Ricorso per questione di legittimita'  costituzionale  depositato  in

cancelleria il 23 novembre 2011 (della Regione Umbria).

 

 

(GU n. 1 del 4.1.2012)

 

    Ricorso della Regione Umbria, in  persona  del  Presidente  della

Giunta  regionale  pro-tempore  Catiuscia  Marini,  autorizzata   con

deliberazione della Giunta regionale del 14 novembre  2011,  n.  1332

(doc. 1), rappresentata e difesa, come da procura speciale a  margine

del presente atto, dall'avv. Paola Manuali dell'Avvocatura regionale,

dall'avv. prof. Giandomenico Falcon di Padova, dall'avv. prof. Franco

Mastragostino di  Bologna  e  dall'avv.  Luigi  Manzi  di  Roma,  con

domicilio  eletto  in  Roma  nello  studio  di  quest'ultimo  in  via

Confalonieri, n. 5;

    Contro  il  Presidente  del  Consiglio  dei   ministri   per   la

dichiarazione di illegittimita' costituzionale del  decreto-legge  13

agosto  2011  n.  138,  recante  Ulteriori  misure  urgenti  per   la

stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo, in quanto  convertito,

con modificazioni, nella legge n.  148  del  2011,  pubblicata  nella

Gazzetta Ufficiale n. del 16 settembre  2011,  con  riferimento  alle

seguenti disposizioni:

        articolo 3, commi 2, 3, 4„ 10 e 11; articolo 4, commi 8 e 12,

13, 14, 32 33; articolo 11; articolo 14, comma 1; articolo 16,

    per violazione:

        - degli articoli 3, 5, 75, 77, 97, 100, 103, 114,  117,  118,

119, 121, 123 e 133 della Costituzione;

        -   del   principi   di   legalita'   sostanziale,   di   non

discriminazione e di ragionevolezza, di certezza  del  diritto  e  di

leale collaborazione;

    nei modi e per i profili di seguito illustrati.

 

                                Fatto

 

    Il decreto-legge 13 agosto 2011 n. 138  ha  introdotto  ulteriori

misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo  sviluppo.

Esso e' stato poi convertito, con modificazioni, nella legge  n.  148

del 2011.  La  presente  impugnazione  si  rivolge  dunque  a  talune

disposizioni del decreto-legge, in quanto esse sono state  convertite

dalla citata legge e nella forma che con essa hanno assunto.

    Naturalmente la Regione Umbria e'  ben  consapevole  delle  gravi

ragioni, legate alla situazione della  finanza  pubblica,  che  hanno

fornito la motivazione  per  le  diverse  disposizioni  del  decreto.

Ritiene pero' che anche le misure restrittive  debbano  muoversi  nel

quadro delle regole costituzionali dei  rapporti  tra  lo  Stato,  le

Regioni e le autonomie locali, e che anzi il rispetto di tali  regole

sia  necessario  sempre,  ma  lo  sia  ancor  piu'  quando  la   loro

applicazione  comporta  sacrifici  per  le   comunita'   territoriali

coinvolte e per le persone che di esse fanno parte.

    Cio' premesso,  la  ricorrente  Regione  Umbria  ritiene  che  le

disposizioni  sopra  indicate  siano  lesive  della   sua   autonomia

regionale   costituzionalmente   garantita,    nonche'    in    parte

dell'autonomia garantita agli enti locali della Regioni, e che dunque

esse risultino costituzionalmente illegittime per le seguenti ragioni

di

 

                               Diritto

 

I. Illegittimita' costituzionale dell'articolo 3, recante Abrogazione

delle  indebite  restrizioni  all'accesso   e   all'esercizio   delle

professioni e delle attivita' economiche, in relazione ai commi 2, 3,

4, 10 e 11.

    L'art. 3 e' dedicato,  come  ricorda  la  sua  intitolazione,  al

tentativo  di  semplificare  il  regime  giuridico  al   quale   sono

sottoposte le attivita' economiche, nel quadro pero' della necessaria

salvaguardia dei valori pubblici concorrenti e spesso contrapposti.

    Esso si apre enunciando, al comma 1, un principio, e prescrivendo

che l'ordinamento di tutti gli enti  territoriali,  dai  Comuni  allo

Stato, vi si adegui.

    Il  principio  consiste  nella  statuizione  secondo   la   quale

"l'iniziativa e l'attivita'  economica  privata  sono  libere  ed  e'

permesso tutto cio' che non e' espressamente vietato dalla legge  nei

soli casi di:

        a) vincoli derivanti  dall'ordinamento  comunitario  e  dagli

obblighi internazionali;

        b) contrasto con i principi fondamentali della Costituzione;

        c) danno alla sicurezza, alla liberta', alla dignita' umana e

contrasto con l'utilita' sociale;

        d) disposizioni indispensabili per la protezione della salute

umana,  la   conservazione   delle   specie   animali   e   vegetali,

dell'ambiente, del paesaggio e del patrimonio culturale;

        e) disposizioni relative alle attivita' di raccolta di giochi

pubblici  ovvero  che  comunque  comportano  effetti  sulla   finanza

pubblica".

    Il comma 1, ora illustrato,  non  forma  oggetto  della  presente

impugnazione.

    Esso pone un ovvio principio di liberta' e non meno ovvie  regole

che lo limitano, ponendo "eccezioni" che in  realta'  consistono  nel

riferimento a valori  ampi  ed  indeterminati,  che  non  restringono

affatto l'ambito dei possibili divieti, e si traducono in un richiamo

ad un principio di ragionevolezza. Si puo' affermare senza  paura  di

sbagliare che tutti i divieti oggi esistenti potrebbero giustificarsi

in base ad una o piu' delle categorie enunciate.

    Il problema che si pone, come si  dira',  consiste  invece  nella

circostanza che per la stessa ragione esso non e'  in  grado  ne'  di

funzionare  da  norma  parametro  della  possibile   abrogazione   di

particolari regimi amministrativi, ne' di  fungere  da  significativa

indicazione dei contenuti di una possibile normazione attuativa.

    Il  comma  secondo  dell'art.  3  stabilisce  che  "il  comma   1

costituisce principio fondamentale per lo sviluppo economico e  attua

la piena tutela della concorrenza tra le imprese".

    Esso costituisce dunque una qualificazione giuridica del comma 1.

Esso forma oggetto della presente impugnazione per la circostanza che

le qualificazioni che esso assegna ad avviso della ricorrente Regione

sono o del tutto prive di significato, o comunque erronee.

    Che  il  comma  1  costituisca  "principio  fondamentale  per  lo

sviluppo economico" potra' essere affermato  in  senso  generico,  ma

tradotto in termini di qualificazione giuridica risulta privo di ogni

significato.  Infatti,  lo  sviluppo  economico  non  e'  materia  di

potesta' legislativa concorrente tra lo Stato  e  le  Regioni,  e  in

quanto  considerato  come  materia  e'   semmai   materia   residuale

regionale. Non vi  e'  dunque  alcuno  specifico  potere  statale  di

dettare principi fondamentali.

    Ne' si vede quale possa  essere  il  significato  concreto  della

enunciazione secondo la quale il comma 1 "attua la piena tutela della

concorrenza tra le imprese".

    Esso stabilisce - come gia' l'art. 41 Cost. - il principio  della

libera iniziativa economica, e lo tempera -  sempre  come  l'art.  41

Cost. - con la necessaria tutela di  altri  valori  competitivi,  gli

stessi che l'art. 41 sintetizza nella tutela della utilita' sociale e

della sicurezza, liberta' e dignita' umana, prescrivendo che anche  a

tal fine vi siano "i programmi e i controlli opportuni".

    Esso dunque descrive i criteri del bilanciamento tra la  liberta'

di impresa e le sue limitazioni, e non tutela la concorrenza piu'  di

quanto la tuteli qualunque altra regola alla quale tutte  le  imprese

siano soggette.

    Da sempre le Regioni sono competenti,  nelle  proprie  materie  e

secondo le regole  di  ciascuna,  a  porre  limiti  all'attivita'  di

impresa per la tutela dei valori enunciati al comma  1.  Il  comma  2

sarebbe dunque  del  tutto  illegittimo  ove  con  tale  enunciazione

volesse affermare la competenza esclusiva statale in materia.

    Ma che cio' non sia, risulta dallo stesso comma 1, che impegna le

stesse Regioni ad adeguare il proprio  ordinamento  al  principio  in

esso enunciato, cosi' direttamente  riconoscendo  la  competenza  del

legislatore regionale.

    Il nucleo centrale della presente  impugnazione  ha  comunque  ad

oggetto i meccanismi giuridici che, secondo  il  comma  3  dovrebbero

garantire l'operativita' del comma 1.

    A termini  del  comma  3,  primo  periodo,  "sono  in  ogni  caso

soppresse, alla scadenza del termine di  cui  al  comma  1"  -  cioe'

decorso il termine di un anno - "le  disposizioni  normative  statali

incompatibili con quanto disposto nel medesimo comma, con conseguente

diretta applicazione degli istituti della segnalazione di  inizio  di

attivita' e dell'autocertificazione con controlli successivi".

    Cosi' disponendo il comma 3, pur utilizzando il termine  atecnico

della soppressione introduce indubbiamente un meccanismo  abrogativo,

che tuttavia non e' in grado di funzionare, per le ragioni gia' sopra

esposte. Infatti, nessun divieto o limitazione posta dalla  legge  e'

puramente capriccioso, e tutti hanno necessariamente un fondamento in

termini di tutela della sicurezza, liberta', dignita' umana,  o  sono

destinati ad evitare un contrasto  con  l'utilita'  sociale,  o  sono

stati ritenuti indispensabili per la protezione della  salute  umana,

la conservazione delle specie animali e vegetali, dell'ambiente,  del

paesaggio e del patrimonio culturale.

    Il  problema  e'  piuttosto  quello  di   trovare   un   corretto

bilanciamento tra le diverse esigenze,  ma  cio'  non  puo'  avvenire

attraverso un meccanismo abrogativo che si limiti  a  confrontare  un

astratto principio di liberta' con i limiti che proteggono  i  valori

contrapposti, ma deve essere operato in concreto,  norma  per  norma,

attraverso la specifica fissazione normativa di un nuovo equilibrio.

    Di difficile comprensione e' poi la previsione della sostituzione

delle disposizioni "soppresse" con i meccanismi della segnalazione di

inizio  di  attivita'   e   dell'autocertificazione   con   controlli

successivi:  si  tratta  infatti  di   meccanismi   (previsti   dalla

legislazione  sul  procedimento  amministrativo)   che,   quando   ne

ricorrono i presupposti, sono gia' autoapplicativi e prevalenti sulle

discipline di settore: mentre se non ne ricorrono i  presupposti  non

si vede come essi potrebbero essere applicati.

