Ricorso per questione di legittimita'  costituzionale  depositato  in cancelleria il 23 novembre 2011 (della Regione Veneto).

 

 

(GU n. 1 del 4.1.2012)

 

    Ricorso della Regione Veneto in persona del  suo  Presidente  pro

tempore, dott. Luca Zaia, a cio' autorizzato con deliberazione  della

Giunta regionale 8 novembre 2011, n 1790 (doc.  1),  rappresentata  e

difesa, come da procura a margine del presente atto,  dall'avv.  Ezio

Zanon dell'Avvocatura  regionale,  dall'avv.  Daniela  Palumbo  della

Direzione Affari Legislativi e dall'avv.  Luigi  Manzi  del  Foro  di

Roma, con domicilio  eletto  presso  lo  studio  di  quest'ultimo  in

Roma,Via Confalonieri, n.5,

    Nei confronti  del  Presidente  pro  tempore  del  Consiglio  dei

ministri, per la dichiarazione di illegittimita' costituzionale degli

articoli 3, comma 4; 5-bis; 14, comma 1, lettere a), b),  c),  d)  ed

e); 16, commi 1, 2, 3, 4, 5, 7, 8, 10,11,12,13,14, 15, 16  e  28  del

decreto-legge 13 agosto 2011,  n.  138,  recante:  «Ulteriori  misure

urgenti per  la  stabilizzazione  finanziaria  e  per  lo  sviluppo»,

pubblicato, nel testo coordinato  con  la  legge  di  conversione  14

settembre 2011, n. 148,  nella  Gazzetta  Ufficiale  n.  216  del  16

settembre 2011, per violazione degli articoli 5, 97, 114,  117,  118,

119, 120, 123 della Costituzione

 

                                Fatto

 

    In data 16 settembre 2011 e'  stata  pubblicata,  nella  Gazzetta

Ufficiale n. 216, la legge 14 settembre 2011,  n.148  di  conversione

del decreto-legge 13 agosto 2011 n.138, in testo  coordinato  con  il

decreto-legge  medesimo.  Il  testo  normativo  impugnato,  rubricato

«Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo

sviluppo», si  innesta  nella  complessa  e  variegata  attivita'  di

produzione legislativa  di  fonte  statale  che,  gia'  singolarmente

problematica quanto ad interpretazione e coordinamento sistematico di

taglio anche costituzionalistico, nell'ultimo periodo ha  subito  una

brusca   accelerazione,   certamente   per   effetto   del   contesto

preoccupante  offerto  dall'evoluzione  patologica   dei   meccanismi

finanziari pubblici  ed  imprenditoriali  che  ha  palesato  evidenti

distorsioni  applicative  e   gestionali,   tali   da   compromettere

sensibilmente  gli  equilibri  preesistenti,  anche  in  termini   di

stabilita' di governo.

    Orbene, seppure dettati  dall'esigenza  di  approntare  strumenti

adeguati a conseguire celermente l'obiettivo di riduzione della spesa

pubblica  e  della  stabilizzazione  finanziaria,  fronteggiando   la

congiuntura estremamente sfavorevole in  corso  di  aggravamento,  le

disposizioni articolate nel decreto odiernamente impugnato esprimono,

in realta', contenuti di impatto irrimediabilmente  confliggente  con

le prerogative e le  attribuzioni  riconosciute  alle  Regioni  dalla

Costituzione e da questa tutelate e garantite.

    La  posizione  affermante  la   considerevole   lesivita'   della

normativa in esame trova anzitutto sicura  conferma  nel  travagliato

percorso di confronto tra gli esponenti politici, svoltosi nelle sedi

istituzionali, che evidenzia le ripetute  occasioni  nelle  quali  le

Regioni, pur  nella  piena  consapevolezza  della  necessarieta'  del

rigore richiesto, hanno evidenziato i profili di criticita' giuridica

ed ordinamentale, oltre che  costituzionale,  sottesi  alla  manovra,

prima con riferimento alla bozza di documento  concernente  il  testo

del decreto-legge e,  successivamente,  constatato  che  in  fase  di

conversione le istanze emendative  espresse  erano  state  del  tutto

disattese,  in  relazione  alla   disciplina   come   definitivamente

configurata per effetto dell'avvenuta conversione.

 

                               Diritto

 

    Poiche' le norme impugnate presentano profili di valutazione  che

consentono  autonomia  argomentativa,   si   ritiene   di   procedere

partitamente per ciascuna di esse, fatti salvi  i  casi  di  evidente

connessione  logico  giuridica  che  impongono   una   prospettazione

omogenea ed unitaria.

Profili di illegittimita' dell'articolo 3, comma 4 del  decreto-legge

13 agosto 2011, n. 138, come convertito con legge 14 settembre  2011,

n.  148,  per  violazione  degli  articoli  5,  117   e   120   della

Costituzione, nonche' del principio di leale collaborazione.

    Con riserva di piu' approfondita trattazione, la  Regione  Veneto

rileva fin d'ora la mancata conformita' a Costituzione  dell'articolo

3,  comma  4  del  decreto-legge  de  quo,  come   convertito,   che,

introducendo una disposizione attributiva allo Stato di una rilevante

potesta' di intervento nell'autonomia regionale, si pone in  evidente

contrasto con gli articoli 5, 117 e  120  della  Costituzione,  nella

parte in  cui  e'  violato  il  principio  di  leale  collaborazione,

tutelato dalla disposizione da ultimo citata.

    Innanzitutto,  si  reputa  utile   riportare   la   ricostruzione

giuridica della materia sviluppo economico, al centro dell'intervento

legislativo statale, come attualmente collocabile per  effetto  della

dinamica  evolutiva  registrata  in  riferimento   ad   un   contesto

certamente  di  difficile  perimetrabilita'.  A  seguito  della  nota

riforma del Titolo V della Costituzione, detta  materia  non  rientra

tra  quelle  specificamente  individuate  dal  comma  secondo   della

Costituzione, relativo alle materie  di  competenza  esclusiva  dello

Stato, ne' in  quelle  ascrivibili  al  terzo  comma,  soggette  alla

potesta' legislativa concorrente delle Regioni, e, pertanto, dovrebbe

attenere  all'ambito  di  competenza  esclusiva  regionale   di   cui

all'articolo 117,  comma  quarto,  della  Costituzione  o,  comunque,

assumere la configurazione  di  materia  trasversale  e,  come  tale,

investire tutte le materie, incluse quelle  di  competenza  regionale

esclusiva o concorrente.

    Codesta ecc.ma Corte costituzionale, con la sentenza n.  165  del

2007, ha gia' avuto modo di precisare  i  limiti  delle  attribuzioni

statali in tema di sviluppo economico, definendo sistematicamente  il

contenuto della locuzione di cui  si  tratta,  anche  in  rapporto  a

preminenti esigenze di intervento statale di  carattere  marcatamente

finanziario. Sul punto, si riporta quanto asserito al punto 4.3 della

pronuncia de qua. «L'oggetto e la finalita' delle norme impugnate non

permettono di ritenere che la relativa disciplina  sia  riconducibile

ad una materia, lo "sviluppo economico", che sarebbe  riservata  alla

competenza residuale delle  Regioni.  La  locuzione  costituisce  una

espressione di sintesi, meramente descrittiva, che comprende e rinvia

ad una pluralita' di materie. In tal senso, e' significativo che gia'

il decreto  legislativo  31  marzo  1998,  n.  112  (Conferimento  di

funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle  regioni  ed  agli

enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo  1997,  n.

59), nel delegare numerose funzioni alle Regioni, contemplava  in  un

apposito Titolo (il II) le funzioni inerenti allo "sviluppo economico

e attivita' produttive", precisando tuttavia che  allo  stesso  erano

riconducibili una  pluralita'  di  materie:  agricoltura  e  foreste,

artigianato,  industria,  energia,  miniere  e  risorse  geotermiche,

ordinamento delle  camere  di  commercio,  industria,  artigianato  e

agricoltura, fiere  e  mercati  e  commercio,  turismo  ed  industria

alberghiera (art. 11, comma 2).

    L'art. 117 Costa contempla molteplici materie  caratterizzate  da

una palese connessione con lo sviluppo dell'economia, le  quali  sono

attribuite sia alla  competenza  legislativa  esclusiva  dello  Stato

(art. 117, secondo comma, Cost.), sia a quella concorrente (art. 117,

terzo comma, Cost.), o residuale  (art.  117,  quarto  comma,  Cost.)

delle Regioni.

    La finalita' avuta di mira  dal  legislatore  statale  ha  dunque

comportato che la disciplina recata dalle norme impugnate  attiene  a

piu' materie, alcune senz'altro riservate alla  competenza  esclusiva

dello Stato (la  materia  fiscale,  nonche'  quella  dell'ordinamento

civile, in quanto si e' regolata una  peculiare  figura  associativa,

intervenendo sulla disciplina delle modalita' di  contrarre  e  della

rappresentanza). Tuttavia, proprio in  quanto  le  disposizioni  sono

dirette a realizzare una complessa manovra  concernente  lo  sviluppo

dell'economia e del sistema produttivo italiano, esse incidono  anche

su materie attribuite alla competenza legislativa delle Regioni,  sia

concorrente (quale la "ricerca scientifica e tecnologica  e  sostegno

all'innovazione per i  settori  produttivi"  (cfr.  ex  plurimis,  le

sentenze n. 31 del 2005 e n. 423 del 2004), sia residuale,  quali  il

commercio (cfr. sentenza n. 1 del 2004);  l'industria,  l'artigianato

(cfr. sentenza n. 162 del 2005)».

    Quanto  premesso  consente  di  concludere  che,  se  e'  tuttora

valevole quanto affermato nella medesima  sentenza  al  punto  4.4  ,

«(...)la finalita' dell'intervento  e  l'individuazione  dell'oggetto

delle norme permettono di ritenere che ci si trovi di fronte a scelte

di rilevanza nazionale, in relazione alle quali, come questa Corte ha

affermato, il legislatore costituzionale del 2001 ha inteso unificare

in capo allo Stato strumenti che attengono allo sviluppo  dell'intero

Paese, anche al di la'  della  specifica  utilizzabilita'  di  quelli

elencati nel secondo comma dell'art. 117 Cost.»,  e  se  le  ritenute

esigenze di  carattere  unitario  fossero  riconosciute  esistenti  e

rilevanti   anche   in   relazione   all'articolo   3    in    esame,

interferirebbero  comunque  con  materie  riservate  alla  competenza

regionale.

