Ricorso n. 145 del 23 novembre 2011 (Regione Veneto)
Ricorso per questione di legittimita' costituzionale depositato in cancelleria il 23 novembre 2011 (della Regione Veneto).
(GU n. 1 del 4.1.2012)
Ricorso della Regione Veneto in persona del suo Presidente pro
tempore, dott. Luca Zaia, a cio' autorizzato con deliberazione della
Giunta regionale 8 novembre 2011, n 1790 (doc. 1), rappresentata e
difesa, come da procura a margine del presente atto, dall'avv. Ezio
Zanon dell'Avvocatura regionale, dall'avv. Daniela Palumbo della
Direzione Affari Legislativi e dall'avv. Luigi Manzi del Foro di
Roma, con domicilio eletto presso lo studio di quest'ultimo in
Roma,Via Confalonieri, n.5,
Nei confronti del Presidente pro tempore del Consiglio dei
ministri, per la dichiarazione di illegittimita' costituzionale degli
articoli 3, comma 4; 5-bis; 14, comma 1, lettere a), b), c), d) ed
e); 16, commi 1, 2, 3, 4, 5, 7, 8, 10,11,12,13,14, 15, 16 e 28 del
decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, recante: «Ulteriori misure
urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo»,
pubblicato, nel testo coordinato con la legge di conversione 14
settembre 2011, n. 148, nella Gazzetta Ufficiale n. 216 del 16
settembre 2011, per violazione degli articoli 5, 97, 114, 117, 118,
119, 120, 123 della Costituzione
Fatto
In data 16 settembre 2011 e' stata pubblicata, nella Gazzetta
Ufficiale n. 216, la legge 14 settembre 2011, n.148 di conversione
del decreto-legge 13 agosto 2011 n.138, in testo coordinato con il
decreto-legge medesimo. Il testo normativo impugnato, rubricato
«Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo
sviluppo», si innesta nella complessa e variegata attivita' di
produzione legislativa di fonte statale che, gia' singolarmente
problematica quanto ad interpretazione e coordinamento sistematico di
taglio anche costituzionalistico, nell'ultimo periodo ha subito una
brusca accelerazione, certamente per effetto del contesto
preoccupante offerto dall'evoluzione patologica dei meccanismi
finanziari pubblici ed imprenditoriali che ha palesato evidenti
distorsioni applicative e gestionali, tali da compromettere
sensibilmente gli equilibri preesistenti, anche in termini di
stabilita' di governo.
Orbene, seppure dettati dall'esigenza di approntare strumenti
adeguati a conseguire celermente l'obiettivo di riduzione della spesa
pubblica e della stabilizzazione finanziaria, fronteggiando la
congiuntura estremamente sfavorevole in corso di aggravamento, le
disposizioni articolate nel decreto odiernamente impugnato esprimono,
in realta', contenuti di impatto irrimediabilmente confliggente con
le prerogative e le attribuzioni riconosciute alle Regioni dalla
Costituzione e da questa tutelate e garantite.
La posizione affermante la considerevole lesivita' della
normativa in esame trova anzitutto sicura conferma nel travagliato
percorso di confronto tra gli esponenti politici, svoltosi nelle sedi
istituzionali, che evidenzia le ripetute occasioni nelle quali le
Regioni, pur nella piena consapevolezza della necessarieta' del
rigore richiesto, hanno evidenziato i profili di criticita' giuridica
ed ordinamentale, oltre che costituzionale, sottesi alla manovra,
prima con riferimento alla bozza di documento concernente il testo
del decreto-legge e, successivamente, constatato che in fase di
conversione le istanze emendative espresse erano state del tutto
disattese, in relazione alla disciplina come definitivamente
configurata per effetto dell'avvenuta conversione.
Diritto
Poiche' le norme impugnate presentano profili di valutazione che
consentono autonomia argomentativa, si ritiene di procedere
partitamente per ciascuna di esse, fatti salvi i casi di evidente
connessione logico giuridica che impongono una prospettazione
omogenea ed unitaria.
Profili di illegittimita' dell'articolo 3, comma 4 del decreto-legge
13 agosto 2011, n. 138, come convertito con legge 14 settembre 2011,
n. 148, per violazione degli articoli 5, 117 e 120 della
Costituzione, nonche' del principio di leale collaborazione.
Con riserva di piu' approfondita trattazione, la Regione Veneto
rileva fin d'ora la mancata conformita' a Costituzione dell'articolo
3, comma 4 del decreto-legge de quo, come convertito, che,
introducendo una disposizione attributiva allo Stato di una rilevante
potesta' di intervento nell'autonomia regionale, si pone in evidente
contrasto con gli articoli 5, 117 e 120 della Costituzione, nella
parte in cui e' violato il principio di leale collaborazione,
tutelato dalla disposizione da ultimo citata.
Innanzitutto, si reputa utile riportare la ricostruzione
giuridica della materia sviluppo economico, al centro dell'intervento
legislativo statale, come attualmente collocabile per effetto della
dinamica evolutiva registrata in riferimento ad un contesto
certamente di difficile perimetrabilita'. A seguito della nota
riforma del Titolo V della Costituzione, detta materia non rientra
tra quelle specificamente individuate dal comma secondo della
Costituzione, relativo alle materie di competenza esclusiva dello
Stato, ne' in quelle ascrivibili al terzo comma, soggette alla
potesta' legislativa concorrente delle Regioni, e, pertanto, dovrebbe
attenere all'ambito di competenza esclusiva regionale di cui
all'articolo 117, comma quarto, della Costituzione o, comunque,
assumere la configurazione di materia trasversale e, come tale,
investire tutte le materie, incluse quelle di competenza regionale
esclusiva o concorrente.
Codesta ecc.ma Corte costituzionale, con la sentenza n. 165 del
2007, ha gia' avuto modo di precisare i limiti delle attribuzioni
statali in tema di sviluppo economico, definendo sistematicamente il
contenuto della locuzione di cui si tratta, anche in rapporto a
preminenti esigenze di intervento statale di carattere marcatamente
finanziario. Sul punto, si riporta quanto asserito al punto 4.3 della
pronuncia de qua. «L'oggetto e la finalita' delle norme impugnate non
permettono di ritenere che la relativa disciplina sia riconducibile
ad una materia, lo "sviluppo economico", che sarebbe riservata alla
competenza residuale delle Regioni. La locuzione costituisce una
espressione di sintesi, meramente descrittiva, che comprende e rinvia
ad una pluralita' di materie. In tal senso, e' significativo che gia'
il decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di
funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli
enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n.
59), nel delegare numerose funzioni alle Regioni, contemplava in un
apposito Titolo (il II) le funzioni inerenti allo "sviluppo economico
e attivita' produttive", precisando tuttavia che allo stesso erano
riconducibili una pluralita' di materie: agricoltura e foreste,
artigianato, industria, energia, miniere e risorse geotermiche,
ordinamento delle camere di commercio, industria, artigianato e
agricoltura, fiere e mercati e commercio, turismo ed industria
alberghiera (art. 11, comma 2).
L'art. 117 Costa contempla molteplici materie caratterizzate da
una palese connessione con lo sviluppo dell'economia, le quali sono
attribuite sia alla competenza legislativa esclusiva dello Stato
(art. 117, secondo comma, Cost.), sia a quella concorrente (art. 117,
terzo comma, Cost.), o residuale (art. 117, quarto comma, Cost.)
delle Regioni.
La finalita' avuta di mira dal legislatore statale ha dunque
comportato che la disciplina recata dalle norme impugnate attiene a
piu' materie, alcune senz'altro riservate alla competenza esclusiva
dello Stato (la materia fiscale, nonche' quella dell'ordinamento
civile, in quanto si e' regolata una peculiare figura associativa,
intervenendo sulla disciplina delle modalita' di contrarre e della
rappresentanza). Tuttavia, proprio in quanto le disposizioni sono
dirette a realizzare una complessa manovra concernente lo sviluppo
dell'economia e del sistema produttivo italiano, esse incidono anche
su materie attribuite alla competenza legislativa delle Regioni, sia
concorrente (quale la "ricerca scientifica e tecnologica e sostegno
all'innovazione per i settori produttivi" (cfr. ex plurimis, le
sentenze n. 31 del 2005 e n. 423 del 2004), sia residuale, quali il
commercio (cfr. sentenza n. 1 del 2004); l'industria, l'artigianato
(cfr. sentenza n. 162 del 2005)».
Quanto premesso consente di concludere che, se e' tuttora
valevole quanto affermato nella medesima sentenza al punto 4.4 ,
«(...)la finalita' dell'intervento e l'individuazione dell'oggetto
delle norme permettono di ritenere che ci si trovi di fronte a scelte
di rilevanza nazionale, in relazione alle quali, come questa Corte ha
affermato, il legislatore costituzionale del 2001 ha inteso unificare
in capo allo Stato strumenti che attengono allo sviluppo dell'intero
Paese, anche al di la' della specifica utilizzabilita' di quelli
elencati nel secondo comma dell'art. 117 Cost.», e se le ritenute
esigenze di carattere unitario fossero riconosciute esistenti e
rilevanti anche in relazione all'articolo 3 in esame,
interferirebbero comunque con materie riservate alla competenza
regionale.