    La disposizione risulta dunque  illegittima  per  violazione  del

principio di ragionevolezza, dedotto dall'art. 3 Cost., del principio

di buon andamento, di cui all'art. 97, primo  comma,  Cost.,  nonche'

del principio di certezza  del  diritto,  palesemente  violato  dalla

assoluta incertezza sulla disciplina vigente  che  deriverebbe  dalla

applicazione del comma 3.

    Conviene precisare che la Regione ritiene di essere legittimata a

far valere il vizio enunciato  anche  se  il  comma  3  si  riferisce

apparentemente alle sole disposizioni normative statali. Infatti,  la

legittimazione e lo stesso interesse della Regione verrebbero meno se

si potesse intendere che il comma 3 e' destinato ad operare  soltanto

negli ambiti in cui non puo' intervenire la  legislazione  regionale,

cioe' negli ambiti materiali statali  chiaramente  ed  oggettivamente

distinti dagli ambiti di legislazione regionale.

    Sennonche', proprio i principi  enunciati  al  comma  2  lasciano

invece pensare che la disposizione intenda operare anche negli ambiti

in cui e' legittimata ad intervenire la  legislazione  regionale:  di

qui la legittimazione e  l'interesse  al  ricorso,  dal  momento  che

l'abrogazione  delle  disposizioni  statali  e  la  sostituzione  dei

meccanismi vigenti con i meccanismi della segnalazione di  inizio  di

attivita' e dell'autocertificazione con controlli successivi verrebbe

ad incidere sulla applicazione della legislazione regionale.

    Le considerazioni sopra  svolte  circa  l'impossibilita'  di  una

applicazione diretta del  comma  1  nella  direzione  di  un  sensato

giudizio di abrogazione delle singole discipline vigenti nei  diversi

settori inducono ad affermare che la vera funzione del  comma  3  sta

nel fungere da  premessa  al  "vero"  meccanismo  attuativo  previsto

dall'art. 3: il potere regolamentare statale previsto dal  secondo  e

terzo periodo.

    Dispone  infatti  ancora  il  comma  3  che  "nelle  more   della

decorrenza del predetto termine, l'adeguamento al principio di cui al

comma 1 puo' avvenire  anche  attraverso  gli  strumenti  vigenti  di

semplificazione normativa" (secondo  periodo)  e  che  "entro  il  31

dicembre 2012 il Governo  e'  autorizzato  ad  adottare  uno  o  piu'

regolamenti ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto

1988, n.  400,  con  i  quali  vengono  individuate  le  disposizioni

abrogate per effetto di quanto disposto  nel  presente  comma  ed  e'

definita  la  disciplina  regolamentare   della   materia   ai   fini

dell'adeguamento al principio di cui al comma 1" (terzo periodo).

    La previsione di un  meccanismo  di  integrazione  normativa  che

settore per settore e norma per norma provveda a compiere ex novo  la

valutazione necessaria per  stabilire  un  nuovo  equilibrio  tra  il

principio della liberta' di impresa e  la  tutela  costituzionalmente

dovuta dei valori antagonisti si spiega facilmente, alla  luce  della

illustrata impossibilita' giuridica di una  attuazione  del  comma  1

attraverso il meccanismo della abrogazione implicita.

    Ma  per  la  stessa  ragione  la  previsione  di  regolamenti  di

semplificazione e di  delegificazione  si  rivela  costituzionalmente

illegittima, in primo luogo per violazione del principio di legalita'

sostanziale. Sono infatti del tutto generici, ed  in  pratica  dunque

assolutamente  assenti,  quei  criteri,  indicazioni  e  vincoli   di

contenuto che devono costituire la cornice legislativa al cui interno

puo' esplicarsi: sicche'  la  disciplina  regolamentare  finisce  per

essere meramente potestativa da parte del potere esecutivo.

    Inoltre, l'assenza di  qualunque  delimitazione  di  materia  del

potere regolamentare cosi' creato finisce per estenderne l'ambito sia

alle materie di potesta' concorrente che  alle  materie  di  potesta'

residuale regionale, con specifica violazione  dell'art.  117,  sesto

comma.

    In  subordine,  ove  in   denegata   ipotesi   per   ragioni   di

sussidiarieta' dovesse essere  ammessa  la  legittimita'  del  potere

regolamentare cosi'  attribuito,  la  sua  disciplina  procedimentale

rimarrebbe illegittima per la mancata previsione dell'intesa  con  la

Conferenza Stato Regioni per i profili di connessione o  interferenza

con le materie regionali.

    Il comma 4 dell'art. 3  dispone  che  "l'adeguamento  di  Comuni,

Province e Regioni all'obbligo di cui al comma 1 costituisce elemento

di valutazione della virtuosita' dei predetti enti ai sensi dell'art.

20, comma 3, del decreto legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito dalla

legge 15 luglio 2011, n. 111".

    Ad avviso della ricorrente Regione, anche  tale  disposizione  e'

illegittima, sotto un duplice profilo.

    In primo luogo, essendo (come sopra esposto) i criteri  ai  quali

le Regioni dovrebbero adeguarsi del  tutto  generici  ed  indefiniti,

cosi'  come  risulta  impossibile  un  giudizio  di  abrogazione   di

specifiche disciplina, allo  stesso  modo  risulta  indeterminato  il

dovere  di  adeguamento,  ed  ulteriormente  privo  di  parametri  il

giudizio  sull'avvenuto  o  non  avvenuto  adeguamento.  Di  qui   la

complessiva incertezza  ed  irrazionalita'  della  disciplina,  e  la

sottoposizione della potesta' legislativa regionale a limiti  diversi

da quelli previsti dalla Costituzione.

    In secondo luogo, se anche i criteri ai quali  adeguarsi  fossero

definiti, non vi e' alcun collegamento razionale  tra  le  discipline

regionali in questione e lo stato della finanza regionale, sicche' e'

del tutto incongruo che  la  Regione  possa  venire  finanziariamente

penalizzata per presunti  mancati  adeguamenti  ai  principi  statali

nell'esercizio della potesta' legislativa.

    I  commi  8  e  9 -  che  non  formano  oggetto  della   presente

impugnazione - prevedono la  diretta  abrogazione  di  una  serie  di

restrizioni all'esercizio di attivita' economiche.

    E' invece impugnato il comma 10, secondo il quale "le restrizioni

diverse da quelle elencate nel  comma  9  precedente  possono  essere

revocate con regolamento da emanare ai sensi dell'articolo 17,  comma

2, della legge 23 agosto  1988,  n.  400,  emanato  su  proposta  del

Ministro competente".

    Tale potere  regolamentare  risulta  illegittimo  per  le  stesse

ragioni gia' illustrate in relazione al  comma  3,  secondo  e  terzo

periodo: violazione  del  principio  di  legalita'  sostanziale,  per

assenza di qualunque criterio al cui interno il potere  regolamentare

possa dirsi meramente  esecutivo,  violazione  dell'art.  117,  sesto

comma, in quanto il regolamento possa estendersi ad oggetti ed ambiti

di competenza regionale; in subordine, violazione  del  principio  di

leale collaborazione, non prevedendosi per le materie  di  competenza

regionale l'intesa con la Conferenza Stato-Regioni.

    Il comma 11 dispone che  "singole  attivita'  economiche  possono

essere  escluse,  in  tutto  o  in  parte,   dall'abrogazione   delle

restrizioni disposta ai sensi del comma 8", e che "in  tal  caso,  la

suddetta esclusione, riferita alle limitazioni previste dal comma  9,

puo' essere concessa, con decreto del Presidente  del  Consiglio  dei

Ministri, su proposta del Ministro  competente  di  concerto  con  il

Ministro dell'economia e delle finanze, sentita  l'Autorita'  garante

della concorrenza e del mercato, entro quattro  mesi  dalla  data  di

entrata in vigore della legge di conversione  del  presente  decreto,

qualora: a) la limitazione sia  funzionale  a  ragioni  di  interesse

pubblico, tra cui in particolare quelle connesse  alla  tutela  della

salute  umana;  b)  la  restrizione  rappresenti  un  mezzo   idoneo,

indispensabile e, dal punto di vista del grado di interferenza  nella

liberta'  economica,  ragionevolmente   proporzionato   all'interesse

pubblico cui e'  destinata;  c)  la  restrizione  non  introduca  una

discriminazione diretta o indiretta basata sulla nazionalita' o,  nel

caso di societa', sulla sede legale dell'impresa.

    Anche tale disposizione appare costituzionalmente illegittima  in

primo luogo in quanto consente solo allo  Stato,  e  non  anche  alle

Regioni, di far valere, per le  materie  di  propria  competenza,  le

ragioni  di  interesse  pubblico  che  ostano  al  venir  meno  della

limitazione in questione.

    In secondo luogo, ove per ragioni di uniformita' e sussidiarieta'

dovesse apparire legittima la esclusiva  competenza  statale,  sembra

evidente che gli interessi rappresentati dalle Regioni nelle  materie

di propria competenza dovrebbero pur sempre trovare espressione nella

necessita' dell'intesa con la Conferenza Stato-Regioni: intesa di cui

non  vi   e'   traccia   nella   disposizione   impugnata.   Di   qui

l'illegittimita'   per   violazione   del    principio    di    leale

collaborazione.

II. Illegittimita' costituzionale dell'art. 4,  recante  "Adeguamento

della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e

alla  normativa  dell'Unione  europea"  e  segnatamente,  dei   commi

8,12,13,32,33 e 14, per violazione degli arti. 75 e 117, quarto comma

Cost.

    All'art. 4 sono introdotte innovazioni legislative  che  incidono

sulle  modalita'  di  affidamento  dei  servizi  pubblici  locali   a

rilevanza  economica,  in  una  materia  gia'  oggetto  di  pronuncia

referendaria abrogativa di disposizioni  in  buona  parte  del  tutto

analoghe a quelle oggi reintrodotte (art 23 bis).  Tali  disposizioni

intervengono in una materia - quella dei servizi  pubblici  locali  -

che in quanto tale spetta  pur  sempre  alla  competenza  legislativa

residuale regionale, ai sensi dell'art 117, quarto comma Cost.

    Ad avviso della ricorrente Regione, le disposizioni  statali  qui

impugnate  non  sono  giustificate  da  ragioni   di   tutela   della

concorrenza,  ma,  soprattutto,  violano  la  volonta',   manifestata

attraverso il  referendum,  di  riduzione/eliminazione  dei  vincoli,

aggiuntivi   rispetto   ai   vincoli   del    diritto    comunitario,

discrezionalmente introdotti dal legislatore  statale  con  l'art  23

bis, in ordine alle forme di gestione dei servizi pubblici locali.

    Alle Regioni spetta, inoltre, la legittimazione ad  impugnare  le

leggi statali  in  via  diretta  non  solo  a  tutela  della  propria

legislazione, ma anche con il riferimento alla  prospettata  lesione,

da parte della legge nazionale, della autonomia  propria  degli  enti

territoriali.