    Per quanto  attiene  all'ambito  applicativo  della  disposizione

impugnata, infatti,  benche'  l'odierna  ricorrente  affermi  la  non

diretta  applicabilita'  della  disciplina  di  dettaglio   riportata

nell'intero articolo 3 alle Regioni, tenute tuttavia ad  adeguarvisi,

si rileva che le previsioni contenute nel comma  4  dell'articolo  in

argomento, laddove assegnano al mancato  adeguamento  all'obbligo  di

cui al comma 1, valenza di misura sanzionatoria,  rendendolo  fattore

di valutazione della virtuosita', ai sensi dell'articolo 20, comma 3,

del decreto-legge n. 98 del 2011, convertito dalla  legge  15  luglio

2011,  n.  111,  si  palesano  patentemente  lesive  della  sfera  di

autonomia costituzionalmente attribuita alla Regione  in  riferimento

agli articoli 5 e 117,  della  Costituzione  per  le  motivazioni  di

seguito indicate.

    Si rammenta, in proposito, come  codesta  ecc.ma  Corte,  con  la

sentenza n. 64 del 9 marzo 2007 abbia gia' sancito la sussistenza  in

capo   al   legislatore   regionale   della   potesta'   di   fissare

normativamente limiti al principio di liberta' di  concorrenza  e  di

parita' di accesso al mercato, quando  l'intervento  non  appaia  ne'

ingiustificato e neppure irragionevole e qualora sia sostenuto  dalla

necessita' di ridurre gli effetti negativi potenzialmente producibili

nel tessuto economico preesistente.

    In punto, nel riconoscere alla norma regionale una  finalita'  di

tutela dell'interesse generale di valorizzazione  delle  imprese,  la

sentenza  pare  aver  ribadito  come  solo  le  discriminazioni   fra

attivita' imprenditoriali fondate su criteri  territoriali,  che  non

siano ragionevolmente giustificabili, possano porsi in contrasto  con

i principi costituzionali di eguaglianza e di libera circolazione.

    L'assunto riaffermato da  codesta  ecc.ma  Corte,  per  di  piu',

appare  in  sintonia  con  i  principi  di  rango   comunitario   che

asseriscono come non tutte le misure che incidono in senso limitativo

siano  da  ritenersi  restrizioni  incompatibili   con   i   principi

comunitari di liberalizzazione delle attivita' economiche.

    Quanto sopra doverosamente richiamato costituisce  argomentazione

fondante la ritenuta illegittimita' dell'articolo 3, laddove, seppure

qualificandola  mero  parametro  dell'adeguamento   regionale   reca,

invece, una disciplina dettagliata di restrizioni e limitazioni circa

l'accesso e l'esercizio delle attivita' economiche.

    Che l'intervento statale, lungi dal consentire margini  opzionali

alla potesta' regionale, costruisca un quadro definito e compiuto  e'

asserzione che pare altresi' avvalorata dalle previsioni  di  cui  al

comma 11, dell'articolo  3  medesimo,  nel  quale  sono  indicate  le

condizioni legittimanti l'esclusione dell'obbligo di restrizioni.

    Infatti  tale  disposizione,  che  rimette  ad  un  decreto   del

Presidente del Consiglio  dei  Ministri  la  puntuale  individuazione

delle singole attivita' economiche suscettibili di esclusione,  o  e'

da  intendersi  riferita  alle  sole  norme  soggette  alla  potesta'

normativa statale, oppure e' da  intendersi  estensibile  anche  alle

Regioni. In entrambe le  ipotesi  gli  effetti  lesivi  afferenti  le

potesta' regionali sono incontestabili.

    Nel primo caso, infatti,  l'esercizio  della  potesta'  normativa

regionale  in  subiecta  materia  potrebbe  condurre  a   risoluzioni

normative disomogenee tra Regione e Regione, con  la  conseguenza  di

rendere inapplicabili criteri di valutazione  statale  uniformi,  che

tuttavia sono indispensabili a formulare equamente quel  giudizio  di

congruita' fondante il responso di virtuosita' delle  amministrazioni

regionali.

    Nell'altro caso, risulterebbe del tutto  vanificata  la  potesta'

regionale  consistente  nella  facolta'  di   introdurre   discipline

limitative, giustificate e non irragionevoli, come tali  conformi  al

principio di liberta' e concorrenza e  ritenute  legittime  anche  da

codesta ecc.ma Corte nella citata sentenza n. 64 del 2007.

    La  normativa  di  dettaglio  introdotta  con   la   disposizione

impugnata ed il conseguente obbligo di adeguamento  imposto  in  modo

indifferenziato anche in ordine a materie di competenza regionale, in

spregio dell'autonomia riconosciuta alle Regioni dalla Costituzione e

da codesta ecc.ma Corte riaffermata nelle proprie  pronunce,  vulnera

nella sostanza il riparto di competenze normative di cui all'art. 117

della Costituzione  proprio  perche',  con  le  proprie  statuizioni,

obbliga direttamente le Regioni  nei  contenuti  e  nelle  modalita',

sanzionandone direttamente la violazione,  in  assenza  di  qualsiasi

forma   di   collaborazione   istituzionale,   benche'   interferisca

indubitabilmente con ambiti di attribuzione regionale e  con  materie

di competenza legislativa regionale sia concorrente che residuale.

    La circostanza che l'anzidetto obbligo di adeguamento, come nella

norma  in  esame,  sia  elevato  a  fattore  di   valutazione   della

virtuosita'   dell'amministrazione   regionale   con    evidenti    e

considerevoli  ripercussioni  anche  sulla  gestione  del  patto   di

stabilita', non attenua, ma aggrava  il  profilo  sicuramente  lesivo

della disposizione.

    A tal riguardo si rileva, in primis, la singolare rigidita' della

sanzione che si  configura  come  sproporzionata  in  relazione  alla

condotta eventualmente difforme dal precetto ed in  contrasto  con  i

principi espressi dalla Costituzione sul  punto.  Ad  oggi,  infatti,

risulta incontrovertibile, essendosi ormai consolidato il  regime  di

riparto  di  competenze  scaturito  dalla  riforma  del   2001,   che

all'eventuale inerzia delle Regioni  possa  ovviarsi  ancora  con  il

meccanismo giuridico insito nella cedevolezza delle norme  statali  a

termini dell'articolo 10, comma primo, della legge 10 febbraio  1953,

n. 62 «Costituzione e  funzionamento  degli  organi  regionali»  c.d.

«legge Scelba». In base a tale disposizione, certamente risalente nel

tempo, ma di straordinaria  modernita'  ermeneutica  ed  operativa  e

comunque tuttora vigente, le leggi statali che modificano i  principi

fondamentali nelle materie  di  competenza  concorrente  abrogano  le

norme  regionali  contrastanti  con  esse,   senza   incidere   sulla

competenza legislativa costituzionalmente assegnata alle Regioni, che

quindi possono esercitarla appieno, adeguando il proprio  ordinamento

alle norme statali di principio.

    In ogni caso,  a  suffragio  della  ritenuta  incongruenza  della

disposizione interloquita e della evidente ultroneita'  della  stessa

nel contesto costituzionale  vigente,  non  si  puo'  non  richiamare

l'istituto  dell'intervento  sostitutivo  di  cui  all'articolo  117,

quinto  comma  della  Costituzione,  come  gia'  disciplinato   nella

clausola  di  cedevolezza  di  cui  all'articolo   84   del   decreto

legislativo  26  marzo  2010,  n.  59  «Attuazione  della   direttiva

2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato  interno»,  di  immediata

applicabilita', in  coerenza  con  l'ordinamento  e  con  i  principi

costituzionali.

    Se, pertanto,  il  sistema  giuridico  vigente  dispone  gia'  di

efficaci strumenti di adeguamento regionale, per di  piu'  rispettosi

delle  competenze  costituzionalmente   assegnate   e   riconosciute,

l'introduzione di una misura gravemente  sanzionatoria  quale  quella

indicata nella disposizione censurata,  e'  certamente  eccessiva  ed

irrimediabilmente lesiva di quelle prerogative di autonomia garantite

alla  Regione  dall'articolo  5  della  Costituzione  che  contempla,

esattamente al contrario, l'adeguamento dei principi e metodi statali

alle esigenze delle autonomie locali e del decentramento.

    Il comma 4 dell'articolo 3, in sintesi, per conseguire celermente

un  risultato  finanziariamente  apprezzabile,  sposta   un   profilo

afferente l'assetto  istituzionale,  concernente  il  rispetto  delle

relazioni e della reciproca competenza legislativa,  sull'asse  delle

relazioni  economiche  tra  Stato  e  Regioni,  imponendo,   con   un

meccanismo  radicalmente  afflittivo,  un  effetto  che  comunque  si

sarebbe realizzato attraverso  un  comportamento  normativo  autonomo

regionale, nel rispetto del dettato costituzionale.

    La disposizione, quindi, nell'ammettere un intervento statale, di

impatto talmente poderoso, in un  ambito  riservato  alla  competenza

legislativa  regionale,  viola  il  modello  di  ripartizione   delle

competenze  fra  Stato  e  Regioni  sancito  all'art.  117  Cost.  ed

attribuisce surrettiziamente allo Stato potesta'  legislative  avulse

dal sistema costituzionale vigente, perche' esorbitante i limiti  che

gli sono propri.

    Inoltre,  anche  volendo  ammettere,  per   extrema   ratio,   la

sussistenza di preminenti esigenze di  solidarieta'  nazionale  cosi'

incombenti da  giustificare  l'esercizio  unitario  di  una  funzione

«economica» parallela a quella  legislativa,  in  deroga  al  normale

riparto di competenze stabilito dall'articolo 117 Cost., in ogni caso

tale   modalita',   proprio   perche'   sminuente   una   prerogativa

costituzionalmente garantita, dovrebbe essere  soggetta  al  rispetto

del principio di leale collaborazione, quale correttivo indefettibile

dello   sbilanciamento   istituzionale   determinato   dall'interesse

all'esercizio  unitario  che,  si  rammenta,  di  per  se'  non  puo'

costituire autonomo parametro di legittimita' della norma.