Per quanto attiene all'ambito applicativo della disposizione
impugnata, infatti, benche' l'odierna ricorrente affermi la non
diretta applicabilita' della disciplina di dettaglio riportata
nell'intero articolo 3 alle Regioni, tenute tuttavia ad adeguarvisi,
si rileva che le previsioni contenute nel comma 4 dell'articolo in
argomento, laddove assegnano al mancato adeguamento all'obbligo di
cui al comma 1, valenza di misura sanzionatoria, rendendolo fattore
di valutazione della virtuosita', ai sensi dell'articolo 20, comma 3,
del decreto-legge n. 98 del 2011, convertito dalla legge 15 luglio
2011, n. 111, si palesano patentemente lesive della sfera di
autonomia costituzionalmente attribuita alla Regione in riferimento
agli articoli 5 e 117, della Costituzione per le motivazioni di
seguito indicate.
Si rammenta, in proposito, come codesta ecc.ma Corte, con la
sentenza n. 64 del 9 marzo 2007 abbia gia' sancito la sussistenza in
capo al legislatore regionale della potesta' di fissare
normativamente limiti al principio di liberta' di concorrenza e di
parita' di accesso al mercato, quando l'intervento non appaia ne'
ingiustificato e neppure irragionevole e qualora sia sostenuto dalla
necessita' di ridurre gli effetti negativi potenzialmente producibili
nel tessuto economico preesistente.
In punto, nel riconoscere alla norma regionale una finalita' di
tutela dell'interesse generale di valorizzazione delle imprese, la
sentenza pare aver ribadito come solo le discriminazioni fra
attivita' imprenditoriali fondate su criteri territoriali, che non
siano ragionevolmente giustificabili, possano porsi in contrasto con
i principi costituzionali di eguaglianza e di libera circolazione.
L'assunto riaffermato da codesta ecc.ma Corte, per di piu',
appare in sintonia con i principi di rango comunitario che
asseriscono come non tutte le misure che incidono in senso limitativo
siano da ritenersi restrizioni incompatibili con i principi
comunitari di liberalizzazione delle attivita' economiche.
Quanto sopra doverosamente richiamato costituisce argomentazione
fondante la ritenuta illegittimita' dell'articolo 3, laddove, seppure
qualificandola mero parametro dell'adeguamento regionale reca,
invece, una disciplina dettagliata di restrizioni e limitazioni circa
l'accesso e l'esercizio delle attivita' economiche.
Che l'intervento statale, lungi dal consentire margini opzionali
alla potesta' regionale, costruisca un quadro definito e compiuto e'
asserzione che pare altresi' avvalorata dalle previsioni di cui al
comma 11, dell'articolo 3 medesimo, nel quale sono indicate le
condizioni legittimanti l'esclusione dell'obbligo di restrizioni.
Infatti tale disposizione, che rimette ad un decreto del
Presidente del Consiglio dei Ministri la puntuale individuazione
delle singole attivita' economiche suscettibili di esclusione, o e'
da intendersi riferita alle sole norme soggette alla potesta'
normativa statale, oppure e' da intendersi estensibile anche alle
Regioni. In entrambe le ipotesi gli effetti lesivi afferenti le
potesta' regionali sono incontestabili.
Nel primo caso, infatti, l'esercizio della potesta' normativa
regionale in subiecta materia potrebbe condurre a risoluzioni
normative disomogenee tra Regione e Regione, con la conseguenza di
rendere inapplicabili criteri di valutazione statale uniformi, che
tuttavia sono indispensabili a formulare equamente quel giudizio di
congruita' fondante il responso di virtuosita' delle amministrazioni
regionali.
Nell'altro caso, risulterebbe del tutto vanificata la potesta'
regionale consistente nella facolta' di introdurre discipline
limitative, giustificate e non irragionevoli, come tali conformi al
principio di liberta' e concorrenza e ritenute legittime anche da
codesta ecc.ma Corte nella citata sentenza n. 64 del 2007.
La normativa di dettaglio introdotta con la disposizione
impugnata ed il conseguente obbligo di adeguamento imposto in modo
indifferenziato anche in ordine a materie di competenza regionale, in
spregio dell'autonomia riconosciuta alle Regioni dalla Costituzione e
da codesta ecc.ma Corte riaffermata nelle proprie pronunce, vulnera
nella sostanza il riparto di competenze normative di cui all'art. 117
della Costituzione proprio perche', con le proprie statuizioni,
obbliga direttamente le Regioni nei contenuti e nelle modalita',
sanzionandone direttamente la violazione, in assenza di qualsiasi
forma di collaborazione istituzionale, benche' interferisca
indubitabilmente con ambiti di attribuzione regionale e con materie
di competenza legislativa regionale sia concorrente che residuale.
La circostanza che l'anzidetto obbligo di adeguamento, come nella
norma in esame, sia elevato a fattore di valutazione della
virtuosita' dell'amministrazione regionale con evidenti e
considerevoli ripercussioni anche sulla gestione del patto di
stabilita', non attenua, ma aggrava il profilo sicuramente lesivo
della disposizione.
A tal riguardo si rileva, in primis, la singolare rigidita' della
sanzione che si configura come sproporzionata in relazione alla
condotta eventualmente difforme dal precetto ed in contrasto con i
principi espressi dalla Costituzione sul punto. Ad oggi, infatti,
risulta incontrovertibile, essendosi ormai consolidato il regime di
riparto di competenze scaturito dalla riforma del 2001, che
all'eventuale inerzia delle Regioni possa ovviarsi ancora con il
meccanismo giuridico insito nella cedevolezza delle norme statali a
termini dell'articolo 10, comma primo, della legge 10 febbraio 1953,
n. 62 «Costituzione e funzionamento degli organi regionali» c.d.
«legge Scelba». In base a tale disposizione, certamente risalente nel
tempo, ma di straordinaria modernita' ermeneutica ed operativa e
comunque tuttora vigente, le leggi statali che modificano i principi
fondamentali nelle materie di competenza concorrente abrogano le
norme regionali contrastanti con esse, senza incidere sulla
competenza legislativa costituzionalmente assegnata alle Regioni, che
quindi possono esercitarla appieno, adeguando il proprio ordinamento
alle norme statali di principio.
In ogni caso, a suffragio della ritenuta incongruenza della
disposizione interloquita e della evidente ultroneita' della stessa
nel contesto costituzionale vigente, non si puo' non richiamare
l'istituto dell'intervento sostitutivo di cui all'articolo 117,
quinto comma della Costituzione, come gia' disciplinato nella
clausola di cedevolezza di cui all'articolo 84 del decreto
legislativo 26 marzo 2010, n. 59 «Attuazione della direttiva
2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno», di immediata
applicabilita', in coerenza con l'ordinamento e con i principi
costituzionali.
Se, pertanto, il sistema giuridico vigente dispone gia' di
efficaci strumenti di adeguamento regionale, per di piu' rispettosi
delle competenze costituzionalmente assegnate e riconosciute,
l'introduzione di una misura gravemente sanzionatoria quale quella
indicata nella disposizione censurata, e' certamente eccessiva ed
irrimediabilmente lesiva di quelle prerogative di autonomia garantite
alla Regione dall'articolo 5 della Costituzione che contempla,
esattamente al contrario, l'adeguamento dei principi e metodi statali
alle esigenze delle autonomie locali e del decentramento.
Il comma 4 dell'articolo 3, in sintesi, per conseguire celermente
un risultato finanziariamente apprezzabile, sposta un profilo
afferente l'assetto istituzionale, concernente il rispetto delle
relazioni e della reciproca competenza legislativa, sull'asse delle
relazioni economiche tra Stato e Regioni, imponendo, con un
meccanismo radicalmente afflittivo, un effetto che comunque si
sarebbe realizzato attraverso un comportamento normativo autonomo
regionale, nel rispetto del dettato costituzionale.
La disposizione, quindi, nell'ammettere un intervento statale, di
impatto talmente poderoso, in un ambito riservato alla competenza
legislativa regionale, viola il modello di ripartizione delle
competenze fra Stato e Regioni sancito all'art. 117 Cost. ed
attribuisce surrettiziamente allo Stato potesta' legislative avulse
dal sistema costituzionale vigente, perche' esorbitante i limiti che
gli sono propri.
Inoltre, anche volendo ammettere, per extrema ratio, la
sussistenza di preminenti esigenze di solidarieta' nazionale cosi'
incombenti da giustificare l'esercizio unitario di una funzione
«economica» parallela a quella legislativa, in deroga al normale
riparto di competenze stabilito dall'articolo 117 Cost., in ogni caso
tale modalita', proprio perche' sminuente una prerogativa
costituzionalmente garantita, dovrebbe essere soggetta al rispetto
del principio di leale collaborazione, quale correttivo indefettibile
dello sbilanciamento istituzionale determinato dall'interesse
all'esercizio unitario che, si rammenta, di per se' non puo'
costituire autonomo parametro di legittimita' della norma.
La necessita' dell'unitarieta' non puo' infatti essere invocata
come criterio aprioristico ed apodittico di invasione in ambiti di
competenza regionale, ma deve essere concretamente parametrata alla
reale esigenza di concentrare in capo allo Stato funzioni che in
ambito regionale non possono essere adeguatamente esercitate .