    L'art.  4  ripropone   disposizioni   precedentemente   contenute

nell'art. 23 bis del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, convertito in legge

6 agosto 2008, n. 133, come modificato dall'art. 30, comma 26,  della

legge 23 luglio 2009, n. 99  e  dall'art.  15  del  decreto-legge  25

settembre 2009 n. 135, convertito, con modificazioni, dalla legge  20

novembre 2009, n. 166, abrogate con efficacia dal giorno successivo a

quello di pubblicazione del d.P.R. 18 luglio 2011,  n.  13  (G.U.  20

luglio 2011, n. 167) e disposizioni del d.P.R. 7 settembre  2010,  n.

168, recante "Regolamento in materia di servizi  pubblici  locali  di

rilevanza economica, a norma  dell'articolo  23  bis  comma  10,  del

decreto legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito  con  modificazioni,

dalla legge 6 agosto 2008, n. 133", la cui efficacia e' venuta meno a

seguito di tale abrogazione.

    In sede di  ammissibilita'  della  richiesta  di  referendum  per

l'abrogazione dell'art. 23 bis del  d.l.  25  giugno  2008,  n.  112,

convertito con modificazioni dalla legge 6  agosto  2008,  n.  133  e

s.m.i., nel testo risultante a seguito della sentenza n. 325 del 2010

di codesta Ecc.ma Corte, e' stato evidenziato  che  tale  abrogazione

non ha "ad oggetto una legge a contenuto  comunitariamente  vincolato

(e, quindi, costituzionalmente vincolato, in applicazione degli artt.

11 e 117, primo comma, Cost.)" e  che  "in  particolare,  l'eventuale

abrogazione referendaria non comporterebbe alcun inadempimento  degli

obblighi comunitari", in quanto ". la sentenza n. 325  del  2010,  ha

espressamente escluso  che  l'art.  23-bis  costituisca  applicazione

necessitata del diritto dell'Unione europea"  (cfr.  Corte  cost.  n.

24/2011).

    Del  resto,  le  disposizioni   ivi   previste   recanti   regole

concorrenziali (come quelle in tema di gara ad evidenza pubblica  per

l'affidamento della gestione  di  servizi  pubblici)  risultano  piu'

rigorose di quelle minime, richieste dal diritto dell'Unione europea,

non  essendo,  peraltro,  imposte  dall'ordinamento  comunitario,  ma

integrando solo "una delle diverse discipline possibili della materia

che il  legislatore  avrebbe  potuto  legittimamente  adottare  senza

violare" il  primo comma dell'art.117 Cost."  (cfr.  Corte  cost.  n.

325/2010).

    L'esito del referendum abrogativo ha  determinato  una  riduzione

dei vincoli discrezionalmente introdotti dal legislatore statale  con

l'art. 23-bis nelle forme di gestione dei servizi pubblici locali, in

particolare rendendo meno restrittivo il  modello  in  house  e  piu'

flessibile il modello misto, favorendo cosi', entro i limiti  dettati

dalla formativa e dalla giurisprudenza comunitaria,  il  riespandersi

del potere di scelta  degli  locali,  il  cui  ruolo  in  materia  di

organizzazione e assetto dei servizi  pubblici  locali  incisivamente

evidenziato, a livello comunitario,  dagli  articoli  14  e  106  del

Trattato funzionamento dell'Unione europea e dall'allegato Protocollo

26 che, con riguardo al settore dei servizi  di  interesse  economico

generale,  sottolinea  che  i  valori  comuni   dell'Unione   europea

comprendono, in particolare, "il ruolo essenziale  e  l'ampio  potere

discrezionale  delle  autorita'  nazionali,  regionali  e  locali  di

fornire, commissionare e organizzare servizi di  interesse  economico

generale,  piu'  vicini  possibile  alle  esigenze   degli   utenti",

riconoscendo, nel contempo, "la diversita'  tra  i  vari  servizi  di

interesse  economico  generale  e  le  differenze  delle  esigenze  e

preferenze  degli  utenti  che  possono  discendere   da   situazioni

geografiche, sociali e culturali diverse".

    Invero, in sede di adozione dell'art. 4, il  legislatore  statale

ha inteso  riproporre  -  salvo  prevedere  la  sola  esclusione  del

servizio idrico integrato dalla relativa disciplina (comma 34) -,  in

modo quasi completo ed in forma  pressoche'  testuale,  il  contenuto

dispositivo restrittivo di molteplici nonne gia' contenute  nell'art.

23 bis e nel relativo regolamento di attuazione, di cui al d.P.R.  n.

168/2010, in materia di  gestioni  in  house,  di  partecipazione  di

soggetti privati per la costituzione di  societa'  miste,  di  regime

transitorio degli  affidamenti  a  societa'  a  partecipazione  mista

pubblica e privata e a  societa'  a  partecipazione  pubblica  (anche

quotate in borsa) e di limiti alla capacita' di azione delle societa'

titolari di affidamenti diretti, ponendosi cosi' in netto e  radicale

contrasto con i limiti che il potere legislativo incontra, in seguito

alla abrogazione referendaria, nell'intervenire nella materia oggetto

di  referendum,  con  particolare  riferimento  al  "divieto  di  far

rivivere la normativa abrogata" dal referendum medesimo (Corte  cost.

n. 33/1993, 32/1993, e ord. n. 9/1997).

    Del resto, codesta Ecc.ma Corte, richiamando la "peculiare natura

del referendum quale atto fonte dell'ordinamento", ha osservato  che,

a "differenza del legislatore,  che  puo'  correggere  o  addirittura

disvolvere quanto ha in precedenza statuito, il referendum  manifesta

una volonta' definitiva e irripetibile" (Corte  cost.  n.  468/1990).

Tale principio e' stato sviluppato nella sentenza n. 32/1993, ove  la

Corte  ha  circoscritto  la  possibilita',  per  il  legislatore,  di

"correggere, modificare o integrare la disciplina  residua"  entro  i

"limiti  del  divieto  di  formale  o  sostanziale  ripristino  della

normativa abrogata dalla volonta'  popolare",  nonche',  soprattutto,

nell'ord. n. 9/1997, che ha sancito la "possibilita' di un  controllo

di questa Corte in ordine all'osservanza, da parte  del  legislatore,

di tali limiti". Sicche', pare corretto ritenere che "la  limitazione

alla  potesta'  legislativa  delle  Camere  possa  circoscriversi  al

divieto di approvazione di una nuova legge che reintroduca i principi

ispiratori  della  disciplina  abrogata  ed  i  contenuti   normativi

essenziali dei singoli precetti,  in  analogia  con  quanto  indicato

nella sentenza n. 68/1978" (cfr. S.Bartole, R.Bin, Commentario  breve

alla Costituzione, sub art. 75, CEDAM, 2008, pag. 687).

    I commi che si intendono impugnare dell'art. 4 e che verranno  di

seguito declinati violano i  suddetti  principi,  proprio  in  quanto

ripristinano, in maniera sia formale che  sostanziale,  la  normativa

abrogata per effetto del referendum.

    Procedendo all'esame puntuale di tali disposizioni, si  evidenzia

che:

        - il comma 8 ripropone il comma 2, lett.a), l'art. 23-bis del

d.l. 112/2008 e s.m.i., escludendo  l'affidamento  diretto  in  house

dalle forme ordinarie di  conferimento  della  gestione  dei  servizi

pubblici, se superiore ai limiti dettati dal successivo comma 13;

        - il comma 12 ripropone il comma 2, lett.b) dell'art.  23-bis

e  l'art.  3,  comma  4  del  d.P.R.  n.  168/2011,  prevedendo   che

l'affidamento del servizio a societa' a partecipazione mista pubblica

costituita con procedura avente ad oggetto,  allo  stesso  tempo,  la

selezione del socio privato, cui devono essere  attribuiti  specifici

compiti operativi e una partecipazione non inferiore al 40 per cento,

e l'affidamento del servizio, con cio' imponendo limiti che escludono

altre fattispecie  di  partenariato  istituzionale  pubblico  privato

presenti a livello comunitario (ad esempio,  le  societa'  miste  con

partecipazione privata inferiore al 40%);

        - il comma 13 introduce un limite di valore, non  presente  a

livello comunitario, per l'affidamento in  house.  Il  servizio  puo'

essere  affidato  a  societa'  a  capitale  interamente  pubblico  in

possesso dei requisiti comunitari, ma  a  condizione  che  il  valore

economico del medesimo sia pari o inferiore alla somma complessiva di

900 mila euro annui;

        -  il  comma  32  disciplina  il  regime  transitorio   degli

affidamenti,  riproponendo,  in  termini  sostanzialmente   analoghi,

limitazioni e scadenze al regime  degli  affidamenti  in  atto,  gia'

fissate dall'abrogato art. 23-bis e va, quindi, impugnato, in  quanto

consequenziale ai commi 8 e 12. Nel merito, la  disposizione  prevede

che:

a) la gestione affidata a societa' in house non conformi ai requisiti

richiesti  dal  comma  13  (limite  di  900  mila  euro  e  requisiti

comunitari),  nonche'  ad  altre  societa'  non  aventi  i  requisiti

richiesti dal medesimo comma  32,  cessa  improrogabilmente  e  senza

necessita' di apposita deliberazione dell'ente affidante,  alla  data

del 31 marzo 2012 (31 dicembre 2011 nella versione dell'art. 23-bis);

b) la gestione affidata a societa' a  partecipazione  mista,  il  cui

socio privato e' stato selezionato con procedure competitive, che non

hanno  riguardato  l'attribuzione  di  specifici  compiti  operativi,

cessa, improrogabilmente e senza necessita' di apposita deliberazione

dell'ente affidante, alla  data  del  30  giugno  2012,  riproponendo

sostanzialmente  il  comma  8,  lett.   b)   dell'art.   23-bis,   ma

prolungandone la scadenza di sei mesi; c) le gestioni delle  societa'

a partecipazione pubblica assentite alla data dell'1 ottobre  2003  e

gia' quotate in borsa a tale data e le societa' da queste controllate

ai sensi dell'art. 2359 c.c. - qualora la partecipazione pubblica non

si riduca progressivamente ad una quota non superiore al 40 per cento

entro il 30 giugno 2013 e ad una quota non superiore al 30 per centro

entro il 31  dicembre  2013  -  cessano,  improrogabilmente  e  senza

necessita' di apposita deliberazione dell'ente affidante,  alla  data

del  30  giugno  2013  o   del   31   dicembre   2015,   riproponendo

sostanzialmente il comma 8, lett. d), dell'art. 23-bis;

        - il comma 33  ripropone  formalmente  e  sostanzialmente  il

comma 9 dell'art. 23 bis, confermando il  divieto,  per  le  societa'

titolari di affidamenti diretti (tra queste anche quelle  in  house),

di acquisire servizi ulteriori ovvero in ambiti territoriali diversi,

nonche' di svolgere servizi o attivita' per  altri  enti  pubblici  o

privati, ne' direttamente, ne' tramite societa' ad esse riferite, ne'

partecipando a gare;

        - infine, il comma 14 - che,  per  comodita'  espositiva,  si

tratta a parte, in quanto  censurato  anche  sotto  altro  profilo  -

assoggetta le societa' in house affidatarie dirette della gestione di

servizi pubblici locali  al  patto  di  stabilita'  interno,  secondo

modalita' definite, con il concerto del Ministro per le  riforme  del

federalismo, in sede di attuazione dell'art.  18,  comma  2-bis,  del

d.l. n. 112/2008, convertito con la legge n. 133/2008 e  s.m.i.,  con

la precisazione che "gli enti  locali  vigilano  sull'osservanza,  da

parte dei soggetti indicati al periodo precedente,  al  cui  capitale

partecipano, dei vincoli derivanti dal patto di stabilita' interno".