    La necessita' dell'unitarieta' non puo' infatti  essere  invocata

come criterio aprioristico ed apodittico di invasione  in  ambiti  di

competenza regionale, ma deve essere concretamente  parametrata  alla

reale esigenza di concentrare in capo  allo  Stato  funzioni  che  in

ambito regionale non possono essere adeguatamente esercitate .

    Per tutto quanto  sopra  argomentato,  si  ribadisce  l'incidenza

lesiva dell'articolo 3, comma 4 impugnato, su  materie  riconducibili

alla  competenza  legislativa  regionale,  concorrente  e  riservata,

nonche' la mancanza di concertazione fra Stato e Regioni sul punto e,

quindi, la violazione del  principio  di  leale  collaborazione,  con

conseguente istanza di declaratoria di illegittimita'  costituzionale

della disposizione per violazione degli articoli 5, 117 e  120  della

Costituzione.

Profili di  illegittimita'  costituzionale  dell'articolo  5-bis  del

decreto-legge n. 138 del 2011, come convertito dalla legge n. 148 del

2011, per violazione degli articoli 5 e 119 della Costituzione.

    La norma si presenta di singolare  complessita'  strutturale  non

utilmente  sintetizzabile  e,  pertanto,  viene  quasi  integralmente

riproposta nel corso della trattazione.

    Il primo comma dell'articolo 5-bis, del decreto-legge  13  agosto

2011, n. 138  in  esame,  come  convertito  dalla  legge  n.148/2011,

infatti, prevede che la spesa - in termini di competenza e  di  cassa

effettuata annualmente  da  ciascuna  delle  «regioni  dell'obiettivo

convergenza (...) e del Piano per il Sud» a valere sulle risorse  del

fondo per lo sviluppo e la coesione  -  di  cui  all'articolo  4  del

decreto legislativo 31 maggio 2011, n. 88 «Disposizioni in materia di

risorse  aggiuntive  ed  interventi  speciali  per  la  rimozione  di

squilibri economici e sociali, a norma dell'articolo 16 della legge 5

maggio  2009,  n.  42»,  sui  cofinanziamenti  nazionali  dei   fondi

comunitari a finalita' strutturale, nonche' sulle risorse individuate

ai sensi di quanto previsto dall'articolo 6-sexies del  decreto-legge

25  giugno  2008,  n.  112  «Disposizioni  urgenti  per  lo  sviluppo

economico, la semplificazione, la competitivita', la  stabilizzazione

della finanza pubblica e la perequazione tributaria», convertito, con

modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133) - possa eccedere «i

limiti di cui all'articolo  1,  commi  126  e  127,  della  legge  13

dicembre 2010, n. 220, nel rispetto, comunque, delle condizioni e dei

limiti finanziari  stabiliti  ai  sensi  del  comma  2  del  presente

articolo».

    Inoltre,  il  comma  2  della  medesima  disposizione   impugnata

statuisce che i maggiori oneri derivanti dalla  deroga  ai  tetti  di

spesa fissati dalla c.d. legge di  stabilita'  2011  a  favore  delle

«regioni dell'obiettivo convergenza (..) e del  Piano  per  il  Sud»,

dovranno essere compensati attraverso l'attribuzione  allo  Stato  ed

alle  restanti  regioni  dei  relativi  maggiori  oneri  che  saranno

stabiliti con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze,  di

concerto con il Ministro per i rapporti  con  le  regioni  e  per  la

coesione territoriale.

    Lo scopo dell'intervento normativo, apparentemente indirizzato  a

predisporre  strumenti  di  sviluppo  territoriale  corredati   dalle

necessarie modalita' di  perequazione  finanziaria,  si  risolve,  in

sostanza, nell'introduzione di misure  speciali,  dichiaratamente  di

favore e per cio' stesso sperequative, destinate ad alcune Regioni, e

solo a quelle, peraltro identificabili  attraverso  la  locuzione  di

riferimento, che gia' versano in  grave  difficolta'  finanziaria  ed

istituzionale, con  contestuale  previsione  di  un  ripianamento  in

sanatoria dei disavanzi di tali Regioni, benche'  qualificabili  meno

«virtuose», mediante un rigido meccanismo di finanziamento  indiretto

a destinazione vincolata.

    Cercando di rendere piu' chiaramente intellegibile l'architettura

legislativa, risulta che tale modalita'  di  finanziamento  indiretto

consisterebbe, di diritto e di fatto, nella  possibilita',  accordata

alle «regioni dell'obiettivo convergenza (...) e  del  Piano  per  il

Sud» di eccedere, in termini di competenza e di cassa,  i  limiti  di

spesa posti dalla c.d. legge di stabilita' 2011  (legge  13  dicembre

2010, n. 220 «Disposizioni per la formazione del bilancio  annuale  e

pluriennale dello Stato»), a valere sulle risorse del  fondo  per  lo

sviluppo e la coesione di cui all'articolo 4 del decreto  legislativo

31 maggio 2011, n. 88.

    Siffatta impostazione, che il groviglio sintattico e  concettuale

palesato nella strutturazione della disposizione non riesce del tutto

a celare, si pone in evidente ed insanabile contrasto con  l'articolo

119  della  Costituzione,  che  sancisce  il  principio  della  piena

responsabilita' finanziaria gravante su  ciascun  ente  in  relazione

alle funzioni di cui e' tributario.  E  tale  inderogabile  principio

vale, a fortiori, per quelle Regioni, come l'odierna ricorrente,  che

lungi dall'essere tra le  possibili  destinatarie  del  finanziamento

indiretto con vincolo di destinazione,  proprio  perche'  «virtuose»,

sono tenute comunque a contribuire a quei  maggiori  oneri  derivanti

dalla deroga ai tetti di spesa fissati dalla c.d. legge di stabilita'

2011.

    L'articolo 119 della Costituzione,  in  effetti,  riconosce  agli

enti che compongono la  Repubblica,  e  tra  questi  certamente  alle

Regioni, autonomia finanziaria di entrata e di  spesa  e  disegna  il

sistema di finanziamento delle funzioni  loro  attribuite,  limitando

drasticamente la possibilita' che lo Stato possa  disporre  fondi  di

finanziamento a favore delle autonomie regionali e locali.  La  norma

della Carta fondamentale, infatti, legittima formalmente soltanto due

tipologie di fondi statali.

    Alla prima  di  dette  tipologie  sono  riconducibili:  il  fondo

perequativo, privo di vincoli di destinazione, di cui al comma  terzo

dell'art.119 Cost., utilizzabile per le  amministrazioni  con  minore

capacita' fiscale per  abitante  e  cumulabile  alle  entrate  ed  ai

tributi  propri  delle  amministrazioni  medesime,  unitamente   alla

compartecipazione  al  gettito  di  tributi  erariali  riferibile  al

territorio di pertinenza ai sensi dell'art. 119, comma secondo. Tutti

tali cespiti finanziari sono ordinariamente  destinati  a  finanziare

integralmente le funzioni pubbliche  attribuite  a  Regioni  ed  Enti

Locali ai sensi del comma quarto dell'art. 119 medesimo.

    L'altra tipologia consiste nelle  «risorse  aggiuntive»  e  negli

«interventi speciali» previsti  in  favore  di  determinate  Regioni,

Province, citta' metropolitane, Comuni, al  fine  di  «promuovere  lo

sviluppo economico, la coesione  e  la  solidarieta'  sociale,  (...)

rimuovere  gli  squilibri  economici  e   sociali,   (...)   favorire

l'effettivo esercizio dei diritti della persona, (...)  provvedere  a

scopi diversi dal normale esercizio delle loro  funzioni»,  ai  sensi

dell'art. 119, comma quinto.

    In  relazione  a  quanto  sopra  evidenziato,   sembra   corretto

concludere che l'intervento legislativo specificamente impugnato  non

possa essere annoverato, non possedendone le caratteristiche, ne' tra

i fondi perequativi, ne' tra quegli speciali stanziamenti di  cui  al

quinto comma dell'art. 119, come  richiamati.  Conseguentemente,  non

trovando  collocazione  nella   norma   della   Carta   fondamentale,

l'art.5-bis di cui si tratta dovrebbe considerarsi incompatibile  con

l'art. 119 della Costituzione, cosi' come innovata per effetto  della

gia' evocata riforma.

    In   altri   termini,   il   presente   patrocinio   reputa   che

l'ingiustificato privilegio - accordato ad alcune  regioni  che  gia'

beneficiano dell'attingimento a fondi  comunitari  -  di  superare  i

limiti di spesa imposti dal  sistema  finanziario  interno  a  tutela

della   stabilita'   economica,   snaturi   e   sradichi   il   nesso

istituzionalmente  e  giuridicamente  inscindibile  tra  attribuzione

delle risorse ed esercizio delle funzioni, rischiando di tradursi  in

un'elargizione ad hoc perseguita con discutibili  modalita'  oblique,

che codesta ecc.ma Corte ha gia' avuto modo di  vagliare,  censurando

l'introduzione nell'ordinamento di qualsiasi «strumento indiretto, ma

pervasivo, di ingerenza dello  Stato  nell'esercizio  delle  funzioni

delle regioni e degli enti locali, e di sovrapposizione di  politiche

e di indirizzi governati centralmente a quelli legittimamente  decisi

dalle regioni negli ambiti materiali  di  propria  competenza»  (cfr.

Corte cost., sentenza 16 gennaio 2004, n. 16).

    Infine, a completamento delle considerazioni  che  precedono,  si

sottopone all'attenzione di codesta ecc.ma Corte l'ulteriore  profilo

di illegittimita' della norma impugnata, desumibile  dall'irrazionale

preferenza riconosciuta alle sole «regioni dell'obiettivo convergenza

(...) e del Piano per il Sud», che si concreta in meccanismi  forieri

di un'ingiustificata e percio' iniqua diseguaglianza, che mina  nella

sostanza la stessa unita'  ed  indivisibilita'  dello  Stato  sancita

all'articolo  5  della  Costituzione.  La   previsione   oggetto   di

impugnazione,  per  i  considerevoli  contenuti  discriminatori   che

presenta,  e'  in  insanabile   contrasto   con   il   principio   di

responsabilita' finanziaria, che, allo scopo di impedire il protrarsi

di situazioni di  sperpero  e  non  corretto  impiego  delle  risorse

provenienti  dalla  fiscalita'  generale,  preclude  allo  Stato   la

possibilita'   di   attribuire   risorse   aggiuntive   ai   soggetti

istituzionali  che   abbiano   oltrepassato   i   limiti   finanziari

consentiti, ovvero  che  non  abbiano  utilizzato  le  disponibilita'

economiche   loro   attribuite   secondo   le   regole    di    buona

amministrazione.