Per tutto quanto sopra argomentato, si ribadisce l'incidenza
lesiva dell'articolo 3, comma 4 impugnato, su materie riconducibili
alla competenza legislativa regionale, concorrente e riservata,
nonche' la mancanza di concertazione fra Stato e Regioni sul punto e,
quindi, la violazione del principio di leale collaborazione, con
conseguente istanza di declaratoria di illegittimita' costituzionale
della disposizione per violazione degli articoli 5, 117 e 120 della
Costituzione.
Profili di illegittimita' costituzionale dell'articolo 5-bis del
decreto-legge n. 138 del 2011, come convertito dalla legge n. 148 del
2011, per violazione degli articoli 5 e 119 della Costituzione.
La norma si presenta di singolare complessita' strutturale non
utilmente sintetizzabile e, pertanto, viene quasi integralmente
riproposta nel corso della trattazione.
Il primo comma dell'articolo 5-bis, del decreto-legge 13 agosto
2011, n. 138 in esame, come convertito dalla legge n.148/2011,
infatti, prevede che la spesa - in termini di competenza e di cassa
effettuata annualmente da ciascuna delle «regioni dell'obiettivo
convergenza (...) e del Piano per il Sud» a valere sulle risorse del
fondo per lo sviluppo e la coesione - di cui all'articolo 4 del
decreto legislativo 31 maggio 2011, n. 88 «Disposizioni in materia di
risorse aggiuntive ed interventi speciali per la rimozione di
squilibri economici e sociali, a norma dell'articolo 16 della legge 5
maggio 2009, n. 42», sui cofinanziamenti nazionali dei fondi
comunitari a finalita' strutturale, nonche' sulle risorse individuate
ai sensi di quanto previsto dall'articolo 6-sexies del decreto-legge
25 giugno 2008, n. 112 «Disposizioni urgenti per lo sviluppo
economico, la semplificazione, la competitivita', la stabilizzazione
della finanza pubblica e la perequazione tributaria», convertito, con
modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133) - possa eccedere «i
limiti di cui all'articolo 1, commi 126 e 127, della legge 13
dicembre 2010, n. 220, nel rispetto, comunque, delle condizioni e dei
limiti finanziari stabiliti ai sensi del comma 2 del presente
articolo».
Inoltre, il comma 2 della medesima disposizione impugnata
statuisce che i maggiori oneri derivanti dalla deroga ai tetti di
spesa fissati dalla c.d. legge di stabilita' 2011 a favore delle
«regioni dell'obiettivo convergenza (..) e del Piano per il Sud»,
dovranno essere compensati attraverso l'attribuzione allo Stato ed
alle restanti regioni dei relativi maggiori oneri che saranno
stabiliti con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, di
concerto con il Ministro per i rapporti con le regioni e per la
coesione territoriale.
Lo scopo dell'intervento normativo, apparentemente indirizzato a
predisporre strumenti di sviluppo territoriale corredati dalle
necessarie modalita' di perequazione finanziaria, si risolve, in
sostanza, nell'introduzione di misure speciali, dichiaratamente di
favore e per cio' stesso sperequative, destinate ad alcune Regioni, e
solo a quelle, peraltro identificabili attraverso la locuzione di
riferimento, che gia' versano in grave difficolta' finanziaria ed
istituzionale, con contestuale previsione di un ripianamento in
sanatoria dei disavanzi di tali Regioni, benche' qualificabili meno
«virtuose», mediante un rigido meccanismo di finanziamento indiretto
a destinazione vincolata.
Cercando di rendere piu' chiaramente intellegibile l'architettura
legislativa, risulta che tale modalita' di finanziamento indiretto
consisterebbe, di diritto e di fatto, nella possibilita', accordata
alle «regioni dell'obiettivo convergenza (...) e del Piano per il
Sud» di eccedere, in termini di competenza e di cassa, i limiti di
spesa posti dalla c.d. legge di stabilita' 2011 (legge 13 dicembre
2010, n. 220 «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e
pluriennale dello Stato»), a valere sulle risorse del fondo per lo
sviluppo e la coesione di cui all'articolo 4 del decreto legislativo
31 maggio 2011, n. 88.
Siffatta impostazione, che il groviglio sintattico e concettuale
palesato nella strutturazione della disposizione non riesce del tutto
a celare, si pone in evidente ed insanabile contrasto con l'articolo
119 della Costituzione, che sancisce il principio della piena
responsabilita' finanziaria gravante su ciascun ente in relazione
alle funzioni di cui e' tributario. E tale inderogabile principio
vale, a fortiori, per quelle Regioni, come l'odierna ricorrente, che
lungi dall'essere tra le possibili destinatarie del finanziamento
indiretto con vincolo di destinazione, proprio perche' «virtuose»,
sono tenute comunque a contribuire a quei maggiori oneri derivanti
dalla deroga ai tetti di spesa fissati dalla c.d. legge di stabilita'
2011.
L'articolo 119 della Costituzione, in effetti, riconosce agli
enti che compongono la Repubblica, e tra questi certamente alle
Regioni, autonomia finanziaria di entrata e di spesa e disegna il
sistema di finanziamento delle funzioni loro attribuite, limitando
drasticamente la possibilita' che lo Stato possa disporre fondi di
finanziamento a favore delle autonomie regionali e locali. La norma
della Carta fondamentale, infatti, legittima formalmente soltanto due
tipologie di fondi statali.
Alla prima di dette tipologie sono riconducibili: il fondo
perequativo, privo di vincoli di destinazione, di cui al comma terzo
dell'art.119 Cost., utilizzabile per le amministrazioni con minore
capacita' fiscale per abitante e cumulabile alle entrate ed ai
tributi propri delle amministrazioni medesime, unitamente alla
compartecipazione al gettito di tributi erariali riferibile al
territorio di pertinenza ai sensi dell'art. 119, comma secondo. Tutti
tali cespiti finanziari sono ordinariamente destinati a finanziare
integralmente le funzioni pubbliche attribuite a Regioni ed Enti
Locali ai sensi del comma quarto dell'art. 119 medesimo.
L'altra tipologia consiste nelle «risorse aggiuntive» e negli
«interventi speciali» previsti in favore di determinate Regioni,
Province, citta' metropolitane, Comuni, al fine di «promuovere lo
sviluppo economico, la coesione e la solidarieta' sociale, (...)
rimuovere gli squilibri economici e sociali, (...) favorire
l'effettivo esercizio dei diritti della persona, (...) provvedere a
scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni», ai sensi
dell'art. 119, comma quinto.
In relazione a quanto sopra evidenziato, sembra corretto
concludere che l'intervento legislativo specificamente impugnato non
possa essere annoverato, non possedendone le caratteristiche, ne' tra
i fondi perequativi, ne' tra quegli speciali stanziamenti di cui al
quinto comma dell'art. 119, come richiamati. Conseguentemente, non
trovando collocazione nella norma della Carta fondamentale,
l'art.5-bis di cui si tratta dovrebbe considerarsi incompatibile con
l'art. 119 della Costituzione, cosi' come innovata per effetto della
gia' evocata riforma.
In altri termini, il presente patrocinio reputa che
l'ingiustificato privilegio - accordato ad alcune regioni che gia'
beneficiano dell'attingimento a fondi comunitari - di superare i
limiti di spesa imposti dal sistema finanziario interno a tutela
della stabilita' economica, snaturi e sradichi il nesso
istituzionalmente e giuridicamente inscindibile tra attribuzione
delle risorse ed esercizio delle funzioni, rischiando di tradursi in
un'elargizione ad hoc perseguita con discutibili modalita' oblique,
che codesta ecc.ma Corte ha gia' avuto modo di vagliare, censurando
l'introduzione nell'ordinamento di qualsiasi «strumento indiretto, ma
pervasivo, di ingerenza dello Stato nell'esercizio delle funzioni
delle regioni e degli enti locali, e di sovrapposizione di politiche
e di indirizzi governati centralmente a quelli legittimamente decisi
dalle regioni negli ambiti materiali di propria competenza» (cfr.
Corte cost., sentenza 16 gennaio 2004, n. 16).
Infine, a completamento delle considerazioni che precedono, si
sottopone all'attenzione di codesta ecc.ma Corte l'ulteriore profilo
di illegittimita' della norma impugnata, desumibile dall'irrazionale
preferenza riconosciuta alle sole «regioni dell'obiettivo convergenza
(...) e del Piano per il Sud», che si concreta in meccanismi forieri
di un'ingiustificata e percio' iniqua diseguaglianza, che mina nella
sostanza la stessa unita' ed indivisibilita' dello Stato sancita
all'articolo 5 della Costituzione. La previsione oggetto di
impugnazione, per i considerevoli contenuti discriminatori che
presenta, e' in insanabile contrasto con il principio di
responsabilita' finanziaria, che, allo scopo di impedire il protrarsi
di situazioni di sperpero e non corretto impiego delle risorse
provenienti dalla fiscalita' generale, preclude allo Stato la
possibilita' di attribuire risorse aggiuntive ai soggetti
istituzionali che abbiano oltrepassato i limiti finanziari
consentiti, ovvero che non abbiano utilizzato le disponibilita'
economiche loro attribuite secondo le regole di buona
amministrazione.