    Prendendo le mosse dalla disciplina dei  sistemi  di  affidamento

della gestione dei servizi pubblici locali (commi 8,  12  e  13),  si

evidenzia che essi rappresentano, appunto,  la  riproposizione  della

disciplina abrogata dal referendum e, per tale motivo,  costituiscono

una netta violazione dell'art. 75 Cost.

    Nei suoi termini effettivi e concreti, infatti, il referendum  ha

inteso abrogare l'applicazione di norme  che,  rendendo  estremamente

limitate le ipotesi di affidamento diretto e, in particolare,  quelle

di gestione in house di quasi tutti  i  servizi  pubblici  locali  di

rilevanza economica, ivi compreso il servizio idrico, escludevano  di

fatto la gestione in house, comunque consentita a livello comunitario

nel rispetto dei (soli) requisiti (comunitari) del controllo  analogo

e  dell'attivita'  prevalente.  Invero,   le   peculiari   condizioni

"oggettive" che, nell'impianto  normativo  delineato  dal  previgente

art. 23-bis, condizionavano la possibilita', per gli enti locali,  di

ricorrere all'autoproduzione dei servizi (in house providing),  hanno

ceduto il passo  ad  una  soglia  di  valore  (900.000  euro  annui),

arbitrariamente  fissata  dal  legislatore  nazionale  (peraltro,  in

assenza di qualsivoglia forma di previa concertazione  con  gli  enti

territoriali), al di sopra della quale e', in ogni caso,  esclusa  la

possibilita'  per  gli  enti  stessi  di  ricorrere  alla   modalita'

organizzativa dell'in house.

    Ebbene, al di la' del fatto  che  l'introduzione  della  suddetta

soglia di valore costituisca  formalmente  una  innovazione,  occorre

considerare che, in realta', detta previsione rappresenta,  comunque,

una  forte  limitazione  della  capacita'  di   scelta   degli   enti

territoriali,   suscettibile   di   incidere   sull'autonomia    loro

riconosciuta in subiecta materia, invero ancor  piu'  restrittiva  di

quella precedentemente fissata dal comma 3 dell'art. 23-bis, con cio'

sostanzialmente  riproducendo  lo  stesso   schema   limitativo   che

caratterizzava  la  disciplina  recata  dall'art.  23-bis  e  che  il

referendum ha inteso eliminare in toto.

    Sotto il medesimo profilo (violazione art. 75 Cost.),  si  rileva

che tali nuove disposizioni (commi 8, 12 e 13) contenute nell'art.  4

violano la ratio del referendum, in quanto contrastano con l'intento,

sotteso al quesito referendario, di rendere perfettamente equivalenti

le diverse modalita' di affidamento (gara, societa' mista,  in  house

providing) contemplate dalla  normativa  e  cio',  in  ossequio  alle

indicazioni comunitarie. Ancora una  volta,  invece,  il  legislatore

nazionale indica come alternative ed equivalenti le sole modalita' di

esternalizzazione (gara e  societa'  mista),  mentre  qualifica  come

eccezionale l'autoproduzione, introducendo,  nel  palese  intento  di

aggirare il divieto di  riproposizione  della  disciplina  formale  e

sostanziale oggetto di abrogazione referendaria, l'innovativo  limite

di valore (comma 13), di cui sopra si e' detto. Il quale limite deve,

quindi, essere censurato sia - al pari del sistema complessivo  degli

affidamenti - sotto il profilo  della  violazione  dell'art.  75,  in

quanto  contrastante  con  lo  spirito  referendario,   sia   perche'

arbitrario, con riferimento alla omessa concertazione  con  gli  enti

territoriali, ed illogico, in quanto riferito indifferentemente  alla

generalita'  dei  servizi  pubblici  locali,  a   prescindere   dalle

specificita'  che  caratterizzano  le  varie  tipologie  di   servizi

(invero, la manutenzione  delle  strade  ha  caratteristiche  diverse

dall'illuminazione votiva).

    Coerentemente con l'impugnazione dei commi 8, 12 e 13, si censura

anche il successivo comma 32, laddove prevede un periodo  transitorio

degli affidamenti ancora una volta marcatamente caratterizzato  dalla

penalizzazione delle forme  di  autoproduzione  dei  servizi.  A  ben

vedere,  detta  disposizione  perderebbe,  comunque,  di  significato

qualora  fosse   dichiarata   l'illegittimita'   costituzionale   dei

precedenti commi  8,  12  e  13,  con  conseguente  ripristino  della

perfetta equiparazione  delle  varie  modalita'  di  affidamento  dei

servizi  pubblici  locali  ed  e'  per  queste  ragioni   di   intima

connessione con il  sistema  degli  affidamenti  che  tale  norma  va

compresa nello stesso quadro impugnatorio.

    Quanto al successivo comma  33,  che  costituisce  la  pedissequa

trasposizione dell'abrogato comma 9 dell'art. 23-bis, si  rileva  che

esso restringe eccessivamente la capacita' di azione  delle  societa'

titolari di affidamenti diretti. Infatti,  preclude  del  tutto  alle

societa' in house e miste, titolari di affidamenti  conseguiti  senza

gara, la possibilita' di conseguire nuove commesse (da enti  pubblici

o privati), privandole completamente della capacita'  imprenditoriale

loro spettante. Invero, detta disposizione impedisce alle societa' in

house  la  facolta',  pacificamente  riconosciuta  loro  dal  diritto

comunitario  e,  peraltro,  ribadita  da  codesta  Ecc.ma  Corte,  di

eseguire una parte,  seppur  marginale,  della  propria  attivita'  a

favore di altri mercati (da attivita' "prevalente" ad esclusiva).  Al

riguardo, vale la  pena  di  sottolineare  che  la  stessa  Autorita'

garante della  concorrenza  e  del  mercato  ha  osservato  che  tale

restrizione  rischia  di  limitare  drasticamente  il  numero   degli

operatori  ammissibili  alle  procedure  di  gara,  favorendo   cosi'

l'aggiudicazione   al   precedente   affidatario,   spesso    l'unico

partecipante alla gara (AS 864 del 26 agosto  2011).  Sul  punto,  si

segnala  la  proposta  formulata  dall'Autorita'  di  "attenuare   le

condizioni che consentono agli affidatari diretti di  partecipare  ad

altre gare, consentendo loro di farlo nel caso in cui (i) i  soggetti

in questione siano nella fase finale  (inferiore  ai  due  anni)  del

proprio affidamenti e (il) sia gia' stata  bandita  la  gara  per  il

riaffidamento del servizio o, almeno, sia stata adottata la decisione

di procedere al nuovo affidamento attraverso  procedure  ad  evidenza

pubblica, per il servizio erogato dall'affidatario diretto".

    Da ultimo e sotto altro  profilo  si  censura  il  comma  14  per

violazione dell'art. 117, commi terzo e sesto, Cost.

    Tale ultima disposizione  riveste  carattere  innovativo  essendo

gia' stata espunta  dall'art.  23-bis  in  un  momento  anteriore  al

referendum e, precisamente, in sede di scrutinio  della  legittimita'

costituzionale del medesimo art. 23-bis, effettuato con la  sent.  n.

325/2010.

    La  disposizione  in  parola  prevede   l'assoggettamento   delle

societa'  in  house  al  patto  di  stabilita'  interno  "secondo  le

modalita' definite, con il concerto del Ministro per le  riforme  per

il federalismo, in sede di attuazione dell'art. 18, comma 2 bis,  del

d.l. n. 112/2008".

    Ebbene,  il  cit.  comma  14  deve  ritenersi  costituzionalmente

illegittimo per le stesse ragioni per le quali codesta Ecc.ma  Corte,

con  la  piu'   volte   cit.   sent.   n.   325/2010,   ha   ritenuto

incostituzionale il riferimento al patto di stabilita', a  suo  tempo

previsto dal comma 10, lett. a) dell'art. 23 bis, sul presupposto che

"l'ambito di applicazione del patto  di  stabilita'  interno  attiene

alla materia del coordinamento della finanza pubblica (sent. nn.  284

e  237  del  2009;  n.  267  del  2006),  di  competenza  legislativa

concorrente, e non a  materie  di  competenza  legislativa  esclusiva

statale, per  le  quali  soltanto  l'art.  117,  sesto  comma,  cost.

attribuisce allo Stato la potesta' regolamentare"  (cfr.  ivi,  punto

12.6 del diritto).

    A  ben  vedere,  la  censure   evidenziate   risultano   vieppiu'

confermate  dalla  circostanza  secondo  cui   il   procedimento   di

approvazione del decreto attuativo dell'art.  18,  comma  2-bis,  del

d.l. n. 112/2008, richiamato dalla disposizione in  esame,  contempla

esclusivamente  una  fase  consultiva  non  vincolante  innanzi  alla

Conferenza unificata e non prevede alcun coinvolgimento diretto delle

Regioni, escludendole ancora una volta.

III. Illegittimita' costituzionale dell'art. 11 recante  "Livelli  di

tutela  essenziali   per   l'attivazione   dei   tirocini,'Violazione

dell'art.117,  quarto  comma  cost.  e   del   principio   di   leale

collaborazione.