    La condizione di  privilegio  riservata,  dalla  disposizione  in

esame, ad alcune regioni in ordine all'obbligo di rispetto dei limiti

di spesa, non si fonda, infatti, su valutazioni  oggettive  afferenti

determinate carenze infrastrutturali o immateriali  che,  in  termini

generali, potrebbero legittimare l'intervento legislativo di  favore,

rendendo  accettabili  eventuali  misure  perequative  necessarie   a

sostegno dell'unita' nazionale. Al contrario, la norma, basandosi  su

di una irragionevole, apodittica quanto ingiustificata presunzione di

inferiorita' infrastrutturale presupposta in alcune regioni, quasi si

trattasse di un fenomeno endemico, esacerba il dislivello giuridico e

finanziario, alterando le corrette relazioni  istituzionali  e  cosi'

rendendo del tutto illegittimo quell'obbligo di ripianamento, posto a

carico delle restanti Regioni, e, conseguentemente, si traduce in  un

altrettanto illegittimo depauperamento finanziario ed  istituzionale.

Va da se' che  le  risorse  destinate  alla  perequazione  provengono

necessariamente dai fondi altrimenti  destinati  all'esercizio  delle

funzioni di competenza.

    Alla luce  di  tutto  quanto  sopra  esposto,  si  insiste  nella

ritenuta  illegittimita'  costituzionale  dell'articolo   5-bis   del

decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138,  come  convertito  dalla  legge

n.148/2011, con conseguente istanza di declaratoria di illegittimita'

costituzionale della disposizione per violazione degli articoli  5  e

119 della Costituzione.

Profili di illegittimita' costituzionale dell'articolo 14, lett.  a),

b), c), d) ed e) del decreto-legge n. 138 del  2011,  convertito  con

legge n. 148 del 2011, per violazione degli articoli 117, 119  e  123

della Costituzione.

    Anche l'articolo 14, comma 1, del decreto-legge 13  agosto  2011,

n.  138  reca  disposizioni  che  si  pongono  in  palese  violazione

dell'autonomia statutaria della  Regione  sancita  dall'articolo  123

della Costituzione, nonche' dell'autonomia legislativa e  finanziaria

riconosciute dagli articoli 117 e 119 della Costituzione.

    Come  gia'  rilevato  in   riferimento   all'art.5-bis,   occorre

innanzitutto  porre  attenzione  alla  tecnica  utilizzata   per   la

redazione della specifica norma.

    Certamente   consapevole   del    rischio    di    illegittimita'

costituzionale evidentemente sotteso alle disposizioni in  esame,  il

legislatore nazionale, per ovviarvi, ricorre al meccanismo delle c.d.

«misure premiali» e rinvia  alle  norme  disciplinanti  il  patto  di

stabilita' interno, nella parte in cui il riferimento e'  fatto  alle

regioni appartenenti alla categoria degli enti piu' virtuosi.

    Giova,  al  riguardo,  richiamare  in  toto   il   primo   alinea

dell'articolo 14 secondo cui:

        «1.  Per   il   conseguimento   degli   obiettivi   stabiliti

nell'ambito del coordinamento della finanza pubblica, le Regioni,  ai

fini della  collocazione  nella  classe  di  enti  territoriali  piu'

virtuosa di cui all'articolo 20, comma 3, del decreto-legge 6  luglio

2011, n. 98, convertito, con modificazioni,  dalla  legge  15  luglio

2011, n. 111, oltre al  rispetto  dei  parametri  gia'  previsti  dal

predetto articolo 20, debbono  adeguare,  nell'ambito  della  propria

autonomia statutaria  e  legislativa,  i  rispettivi  ordinamenti  ai

seguenti ulteriori parametri (....)».

    Ebbene, ritenuto di non indugiare sui contenuti autoqualificatori

della  disposizione  assiomaticamente   rientrante   nell'alveo   del

«coordinamento della finanza pubblica» che, comunque, rappresenta  un

dato  assolutamente  irrilevante  (cfr.  Corte  cost.   sentenza   n.

182/2011; sentenza n. 237/2009), poiche' il  legislatore  statale  e'

tenuto  a  rispettare  nella  sostanza  i  limiti  costituzionalmente

imposti a tutela dell'autonomia regionale, non vi e'  dubbio  che  la

disposizione  disvela  il  tentativo  del  legislatore   statale   di

estendere l'ambito giustificativo del  «coordinamento  della  finanza

pubblica»  -  sia  pure  attraverso  il  ricorso  alle  c.d.  «misure

premiali» - oltre qualsiasi ragionevole  limite,  fino  al  punto  di

comprimere l'autonomia statutaria  regionale,  al  di  la'  del  mero

ossequio, chiaramente formalistico, espresso nella disposizione.

    In altri termini, lo scrivente patrocinio ribadisce che  l'ambito

legislativo  sotteso  alla  materia  «coordinamento   della   finanza

pubblica» non puo' essere dilatato al punto  da  ricoprire  qualsiasi

previsione legislativa dello Stato centrale, soprattutto quando detti

interventi manifestano ripercussioni tanto gravose  sul  piano  della

finanza pubblica quanto lesive sul piano istituzionale.

    Per  quanto  attiene  la  valutazione  afferente  le  circostanze

legittimanti la  sussistenza,  in  capo  allo  Stato,  dell'anzidetta

potesta' di coordinamento, ed i conseguenti limiti di esercizio della

stessa, si richiama il consolidato indirizzo interpretativo emergente

dalle pronunce di  codesta  ecc.ma  Corte  al  riguardo,  laddove  e'

chiarito che il riferimento alle  esigenze  di  «coordinamento  della

finanza  pubblica»  deve  comunque  «(....)  rispettare  il   riparto

concorrente della potesta' legislativa in tema di coordinamento della

finanza   pubblica,   (....)»    e    quindi    «(....)    permettere

l'estrapolazione, dalle singole  disposizioni  statali,  di  principi

rispettosi  di  uno  spazio   aperto   all'esercizio   dell'autonomia

regionale. In caso contrario,  la  disposizione  statale  non  potra'

essere ritenuta di principio (cfr. Corte cost.,  sentenza  n.159  del

2008), quale che ne sia l'eventuale  autoqualificazione  operata  dal

legislatore nazionale (cfr. Corte cost., sentenza n.237  del  2009)».

(cosi', testualmente, Corte cost. sentenza n. 182 del 2011).

    Orbene, appare di palmare evidenza come la norma  in  esame,  nel

determinare in maniera analitica le singole e minute voci di spesa su

cui la Regione dovrebbe intervenire per  essere  inclusa  nel  novero

delle amministrazioni «virtuose»,  viola  i  parametri  enucleati  da

codesta ecc. ma Corte sull'argomento e quindi si pone necessariamente

in contrasto, sia con l'articolo 117, comma 3, Cost., che, in materia

di coordinamento della finanza pubblica, consente allo Stato la  sola

legislazione di principio, sia con  l'articolo  119  Cost.  che,  nel

contesto  ermeneutico  risultante   dalla   copiosa   e   consolidata

giurisprudenza di legittimita' costituzionale, preclude allo Stato la

possibilita' di legiferare nel  dettaglio,  individuando  le  singole

voci di spesa da limitare, seppure  con  interventi  teleologicamente

orientati al rispetto dei vincoli comunitari di politica economica  e

monetaria, poiche' altrimenti verrebbe lesa  l'autonomia  finanziaria

regionale, costituzionalmente  garantita,  che  implica  la  facolta'

riconosciuta  a  ciascuna  regione  di  scegliere  le  modalita'   di

contenimento della spesa (cfr. ex plurimis, Corte cost.  le  sentenze

n. 36 del 2004; n. 390 del 2004; n. 417 del 2005; n. 449 del 2005; n.

88 del 2006; n. 297 del 2009; n. 182 del 2011 cit.).

    Quanto sopra  evidenziato  in  termini  generali  non  esaurisce,

tuttavia, la trattazione degli ulteriori  profili  di  illegittimita'

costituzionale che si rinvengono nelle singole disposizioni di cui la

norma impugnata si compone e che vengono  congiuntamente  considerati

in ragione del nesso argomentativo che li collega.

    In particolare, al comma 1 dell'art.14: la lettera  a)  determina

il numero massimo di consiglieri regionali in relazione al numero  di

abitanti della Regione; la lettera b) prevede un  numero  massimo  di

assessori  regionali  in  relazione  al  numero  dei  componenti  del

Consiglio  regionale;  la  lettera  c)  prevede  la  riduzione  degli

emolumenti ed utilita' in favore dei consiglieri regionali  entro  il

limite dell'indennita' massima spettante ai membri del Parlamento; la

lettera d) prevede  che  il  trattamento  economico  dei  consiglieri

regionali sia commisurato all'effettiva partecipazione ai  lavori  in

Consiglio regionale; la  lettera  e)  dispone  l'istituzione  dal 

gennaio 2012 di un collegio di Revisori dei  Conti  quale  organo  di

vigilanza sulla regolarita' contabile, finanziaria ed economica della

gestione dell'ente.

    Nonostante il legislatore  statale,  come  gia'  rilevato,  abbia

apparentemente posto la dovuta attenzione all'autonomia statutaria  e

legislativa delle Regioni, la  precisazione  riportata  nella  nonna,

secondo la  quale  l'adeguamento  degli  ordinamenti  regionali  deve

avvenire  «nell'ambito   della   propria   autonomia   statutaria   e

legislativa» si configura meramente formalistica  e  le  disposizioni

sopraindicate  sono  tutte  censurabili   in   quanto   indebitamente

interferenti proprio con quell'autonomia.

    In dettaglio, con riferimento alle disposizioni  contenute  nelle

lettere  a)  e  b),  relative  alla  determinazione  del  numero   di

consiglieri ed assessori, pare sufficiente riportare quanto  disposto

dall'articolo 123, primo comma della Costituzione, secondo  il  quale

«ciascuna Regione ha uno statuto che, in armonia con la Costituzione,

ne determina la  forma  di  governo  e  i  principi  fondamentali  di

organizzazione e funzionamento».