La condizione di privilegio riservata, dalla disposizione in
esame, ad alcune regioni in ordine all'obbligo di rispetto dei limiti
di spesa, non si fonda, infatti, su valutazioni oggettive afferenti
determinate carenze infrastrutturali o immateriali che, in termini
generali, potrebbero legittimare l'intervento legislativo di favore,
rendendo accettabili eventuali misure perequative necessarie a
sostegno dell'unita' nazionale. Al contrario, la norma, basandosi su
di una irragionevole, apodittica quanto ingiustificata presunzione di
inferiorita' infrastrutturale presupposta in alcune regioni, quasi si
trattasse di un fenomeno endemico, esacerba il dislivello giuridico e
finanziario, alterando le corrette relazioni istituzionali e cosi'
rendendo del tutto illegittimo quell'obbligo di ripianamento, posto a
carico delle restanti Regioni, e, conseguentemente, si traduce in un
altrettanto illegittimo depauperamento finanziario ed istituzionale.
Va da se' che le risorse destinate alla perequazione provengono
necessariamente dai fondi altrimenti destinati all'esercizio delle
funzioni di competenza.
Alla luce di tutto quanto sopra esposto, si insiste nella
ritenuta illegittimita' costituzionale dell'articolo 5-bis del
decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, come convertito dalla legge
n.148/2011, con conseguente istanza di declaratoria di illegittimita'
costituzionale della disposizione per violazione degli articoli 5 e
119 della Costituzione.
Profili di illegittimita' costituzionale dell'articolo 14, lett. a),
b), c), d) ed e) del decreto-legge n. 138 del 2011, convertito con
legge n. 148 del 2011, per violazione degli articoli 117, 119 e 123
della Costituzione.
Anche l'articolo 14, comma 1, del decreto-legge 13 agosto 2011,
n. 138 reca disposizioni che si pongono in palese violazione
dell'autonomia statutaria della Regione sancita dall'articolo 123
della Costituzione, nonche' dell'autonomia legislativa e finanziaria
riconosciute dagli articoli 117 e 119 della Costituzione.
Come gia' rilevato in riferimento all'art.5-bis, occorre
innanzitutto porre attenzione alla tecnica utilizzata per la
redazione della specifica norma.
Certamente consapevole del rischio di illegittimita'
costituzionale evidentemente sotteso alle disposizioni in esame, il
legislatore nazionale, per ovviarvi, ricorre al meccanismo delle c.d.
«misure premiali» e rinvia alle norme disciplinanti il patto di
stabilita' interno, nella parte in cui il riferimento e' fatto alle
regioni appartenenti alla categoria degli enti piu' virtuosi.
Giova, al riguardo, richiamare in toto il primo alinea
dell'articolo 14 secondo cui:
«1. Per il conseguimento degli obiettivi stabiliti
nell'ambito del coordinamento della finanza pubblica, le Regioni, ai
fini della collocazione nella classe di enti territoriali piu'
virtuosa di cui all'articolo 20, comma 3, del decreto-legge 6 luglio
2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio
2011, n. 111, oltre al rispetto dei parametri gia' previsti dal
predetto articolo 20, debbono adeguare, nell'ambito della propria
autonomia statutaria e legislativa, i rispettivi ordinamenti ai
seguenti ulteriori parametri (....)».
Ebbene, ritenuto di non indugiare sui contenuti autoqualificatori
della disposizione assiomaticamente rientrante nell'alveo del
«coordinamento della finanza pubblica» che, comunque, rappresenta un
dato assolutamente irrilevante (cfr. Corte cost. sentenza n.
182/2011; sentenza n. 237/2009), poiche' il legislatore statale e'
tenuto a rispettare nella sostanza i limiti costituzionalmente
imposti a tutela dell'autonomia regionale, non vi e' dubbio che la
disposizione disvela il tentativo del legislatore statale di
estendere l'ambito giustificativo del «coordinamento della finanza
pubblica» - sia pure attraverso il ricorso alle c.d. «misure
premiali» - oltre qualsiasi ragionevole limite, fino al punto di
comprimere l'autonomia statutaria regionale, al di la' del mero
ossequio, chiaramente formalistico, espresso nella disposizione.
In altri termini, lo scrivente patrocinio ribadisce che l'ambito
legislativo sotteso alla materia «coordinamento della finanza
pubblica» non puo' essere dilatato al punto da ricoprire qualsiasi
previsione legislativa dello Stato centrale, soprattutto quando detti
interventi manifestano ripercussioni tanto gravose sul piano della
finanza pubblica quanto lesive sul piano istituzionale.
Per quanto attiene la valutazione afferente le circostanze
legittimanti la sussistenza, in capo allo Stato, dell'anzidetta
potesta' di coordinamento, ed i conseguenti limiti di esercizio della
stessa, si richiama il consolidato indirizzo interpretativo emergente
dalle pronunce di codesta ecc.ma Corte al riguardo, laddove e'
chiarito che il riferimento alle esigenze di «coordinamento della
finanza pubblica» deve comunque «(....) rispettare il riparto
concorrente della potesta' legislativa in tema di coordinamento della
finanza pubblica, (....)» e quindi «(....) permettere
l'estrapolazione, dalle singole disposizioni statali, di principi
rispettosi di uno spazio aperto all'esercizio dell'autonomia
regionale. In caso contrario, la disposizione statale non potra'
essere ritenuta di principio (cfr. Corte cost., sentenza n.159 del
2008), quale che ne sia l'eventuale autoqualificazione operata dal
legislatore nazionale (cfr. Corte cost., sentenza n.237 del 2009)».
(cosi', testualmente, Corte cost. sentenza n. 182 del 2011).
Orbene, appare di palmare evidenza come la norma in esame, nel
determinare in maniera analitica le singole e minute voci di spesa su
cui la Regione dovrebbe intervenire per essere inclusa nel novero
delle amministrazioni «virtuose», viola i parametri enucleati da
codesta ecc. ma Corte sull'argomento e quindi si pone necessariamente
in contrasto, sia con l'articolo 117, comma 3, Cost., che, in materia
di coordinamento della finanza pubblica, consente allo Stato la sola
legislazione di principio, sia con l'articolo 119 Cost. che, nel
contesto ermeneutico risultante dalla copiosa e consolidata
giurisprudenza di legittimita' costituzionale, preclude allo Stato la
possibilita' di legiferare nel dettaglio, individuando le singole
voci di spesa da limitare, seppure con interventi teleologicamente
orientati al rispetto dei vincoli comunitari di politica economica e
monetaria, poiche' altrimenti verrebbe lesa l'autonomia finanziaria
regionale, costituzionalmente garantita, che implica la facolta'
riconosciuta a ciascuna regione di scegliere le modalita' di
contenimento della spesa (cfr. ex plurimis, Corte cost. le sentenze
n. 36 del 2004; n. 390 del 2004; n. 417 del 2005; n. 449 del 2005; n.
88 del 2006; n. 297 del 2009; n. 182 del 2011 cit.).
Quanto sopra evidenziato in termini generali non esaurisce,
tuttavia, la trattazione degli ulteriori profili di illegittimita'
costituzionale che si rinvengono nelle singole disposizioni di cui la
norma impugnata si compone e che vengono congiuntamente considerati
in ragione del nesso argomentativo che li collega.
In particolare, al comma 1 dell'art.14: la lettera a) determina
il numero massimo di consiglieri regionali in relazione al numero di
abitanti della Regione; la lettera b) prevede un numero massimo di
assessori regionali in relazione al numero dei componenti del
Consiglio regionale; la lettera c) prevede la riduzione degli
emolumenti ed utilita' in favore dei consiglieri regionali entro il
limite dell'indennita' massima spettante ai membri del Parlamento; la
lettera d) prevede che il trattamento economico dei consiglieri
regionali sia commisurato all'effettiva partecipazione ai lavori in
Consiglio regionale; la lettera e) dispone l'istituzione dal 1°
gennaio 2012 di un collegio di Revisori dei Conti quale organo di
vigilanza sulla regolarita' contabile, finanziaria ed economica della
gestione dell'ente.
Nonostante il legislatore statale, come gia' rilevato, abbia
apparentemente posto la dovuta attenzione all'autonomia statutaria e
legislativa delle Regioni, la precisazione riportata nella nonna,
secondo la quale l'adeguamento degli ordinamenti regionali deve
avvenire «nell'ambito della propria autonomia statutaria e
legislativa» si configura meramente formalistica e le disposizioni
sopraindicate sono tutte censurabili in quanto indebitamente
interferenti proprio con quell'autonomia.
In dettaglio, con riferimento alle disposizioni contenute nelle
lettere a) e b), relative alla determinazione del numero di
consiglieri ed assessori, pare sufficiente riportare quanto disposto
dall'articolo 123, primo comma della Costituzione, secondo il quale
«ciascuna Regione ha uno statuto che, in armonia con la Costituzione,
ne determina la forma di governo e i principi fondamentali di
organizzazione e funzionamento».
