di condono, ledendo ulteriormente
le competenze regionali in materia di governo del territorio.
La lesivita' dalla norma pare ulteriormente aggravata dal fatto
che, nel caso di specie, non sembra applicabile la norma generale
dell'art. 20 legge n. 241/1990, che attribuisce all'amministrazione,
nei «casi» di cui al primo periodo dell'art. 20, comma 1, il potere
di annullare l'atto di assenso illegittimamente formato. Ma, se anche
si ritenesse che i comuni possano annullare le concessioni in
sanatoria «sorte» in virtu' del silenzio protratto per il termine
previsto, nell'esercizio di un potere generale di autotutela, la
norma sarebbe comunque illegittima, perche' nel momento fra cui si
decide di sanare, a certe condizioni, gli stravolgimenti operati
abusivamente sul territorio, occorre che almeno le condizioni
richieste siano verificate. E' del tutto irragionevole e
discriminatorio assoggettare le domande di permesso che si
riferiscono ad opere sicuramente abusive (perche' dichiarate tali dai
richiedenti) ad un regime di verifica meno severo di quello vigente
per le domande di permesso che vengono dichiarate dagli interessati
conformi alla disciplina urbanistica.
Ne' varrebbe obbiettare che, sul piano del fatto, il termine
previsto e' sufficientemente lungo perche' i comuni si attivino,
perche' proprio il numero delle domande che contemporaneamente
vengono presentate ovviamente aggrava la situazione delle
amministrazioni e ne prolunga i tempi di azione, come la stessa
esperienza dei precedenti condoni ampiamente conferma.
9. - In subordine: ulteriore illegittimita' del comma 25, in
quanto prevede un limite di volume per ogni singola richiesta.
Violazione degli art. 3, 9, 97, 117 e 118 Cost.
L'art 32, comma 25, d.l. n. 269/2003, come gia' l'art. 39 legge
n. 724/1994, prevede che siano sanabili le «nuove costruzioni
residenziali non superiori a 750 mc per ogni singola richiesta di
titolo abilitativo edilizio In sanatoria».
Ora, dopo la conversione, esso stabilisce che sono sanabili le
opere abusive realizzate nel termine di cui sopra relative a nuove
costruzioni residenziali non superiori a 750 metri cubi per singola
richiesta di titolo abilitativo edilizio in sanatoria, «a condizione
che la nuova costruzione non superi complessivamente i 3.000 metri
cubi». Dunque, ora la disposizione pone un limite non solo in
relazione alla singola opera da sanare ma anche in relazione alla
costruzione complessiva. Resta, pero', la illegittimita' gia'
denunciata con il ricorso n. 83/2003, in quanto la norma in questione
appare irragionevole e lesiva dei parametri indicati in epigrafe
nella parte in cui non precisa che non sono ammesse piu' richieste
riferite alla medesima area: e' chiaro, infatti, che, anche alla luce
di quanto previsto dall'art. 39 legge n. 724/1994, potrebbero essere
stati costruiti edifici attigui, ognuno dei quali rispettoso del
limite di volume sanabile, al fine di eludere il limite stesso. Cio'
arrecherebbe un'ulteriore vulnus alle esigenze di tutela del
territorio e alle relative competenze regionali.
Poiche' gli emendamenti apportati al decreto-legge hanno
efficacia solo per il futuro (v. art. 15 comma 5, legge n. 400/1988,
che in realta' conferma il generale principio di irretroattivita), si
censura qui specificamente l'art. 32, comma 25 nella sua versione
originaria (che potrebbe essere gia' stato applicato, qualora una
domanda di condono sia stata accolta prima dell'entrata in vigore
della legge di conversione), in quanto non solo non precisa che non
sono ammesse piu' richieste riferite alla medesima area, ma non pone
neppure un limite di volume complessivo per la nuova costruzione
abusiva: cosi' risultando ancora piu' irragionevole della norma
introdotta dalla legge n. 326/2003 e maggiormente lesivo delle
esigenze di tutela del territorio e delle relative competenze
regionali. Tale norma, pur se efficace solo in relazione al periodo
di vigenza del decreto-legge, e' stata «stabilizzata» dalla legge di
conversione, che l'ha modificata solo per il futuro.
10. - In subordine: illegittimita' costituzionale del commi 1, 2,
3, 25, 26, lett. a) per mancato coinvolgimento delle autonomie
regionali.
A quanto risulta, ne' in sede di adozione del decreto legge ne'
in sede di adozione del disegno di legge di conversione le autonomie
regionali sono state consultate attraverso la Conferenza
Stato-regioni. Poiche', come visto, la disciplina qui impugnata
riguarda materie di competenza regionale, tale mancato coinvolgimento
lede il principio di leale collaborazione, espressamente sancito ora
nel Titolo V della Costituzione.
In particolare, risulta violato l'art. 2, comma 3, decreto
legislativo n. 287/1997, in base al quale «la conferenza
Stato-regioni e' obbligatoriamente sentita in ordine agli schemi di
disegni di legge e di decreto legislativo o di regolamentato del
Governo nelle materie di competenza delle regioni o delle province
autonome di Trento e di Bolzano». Ne' si puo' obiettare che, nel caso
di specie, la consultazione non era possibile, dato che l'art. 2,
comma 3, decreto legislativo n. 281 disciplina espressamente i casi
di urgenza: «quando il Presidente del Consiglio dei ministri dichiara
che ragioni di urgenza non consentono la consultazione preventiva, la
Conferenza Stato-regioni e consultata successivamente ed il Governo
tiene conto dei suoi pareri: a) in sede di esame parlamentare dei
disegni di legge o delle leggi di conversione dei decreti-legge».
Dunque, la mancata consultazione della Conferenza risulta comunque
illegittima.
Si tenga presente, per comprendere l'importanza del principio di
leale collaborazione nel nuovo titolo V, anche il modo in cui essa
viene concretato dall'art. 11 legge n.3/2001. La circostanza che non
sia ancora stata realizzata la speciale composizione integrata della
Commissione parlamentare per le questioni regionali non toglie che il
principio di partecipazione regionale al procedimento legislativo
delle leggi statali ordinarie, quando queste intervengano in materia
di conpetenza concorrente, ha ora espresso riconoscimento
costituzionale.
Del resto, e' da sottolineare che codesta Corte costituzionale
gia' nella sent. n. 398 del 1998 (punto 16 del Diritto) ha annullato
una norma legislativa statale incidente sulle competenze regionali
per mancato coinvolgimento delle regioni nel procedimento
legislativo.


P. Q. M.
Chiede voglia codesta ecc.ma Corte costituzionale dichiarare
costituzionalmente illegittima la legge 24 novembre 2003, n. 326,
nella parte in cui converte, con modificazioni, i seguenti articoli
del decreto-legge n. 269/2003: artt. 21, 32, commi 21 e 22, ed ancora
l'art. 32, ed in particolare i commi 1, 2, 3, 25, 26, lett. a), 28,
32, 35, lett. a) e b), 37, 38, 40 e Allegato 1, per le parti e sotto
i profili illustrati nel ricorso.
Padova-Bologna-Roma, addi' 22 gennaio 2004
Prof. avv. Giandomenico Falcon - Prof. avv. Franco Mastragostino -
Prof. avv. Luigi Manzi

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