    Appare  difficilmente  opinabile  l'assunto  che  riconduce  alla

determinazione della forma di governo regionale anche la  definizione

dei rapporti intercorrenti tra gli organi fondamentali della Regione,

come  determinati  dall'articolo  121  della   Costituzione,   ovvero

Consiglio regionale, Giunta e suo Presidente.

    Codesta ecc.ma Corte ha gia' avuto occasione di affermare che «le

scelte fondamentali in ordine  al  riparto  delle  funzioni  tra  gli

organi regionali, ed in particolare tra il  Consiglio  e  la  Giunta,

alla loro organizzazione  e  al  loro  funzionamento  sono  riservate

dall'articolo 123 alla fonte statutaria. Tale  riserva  impedisce  al

legislatore  regionale  ordinario,   in   assenza   di   disposizioni

statutarie, di disciplinare la materia» (cfr. Corte  cost.,  sentenza

n. 188/2007).

    Se, dunque, i poteri e  le  relazioni  tra  Consiglio  regionale,

Giunta e suo Presidente costituiscono materia riservata agli  statuti

regionali, al medesimo ambito  vanno  ricondotte  necessariamente  le

ulteriori  specificazioni  dispositive,  tra  le  quali   particolare

rilevanza assume il numero dei  componenti  gli  organi  fondamentali

regionali.

    Sul punto si richiama quanto precisato da codesto ecc.mo Collegio

nella recentissima sentenza n. 188 del 2011, laddove  si  legge  che:

«l'art. 123  Cost.  prevede  l'esistenza  nell'ordinamento  regionale

ordinario di vere e proprie riserve normative a  favore  della  fonte

statutaria rispetto alle competenze del legislatore regionale»; e che

«nell'ambito di tali riserve normative, rientra la determinazione del

numero  dei  membri  del  Consiglio,  in   quanto   la   composizione

dell'organo legislativo regionale rappresenta una fondamentale scelta

politica sottesa alla determinazione della  forma  di  governo  della

Regione».

    Non pare, pertanto, potersi dubitare che  la  determinazione  del

numero dei consiglieri regionali si riflette sul sistema  di  governo

regionale, riservato agli statuti, e cio' non puo' non  valere  anche

con riguardo al numero degli assessori regionali.

    Si sostiene l'indiscutibile sussistenza della riserva  statutaria

di cui si tratta e  di  cui  lo  stesso  legislatore  statale  sembra

consapevole, laddove, con la disposizione censurata, sembra postulare

di  potersi  sottrarre  al  vaglio  di  legittimita'   costituzionale

strutturando formalmente la norma in termini di  facolta'  e  non  di

obbligo,  nel  senso  che  l'adeguamento  previsto  parrebbe  rimesso

all'autodeterminazione   di   ciascuna   Regione,   in    conformita'

all'anzidetta riserva statutaria.

    Tuttavia, in realta' cosi'  non  puo'  essere,  considerato  che,

creando una connessione inscindibile tra l'atteso  adeguamento  degli

ordinamenti regionali e le note  «misure  premiali»  -che  consentono

l'accesso ai benefici destinati alle amministrazioni c.d. «virtuose»,

o quantomeno precludono l'applicazione delle misure sanzionatorie  -,

l'esigenza primaria, data dalla necessita' di non subire aggravamenti

finanziari determinati dal mancato adeguamento, si  traduce,  per  le

Regioni, nella  necessita'  di  adempiere  ad  un  autentico  obbligo

generato, peraltro, da un'imposizione statale  incompatibile  con  l'

esercizio dell'autonomia statutaria.

    Parimenti lesiva  delle  competenze  regionali  si  configura  la

disposizione di cui all'articolo 14, comma 1  lett.  e),  che  impone

alle Regioni l'istituzione di un Collegio di Revisori dei Conti quale

organo di  vigilanza  sulla  regolarita'  contabile,  finanziaria  ed

economica della gestione dell'ente.

    Si  ritiene  che  l'ascrivibilita'  all'autonomia   organizzativa

regionale anche dei contenuti della disposizione de qua non abbisogni

di particolari argomentazioni.  Non  v'e'  dubbio,  infatti,  che  la

previsione  di  un   nuovo   organo   di   controllo   nel   contesto

dell'organizzazione regionale  spetti  solo  ed  esclusivamente  alla

Regione  stessa,  nell'ambito   dell'accresciuto   spazio   normativo

riconosciutole dal Titolo V della Costituzione, come novellato.  Tale

assunto non pare seriamente contestabile neppure qualora l'intervento

di cui si  tratta  venga  inteso  come  strumento  indispensabile  ad

incrementare  anche  qualitativamente  le  modalita'   di   controllo

gestionale  dell'ente  Regione  allo  scopo  di   razionalizzare   le

modalita' di contenimento della spesa pubblica e di  riduzione  degli

sprechi.

    Come codesta ecc.ma Corte ha piu' volte riconosciuto, infatti, la

materia dell'organizzazione amministrativa  regionale  e'  attribuita

alla competenza residuale delle Regioni prevista  dall'articolo  117,

quarto comma della  Costituzione,  da  esercitare  nel  rispetto  dei

principi fondamentali di organizzazione e funzionamento fissati negli

statuti (cfr. Corte cost., sentenza n. 188/2007 cit.).

    Infine, per quanto si riferisce alle disposizioni concernenti  il

trattamento economico dei  consiglieri  regionali,  la  norma  appare

censurabile  per  violazione  degli  articoli   117   e   119   della

Costituzione.

    Si richiama, in proposito la pronuncia di codesto ecc.mo Collegio

che, nella sentenza n.  157  del  2007,  ha  ribadito  come  la  gia'

menzionata legge n. 62 del 1953 abbia  rimesso  la  fissazione  delle

indennita'  spettanti  ai  titolari  delle  cariche  politiche  della

Regione alle leggi regionali e ai rispettivi statuti ed  attualmente,

per quanto riguarda la ricorrente, la legge regionale del  Veneto  30

gennaio 1997, n. 5 determina appunto il trattamento indennitario  dei

consiglieri regionali.

    Le lettere c) e d), al comma 1 dell'articolo  14,  riducendo  gli

emolumenti e le utilita', comunque denominati, previsti in favore dei

consiglieri  regionali  entro  il  limite   dell'indennita'   massima

spettante ai membri del parlamento, e prevedendo che  il  trattamento

economico degli stessi sia commisurato  all'effettiva  partecipazione

ai lavori del Consiglio  regionale,  pone  un  precetto  specifico  e

puntuale che si pone in palese contrasto sia con l'articolo 119 della

Costituzione che garantisce l'autonomia  finanziaria  regionale,  sia

con l'articolo 117, terzo comma della stessa, che, si  ribadisce  una

volta  di  piu',  impone  che  lo  Stato,  in   materia   legislativa

concorrente qual e'  il  coordinamento  della  finanza  pubblica,  si

limiti a fissare nonne di principio.

    Come costantemente affermato da codesta  Ecc.ma  Corte,  infatti,

«la legge statale puo' prescrivere criteri e obiettivi  (ad  esempio,

il contenimento della  spesa  pubblica),  non  imporre  alle  Regioni

minutamente gli strumenti  concreti  da  utilizzare  per  raggiungere

quegli obiettivi. Cio' si risolve in un'indebita invasione  dell'aera

riservata dall'art. 119 Cost. alle autonomie regionali»  (cfr.  Corte

cost., sent. n. 157 del 2007 cit.).

    Infine,  a  conferma  della   forzatura,   rispetto   ai   limiti

costituzionali, tentata dallo  Stato  con  gli  interventi  normativi

censurati supra, appare  pertinente  riportare  quanto  espresso  nel

parere sul disegno di legge di conversione del decreto-legge  n.  138

del  2011   approvato   dalla   I   Commissione   permanente   Affari

costituzionali del Senato in data 24 agosto 2011.

    La I Commissione aveva infatti espresso parere non  ostativo  sul

disegno di legge, a condizione che, «salvo contrasto  insanabile  con

norme costituzionali» fossero riformulati alcuni articoli, tra cui il

comma 1 dell'articolo 14.

    La richiesta di riformulazione si fondava sul  rilievo,  peraltro

del tutto ignorato  in  sede  di  conversione  del  decreto,  che  la

disposizione «pone la riduzione del numero dei  consiglieri  e  degli

assessori  regionali,  nonche'  delle  relative   indennita',   quali

elementi  necessari  per  il  conseguimento  delle  misure   premiali

relative alla nuova configurazione del patto di stabilita'. La  norma

appare lesiva  dell'autonomia  costituzionalmente  riconosciuta  alle

regioni, con particolare  riguardo  all'articolo  123,  primo  comma,

della Costituzione, che attribuisce a ciascuna regione, attraverso il

proprio statuto, la facolta' di determinare la forma di governo  e  i

relativi principi fondamentali di organizzazione e funzionamento».

Profili di illegittimita' dell'articolo 16, commi 1, 2, 3, 4,  5,  7,

8, 10, 11, 12, 13, 14 , 15 e 16, per violazione  degli  articoli  97,

114, 117, e 118 della Costituzione.

    L'articolo in esame impone ai comuni con popolazione fino a mille

abitanti di esercitare obbligatoriamente in forma associata tutte  le

funzioni    amministrative,    mediante    un'unione    di     comuni

dettagliatamente disciplinata nei commi specificati.

    La complessa norma, secondo quanto espressamente  indicato  nella

rubrica e nel relativo  comma  1  e'  finalizzata,  secondo  il  noto

meccanismo   di   autoqualicazione   ripetutamente   utilizzato   dal

legislatore  statale  nella  manovra  in  esame,  a  conseguire   due

differenti scopi cosi' riassumibili.

    In primo luogo e' perseguita la riduzione dei costi relativi alla

rappresentanza politica allo scopo  di  assicurare  il  conseguimento

degli obiettivi di coordinamento  di  finanza  pubblica,  nonche'  il

contenimento delle spese degli enti locali;

    In secondo luogo,  l'intervento  e'  dichiaratamente  finalizzato

alla  razionalizzazione  delle  modalita'  di  organizzazione   delle

funzioni  comunali  per   migliorare   l'esercizio   delle   funzioni

amministrative e  l'offerta  dei  servizi  pubblici.  Tali  obiettivi

dovrebbero essere conseguiti attraverso nuove ed  obbligatorie  forme

associative tra comuni, c.d. «unioni municipali», peraltro limitate a

quelle amministrazioni  con  densita'  abitativa  inferiore  a  mille

abitanti. Per i comuni  appartenenti  alla  fascia  con  densita'  di

popolazione  immediatamente  superiore  viene  inoltre  regolamentato

dettagliatamente l'assetto  ordinamentale  della  nuova  unione,  ivi

compresa la disciplina transitoria dal  previgente  regime  a  quello

innovativo, introdotto con le disposizioni censurate.