    Dopo aver precisato che "i tirocinii formativi e di  orientamento

possono essere promossi unicamente  da  soggetti  in  possesso  degli

specifici  requisiti  preventivamente  determinati  dalle   normative

regionali, in funzione  di  idonee  garanzie  all'espletamento  delle

iniziative medesime", l'art. 11 dispone che "fatta  eccezione  per  i

disabili, gli invalidi fisici, psichici e sensoriali, i  soggetti  in

trattamento psichiatrico, i  tossicodipendenti,  gli  alcolisti  e  i

condannati ammessi a misure alternative di  detenzione,  i  tirocinii

formativi e di orientamento non curricolari  non  possono  avere  una

durata superiore a sei mesi,  proroghe  comprese,  e  possono  essere

promossi unicamente a favore di neo-diplomati o neo-laureati entro  e

non oltre dodici  mesi  dal  conseguimento  del  relativo  titolo  di

studio".  Viene,  poi,  precisato  che  in  assenza   di   specifiche

regolamentazioni  regionali,  trovano  applicazione  le  disposizioni

contenute nell'art. 18 della legge  24  giugno  1997  n.  196  ed  il

relativo regolamento di attuazione. Con tale norma viene dettata  una

disciplina statale dei  tirocini  formativi  e  di  orientamento  non

curriculari omogenea ed uniforme per tutto il  territorio  nazionale.

Sennonche', si tratta di una materia di sicura  competenza  residuale

regionale,  qual   e'   quella   della   "istruzione   e   formazione

professionale" nel cui ambito la disciplina del tirocinio formativo e

di orientamento pacificamente rientra.

    Il legislatore statale ha ritenuto  di  potersi  "ritagliare"  un

importante spazio della materia, in virtu' del  titolo  competenziale

di cui all'art. 117, secondo comma, lettera m) cost.  "determinazione

dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili

e sociali" che, infatti, e' evocato nella  stessa  rubrica  dell'art.

11.

    Tale qualificazione, tuttavia, e' ingannevole. Infatti, la  legge

statale, ben lungi dal fissare prestazioni  da  garantire,  ne  fissa

invece  limitazioni,  impedendo  alle   Regioni   di   garantire   le

prestazioni in termini piu'  estesi.  Si  tratta  dunque  di  "limiti

prestazionali"  e  non  della  determinazione  di   "livelli   minimi

essenziali".

    La non riconducibilita'  della  norma  alla  indicata  competenza

statale ne comporta l'illegittimita', per difetto di competenza.

    A parte cio', tali limitazioni,  per  quanto  bene  intenzionate,

appaiono anche irragionevoli nella  loro  uniformita'  per  tutto  il

territorio nazionale, che e' invece caratterizzato da una varieta' di

esigenze e situazioni che richiedono  risposte  diversificate,  quali

solo la competenza regionale puo' assicurare.

    Ma, anche se l'indicato titolo di competenza potesse giustificare

un intervento statale, va comunque rilevato che tale  intervento  non

potrebbe   consistere   nella   uniforme   e    rigida    unilaterale

determinazione uguale per tutto il territorio  nazionale,  ma  semmai

nella istituzione di una procedura di collaborazione per  le  singole

determinazioni in sede locale.

    E'  fuori  di  dubbio,  infatti,  che  laddove  si  rinvenga   un

"intreccio" tra livelli essenziali  delle  prestazioni  e  competenze

regionali, la condizione di legittimita' dell'intervento  statale  e'

data dalla "previsione di adeguate procedure di coinvolgimento  delle

Regioni nella specificazione delle prestazioni", come la stessa Corte

ha piu' volte indicato. In altri termini, quando  vi  e'  l'intreccio

delle  competenze,  derivante  dalla  sovrapposizione  di   interessi

statali e regionali convergenti, l'ente "minore" deve comunque essere

consultato, in misura graduata in base al livello di incisione  della

sua competenza ed al rilievo dell'interesse di cui e'  portatore,  in

virtu' del principio di leale  collaborazione  (in  tal  senso  sent.

88/2003;  387/2007;  134/2006,  che   ha   sanzionato   l'illegittima

riduzione della partecipazione  regionale  al  livello  del  semplice

parere, anziche' della necessaria intesa).

    Nessuna  procedura   di   coinvolgimento   e'   contenuta   nella

disposizione in  esame,  che  si  limita  a  dettare  una  disciplina

uniforme  dell'istituto,   senza   prevedere   fasi   successive   di

specificazione ed attuazione dei livelli essenziali delle prestazioni

entro cui coinvolgere le Regioni, con la conseguenza che deve esserne

dichiarata l'illegittimita'  per  violazione  dell'art.  117,  quarto

comma, Cost e del principio di leale collaborazione.

IV. Illegittimita' costituzionale dell'art.  14,  recante  "Riduzione

del  numero  dei  consiglieri  e  assessori  regionali   e   relative

indennita'. Misure premiali"', in relazione al comma 1.

1.  Illegittimita'  costituzionale  in  quanto  le   norme   limitano

l'autonomia statutaria e legislativa,  sottoponendone  l'esercizio  a

sanzione negativa. Violazione degli artt.123 e  117,  comma  secondo,

Cost.

    L'art. 14 (Riduzione  del  numero  dei  consiglieri  e  assessori

regionali  e  relative  indennita'.  Misure  premiali)  al  comma   1

introduce una serie di "obblighi di adeguamento"  a  cui  le  Regioni

devono ottemperare per non essere escluse dall'applicazione dell'art.

20, c. 3, del decreto-legge 6 luglio  2011,  n.  98  convertito,  con

modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111.

    Questa norma si riferisce alle  Regioni  "virtuose"  che,  avendo

conseguito gli obiettivi di finanza pubblica  fissati  dal  patto  di

stabilita', non sono tenute a concorrere, a partire  dal  2013,  alla

realizzazione  degli  obiettivi  di  finanza  pubblica  attraverso  i

pesanti  "tagli"  fissati  dal  comma  5  dello  stesso  articolo   e

dall'articolo 14 del decreto-legge n. 78 del 2010.

    Gli obblighi posti dall'art. 14 consistono in una serie di misure

che  avrebbero  l'obiettivo  di  ridurre  i  "costi  della  politica"

regionale. Essi si concretizzano, per la parte che forma oggetto  del

presente ricorso, in una riduzione del  numero  sia  dei  consiglieri

regionali che dei componenti della Giunta regionale.

    Precisamente, si tratta delle seguenti disposizioni:

        "a)  previsione  che  il  numero  massimo   dei   consiglieri

regionali, ad esclusione del Presidente della Giunta  regionale,  sia

uguale o inferiore a 20 per le Regioni con  popolazione  fino  ad  un

milione di abitanti; a 30 per le Regioni con popolazione fino  a  due

milioni di abitanti; a 40 per  le  Regioni  con  popolazione  fino  a

quattro milioni di abitanti; a 50 per le Regioni con popolazione fino

a sei milioni di abitanti; a 70 per le Regioni con  popolazione  fino

ad otto milioni di abitanti; a 80  per  le  Regioni  con  popolazione

superiore ad otto milioni di abitanti. La riduzione  del  numero  dei

consiglieri regionali  rispetto  a  quello  attualmente  previsto  e'

adottata da ciascuna Regione entro sei mesi dalla data di entrata  in

vigore del presente  decreto  e  deve  essere  efficace  dalla  prima

legislatura regionale successiva a quella della data  di  entrata  in

vigore del presente decreto. Le Regioni che, alla data di entrata  in

vigore  del  presente  decreto,  abbiano  un  numero  di  consiglieri

regionali inferiore a quello previsto  nella  presente  lettera,  non

possono aumentarne il numero;

        b) previsione che il numero massimo degli assessori regionali

sia pari o inferiore ad un  quinto  del  numero  dei  componenti  del

Consiglio regionale,  con  arrotondamento  all'unita'  superiore.  La

riduzione deve essere operata entro sei mesi dalla data di entrata in

vigore del presente decreto  e  deve  essere  efficace,  in  ciascuna

regione, dalla prima legislatura regionale  successiva  a  quella  in

corso alla data di entrata in vigore del presente decreto".

    Puo' considerarsi pacifico che la Costituzione non attribuisce al

legislatore statale poteri legislativi tali da incidere  direttamente

sulla materia, che dalla Costituzione e' gelosamente  riservata  agli

Statuti regionali. Eben noto, infatti, che l'art. 123,  discostandosi

dalla precedente formulazione, assoggetta  gli  Statuti  regionali  -

oltre che alle specifiche disposizioni dettate in tema  di  forma  di

governo - al solo criterio della "armonia con  la  Costituzione",  ad

esclusione  di  qualunque  vincolo  disposto  dalla  legge  ordinaria

statale. Conformemente, la giurisprudenza di codesta ecc.ma Corte  ha

sancito  che  "la  composizione  dell'organo  legislativo   regionale

rappresenta  una   fondamentale   «scelta   politica   sottesa   alla

determinazione della "forma di governo" della Regione» (sentenza n. 3

del 2006)" (cosi' la sent.n.  188/2011  di  codesta  Corte).  Edunque

escluso che la legge statale possa imporre alle Regioni un obbligo di

adeguamento, in quanto il potere statutario e'  vincolato  ad  essere

"in armonia" con la  Costituzione,  ma  non  e'  piu'  soggetto  alla

legislazione ordinaria dello Stato.

    E' probabilmente per tale ragione che il legislatore ha  inserito

nella  rubrica  dell'articolo   l'autoqualificazione   delle   misure

introdotte come "misure premiali". Si tratterebbe, dunque, non di  un

qualcosa a cui la Regione sia costretta, ma di qualche  cosa  che  la

Regione puo' volontariamente fare per ottenere un premio,  cioe'  uno

specifico vantaggio.

    Tuttavia non e' certo  questo  il  significato  ne'  il  modo  di

funzionamento della norma,  e  l'erronea  autoqualificazione,  mentre

rivela la consapevolezza di non disporre dei  necessari  poteri,  non

puo' occultare la reale natura dell'intervento statale.

    E' infatti giurisprudenza costante della Corte costituzionale che

le qualificazioni di una norma, che siano contenute nel testo o nella

rubrica, non hanno alcun  valore  condizionante,  dovendosi,  invece,

tenere conto della natura oggettiva  della  norma,  che  spetta  alla

Corte stessa di valutare: diversamente,  la  rigidita'  e  lo  stesso

significato del riparto costituzionale  delle  attribuzioni  verrebbe

meno, potendo il legislatore statale disporne a piacere.

    Occorre,  dunque,  valutare  se  il  dovere  di   modificare   la

composizione degli organi statutari, al fine di mantenere (in realta'

di  poter  mantenere,  ricorrendo  tutte  le  altre  condizioni)   la

qualifica di Regione virtuosa, sia da  considerarsi  come  una  norma

giuridica a carattere effettivamente "premiale" o meno.

    La risposta  negativa  sembra  evidente,  ma  converra'  comunque

debitamente argomentarla.

    Sotto un profilo di teoria  generale,  le  norme  "premiali"  non

presentano una struttura diversa da quelle "normali":  e'  prescritto

un comportamento, assistendo questa  prescrizione  con  una  sanzione

"positiva" (il "premio") anziche' con una "negativa" (la pena).