Appare difficilmente opinabile l'assunto che riconduce alla
determinazione della forma di governo regionale anche la definizione
dei rapporti intercorrenti tra gli organi fondamentali della Regione,
come determinati dall'articolo 121 della Costituzione, ovvero
Consiglio regionale, Giunta e suo Presidente.
Codesta ecc.ma Corte ha gia' avuto occasione di affermare che «le
scelte fondamentali in ordine al riparto delle funzioni tra gli
organi regionali, ed in particolare tra il Consiglio e la Giunta,
alla loro organizzazione e al loro funzionamento sono riservate
dall'articolo 123 alla fonte statutaria. Tale riserva impedisce al
legislatore regionale ordinario, in assenza di disposizioni
statutarie, di disciplinare la materia» (cfr. Corte cost., sentenza
n. 188/2007).
Se, dunque, i poteri e le relazioni tra Consiglio regionale,
Giunta e suo Presidente costituiscono materia riservata agli statuti
regionali, al medesimo ambito vanno ricondotte necessariamente le
ulteriori specificazioni dispositive, tra le quali particolare
rilevanza assume il numero dei componenti gli organi fondamentali
regionali.
Sul punto si richiama quanto precisato da codesto ecc.mo Collegio
nella recentissima sentenza n. 188 del 2011, laddove si legge che:
«l'art. 123 Cost. prevede l'esistenza nell'ordinamento regionale
ordinario di vere e proprie riserve normative a favore della fonte
statutaria rispetto alle competenze del legislatore regionale»; e che
«nell'ambito di tali riserve normative, rientra la determinazione del
numero dei membri del Consiglio, in quanto la composizione
dell'organo legislativo regionale rappresenta una fondamentale scelta
politica sottesa alla determinazione della forma di governo della
Regione».
Non pare, pertanto, potersi dubitare che la determinazione del
numero dei consiglieri regionali si riflette sul sistema di governo
regionale, riservato agli statuti, e cio' non puo' non valere anche
con riguardo al numero degli assessori regionali.
Si sostiene l'indiscutibile sussistenza della riserva statutaria
di cui si tratta e di cui lo stesso legislatore statale sembra
consapevole, laddove, con la disposizione censurata, sembra postulare
di potersi sottrarre al vaglio di legittimita' costituzionale
strutturando formalmente la norma in termini di facolta' e non di
obbligo, nel senso che l'adeguamento previsto parrebbe rimesso
all'autodeterminazione di ciascuna Regione, in conformita'
all'anzidetta riserva statutaria.
Tuttavia, in realta' cosi' non puo' essere, considerato che,
creando una connessione inscindibile tra l'atteso adeguamento degli
ordinamenti regionali e le note «misure premiali» -che consentono
l'accesso ai benefici destinati alle amministrazioni c.d. «virtuose»,
o quantomeno precludono l'applicazione delle misure sanzionatorie -,
l'esigenza primaria, data dalla necessita' di non subire aggravamenti
finanziari determinati dal mancato adeguamento, si traduce, per le
Regioni, nella necessita' di adempiere ad un autentico obbligo
generato, peraltro, da un'imposizione statale incompatibile con l'
esercizio dell'autonomia statutaria.
Parimenti lesiva delle competenze regionali si configura la
disposizione di cui all'articolo 14, comma 1 lett. e), che impone
alle Regioni l'istituzione di un Collegio di Revisori dei Conti quale
organo di vigilanza sulla regolarita' contabile, finanziaria ed
economica della gestione dell'ente.
Si ritiene che l'ascrivibilita' all'autonomia organizzativa
regionale anche dei contenuti della disposizione de qua non abbisogni
di particolari argomentazioni. Non v'e' dubbio, infatti, che la
previsione di un nuovo organo di controllo nel contesto
dell'organizzazione regionale spetti solo ed esclusivamente alla
Regione stessa, nell'ambito dell'accresciuto spazio normativo
riconosciutole dal Titolo V della Costituzione, come novellato. Tale
assunto non pare seriamente contestabile neppure qualora l'intervento
di cui si tratta venga inteso come strumento indispensabile ad
incrementare anche qualitativamente le modalita' di controllo
gestionale dell'ente Regione allo scopo di razionalizzare le
modalita' di contenimento della spesa pubblica e di riduzione degli
sprechi.
Come codesta ecc.ma Corte ha piu' volte riconosciuto, infatti, la
materia dell'organizzazione amministrativa regionale e' attribuita
alla competenza residuale delle Regioni prevista dall'articolo 117,
quarto comma della Costituzione, da esercitare nel rispetto dei
principi fondamentali di organizzazione e funzionamento fissati negli
statuti (cfr. Corte cost., sentenza n. 188/2007 cit.).
Infine, per quanto si riferisce alle disposizioni concernenti il
trattamento economico dei consiglieri regionali, la norma appare
censurabile per violazione degli articoli 117 e 119 della
Costituzione.
Si richiama, in proposito la pronuncia di codesto ecc.mo Collegio
che, nella sentenza n. 157 del 2007, ha ribadito come la gia'
menzionata legge n. 62 del 1953 abbia rimesso la fissazione delle
indennita' spettanti ai titolari delle cariche politiche della
Regione alle leggi regionali e ai rispettivi statuti ed attualmente,
per quanto riguarda la ricorrente, la legge regionale del Veneto 30
gennaio 1997, n. 5 determina appunto il trattamento indennitario dei
consiglieri regionali.
Le lettere c) e d), al comma 1 dell'articolo 14, riducendo gli
emolumenti e le utilita', comunque denominati, previsti in favore dei
consiglieri regionali entro il limite dell'indennita' massima
spettante ai membri del parlamento, e prevedendo che il trattamento
economico degli stessi sia commisurato all'effettiva partecipazione
ai lavori del Consiglio regionale, pone un precetto specifico e
puntuale che si pone in palese contrasto sia con l'articolo 119 della
Costituzione che garantisce l'autonomia finanziaria regionale, sia
con l'articolo 117, terzo comma della stessa, che, si ribadisce una
volta di piu', impone che lo Stato, in materia legislativa
concorrente qual e' il coordinamento della finanza pubblica, si
limiti a fissare nonne di principio.
Come costantemente affermato da codesta Ecc.ma Corte, infatti,
«la legge statale puo' prescrivere criteri e obiettivi (ad esempio,
il contenimento della spesa pubblica), non imporre alle Regioni
minutamente gli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere
quegli obiettivi. Cio' si risolve in un'indebita invasione dell'aera
riservata dall'art. 119 Cost. alle autonomie regionali» (cfr. Corte
cost., sent. n. 157 del 2007 cit.).
Infine, a conferma della forzatura, rispetto ai limiti
costituzionali, tentata dallo Stato con gli interventi normativi
censurati supra, appare pertinente riportare quanto espresso nel
parere sul disegno di legge di conversione del decreto-legge n. 138
del 2011 approvato dalla I Commissione permanente Affari
costituzionali del Senato in data 24 agosto 2011.
La I Commissione aveva infatti espresso parere non ostativo sul
disegno di legge, a condizione che, «salvo contrasto insanabile con
norme costituzionali» fossero riformulati alcuni articoli, tra cui il
comma 1 dell'articolo 14.
La richiesta di riformulazione si fondava sul rilievo, peraltro
del tutto ignorato in sede di conversione del decreto, che la
disposizione «pone la riduzione del numero dei consiglieri e degli
assessori regionali, nonche' delle relative indennita', quali
elementi necessari per il conseguimento delle misure premiali
relative alla nuova configurazione del patto di stabilita'. La norma
appare lesiva dell'autonomia costituzionalmente riconosciuta alle
regioni, con particolare riguardo all'articolo 123, primo comma,
della Costituzione, che attribuisce a ciascuna regione, attraverso il
proprio statuto, la facolta' di determinare la forma di governo e i
relativi principi fondamentali di organizzazione e funzionamento».
Profili di illegittimita' dell'articolo 16, commi 1, 2, 3, 4, 5, 7,
8, 10, 11, 12, 13, 14 , 15 e 16, per violazione degli articoli 97,
114, 117, e 118 della Costituzione.
L'articolo in esame impone ai comuni con popolazione fino a mille
abitanti di esercitare obbligatoriamente in forma associata tutte le
funzioni amministrative, mediante un'unione di comuni
dettagliatamente disciplinata nei commi specificati.
La complessa norma, secondo quanto espressamente indicato nella
rubrica e nel relativo comma 1 e' finalizzata, secondo il noto
meccanismo di autoqualicazione ripetutamente utilizzato dal
legislatore statale nella manovra in esame, a conseguire due
differenti scopi cosi' riassumibili.
In primo luogo e' perseguita la riduzione dei costi relativi alla
rappresentanza politica allo scopo di assicurare il conseguimento
degli obiettivi di coordinamento di finanza pubblica, nonche' il
contenimento delle spese degli enti locali;
In secondo luogo, l'intervento e' dichiaratamente finalizzato
alla razionalizzazione delle modalita' di organizzazione delle
funzioni comunali per migliorare l'esercizio delle funzioni
amministrative e l'offerta dei servizi pubblici. Tali obiettivi
dovrebbero essere conseguiti attraverso nuove ed obbligatorie forme
associative tra comuni, c.d. «unioni municipali», peraltro limitate a
quelle amministrazioni con densita' abitativa inferiore a mille
abitanti. Per i comuni appartenenti alla fascia con densita' di
popolazione immediatamente superiore viene inoltre regolamentato
dettagliatamente l'assetto ordinamentale della nuova unione, ivi
compresa la disciplina transitoria dal previgente regime a quello
innovativo, introdotto con le disposizioni censurate.