    Quanto sopra  premesso,  a  cornice  generale  del  complesso  di

disposizioni  che  la  norma  impugnata  presenta,  si   ritiene   di

analizzare   partitamente   dette    disposizioni,    apoditticamente

ricondotte dal legislatore statale nell'alveo dell'articolo 117 della

Costituzione,  e  piu'  precisamente  nell'ambito  della   competenza

legislativa esclusiva dello Stato.

    Preliminarmente si osserva come, qualora il testo legislativo  in

esame trovasse appropriata collocazione tra gli strumenti necessari a

perseguire  la  riduzione  dei  costi  ed  inserito  tra  le   azioni

indispensabili al raggiungimento dei noti e  difficili  obiettivi  di

finanza  pubblica,  le  puntuali  disposizioni  in   esso   contenute

dovrebbero  appartenere  alla  categoria   delle   c.d.   «norme   di

coordinamento della finanza pubblica» ed  automaticamente  ascriversi

all'omonima materia di competenza  concorrente  ai  sensi  del  comma

terzo dell'articolo 117 della Costituzione.

    Ancora  una  volta  si  ribadisce,  conformemente  alle  pronunce

formulate al riguardo da codesta ecc.ma Corte, che in tale materia la

disciplina di principio  dei  vincoli  finanziari,  vale  a  dire  il

contesto normativo rimesso alla competenza legislativa  dello  Stato,

si    configura    compatibile    con    l'autonomia    degli    enti

costituzionalmente  garantiti  come  le  Regioni  ed  i  Comuni  solo

allorquando stabilisca tassativamente  ed  esclusivamente  un  limite

complessivo di  intervento  -  avente  ad  oggetto  o  l'entita'  del

disavanzo di parte corrente o  i  fattori  di  crescita  della  spesa

corrente - lasciando agli enti stessi piena autonomia e  liberta'  di

allocazione delle risorse fra i diversi ambiti ed obiettivi di spesa.

(cfr. Corte cost., sentenza n. 417 del 2005).

    Infatti appare ormai consolidato l'orientamento del giudice delle

leggi secondo il quale «norme statali che fissano limiti  alla  spesa

delle Regioni e  degli  enti  locali  possono  qualificarsi  principi

fondamentali di coordinamento della finanza  pubblica  alla  seguente

duplice condizione: in primo luogo, che si limitino a porre obiettivi

di riequilibrio della medesima, intesi nel senso  di  un  transitorio

contenimento  complessivo,  anche  se  non  generale,   della   spesa

corrente; in secondo luogo,  che  non  prevedano  in  modo  esaustivo

strumenti o modalita' per il  perseguimento  dei  suddetti  obiettivi

(cfr. in tal senso Corte cost., sentenze n. 289 e n. 120 del 2008, n.

139 del 2009 e n. 326 del 2010).»

    Per converso, le disposizioni suindicate integrano,  invece,  una

disciplina di  dettaglio  ed  autoapplicativa  che  non  puo'  essere

ricondotta alla nozione di principio fondamentale della  materia  del

coordinamento  della  finanza  pubblica.  Ed  invero  si  tratta   di

imposizioni di carattere imperativo e puntuale a cui soggiacciono  in

via diretta  le  amministrazioni  comunali  ed  in  via  riflessa  le

Regioni, alle quali non e' lasciata  alcuna  autonomia  opzionale  in

aperta  violazione  dell'articolo  114  della  Costituzione,  secondo

comma, per il quale «I Comuni, le Province, le Citta' metropolitane e

le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri  e  funzioni

secondo i principi fissati dalla Costituzione.».

    La censura che precede, nel senso della violazione del  precitato

principio costituzionale di equiordinazione,  posto  a  tutela  delle

autonomie locali e delle Regioni, deve essere riproposta in relazione

al comma 7 dell'articolo 16, che impone ex lege la  cessazione  delle

precedenti forme associative  previste  nel  decreto  legislativo  18

agosto 2000, n. 267 (c.d. Testo unico degli enti locali),  sostituite

da quelle indicate nella riforma.

    Non puo', pertanto, non suscitare considerevoli  perplessita'  la

dichiarata finalita' del conseguimento  degli  obiettivi  di  finanza

pubblica   che   accompagna   l'intervento   impugnato   dall'odierna

ricorrente, quasi si trattasse di un'egida  di  cosi'  ampia  valenza

protettiva da giustificare intromissioni  cosi'  lesive  nel  tessuto

delle garanzie costituzionali.

    In proposito, infatti, nelle disposizioni  in  commento,  per  un

verso risulta assente la  necessaria  indicazione  del  risparmio  di

spesa conseguente, mentre,  per  altro  verso,  l'effetto  dirompente

della norma risulta piu' di carattere ordinamentale che  finanziario,

particolarmente laddove vengono disciplinati compiutamente gli organi

della nuova forma associativa, eccezion  fatta,  ovviamente,  per  il

comma 15 afferente le indennita' spettanti ai consiglieri nonche' gli

emolumenti degli amministratori.

    Per  affrontare  correttamente  la  questione  incentrata   sulla

legittimita'  della  norma  impugnata,   appare   utile   soffermarsi

sull'inquadramento costituzionale della manovra legislativa posta  in

essere, specificamente  per  quanto  attiene  la  collocazione  della

razionalizzazione  delle  funzioni  amministrative  e   dei   servizi

pubblici di spettanza comunale, che si dubita costituisca un  profilo

riconducibile  de  plano  alla   lettera   p)   del   comma   secondo

dell'articolo 117 della Costituzione.

    Ed invero la locuzione «funzioni fondamentali di Comuni, Province

e Citta' metropolitane», contemplata  alla  lettera  p)  della  norma

predetta, si riferisce espressamente alle funzioni individuate  dallo

stesso  legislatore   statale,   anche   se   in   via   provvisoria,

nell'articolo 21, comma 3 della legge 5 maggio 2009,  n.  42  recante

«Delega al Governo in materia di federalismo fiscale,  in  attuazione

dell'articolo 119 della Costituzione.» e  successivamente  confermate

nell'articolo 3, comma 1,  lettera  a)  del  decreto  legislativo  26

novembre  2010,  n.  216  rubricato  «Disposizioni  in   materia   di

determinazione dei costi e dei fabbisogni standard di Comuni,  Citta'

metropolitane e Province.» Si rammenta, in proposito, che entrambe le

disposizioni citate si riferiscono alle sole funzioni fondamentali di

competenza delle amministrazioni comunali.

    Per converso le disposizioni  in  commento  si  riferiscono  alla

totalita'  delle  funzioni  amministrative  ed  ai  servizi  pubblici

locali, ivi comprese anche quelle non qualificabili come fondamentali

e, pertanto, non appartenenti all'ambito necessariamente assoggettato

alla potesta' legislativa esclusiva statale di cui all'articolo  117,

comma secondo, lettera p) della Costituzione.

    Tuttavia, a sostegno della ritenuta ipotesi di  un  inammissibile

esercizio, da  parte  dello  Stato,  della  potesta'  legislativa  in

subiecta materia,  in  violazione  di  quanto  consentito  a  termini

dell'art.117, comma secondo,  lettera  p),  si  rinvengono  ulteriori

argomenti in relazione agli «organi  di  governo»  contemplati  dalla

norma in esame.

    Invero, l'indicazione contenuta negli articoli 114 e  117,  comma

secondo, lettera  p)  della  Carta  fondamentale,  laddove  e'  fatto

riferimento  a  Comuni,  Province,  citta'  metropolitane,   presenta

carattere  tassativo,  nel  senso  che  si  dubita  che  le  garanzie

costituzionali espresse dalle  norme  citate  possano  estendersi  ad

eventuali  forme  associative,   comunque   composte.   A   suffragio

dell'assunto, si richiamano le pronunce di  codesta  ecc.ma  Corte  a

proposito delle Comunita' montane.

    Infatti, per un verso e' stato esplicitamente  escluso  che  tali

enti, seppure integranti peculiari  unioni  di  Comuni,  appartengano

all'anzidetto contesto  costituzionale  (cfr.  Corte  cost.  sentenza

n.397 del 2006); per altro verso, richiamando quanto affermato  nella

sentenza n. 244 del 2005, e' stata inequivocabilmente individuata  la

natura giuridica delle Comunita' montane che  rappresentano  un  caso

speciale di unione di  Comuni,  in  quanto  «create  in  vista  della

valorizzazione delle zone montane, allo scopo di esercitare, in  modo

piu' adeguato di  quanto  non  consentirebbe  la  frammentazione  dei

comuni montani, "funzioni proprie", "funzioni conferite" e  "funzioni

comunali" (cfr. Corte cost. sentenza n. 229  del  2001)  e  che  tale

qualificazione pone in evidenza l'autonomia di tali  enti  (non  solo

dalle Regioni ma anche dai Comuni)  ,  come  dimostra,  tra  l'altro,

l'espressa attribuzione  agli  stessi  della  potesta'  statutaria  e

regolamentare (art. 4, comma 5, della legge n. 131 del 2003).»

    Se, dunque, alle Comunita' montane e' stata riconosciuta, pur non

essendo  enti  costituzionalmente  garantiti,   specifica   autonomia

statutaria e regolamentare, non si vede  per  quale  ragione  analoga

autonomia non dovrebbe  essere  riconosciuta  alle  nuove  figure  di

unioni di comuni, anche  per  quanto  concerne  l'individuazione  dei

propri organi di governo.

    Invece, l'art. 16, nelle disposizioni contenute ai commi da 10  a

14, disciplina appunto gli organi di governo  dell'unione  municipale

dei  comuni,  che,   per   quanto   forma   istituzionale   destinata

all'esercizio associato di funzioni di Comuni,  e'  ente  diverso  ed

autonomo dalle amministrazioni di cui si  compone.  Conseguentemente,

per  quanto  sopra  esposto,  non  essendo  tali  unioni   municipali

giuridicamente  assimilabili  ai  Comuni,  men   che   meno   secondo

meccanismi  di  interpretazione  estensiva  inconciliabili   con   la

tassativita' del dettato costituzionale, le stesse sono da  ritenersi

escluse dall'ambito di riferimento proprio degli  artt.  114  e  117,

comma secondo, lettera p) della Costituzione e, per cio' stesso,  non

sono imputabili alla titolarita' legislativa statale.