    Nelle relazioni con le Regioni, lo  Stato  Etalvolta  ricorso  al

meccanismo delle norme "premiali" o "promozionali" (si veda ad es. il

caso  del  contributo  finanziario  introdotto  per   promuovere   il

coordinamento preventivo dei programmi  relativi  all'eutrofizzazione

delle acque marine  e  lacustri,  nel  caso  deciso  dalla  sent.  n.

800/1988).

    La distinzione tra il premio e  la  pena  non  puo'  essere  solo

lessicale, ma deve guardare alla sostanza della situazione  giuridica

che la sanzione realizza. Per decidere se una disposizione  di  legge

sia una normale  prescrizione  con  sanzione  negativa  o  una  norma

premiale e' necessario badare alla situazione  giuridica  in  cui  la

norma opera e come questa viene cambiata dalla sanzione comminata (si

veda in questo senso la sent. n. 283/2009, a proposito di  una  legge

della Regione Puglia): solo cosi' si puo' cogliere  se  la  norma  in

questione ha natura "promozionale"  o  "coattiva"  (si  veda  in  tal

senso, a proposito di una norma a favore delle c.d. "quote rosa",  la

sent. n.  4/2010).  Ad  esempio,  prescrivere  che  "chiunque  riveli

l'identita' dei suoi collaboratori  sara'  mantenuto  in  vita",  non

Ediverso da minacciare i renitenti con la pena di morte.

    In altre parole, una norma potra' dirsi premiale  quando  la  sua

osservanza comporta il prodursi di una nuova  situazione  favorevole,

prima inesistente; e sara' al contrario "penale" (in senso  generico)

o affittiva, quando la sua in osservanza comporti il prodursi di  una

nuova situazione sfavorevole, prima inesistente.

    Nel caso della disposizione  qui  impugnata,  e'  palese  che  il

rispetto degli obiettivi  posti  dallo  Stato  non  comporta  per  la

Regione  l'acquisizione  di  un  "di  piu'",  ma   semplicemente   il

mantenimento di uno status che evita alla Regione  stessa  di  subire

ulteriori sanzioni negative di tipo finanziario. Se  poi  si  colloca

questo effetto nell'attuale  contesto  della  finanza  regionale,  e'

evidente che quello che alla Regione inadempiente si  minaccia  e'  a

tutti gli effetti una sanzione negativa, quantificabile in termini di

tagli di bilancio.

    Dunque, nonostante il titolo  edulcorato,  la  Regione  e'  posta

davanti ad un obbligo  di  modificare  il  proprio  Statuto,  obbligo

fornito di una  evidente  sanzione  negativa,  con  violazione  della

autonomia statutaria garantita dall'art. 123 Cost., nonche' dell'art.

117,  comma  2,  in  cui  sono  descritti  i  limiti  della  potesta'

legislativa dello Stato.

    Ed e' evidente che in questi termini  la  disposizione  impugnata

limita indebitamente  l'ambito  della  potesta'  statutaria  definito

dalla Costituzione.

    Ne' l'illegittima intromissione si puo' giustificare a titolo  di

coordinamento della finanza pubblica, essendo evidente che non esiste

alcuna connessione necessaria tra il numero dei consiglieri  e  degli

assessori ed un  determinato  risultato  complessivo  della  gestione

finanziaria.  Al   contrario,   il   riferimento   al   coordinamento

finanziario  evidenzia  un  ulteriore   profilo   di   illegittimita'

costituzionale, come di seguito esposto.

2. Violazione dell'autonomia finanziaria regionale garantita dall'art

119 Cost.

    Infatti, una ulteriore ragione di illegittimita' della  norma  de

qua deriva dalla natura stessa degli obiettivi assegnati da essa alle

Regioni, e dei corrispondenti vincoli imposti.

    La disciplina del patto di stabilita' introdotta dall'art. 20 del

decreto-legge 98/2011, come convertito dalla  legge  111/2011,  fissa

delle modalita' di raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica

da parte delle singole Regioni, che possono essere concordate tra  lo

Stato e le Regioni stesse  attraverso  una  procedura  negoziata.  In

questo ambito si  prevede  che  le  Regioni  siano  responsabili  dei

risultati conseguiti, e si fissano i criteri con cui valutare le loro

prestazioni. Le Regioni  verranno  suddivise  in  quattro  classi  di

virtuosita', sulla base di una serie considerevole di  "parametri  di

virtuosita'"  definiti  in  termini  "performativi",  ossia  fissando

obiettivi di  finanza  pubblica,  che  lasciano  la  singola  Regione

pienamente responsabile di trovare gli strumenti per conseguirli.

    La norma ora impugnata introduce, invece, un criterio nuovo e del

tutto eterogeneo, di tipo "esigenziale". Anche se  la  Regione  sara'

stata capace di individuare gli strumenti adatti  a  raggiungere  gli

obiettivi di finanza  pubblica,  non  sara'  inserita  tra  gli  enti

virtuosi, se non avra' rispettato  l'obbligo  di  adeguamento  ad  un

criterio numerico (relativo al numero dei consiglieri e di componenti

dell'esecutivo), fissato in ragione proporzionale con la  popolazione

dell'ente.  In  questo  modo,  ad  essere  apprezzato  non  sara'  il

risultato  conseguito  usando  opportunamente  la  propria  autonomia

finanziaria, ma l'aver applicato un criterio che vincola  la  Regione

in modo tassativo, senza consentirle alternative equivalenti  per  il

risultato.

    Appare, percio', lesa  l'autonomia  finanziaria,  garantita  alla

Regione dall'art. 119 cost. Alla Regione Etolta  la  possibilita'  di

scegliere attraverso  quale  via  raggiungere  gli  obietti  fissati,

perche' le  si  impone,  in  nome  del  coordinamento  della  finanza

pubblica, di operare in un modo rigidamente vincolato. Non  adempiere

a questo requisito esigenziale impedisce di accedere  alla  qualifica

perseguita, malgrado si siano conseguiti tutti i risultati finanziari

richiesti dagli altri requisiti, con conseguenze negative  che  hanno

un evidente carattere sanzionatorio.

3. In ogni modo, illegittimita' costituzionale delle disposizioni, in

quanto disposizioni di  dettaglio.  Violazione  dell'art.  117  comma

terzo.

    Se pure fosse giustificato il riferimento della  disciplina  alla

materia del coordinamento della  finanza  pubblica,  essa  rimarrebbe

ugualmente illegittima in quanto fondata su regole di  dettaglio,  in

violazione dell'art. 117, terzo comma, cost. Infatti, con riferimento

a  tale  profilo,  pare   evidente,   sulla   scorta   della   stessa

giurisprudenza  costituzionale,  che  la  disposizione  in  esame  ha

carattere di estremo dettaglio, che non si limita  ad  indicare  alle

Regioni  obiettivi,  standard,  tetti  da  raggiungere  con  mezzi  e

modalita' individuabili dalla stessa Regione, nell'ambito della sfera

di  discrezionalita'/autonomia   alla   medesima   costituzionalmente

garantita,  ma  fissa  direttamente  ed  obbligatoriamente  tagli   e

riduzioni degli organici  del  Consiglio,  sulla  base  di  parametri

(consistenza popolazione), che  erano  stati  superati  dalla  stessa

riforma costituzionale del 1999, allorche' era stata  demandato  alla

competenza statutaria delle  Regioni  ("nuovo"  art.  123,  comma  1,

Cost.) il compito di  determinare  il  numero,  ritenuto  ottimale  e

rappresentativo, dei componenti del Consiglio regionale.  Nell'ambito

della giurisprudenza  costituzionale,  si  rinviene  un  orientamento

consolidato (Corte Cost nn. 159/2008,  36/2004,  390/2004,  449/2005,

95/2007)  secondo  cui   costituiscono   principi   fondamentali   le

disposizioni che si limitano a prescrivere obiettivi  da  realizzare,

lasciando alle Regioni la scelta del modo attraverso cui perseguirli.

Mentre,  di  contro,  e'  da  escludere  la  possibilita'  di  simile

qualificazione,  nel  caso  di  disposizioni  che  impongono   misure

analitiche, di dettaglio e vincoli puntuali. Pertanto,  nella  misura

in cui la  disposizione  in  esame  non  si  limita  a  stabilire  un

obiettivo, ma indica direttamente  i  mezzi  ed  anche  il  dettaglio

minuto della relativa applicazione, non lasciando alternativa alcuna,

e' evidente che la stessa fuoriesce dalla qualificazione  in  termini

di norma di "principio".

    Sotto altro profilo, occorre considerare  che,  pur  non  essendo

sempre chiara la ratio distinguendi fra norma di dettaglio e norma di

principio, emerge dalla giurisprudenza della Corte  e,  specialmente,

dalla dottrina, la considerazione secondo cui la norma  di  principio

puo' spingersi nel dettaglio soltanto qualora si possa dimostrare che

la  disposizione  enunciata  e'  l'unica   modalita'   possibile   di

perseguimento dell'obiettivo atteso. Eevidente che detta  regola  non

vale affatto a giustificare la pervasivita' dell'intervento posto con

l'art. 14, considerato che l'obiettivo perseguito  dalla  manovra  e'

sostanzialmente quello del  contenimento  dei  costi  della  politica

delle Regioni; obiettivo, in  verita',  che  puo'  essere  perseguito

mediante una pluralita' di azione diverse.

    Per queste ragioni, ai  precedenti  motivi  di  impugnazione,  si

aggiunge anche la violazione dell'art.  117,  comma  3,  laddove,  in

materia di "armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della

finanza   pubblica   e   del   sistema   tributario",   detta   norma

costituzionale assegna allo Stato potesta' legislativa concorrente, e

percio'   limitata   alla   sola   "determinazione    dei    principi

fondamentali".

4.  In  subordine.  Ulteriore  illegittimita'  costituzionale   della

disposizione, in quanto sanziona la Regione per una circostanza della

quale essa stessa non dispone compiutamente.

    Una  ulteriore  ragione  di  illegittimita'  degli  obblighi   di

adeguamento che le disposizioni  impugnate  impongono  alle  Regioni,

risulta dalla circostanza  che  la  richiesta  riduzione  del  numero

massimo dei consiglieri (e  degli  assessori)  regionali  potra'  con

certezza essere "operata entro sei mesi  dalla  data  di  entrata  in

vigore del presente decreto" solo se lo Statuto non abbisogna  a  tal

fine di una revisione, ponendo indicazioni numeriche diverse.

    Ove invece  il  numero  dei  consiglieri  sia  determinato  dallo

Statuto, lo stesso Ente Regione non puo' essere considerato del tutto

libero di  apportare  al  suo  Statuto  le  modifiche  richieste.  La

Regione,  in  quanto  ente,  non  e'  in  grado  ne'  di  determinare

compiutamente i tempi della approvazione, ne' la stessa  approvazione

delle modifiche richieste.