Quanto sopra premesso, a cornice generale del complesso di
disposizioni che la norma impugnata presenta, si ritiene di
analizzare partitamente dette disposizioni, apoditticamente
ricondotte dal legislatore statale nell'alveo dell'articolo 117 della
Costituzione, e piu' precisamente nell'ambito della competenza
legislativa esclusiva dello Stato.
Preliminarmente si osserva come, qualora il testo legislativo in
esame trovasse appropriata collocazione tra gli strumenti necessari a
perseguire la riduzione dei costi ed inserito tra le azioni
indispensabili al raggiungimento dei noti e difficili obiettivi di
finanza pubblica, le puntuali disposizioni in esso contenute
dovrebbero appartenere alla categoria delle c.d. «norme di
coordinamento della finanza pubblica» ed automaticamente ascriversi
all'omonima materia di competenza concorrente ai sensi del comma
terzo dell'articolo 117 della Costituzione.
Ancora una volta si ribadisce, conformemente alle pronunce
formulate al riguardo da codesta ecc.ma Corte, che in tale materia la
disciplina di principio dei vincoli finanziari, vale a dire il
contesto normativo rimesso alla competenza legislativa dello Stato,
si configura compatibile con l'autonomia degli enti
costituzionalmente garantiti come le Regioni ed i Comuni solo
allorquando stabilisca tassativamente ed esclusivamente un limite
complessivo di intervento - avente ad oggetto o l'entita' del
disavanzo di parte corrente o i fattori di crescita della spesa
corrente - lasciando agli enti stessi piena autonomia e liberta' di
allocazione delle risorse fra i diversi ambiti ed obiettivi di spesa.
(cfr. Corte cost., sentenza n. 417 del 2005).
Infatti appare ormai consolidato l'orientamento del giudice delle
leggi secondo il quale «norme statali che fissano limiti alla spesa
delle Regioni e degli enti locali possono qualificarsi principi
fondamentali di coordinamento della finanza pubblica alla seguente
duplice condizione: in primo luogo, che si limitino a porre obiettivi
di riequilibrio della medesima, intesi nel senso di un transitorio
contenimento complessivo, anche se non generale, della spesa
corrente; in secondo luogo, che non prevedano in modo esaustivo
strumenti o modalita' per il perseguimento dei suddetti obiettivi
(cfr. in tal senso Corte cost., sentenze n. 289 e n. 120 del 2008, n.
139 del 2009 e n. 326 del 2010).»
Per converso, le disposizioni suindicate integrano, invece, una
disciplina di dettaglio ed autoapplicativa che non puo' essere
ricondotta alla nozione di principio fondamentale della materia del
coordinamento della finanza pubblica. Ed invero si tratta di
imposizioni di carattere imperativo e puntuale a cui soggiacciono in
via diretta le amministrazioni comunali ed in via riflessa le
Regioni, alle quali non e' lasciata alcuna autonomia opzionale in
aperta violazione dell'articolo 114 della Costituzione, secondo
comma, per il quale «I Comuni, le Province, le Citta' metropolitane e
le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni
secondo i principi fissati dalla Costituzione.».
La censura che precede, nel senso della violazione del precitato
principio costituzionale di equiordinazione, posto a tutela delle
autonomie locali e delle Regioni, deve essere riproposta in relazione
al comma 7 dell'articolo 16, che impone ex lege la cessazione delle
precedenti forme associative previste nel decreto legislativo 18
agosto 2000, n. 267 (c.d. Testo unico degli enti locali), sostituite
da quelle indicate nella riforma.
Non puo', pertanto, non suscitare considerevoli perplessita' la
dichiarata finalita' del conseguimento degli obiettivi di finanza
pubblica che accompagna l'intervento impugnato dall'odierna
ricorrente, quasi si trattasse di un'egida di cosi' ampia valenza
protettiva da giustificare intromissioni cosi' lesive nel tessuto
delle garanzie costituzionali.
In proposito, infatti, nelle disposizioni in commento, per un
verso risulta assente la necessaria indicazione del risparmio di
spesa conseguente, mentre, per altro verso, l'effetto dirompente
della norma risulta piu' di carattere ordinamentale che finanziario,
particolarmente laddove vengono disciplinati compiutamente gli organi
della nuova forma associativa, eccezion fatta, ovviamente, per il
comma 15 afferente le indennita' spettanti ai consiglieri nonche' gli
emolumenti degli amministratori.
Per affrontare correttamente la questione incentrata sulla
legittimita' della norma impugnata, appare utile soffermarsi
sull'inquadramento costituzionale della manovra legislativa posta in
essere, specificamente per quanto attiene la collocazione della
razionalizzazione delle funzioni amministrative e dei servizi
pubblici di spettanza comunale, che si dubita costituisca un profilo
riconducibile de plano alla lettera p) del comma secondo
dell'articolo 117 della Costituzione.
Ed invero la locuzione «funzioni fondamentali di Comuni, Province
e Citta' metropolitane», contemplata alla lettera p) della norma
predetta, si riferisce espressamente alle funzioni individuate dallo
stesso legislatore statale, anche se in via provvisoria,
nell'articolo 21, comma 3 della legge 5 maggio 2009, n. 42 recante
«Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione
dell'articolo 119 della Costituzione.» e successivamente confermate
nell'articolo 3, comma 1, lettera a) del decreto legislativo 26
novembre 2010, n. 216 rubricato «Disposizioni in materia di
determinazione dei costi e dei fabbisogni standard di Comuni, Citta'
metropolitane e Province.» Si rammenta, in proposito, che entrambe le
disposizioni citate si riferiscono alle sole funzioni fondamentali di
competenza delle amministrazioni comunali.
Per converso le disposizioni in commento si riferiscono alla
totalita' delle funzioni amministrative ed ai servizi pubblici
locali, ivi comprese anche quelle non qualificabili come fondamentali
e, pertanto, non appartenenti all'ambito necessariamente assoggettato
alla potesta' legislativa esclusiva statale di cui all'articolo 117,
comma secondo, lettera p) della Costituzione.
Tuttavia, a sostegno della ritenuta ipotesi di un inammissibile
esercizio, da parte dello Stato, della potesta' legislativa in
subiecta materia, in violazione di quanto consentito a termini
dell'art.117, comma secondo, lettera p), si rinvengono ulteriori
argomenti in relazione agli «organi di governo» contemplati dalla
norma in esame.
Invero, l'indicazione contenuta negli articoli 114 e 117, comma
secondo, lettera p) della Carta fondamentale, laddove e' fatto
riferimento a Comuni, Province, citta' metropolitane, presenta
carattere tassativo, nel senso che si dubita che le garanzie
costituzionali espresse dalle norme citate possano estendersi ad
eventuali forme associative, comunque composte. A suffragio
dell'assunto, si richiamano le pronunce di codesta ecc.ma Corte a
proposito delle Comunita' montane.
Infatti, per un verso e' stato esplicitamente escluso che tali
enti, seppure integranti peculiari unioni di Comuni, appartengano
all'anzidetto contesto costituzionale (cfr. Corte cost. sentenza
n.397 del 2006); per altro verso, richiamando quanto affermato nella
sentenza n. 244 del 2005, e' stata inequivocabilmente individuata la
natura giuridica delle Comunita' montane che rappresentano un caso
speciale di unione di Comuni, in quanto «create in vista della
valorizzazione delle zone montane, allo scopo di esercitare, in modo
piu' adeguato di quanto non consentirebbe la frammentazione dei
comuni montani, "funzioni proprie", "funzioni conferite" e "funzioni
comunali" (cfr. Corte cost. sentenza n. 229 del 2001) e che tale
qualificazione pone in evidenza l'autonomia di tali enti (non solo
dalle Regioni ma anche dai Comuni) , come dimostra, tra l'altro,
l'espressa attribuzione agli stessi della potesta' statutaria e
regolamentare (art. 4, comma 5, della legge n. 131 del 2003).»
Se, dunque, alle Comunita' montane e' stata riconosciuta, pur non
essendo enti costituzionalmente garantiti, specifica autonomia
statutaria e regolamentare, non si vede per quale ragione analoga
autonomia non dovrebbe essere riconosciuta alle nuove figure di
unioni di comuni, anche per quanto concerne l'individuazione dei
propri organi di governo.
Invece, l'art. 16, nelle disposizioni contenute ai commi da 10 a
14, disciplina appunto gli organi di governo dell'unione municipale
dei comuni, che, per quanto forma istituzionale destinata
all'esercizio associato di funzioni di Comuni, e' ente diverso ed
autonomo dalle amministrazioni di cui si compone. Conseguentemente,
per quanto sopra esposto, non essendo tali unioni municipali
giuridicamente assimilabili ai Comuni, men che meno secondo
meccanismi di interpretazione estensiva inconciliabili con la
tassativita' del dettato costituzionale, le stesse sono da ritenersi
escluse dall'ambito di riferimento proprio degli artt. 114 e 117,
comma secondo, lettera p) della Costituzione e, per cio' stesso, non
sono imputabili alla titolarita' legislativa statale.