    Orbene, se da quanto supra argomentato appare di  tutta  evidenza

come  la  potesta'  legislativa  esclusiva  dello  Stato  non   possa

legittimamente estendersi oltre i limiti  rigorosamente  segnati  dai

campi di disciplina espressamente menzionati  nella  lettera  p)  del

secondo comma dell'articolo 117 Cost., non pare temerario  affermare,

al riguardo, la sussistenza di una competenza  legislativa  residuale

delle Regioni, in base al criterio di  riparto  stabilito  nel  nuovo

articolo 117 della Costituzione, che, elencando solo  le  materie  di

competenza esclusiva statale e di competenza concorrente, consente di

far rifinire  nella  potesta'  residuale  delle  Regioni  quelle  non

esplicitamente incluse nell'uno o nell'altro ambito.  (cfr.,  in  tal

senso, Corte cost., sentenza n. 261 del 2011).

    Se i principi affermati da codesta ecc.ma Corte, con  riferimento

al fenomeno dell'associazionismo  proprio  delle  Comunita'  montane,

sono  valevoli  anche  in  relazione  alle  forme  associazionistiche

espresse  dalla  disciplina  oggetto   delle   censure   dell'odierna

ricorrente, non puo' non  lamentarsi  la  lesione  delle  prerogative

riconosciute alle Regioni in materia, atteso  che  l'«associazionismo

comunale», non  essendo  riconducibile  alla  lettera  p)  del  comma

secondo dell'articolo 117 della Costituzione ne' al comma  terzo  del

medesimo articolo,  deve  essere  di  sicura  competenza  legislativa

esclusiva regionale.

    Nell'annosa  questione   afferente   l'eccessiva   frammentazione

istituzionale connessa all'evidente  inadeguatezza  delle  dimensioni

demografiche e territoriali di alcuni Comuni italiani, alla quale  in

piu'  riprese  si  e'  cercato  di  ovviare  sia  con  l'introduzione

nell'ordinamento di incentivi alla fusione, sia con l'imposizione  di

limiti demografici all'istituzione di nuovi  Comuni,  la  Regione  ha

sempre svolto  un  ruolo  fondamentale,  particolarmente  per  quanto

attiene  il  profilo  organizzativo  afferente  la   gestione   degli

incentivi di tipo economico.

    Infatti e'  sempre  stata  la  Regione  il  soggetto  deputato  a

regolamentare le modalita' concessorie di  questi  ultimi  incentivi,

destinati a favorire l'esercizio associato delle funzioni, nonche' ad

individuare i livelli  ottimali  di  dimensionamento  demografico  da

definire in concerto con gli enti locali, come previsto,  ad  esempio

nell'articolo 3 del decreto legislativo  n.  112  del  1998,  nonche'

all'articolo 33 del decreto legislativo n. 267 del 2000.

    Tuttavia  si  rinviene  una   differenza   sostanziale   tra   le

disposizioni da ultimo menzionate e quelle in  commento,  atteso  che

solo nelle prime e non nelle seconde si riscontra  il  riconoscimento

espresso della titolarita' legislativa regionale e  si  riafferma  la

piena liberta' dei Comuni circa la determinazione volta a  modificare

il proprio assetto funzionale,  poiche'  gli  stessi  esercitano  «le

funzioni in forma associata, individuando autonomamente  i  soggetti,

le forme e le metodologie, entro il termine temporale indicato  dalla

legislazione regionale».

    Ribadita la non condivisibilita', per tutto quanto sopra esposto,

della  posizione  interpretativa  che  pretende  di   ricondurre   il

complesso normativo in esame all'alveo della  competenza  legislativa

di esclusiva spettanza statale a termini dell'art.117, comma secondo,

lettera p),  a  sostegno  della  lesione  della  ritenuta  competenza

residuale sussistente in tema di associazionismo, si  richiama  anche

quanto recentemente disposto con l'art.14,  commi  da  27  a  31  del

decreto-legge 31 maggio 2010, n.78,  convertito,  con  modificazioni,

con la legge 30  luglio  2010,  n.  122,  che  aveva  introdotto  una

disciplina  concernente  l'associazionismo  comunale  di  improbabile

armonizzazione con quella di cui ora si discute.

    Tale  norma,  infatti,   si   configura   aderente   al   dettato

costituzionale, specialmente operando le doverose distinzioni che  il

riparto di competenze attualmente vigente impone  e  prevede  che  le

Regioni, nelle materie di cui ai commi terzo  e  quarto  dell'art.117

Cost. possano individuare con propria legge la  dimensione,  ottimale

ed omogenea all'interno  dell'area  geografica,  per  l'esercizio  di

funzioni comunali in  forma  associata,  con  facolta'  di  stabilire

limiti demografici diversi da quelli determinati dallo Stato.  Ma  se

la disposizione richiamata ha riconosciuto  la  competenza  normativa

regionale in  fattispecie  per  le  quali  l'intervento  statale  era

limitato  alla  previsione  dell'associazionismo   quale   forma   di

esercizio delle sole funzioni fondamentali, non  si  vede  per  quale

ragione tale competenza dovrebbe essere venuta meno  con  riferimento

all'associazionismo quale forma di esercizio  di  tutte  le  funzioni

amministrative, incluse quelle non fondamentali.

    Infine, si reputa di evidenziare un  ulteriore  profilo  critico,

certamente  di  non  secondaria  rilevanza.  Proprio  la  titolarita'

legislativa regionale in materia di associazionismo, riconosciuta nel

gia' citato comma 30 dell'articolo 14 del  decreto-legge  n.  78  del

2010, viene  a  distanza  di  poco  piu'  di  un  anno  integralmente

disconosciuta dalle disposizioni in  commento.  Tale  successione  di

leggi in tempi  cosi'  ravvicinati  e  con  modalita'  redazionali  e

contenuti cosi  inconciliabili,  genera  un'insostenibile  incertezza

normativa,   oltre   a   pregiudicare   sensibilmente   la   concreta

operativita' delle amministrazioni comunali anche per quanto concerne

l'esercizio delle funzioni amministrative di competenza regionale, in

violazione del principio di buon andamento dell'azione amministrativa

tutelato dall'art. 97 della Costituzione.

    Si segnala, per completezza, che,  proprio  in  attuazione  della

normativa delineata dal decreto-legge n. 78 del 2010, la Regione  del

Veneto, con il progetto di legge di iniziativa della Giunta regionale

n.  196  del  2011,  ha  legittimamente  avviato  il   proprio   iter

legislativo di riordino.

    Ma v'e' di piu'. Le norme in esame si  configurano  lesive  delle

attribuzioni costituzionalmente riconosciute alle Regioni in tema  di

associazionismo comunale non soltanto per quanto concerne l'esercizio

della potesta' legislativa, ma anche per quanto concerne  l'esercizio

della potesta' amministrativa, ai sensi dell'art.118 Cost..  Infatti,

il contenuto di dettaglio  espresso,  con  imposizione  autoritativa,

nelle disposizioni censurate, anche relativamente a funzioni  diverse

da quelle di esclusiva spettanza statale,  nella  misura  in  cui  si

riferisce a funzioni amministrative di competenza regionale, non puo'

non generare un'evidente violazione anche al  riparto  di  competenze

amministrative di cui all'articolo 118 della Costituzione.

    Il modello di unione di Comuni delineato ed imposto dallo  Stato,

connotato da genericita' ed indifferenziazione,  non  puo'  definirsi

aprioristicamente idoneo a garantire quelle  esigenze  di  efficienza

organizzativa    che     rappresenta     l'indispensabile     portato

dell'allocazione ottimale delle funzioni, in ossequio a quei principi

di sussidiarieta', differenziazione  ed  adeguatezza  che  dovrebbero

connotare il sistema di amministrazione  locale.  In  tal  senso,  il

conferimento, fatto agli Enti locali con legge regionale, di funzioni

amministrative nelle materie  di  competenza  legislativa  regionale,

costituisce  appunto  la  declinazione   in   concreto,   nell'ambito

territoriale  proprio,  degli  anzidetti  principi,  allo  scopo   di

razionalizzare, secondo criteri oggettivi e consapevoli,  l'esercizio

delle funzioni amministrative. Correlativamente, analoga  valutazione

in ordine  alle  caratteristiche  peculiari  delle  singole  funzioni

suscettibili di diversa allocazione, compete allo Stato nelle materie

di propria esclusiva attribuzione. Qualora, invece, l'esercizio delle

funzioni  amministrative  di  spettanza  regionale  subisca  indebite

compressioni per effetto di interventi normativi statali autoritativi

e generalizzati, non puo' non  ritenersi  sussistente  la  violazione

dell'articolo 118 della Costituzione, nei termini sopra descritti,  e

cioe' in riferimento alle prerogative regionali circa l'esercizio  di

funzioni amministrative.

    In via  meramente  incidentale,  si  rammenta  che  l'imposizione

all'adozione  di  una  determinata  forma   organizzativa   di   tipo

associativo appare altresi' lesiva  dell'articolo  117,  comma  sesto

della  Costituzione,  che  riconosce  ai  Comuni  autonoma   potesta'

regolamentare in ordine alla disciplina dell'organizzazione  e  dello

svolgimento delle funzioni loro attribuite  ed  a  tale  ambito  deve

necessariamente   essere   ricondotta    la    scelta    metodologica

concretantesi   nell'esercizio   delle   funzioni    secondo    forme

associative.

    Del  resto,  la  liberta'  di  organizzazione  riconosciuta   dal

legislatore statale ai Comuni e'  indiscutibile  ed  e'  testimoniata

dalla  pluralita'  di  disposizioni  in  materia  di  associazionismo

comunale tuttora vigenti e presenti nell'ordinamento, secondo  cui  i

comuni esercitano  «le  funzioni  in  forma  associata,  individuando

autonomamente i soggetti, le forme e le metodologie, entro il termine

temporale indicato dalla legislazione regionale.» e  tale  violazione

puo' essere legittimamente  prospettata  anche  dalla  Regione,  come

chiarito da codesta ecc.ma Corte nelle decisioni n. 196 del 2004 e n.