    Infatti, come prescrive la Costituzione, la  legge  di  revisione

statutaria e' potenzialmente sottoposta a ben tre altre  "autorita'",

oltre a quella dell'Assemblea legislativa:  al  controllo  preventivo

del  Governo,   all'eventuale   giudizio   preventivo   della   Corte

costituzionale, all'eventuale referendum approvativo. Quindi,  l'art.

14 pone a carico dell'Ente Regione un  obbligo  giuridico  sanzionato

che, pero', puo' essere impedito da soggetti  che  stanno  fuori  del

novero delle istituzioni regionali politicamente responsabili.

    Ne' si dica che i primi due eventi conseguono alla illegittimita'

delle norme eventualmente adottate: perche' il  giudizio  -  iniziato

per  ragioni  di  legittimita'  -  potra'  bene  concludersi  con  la

reiezione del ricorso, ma  intanto  i  tempi  di  approvazione  delle

modifiche saranno completamente saltati.

    Ancor piu'  evidente  appare  la  possibilita'  che  la  modifica

statutaria  venga  sottoposta  a  referendum,  con   la   conseguente

impossibilita' di predire il risultato.

    L'irragionevolezza  e'  palese:  la  riduzione  del  numero   dei

consiglieri regionali potra' anche essere "adottata" entro il termine

di sei mesi (pure non previsto  dalla  Costituzione)  attraverso  una

delibera dell'Assemblea legislativa, ma che essa sia "efficace  dalla

prima legislatura  regionale,  successiva  a  quella  della  data  di

entrata in vigore del presente decreto",  e'  un  fatto  che  dipende

dalla volonta' di  altri  soggetti  (Governo,  Corte  costituzionale,

corpo elettorale).

    E' chiaro, peraltro, che la minaccia delle gravi conseguenze  che

la norma impugnata ricollega al mancato  adempimento  degli  obblighi

previsti, si tradurrebbe in una forte pressione sul corpo elettorale,

affinche' non eserciti la sua facolta' di  promuovere  il  referendum

conformativo. L'irragionevolezza  di  questa  norma  determina  sotto

questo  profilo  anche  una   ulteriore   violazione   dell'autonomia

statutaria della Regione, alterando il ruolo che il corpo  elettorale

svolge nell'adozione e nella modifica dello Statuto in base  all'art.

123, c. 6, della cost. Lo Statuto e' anche  un  atto  politico  della

comunita'/popolo regionale, atto di cui, dunque,  la  Regione  "ente"

non dispone completamente.

5. Illegittimita' costituzionale dell'obbligo di istituzione Collegio

dei revisori e dei  poteri  regolamentari  affidati  alla  Corte  dei

Conti. Violazione degli  articoli  100,  comma  secondo,  103,  comma

secondo, 117, commi terzo e sesto, 121 della Costituzione.

    La disposizione contenuta nella lettera e) prevede l'obbligatoria

istituzione, in ogni Regione, a decorrere dal 1 gennaio 2012,  di  un

Collegio dei revisori dei conti,  quale  organo  di  vigilanza  sulla

regolarita'  contabile,  finanziaria  ed  economica  della   gestione

dell'Ente,  il  quale,  "ai  fini  del  coordinamento  della  finanza

pubblica, opera in raccordo con le  Sezioni  regionali  di  controllo

della Corte dei conti".

    Alla stessa Corte dei conti  e'  demandata  l'individuazione  dei

criteri  per  la  determinazione   della   specifica   qualificazione

professionale  in  materia  di  contabilita'  pubblica   e   gestione

economica  e  finanziaria  degli  enti  territoriali,  richiesta  per

l'iscrizione  nell'elenco,  dal  quale  debbono  essere  estratti   i

componenti  (oltre  a  tale  qualificazione,  per  l'iscrizione  sono

richiesti  anche  i  requisiti  previsti   dai   principi   contabili

internazionali e la qualifica di revisori legali).

    Ad  avviso  della  ricorrente  Regione  tali  disposizioni   sono

costituzionalmente illegittime: si dispone l'istituzione di un  nuovo

organo  necessario  delle  Regioni,  in  contrasto  con  il   dettato

costituzionale e all'autonomia statutaria regionale, con in  piu'  la

singolare - ma anche illegittima - attribuzione di  poteri  normativi

alla Corte dei conti  circa  l'individuazione  dei  componenti.  Ora,

l'art. 121 cost. individua direttamente gli  organi  necessari  delle

Regioni  (Presidente,  Giunta  e  Consiglio);  mentre,  di  converso,

l'istituzione degli organi non necessari (ossia eventuali) e' rimessa

allo Statuto o alla legge regionale, ferma restando  l'intangibilita'

delle competenze affidate dalla Costituzione agli  organi  necessari.

Pertanto, il legislatore statale ordinario  difetta  di  qualsivoglia

competenza in ordine alla stessa previsione/  imposizione  del  nuovo

organo quale componente necessaria dell'organizzazione regionale.

    Ed in effetti lo  Statuto  della  Regione  Umbria  gia'  prevede,

all'art. 78, comma 2, gia' prevede che il  controllo  sulla  gestione

finanziaria della Regione sia esercitato da un Collegio dei  revisori

dei conti, per la cui disciplina si rinvia alla legge regionale:  che

in effetti e' intervenuta con la legge regionale n. 22 del 2005.

    Dunque, la previsione statale verrebbe a sostituirsi alle  regole

che la Regione, nella sua autonomia,  ha  gia'  dettato  allo  stesso

scopo, senza che vi sia alcun  titolo  che  legittimi  un  intervento

cosi'  pervasivo.  Non  si  tratta  dunque  di  un   "principio"   di

coordinamento di finanza pubblica,  ma  di  una  norma  organizzativa

dettagliata     che     impone     addirittura      la      specifica

composizione/qualificazione professionale del nuovo organo e dei suoi

componenti,  esorbitando  dai  limiti  della  competenza  legislativa

statale, in violazione dell'art. 117, terzo comma Cost.

    Specificamente  ed  ulteriormente  illegittimo,  inoltre,  appare

l'affidamento alla Corte dei conti di  poteri  regolamentari  il  cui

esercizio  non  solo   interferisce   con   l'autonomia   legislativa

regionale,ma snatura la funzione stessa della Corte dei  conti  quale

organo  di  controllo  e  giurisdizionale,  per  definizione  esterno

rispetto all'organizzazione degli enti in  relazione  ai  quali  essa

svolge la sua azione, in violazione degli artt. 100 e 103  cost.  Ne'

lo Stato,  privo  esso  stesso  della  potesta'  regolamentare  nelle

materie concorrenti, puo'  demandarla  all'organo  di  controllo,  in

violazione dell'art. 117, commi terzo e sesto.

6.   Ulteriore   specifica   illegittimita'   costituzionale    della

disposizione secondo cui le Regioni che,  alla  data  di  entrata  in

vigore  del  presente  decreto,  abbiano  un  numero  di  consiglieri

regionali inferiore a quello previsto  nella  presente  lettera,  non

possono aumentarne il numero. Violazione degli artt. 3 e 97 Cost.

    Accanto a  quelle  sopra  lamentate,  una  specifica  ragione  di

illegittimita' costituzionale colpisce  la  disposizione  secondo  la

quale "le Regioni che, alla data di entrata in  vigore  del  presente

decreto, abbiano un  numero  di  consiglieri  regionali  inferiore  a

quello previsto nella presente lettera,  non  possono  aumentarne  il

numero".

    Infatti, se pure in denegata  ipotesi  vi  fosse  un  potere  del

legislatore statale di determinare il numero dei consiglieri in  modo

indiretto,  impropriamente  sanzionando  la  Regione  sul  piano  dei

vincoli giuridici ed  economici  per  il  mancato  adeguamento,  tale

potere  non  potrebbe  esercitarsi  che  secondo  un   principio   di

razionalita' ed in condizioni di uguaglianza per tutte le Regioni che

si trovassero nelle medesime condizioni.

    A tale elementare principio  contraddice  la  regola  secondo  la

quale una Regione non sarebbe neppure libera di determinare un numero

di consiglieri regionali  che  la  stessa  legge  statale  mostra  di

giudicare congruo, per la sola ragione che con precedente  scelta  la

Regione stessa aveva determinato un numero inferiore. Si  tratta,  in

definitiva, di violazione del principio di uguaglianza tra enti,  che

hanno, sotto tutti i profili rilevanti, le  medesime  caratteristiche

oggettive.

7. Illegittimita' costituzionale per difetto di  urgenza.  Violazione

dell'art. 77 Cost.

    Benche' si sia qui preferito dare la priorita' alle  censure  che

riguardano  il  merito  dispositivo  della   norma   impugnata,   per

completezza va aggiunto che, ad avviso della ricorrente Regione, essa

e' costituzionalmente illegittima  anche  sotto  il  diverso  profilo

della carenza dei presupposti del decreto-legge.

    Essa pone un termine assai stringente per la "adozione" o per  la

"operativita'" della  modifica  statutaria  (6  mesi),  senza  alcuna

esigenza di urgenza, visto che la norma stessa dispone che  le  nuove

misure saranno "efficaci" solo con la prossima legislatura regionale,

quindi non prima di maggio 2015. Risulta percio' violato anche l'art.

77 Cost., che sottopone la decretazione d'urgenza a precisi requisiti

di urgenza, oltre che di straordinarieta' e necessita'.

    Stabilire un termine "urgente" di sei mesi per l'approvazione  di

disposizioni  destinate  ad  operare  non  prima  di   quattro   anni

dall'entrata in vigore del provvedimento, sembra un caso molto chiaro

di violazione delle condizioni poste dall'art. 77 Cost.

    Sui presupposti a cui la giurisprudenza costituzionale  subordina

la legittimazione della Regione ad  agire  per  la  violazione  delle

norme costituzionali relative alle "forme" degli atti legislativi, si

rinvia alle motivazioni sviluppate in seguito in  relazione  all'art.

16, che qui vengono richiamate in toto.

V. Illegittimita' costituzionale dell'art. 16, recante "Riduzione dei

costi  relativi   alla   rappresentanza   politica   nei   comuni   e

razionalizzazione dell'esercizio delle funzioni comunali".

    Si premette che la Regione  Umbria  impugna  l'art.  16  in  nome

proprio,  ma  anche  su  richiesta  del  Consiglio  delle  Autonomie,

formulata ai sensi dell'art. 9, c. 2, della legge 5 giugno  2003,  n.

131, che modifica l'art. 32, c. 2, della 1. 11 marzo 1953  n.  87,  e

quale portatrice dei loro interessi istituzionali (cfr. deliberazione

del Consiglio delle autonomie locali dell'il novembre 2011,  n.  301,

allegato doc. 2).

1.Illegittimita' dell'art. 16  per  violazione  dell'art.  77,  commi

primo e secondo, Cost.