Orbene, se da quanto supra argomentato appare di tutta evidenza
come la potesta' legislativa esclusiva dello Stato non possa
legittimamente estendersi oltre i limiti rigorosamente segnati dai
campi di disciplina espressamente menzionati nella lettera p) del
secondo comma dell'articolo 117 Cost., non pare temerario affermare,
al riguardo, la sussistenza di una competenza legislativa residuale
delle Regioni, in base al criterio di riparto stabilito nel nuovo
articolo 117 della Costituzione, che, elencando solo le materie di
competenza esclusiva statale e di competenza concorrente, consente di
far rifinire nella potesta' residuale delle Regioni quelle non
esplicitamente incluse nell'uno o nell'altro ambito. (cfr., in tal
senso, Corte cost., sentenza n. 261 del 2011).
Se i principi affermati da codesta ecc.ma Corte, con riferimento
al fenomeno dell'associazionismo proprio delle Comunita' montane,
sono valevoli anche in relazione alle forme associazionistiche
espresse dalla disciplina oggetto delle censure dell'odierna
ricorrente, non puo' non lamentarsi la lesione delle prerogative
riconosciute alle Regioni in materia, atteso che l'«associazionismo
comunale», non essendo riconducibile alla lettera p) del comma
secondo dell'articolo 117 della Costituzione ne' al comma terzo del
medesimo articolo, deve essere di sicura competenza legislativa
esclusiva regionale.
Nell'annosa questione afferente l'eccessiva frammentazione
istituzionale connessa all'evidente inadeguatezza delle dimensioni
demografiche e territoriali di alcuni Comuni italiani, alla quale in
piu' riprese si e' cercato di ovviare sia con l'introduzione
nell'ordinamento di incentivi alla fusione, sia con l'imposizione di
limiti demografici all'istituzione di nuovi Comuni, la Regione ha
sempre svolto un ruolo fondamentale, particolarmente per quanto
attiene il profilo organizzativo afferente la gestione degli
incentivi di tipo economico.
Infatti e' sempre stata la Regione il soggetto deputato a
regolamentare le modalita' concessorie di questi ultimi incentivi,
destinati a favorire l'esercizio associato delle funzioni, nonche' ad
individuare i livelli ottimali di dimensionamento demografico da
definire in concerto con gli enti locali, come previsto, ad esempio
nell'articolo 3 del decreto legislativo n. 112 del 1998, nonche'
all'articolo 33 del decreto legislativo n. 267 del 2000.
Tuttavia si rinviene una differenza sostanziale tra le
disposizioni da ultimo menzionate e quelle in commento, atteso che
solo nelle prime e non nelle seconde si riscontra il riconoscimento
espresso della titolarita' legislativa regionale e si riafferma la
piena liberta' dei Comuni circa la determinazione volta a modificare
il proprio assetto funzionale, poiche' gli stessi esercitano «le
funzioni in forma associata, individuando autonomamente i soggetti,
le forme e le metodologie, entro il termine temporale indicato dalla
legislazione regionale».
Ribadita la non condivisibilita', per tutto quanto sopra esposto,
della posizione interpretativa che pretende di ricondurre il
complesso normativo in esame all'alveo della competenza legislativa
di esclusiva spettanza statale a termini dell'art.117, comma secondo,
lettera p), a sostegno della lesione della ritenuta competenza
residuale sussistente in tema di associazionismo, si richiama anche
quanto recentemente disposto con l'art.14, commi da 27 a 31 del
decreto-legge 31 maggio 2010, n.78, convertito, con modificazioni,
con la legge 30 luglio 2010, n. 122, che aveva introdotto una
disciplina concernente l'associazionismo comunale di improbabile
armonizzazione con quella di cui ora si discute.
Tale norma, infatti, si configura aderente al dettato
costituzionale, specialmente operando le doverose distinzioni che il
riparto di competenze attualmente vigente impone e prevede che le
Regioni, nelle materie di cui ai commi terzo e quarto dell'art.117
Cost. possano individuare con propria legge la dimensione, ottimale
ed omogenea all'interno dell'area geografica, per l'esercizio di
funzioni comunali in forma associata, con facolta' di stabilire
limiti demografici diversi da quelli determinati dallo Stato. Ma se
la disposizione richiamata ha riconosciuto la competenza normativa
regionale in fattispecie per le quali l'intervento statale era
limitato alla previsione dell'associazionismo quale forma di
esercizio delle sole funzioni fondamentali, non si vede per quale
ragione tale competenza dovrebbe essere venuta meno con riferimento
all'associazionismo quale forma di esercizio di tutte le funzioni
amministrative, incluse quelle non fondamentali.
Infine, si reputa di evidenziare un ulteriore profilo critico,
certamente di non secondaria rilevanza. Proprio la titolarita'
legislativa regionale in materia di associazionismo, riconosciuta nel
gia' citato comma 30 dell'articolo 14 del decreto-legge n. 78 del
2010, viene a distanza di poco piu' di un anno integralmente
disconosciuta dalle disposizioni in commento. Tale successione di
leggi in tempi cosi' ravvicinati e con modalita' redazionali e
contenuti cosi inconciliabili, genera un'insostenibile incertezza
normativa, oltre a pregiudicare sensibilmente la concreta
operativita' delle amministrazioni comunali anche per quanto concerne
l'esercizio delle funzioni amministrative di competenza regionale, in
violazione del principio di buon andamento dell'azione amministrativa
tutelato dall'art. 97 della Costituzione.
Si segnala, per completezza, che, proprio in attuazione della
normativa delineata dal decreto-legge n. 78 del 2010, la Regione del
Veneto, con il progetto di legge di iniziativa della Giunta regionale
n. 196 del 2011, ha legittimamente avviato il proprio iter
legislativo di riordino.
Ma v'e' di piu'. Le norme in esame si configurano lesive delle
attribuzioni costituzionalmente riconosciute alle Regioni in tema di
associazionismo comunale non soltanto per quanto concerne l'esercizio
della potesta' legislativa, ma anche per quanto concerne l'esercizio
della potesta' amministrativa, ai sensi dell'art.118 Cost.. Infatti,
il contenuto di dettaglio espresso, con imposizione autoritativa,
nelle disposizioni censurate, anche relativamente a funzioni diverse
da quelle di esclusiva spettanza statale, nella misura in cui si
riferisce a funzioni amministrative di competenza regionale, non puo'
non generare un'evidente violazione anche al riparto di competenze
amministrative di cui all'articolo 118 della Costituzione.
Il modello di unione di Comuni delineato ed imposto dallo Stato,
connotato da genericita' ed indifferenziazione, non puo' definirsi
aprioristicamente idoneo a garantire quelle esigenze di efficienza
organizzativa che rappresenta l'indispensabile portato
dell'allocazione ottimale delle funzioni, in ossequio a quei principi
di sussidiarieta', differenziazione ed adeguatezza che dovrebbero
connotare il sistema di amministrazione locale. In tal senso, il
conferimento, fatto agli Enti locali con legge regionale, di funzioni
amministrative nelle materie di competenza legislativa regionale,
costituisce appunto la declinazione in concreto, nell'ambito
territoriale proprio, degli anzidetti principi, allo scopo di
razionalizzare, secondo criteri oggettivi e consapevoli, l'esercizio
delle funzioni amministrative. Correlativamente, analoga valutazione
in ordine alle caratteristiche peculiari delle singole funzioni
suscettibili di diversa allocazione, compete allo Stato nelle materie
di propria esclusiva attribuzione. Qualora, invece, l'esercizio delle
funzioni amministrative di spettanza regionale subisca indebite
compressioni per effetto di interventi normativi statali autoritativi
e generalizzati, non puo' non ritenersi sussistente la violazione
dell'articolo 118 della Costituzione, nei termini sopra descritti, e
cioe' in riferimento alle prerogative regionali circa l'esercizio di
funzioni amministrative.
In via meramente incidentale, si rammenta che l'imposizione
all'adozione di una determinata forma organizzativa di tipo
associativo appare altresi' lesiva dell'articolo 117, comma sesto
della Costituzione, che riconosce ai Comuni autonoma potesta'
regolamentare in ordine alla disciplina dell'organizzazione e dello
svolgimento delle funzioni loro attribuite ed a tale ambito deve
necessariamente essere ricondotta la scelta metodologica
concretantesi nell'esercizio delle funzioni secondo forme
associative.
Del resto, la liberta' di organizzazione riconosciuta dal
legislatore statale ai Comuni e' indiscutibile ed e' testimoniata
dalla pluralita' di disposizioni in materia di associazionismo
comunale tuttora vigenti e presenti nell'ordinamento, secondo cui i
comuni esercitano «le funzioni in forma associata, individuando
autonomamente i soggetti, le forme e le metodologie, entro il termine
temporale indicato dalla legislazione regionale.» e tale violazione
puo' essere legittimamente prospettata anche dalla Regione, come
chiarito da codesta ecc.ma Corte nelle decisioni n. 196 del 2004 e n.