417 del 2005.

    Da  ultimo,  si  reputa  di  affrontare  separatamente  la  norma

contenuta al comma 28 dell'articolo 16, che specifica  la  pluralita'

di poteri attribuiti al Prefetto allo scopo di vigilare in ordine  al

veloce conseguimento degli obiettivi individuati.

    Innanzitutto si impone a tale Autorita' di  accertare  l'avvenuta

attuazione, da parte di tutti gli enti locali interessati, di  quanto

stabilito all'articolo 2, comma 186, lettera e) della  legge  n.  191

del 2009 e all'articolo 14, comma 32 della legge 31 maggio  2010,  n.

78,  cui  consegue,  nelle  ipotesi   di   acclarato   inadempimento,

l'esercizio del potere sostitutivo statale.

    In sostanza la disposizione prevede che, al fine di verificare il

perseguimento degli obiettivi di  semplificazione  amministrativa  ed

organizzativa, nonche' di riduzione delle spese effettuate dagli enti

locali,  il  Prefetto  debba  accertare  che  gli  enti  territoriali

interessati abbiano  proceduto  alla  soppressione  dei  consorzi  di

funzioni tra gli enti  locali,  ad  eccezione  dei  bacini  imbriferi

montani, e si siano conformati  al  divieto  imposto  ai  comuni  con

popolazione inferiore a trenta mila abitanti di costituire  societa'.

L'accertamento evidenziante l'inadempienza dell'Ente locale determina

l'attivazione dell'intervento sostitutivo statale.

    Per  le  modalita'  dell'esercizio  del  potere  sostitutivo   la

disposizione rinvia all'articolo 8, commi 1, 2, 3 e 5 della  legge  5

giugno  2003,  n.  131  recante   «Disposizioni   per   l'adeguamento

dell'ordinamento  della  Repubblica  alla  legge  costituzionale   18

ottobre  2001,  n.  3.»  che  attua  appunto  l'articolo  120   della

Costituzione.

    In proposito, ed in via preliminare, la difesa  regionale  rileva

che il potere sostitutivo di cui si tratta pare  esulare  dall'ambito

proprio dell'articolo 120 della Costituzione che consente al  Governo

di legittimamente sostituirsi  agli  organi  dei  Comuni  solo  nelle

ipotesi tassativamente ivi elencate, ovvero per:  a)mancato  rispetto

di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria;  b)

pericolo grave per l'incolumita' e la sicurezza pubblica;  c)  tutela

dell'unita' giuridica ed  economica  con  particolare  riguardo  alla

tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti

civili e sociali e  tali  fattispecie  sono  certamente  tipizzate  e

tassative.

    Orbene e' palese ed incontrovertibile come nessuna delle  ipotesi

sopra riportate possa attagliarsi ad un contesto come quello  oggetto

della norma censurata, nella quale, per  esplicita  affermazione  del

medesimo legislatore statale, gli unici obiettivi posti a  fondamento

dell'intervento sono quelli della semplificazione e  della  riduzione

delle spese.

    Ne' si  reputa  condivisibile  la  posizione  interpretativa  che

vorrebbe ricondurre il potere sostitutivo  de  quo  ad  una  ritenuta

preminente esigenza di garanzia dell'unita' economica, intesa come il

complesso  della  macroeconomia  nazionale,  costituito  da   moneta,

risparmio e mercati finanziari, ai sensi dell'art.117, comma secondo,

lettera  e)  della  Costituzione,  atteso   che   la   finalita'   di

contenimento della spesa pubblica e'  perseguibile  dallo  Stato  con

mere previsioni normative di principio,  nell'alveo  del  piu'  volte

menzionato sistema di coordinamento della finanza pubblica di cui  al

comma terzo della Costituzione, e  non  puo'  quindi  legittimare  il

potere sostitutivo statale in argomento.

    Ad avviso del  patrocinio  regionale,  la  circostanza  che  tale

potere sostitutivo si configuri come straordinario, e  come  tale  e'

appunto definito in alcune  decisioni  di  codesta  ecc.ma  Corte,  e

collocato in posizione aggiuntiva  rispetto  alle  altre  ipotesi  di

potere  sostitutivo  c.d.  ordinario,  non  puo'  consentire   alcuna

violazione del riparto  di  competenze  tutelato  e  garantito  dagli

articoli 117 e 118 della Costituzione.

    Se, infatti, il potere sostitutivo straordinario  si  pone  quale

presidio ad esigenze avvertite  come  fondamentali,  di  eguaglianza,

sicurezza e legalita' la cui tutela  appare  necessaria  al  fine  di

garantire unita' e coerenza dell'ordinamento, mentre quello ordinario

e' correlato necessariamente all'esercizio della potesta' legislativa

statale  ed  alla  potesta'  afferente  l'esercizio  delle   funzioni

amministrative  attribuite   ai   sensi   dell'articolo   118   della

Costituzione, le esigenze di coordinamento  della  finanza  pubblica,

sottese  alla  disposizione  censurata,  non  sono  in   alcun   caso

perseguibili anche mediante il ricorso ad un  intervento  sostitutivo

straordinario, ma al piu'  a  quello  ordinario,  nei  termini  sopra

riportati.

    In altre parole,  al  di  fuori  delle  ipotesi  prospettate,  si

profila la violazione tanto dell'art. 117 quanto dell'art. 118  della

Costituzione.

    Questo perche', in sostanza, il mero principio  di  coordinamento

della finanza pubblica, integrato rispettivamente da  un  obbligo  di

soppressione dei consorzi di funzioni e da un divieto di costituzione

di  societa',  e'   strumentale   all'esercizio   di   una   funzione

amministrativa   che,   in   conformita'   all'articolo   118   della

Costituzione, puo' rientrare anche in ambiti di competenza regionale.

Non pare contestabile che il Comune possa aver deciso  di  costituire

un consorzio per l'esercizio di funzioni amministrative di competenza

regionale ai sensi dell'art. 117  della  Costituzione,  conferite  ai

Comuni ai sensi del successivo art. 118.

    In tale fattispecie l'esercizio di un potere sostitutivo  statale

che sfociasse nella nomina di un commissario ad acta con  il  compito

di sopprimere il consorzio produrrebbe  effetti  sulle  modalita'  di

esercizio di una funzione amministrativa di attribuzione non statale,

ma regionale.

    Analoghe considerazioni  di  carattere  concretamente  gestionale

possono essere elaborate  in  riferimento  alla  disciplina  relativa

all'eventuale partecipazione societaria, circoscritta all'ambito  dei

servizi  pubblici,  per  quanto  tale  contesto  presenti  certamente

connotati  di  maggiore  complessita',  che  non  tollerano   sterili

generalizzazioni.

    D'altro canto, e' pacificamente ammessa la  legittimita'  di  una

legge regionale che «intervenendo in materie di propri competenza,  e

nel disciplinare, ai sensi dell'art. 117, terzo  e  quarto  comma,  e

dell'art. 118, primo e secondo comma, della Costituzione, l'esercizio

di funzioni amministrative di competenza dei  Comuni,  preveda  anche

poteri sostitutivi in capo ad organi regionali, per il compimento  di

atti  o  di  attivita'  obbligatorie,  nel  caso  di  inerzia  o   di

inadempimento da parte dell'ente competente, al fine di salvaguardare

interessi  unitari   che   sarebbero   compromessi   dall'inerzia   o

dall'inadempimento medesimi» (cfr. Corte cost., sentenza  n.  43  del

2004).

    Ne discende che il potere sostitutivo statale non puo' e non deve

riguardare amministrazioni che esercitano funzioni amministrative  di

competenza regionale ai sensi dell'articolo 118  della  Costituzione.

Al riguardo, nella decisione n. 303 del 2003, codesta ecc.ma Corte ha

affermato che «Nel nuovo Titolo V  l'equazione  elementare  interesse

nazionale  =  competenza  statale,  che  nella   prassi   legislativa

previgente sorreggeva  l'erosione  delle  funzioni  amministrative  e

delle parallele funzioni legislative delle Regioni, e' divenuta priva

di  ogni  valore  deontico,  giacche'   l'interesse   nazionale   non

costituisce piu' un limite, ne' di legittimita', ne' di merito,  alla

competenza legislativa regionale.»

 

                              P. Q. M.

 

    Chiede che codesta ecc. ma Corte costituzionale,  accogliendo  il

presente ricorso, voglia dichiarare la illegittimita'  costituzionale

dell'articolo 3, comma 4, 5-bis, 14, comma 1, lettere a), b), c),  d)

ed e), 16, commi 1, 2, 3, 4, 5, 7, 8, 10, 11, 12, 13, 14,  15,  16  e

28, del decreto-legge 13 agosto 2011,  n.  138,  recante:  «Ulteriori

misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo»,

pubblicato nel testo  coordinato  con  la  legge  di  conversione  14

settembre 2011, n. 148,  nella  Gazzetta  Ufficiale  n.  216  del  16

settembre 2011, per violazione degli articoli 3,  5,  97,  114,  117,

118, 119 e 120 della Costituzione.

    Si allega:

        1) copia conforme  all'originale  della  deliberazione  della

Giunta  regionale  del  Veneto  8   novembre   2011   n.   1790,   di

autorizzazione alla proposizione del ricorso.

          Venezia - Roma, addi' 14 novembre 2011

 

               avv. Zanon - avv. Palumbo - avv. Manzi

 

    Ai sensi e per gli effetti dell'articolo 1, comma 1, lettera  c),

della legge 7 giugno 1993, n. 183 «Norme in materia di  utilizzazione

dei  mezzi  di  telecomunicazione  per  la  trasmissione  degli  atti

relativi   a   procedimenti   giurisdizionali»,   dichiaro   conforme

all'originale il suesteso atto trasmesso a mezzo fax.

 

                             Avv. Zanon

 

    Ai sensi e per gli effetti dell'articolo 1, comma 1, lettera  c),

della legge 7 giugno 1993, n. 183 «Norme in materia di  utilizzazione

dei  mezzi  di  telecomunicazione  per  la  trasmissione  degli  atti

relativi a procedimenti  giurisdizionali»,  sottoscrivo  il  suesteso

atto ut supra dichiarato conforme all'originale e trasmesso  a  mezzo

fax.

 

                             Avv. Manzi

 

 

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