417 del 2005.
Da ultimo, si reputa di affrontare separatamente la norma
contenuta al comma 28 dell'articolo 16, che specifica la pluralita'
di poteri attribuiti al Prefetto allo scopo di vigilare in ordine al
veloce conseguimento degli obiettivi individuati.
Innanzitutto si impone a tale Autorita' di accertare l'avvenuta
attuazione, da parte di tutti gli enti locali interessati, di quanto
stabilito all'articolo 2, comma 186, lettera e) della legge n. 191
del 2009 e all'articolo 14, comma 32 della legge 31 maggio 2010, n.
78, cui consegue, nelle ipotesi di acclarato inadempimento,
l'esercizio del potere sostitutivo statale.
In sostanza la disposizione prevede che, al fine di verificare il
perseguimento degli obiettivi di semplificazione amministrativa ed
organizzativa, nonche' di riduzione delle spese effettuate dagli enti
locali, il Prefetto debba accertare che gli enti territoriali
interessati abbiano proceduto alla soppressione dei consorzi di
funzioni tra gli enti locali, ad eccezione dei bacini imbriferi
montani, e si siano conformati al divieto imposto ai comuni con
popolazione inferiore a trenta mila abitanti di costituire societa'.
L'accertamento evidenziante l'inadempienza dell'Ente locale determina
l'attivazione dell'intervento sostitutivo statale.
Per le modalita' dell'esercizio del potere sostitutivo la
disposizione rinvia all'articolo 8, commi 1, 2, 3 e 5 della legge 5
giugno 2003, n. 131 recante «Disposizioni per l'adeguamento
dell'ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18
ottobre 2001, n. 3.» che attua appunto l'articolo 120 della
Costituzione.
In proposito, ed in via preliminare, la difesa regionale rileva
che il potere sostitutivo di cui si tratta pare esulare dall'ambito
proprio dell'articolo 120 della Costituzione che consente al Governo
di legittimamente sostituirsi agli organi dei Comuni solo nelle
ipotesi tassativamente ivi elencate, ovvero per: a)mancato rispetto
di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria; b)
pericolo grave per l'incolumita' e la sicurezza pubblica; c) tutela
dell'unita' giuridica ed economica con particolare riguardo alla
tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti
civili e sociali e tali fattispecie sono certamente tipizzate e
tassative.
Orbene e' palese ed incontrovertibile come nessuna delle ipotesi
sopra riportate possa attagliarsi ad un contesto come quello oggetto
della norma censurata, nella quale, per esplicita affermazione del
medesimo legislatore statale, gli unici obiettivi posti a fondamento
dell'intervento sono quelli della semplificazione e della riduzione
delle spese.
Ne' si reputa condivisibile la posizione interpretativa che
vorrebbe ricondurre il potere sostitutivo de quo ad una ritenuta
preminente esigenza di garanzia dell'unita' economica, intesa come il
complesso della macroeconomia nazionale, costituito da moneta,
risparmio e mercati finanziari, ai sensi dell'art.117, comma secondo,
lettera e) della Costituzione, atteso che la finalita' di
contenimento della spesa pubblica e' perseguibile dallo Stato con
mere previsioni normative di principio, nell'alveo del piu' volte
menzionato sistema di coordinamento della finanza pubblica di cui al
comma terzo della Costituzione, e non puo' quindi legittimare il
potere sostitutivo statale in argomento.
Ad avviso del patrocinio regionale, la circostanza che tale
potere sostitutivo si configuri come straordinario, e come tale e'
appunto definito in alcune decisioni di codesta ecc.ma Corte, e
collocato in posizione aggiuntiva rispetto alle altre ipotesi di
potere sostitutivo c.d. ordinario, non puo' consentire alcuna
violazione del riparto di competenze tutelato e garantito dagli
articoli 117 e 118 della Costituzione.
Se, infatti, il potere sostitutivo straordinario si pone quale
presidio ad esigenze avvertite come fondamentali, di eguaglianza,
sicurezza e legalita' la cui tutela appare necessaria al fine di
garantire unita' e coerenza dell'ordinamento, mentre quello ordinario
e' correlato necessariamente all'esercizio della potesta' legislativa
statale ed alla potesta' afferente l'esercizio delle funzioni
amministrative attribuite ai sensi dell'articolo 118 della
Costituzione, le esigenze di coordinamento della finanza pubblica,
sottese alla disposizione censurata, non sono in alcun caso
perseguibili anche mediante il ricorso ad un intervento sostitutivo
straordinario, ma al piu' a quello ordinario, nei termini sopra
riportati.
In altre parole, al di fuori delle ipotesi prospettate, si
profila la violazione tanto dell'art. 117 quanto dell'art. 118 della
Costituzione.
Questo perche', in sostanza, il mero principio di coordinamento
della finanza pubblica, integrato rispettivamente da un obbligo di
soppressione dei consorzi di funzioni e da un divieto di costituzione
di societa', e' strumentale all'esercizio di una funzione
amministrativa che, in conformita' all'articolo 118 della
Costituzione, puo' rientrare anche in ambiti di competenza regionale.
Non pare contestabile che il Comune possa aver deciso di costituire
un consorzio per l'esercizio di funzioni amministrative di competenza
regionale ai sensi dell'art. 117 della Costituzione, conferite ai
Comuni ai sensi del successivo art. 118.
In tale fattispecie l'esercizio di un potere sostitutivo statale
che sfociasse nella nomina di un commissario ad acta con il compito
di sopprimere il consorzio produrrebbe effetti sulle modalita' di
esercizio di una funzione amministrativa di attribuzione non statale,
ma regionale.
Analoghe considerazioni di carattere concretamente gestionale
possono essere elaborate in riferimento alla disciplina relativa
all'eventuale partecipazione societaria, circoscritta all'ambito dei
servizi pubblici, per quanto tale contesto presenti certamente
connotati di maggiore complessita', che non tollerano sterili
generalizzazioni.
D'altro canto, e' pacificamente ammessa la legittimita' di una
legge regionale che «intervenendo in materie di propri competenza, e
nel disciplinare, ai sensi dell'art. 117, terzo e quarto comma, e
dell'art. 118, primo e secondo comma, della Costituzione, l'esercizio
di funzioni amministrative di competenza dei Comuni, preveda anche
poteri sostitutivi in capo ad organi regionali, per il compimento di
atti o di attivita' obbligatorie, nel caso di inerzia o di
inadempimento da parte dell'ente competente, al fine di salvaguardare
interessi unitari che sarebbero compromessi dall'inerzia o
dall'inadempimento medesimi» (cfr. Corte cost., sentenza n. 43 del
2004).
Ne discende che il potere sostitutivo statale non puo' e non deve
riguardare amministrazioni che esercitano funzioni amministrative di
competenza regionale ai sensi dell'articolo 118 della Costituzione.
Al riguardo, nella decisione n. 303 del 2003, codesta ecc.ma Corte ha
affermato che «Nel nuovo Titolo V l'equazione elementare interesse
nazionale = competenza statale, che nella prassi legislativa
previgente sorreggeva l'erosione delle funzioni amministrative e
delle parallele funzioni legislative delle Regioni, e' divenuta priva
di ogni valore deontico, giacche' l'interesse nazionale non
costituisce piu' un limite, ne' di legittimita', ne' di merito, alla
competenza legislativa regionale.»
P. Q. M.
Chiede che codesta ecc. ma Corte costituzionale, accogliendo il
presente ricorso, voglia dichiarare la illegittimita' costituzionale
dell'articolo 3, comma 4, 5-bis, 14, comma 1, lettere a), b), c), d)
ed e), 16, commi 1, 2, 3, 4, 5, 7, 8, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16 e
28, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, recante: «Ulteriori
misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo»,
pubblicato nel testo coordinato con la legge di conversione 14
settembre 2011, n. 148, nella Gazzetta Ufficiale n. 216 del 16
settembre 2011, per violazione degli articoli 3, 5, 97, 114, 117,
118, 119 e 120 della Costituzione.
Si allega:
1) copia conforme all'originale della deliberazione della
Giunta regionale del Veneto 8 novembre 2011 n. 1790, di
autorizzazione alla proposizione del ricorso.
Venezia - Roma, addi' 14 novembre 2011
avv. Zanon - avv. Palumbo - avv. Manzi
Ai sensi e per gli effetti dell'articolo 1, comma 1, lettera c),
della legge 7 giugno 1993, n. 183 «Norme in materia di utilizzazione
dei mezzi di telecomunicazione per la trasmissione degli atti
relativi a procedimenti giurisdizionali», dichiaro conforme
all'originale il suesteso atto trasmesso a mezzo fax.
Avv. Zanon
Ai sensi e per gli effetti dell'articolo 1, comma 1, lettera c),
della legge 7 giugno 1993, n. 183 «Norme in materia di utilizzazione
dei mezzi di telecomunicazione per la trasmissione degli atti
relativi a procedimenti giurisdizionali», sottoscrivo il suesteso
atto ut supra dichiarato conforme all'originale e trasmesso a mezzo
fax.
Avv. Manzi