    L'intero  art.  16,  qui  impugnato,  appare   in   primo   luogo

costituzionalmente illegittimo per difetto del  requisito  dei  "casi

straordinari di necessita' e d'urgenza" richiesti dall'art. 77, commi

primo e secondo, della Costituzione.

    Si  tratta,  invero,  di   norme   ordinamentali   che   incidono

profondamente sullo status istituzionale dei Comuni. Infatti, i commi

da 1 a 16 impongono ai  Comuni  fino  a  1000  abitanti  la  gestione

associata ed altre modalita' vincolate per l'esercizio  di  tutte  le

funzioni amministrative e la gestione di tutti i  servizi,  definendo

altresi' minutamente l'istituzione e la composizione degli organi  di

una nuova  forma  di  associazione  obbligatoria  denominata  Unione;

mentre  i  commi  da  17  a  21   innovano   nella   composizione   e

nell'articolazione degli organi dei Comuni in genere, incidendo sulla

loro autonomia organizzativa e  sul  loro  attuale  funzionamento,  e

dispongono in materia di retribuzione dei componenti degli organi  di

governo degli enti territoriali. Lo stesso  decreto-legge  stabilisce

che la disciplina varata non e' di immediata applicazione, laddove al

comma 9 pospone la sua operativita' "a  decorrere  dal  giorno  della

proclamazione degli eletti negli organi di governo  del  Comune  che,

successivamente al 13 agosto  2012,  sia  per  primo  interessato  al

rinnovo". Appare dunque di tutta evidenza  che  l'applicazione  delle

disposizioni in questione non e' destinata a compiersi, e nemmeno  ad

iniziare, nell'immediato.

    E' altrettanto evidente che entro quel termine -  ed  anzi  molto

prima - avrebbe potuto attivarsi e compiersi l'ordinario procedimento

legislativo, e che dunque non vi era ragione alcuna per la  quale  il

Governo dovesse  sostituirsi  al  naturale  titolare  della  funzione

legislativa.

    Ne' si potrebbe replicare che l'urgenza, se  non  era  di  queste

disposizioni, era invece di altre  contenute  nello  stesso  decreto:

perche' questo, anziche' giustificare, aggrava il vulnus inferto alle

regole sulle competenze costituzionali, avendo con  cio'  il  Governo

costretto il Parlamento a deliberare senza ragione nel breve  termine

che la conversione del decreto-legge, e la  reale  urgenza  economica

del paese, richiedevano.

    A rendere ancor piu' evidente il gia' evidente difetto di urgenza

delle disposizioni introdotte vale  ulteriormente  la  considerazione

che esse non solo sono destinate ad attuarsi in  un  momento  lontano

nel tempo, ma neppure appaiono connesse a risparmi di  spesa  che  si

possano considerare certi e rilevanti.

    Infatti,  i  contenuti  delle  norme   censurate   non   sembrano

rispondere adeguatamente alla finalita' del "contenimento delle spese

degli enti territoriali", perseguita in nome  del  risanamento  della

finanza pubblica, non essendo, tra l'altro,  nemmeno  quantificati  i

supposti  risparmi  di  spesa.  Sicche',  mentre   gli   effetti   di

innovazione  ordinamentale  contenuti  in  queste   norme   sono   di

grandissima rilevanza, anche sotto  il  profilo  costituzionale,  gli

effetti concreti che  queste  possono  determinare  sul  contenimento

della spesa appaiono incerti e, comunque,  solo  eventuali:  mancano,

infatti,  di  quella  precisione  ed   evidenza   che   ne   potrebbe

giustificare  l'emanazione  per  decreto-legge.  Sotto   il   profilo

economico e di contenimento della spesa  manca  ogni  quantificazione

anche nella relazione della Ragioneria Generale che  ha  accompagnato

il provvedimento di urgenza.

    All'opposto, sarebbero stati da tenere in  considerazione,  anche

ai fini della copertura  delle  spese,  gli  oneri  amministrativi  a

carico   delle   Amministrazioni   coinvolte,    che    deriverebbero

dall'applicazione di queste norme come conseguenza dei  mutamenti  di

organizzazione,  di  strutture  operative,   di   semplici   ma   non

irrilevanti costi di ristrutturazione degli uffici  e  del  materiale

amministrativo.  Si  tratta  di  costi  certi,   che   rendono   solo

benintenzionata, ma  non  certo  efficace,  quella  disposizione  che

legislatore ha inserito in chiusura alla nuova disciplina (comma  30)

secondo cui "dall'applicazione di ciascuna delle disposizioni di  cui

al presente articolo non devono derivare nuovi  o  maggiori  oneri  a

carico della finanza pubblica".

    Si tratta di una clausola la cui presenza non fa  che  introdurre

un ulteriore elemento di irrazionalita' nella disciplina, perche'  le

spese sono  davvero  certe,  ove  si  consideri  che  anche  semplici

adempimenti burocratici, come il cambiamento dell'intestazione  della

carta ufficiale, dei timbri  o  degli  indirizzi  elettronici  dovra'

inevitabilmente comportare una qualche spesa a  carico  del  bilancio

pubblico.

    Che il difetto dei requisiti  di  necessita'  ed  urgenza  generi

vizio di legittimita' costituzionale e' fuori di dubbio.

    Gia'  con  la  "storica"  sent.  n.  29/1995,  codesta  Corte  ha

fermamente  ribadito  la   sindacabilita'   della   sussistenza   dei

presupposti   di   straordinarieta',   necessita'   e   urgenza   del

decreto-legge, i  quali  costituiscono  "un  requisito  di  validita'

costituzionale  dell'adozione  del  predetto  atto",  di   modo   che

l'eventuale evidente mancanza di quel presupposto configura tanto  un

vizio di legittimita' costituzionale del decreto-legge  [...]  quanto

un  vizio  in  procedendo  della   legge   di   conversione,   avendo

quest'ultima [...] valutato erroneamente l'esistenza  di  presupposti

di validita' in realta' insussistenti e, quindi, convertito in  legge

un atto che non poteva essere legittimo  oggetto  di  conversione"  -

vizio che rimane censurabile quand'anche il  decreto  e'  gia'  stato

convertito in legge, come la stessa Corte ha ribadito nelle ben  note

sent. nn. 171/2007 e 128/2008.

    E' vero che la Corte ha  affermato  anche  che  la  mancanza  dei

presupposti della decretazione d'urgenza puo' dar luogo ad  un  vizio

di legittimita' dell'atto "solo quando essa appaia chiara e manifesta

perche' solo in questo caso il sindacato di legittimita' della  Corte

non rischia di sovrapporsi alla valutazione di opportunita'  politica

riservata al Parlamento" (sent. 398/1998, n.  3  del  considerato  in

diritto).  Ma  un  decreto-legge  che  pospone  l'operativita'  delle

proprie misure ad una data indefinita, ma che comunque in nessun caso

puo' cadere prima di un anno dalla sua entrata in vigore  appare  del

tutto incompatibile con quella "immediata applicazione" che la  legge

400/1988, in attuazione dell'art. 77  Cost.,  pone  come  vincolo  al

potere governativo di decretazione d'urgenza.

    Denunciato il vizio,  che  ad  avviso  della  ricorrente  Regione

inficia l'intera disciplina dell'art. 16, occorre ora affrontare, per

i dubbi che potrebbero essere sollevati in proposito, il  tema  della

legittimazione della Regione a farlo valere.

    Infatti, come codesta Ecc.ma Corte ha piu' volte  avuto  modo  di

affermare, "le Regioni non sono legittimate a far valere nei  ricorsi

in via principale gli ipotetici vizi nella formazione  di  una  fonte

primaria statale, se non «quando essi si risolvano  in  violazioni  o

menomazioni delle competenze» regionali (in particolare  le  sentenze

n. 398 del 1998; fra le molte analoghe anche le sentenze n. 383 e  n.

50 del 2005)", perche' puo' essere fatto  valere  il  contrasto  "con

norme costituzionali diverse  da  quelle  attributive  di  competenza

legislativa  soltanto  se  esso  si  risolva  in  una  esclusione   o

limitazione dei poteri regionali, senza  che  possano  avere  rilievo

denunce di illogicita' o di violazione di principi costituzionali che

non ridondino in lesione delle sfere di competenza regionale (tra  le

molte, sentenze n. 383 e n. 50 del  2005;  n.  287  del  2004)."  (la

citazione e' tratta dalla sent.n. 116/2006). L'unico interesse che le

Regioni sono legittimate a  far  valere  e',  infatti,  "quello  alla

salvaguardia   del   riparto   delle   competenze   delineato   dalla

Costituzione; esse, pertanto, hanno titolo a denunciare  soltanto  le

violazioni che siano in grado di ripercuotere i loro effetti, in  via

diretta  ed  immediata,   sulle   prerogative   costituzionali   loro

riconosciute dalla Costituzione" (sent. n. 216/2008).

    Benche' questa consolidata giurisprudenza abbia  finora  impedito

alle Regioni  di  poter  far  valere  i  vizi  "formali"  degli  atti

legislativi, la Corte non ha mai dichiarato  questa  preclusione  nei

confronti del soggetto Regione in quanto tale, ma in  relazione  alla

particolare    (e    particolarmente     restrittiva)     definizione

dell'interesse ad  agire.  Come  sottolinea  la  sentenza  da  ultimo

citata, perche' tale interesse sia ritenuto ammissibile e'  richiesto

che "l'iniziativa assunta dalle Regioni ricorrenti sia oggettivamente

diretta a conseguire l'utilita' propria", in  quanto  la  sussistenza

dell'interesse ad agire puo' essere postulata "soltanto  quando  esso

presenti le  caratteristiche  della  concretezza  e  dell'attualita',

consistendo in quella utilita' diretta ed immediata che  il  soggetto

che agisce puo' ottenere con il provvedimento richiesto al giudice".

    Tuttavia, l'"utilita' propria,  diretta  e  immediata"  non  puo'

essere fatta coincidere con la difesa  della  specifica  attribuzione

legislativa assegnata alla Regione, dal momento che la violazione  di

questa  costituirebbe  un  vulnus  al  riparto  costituzionale  delle

competenze denunciabile per se' stesso, senza che venga in rilievo la

specifica forma dell'atto legislativo che ne e' responsabile.

    Le "prerogative costituzionali" delle  Regjoni  debbono  pertanto

estendersi,  ad  avviso  della  Regione,   anche   al   loro   status

costituzionale e al ruolo ad esse assegnato nel processi decisionali.

E  lo  stesso  deve  dirsi  anche  per  i  Comuni,  quali  enti   che

primariamente "costituiscono" la Repubblica ai  sensi  dell'art.  114

della Costituzione, che ugualmente la  violazione  della  regola  del

procedimento legislativo ordinario ha privato della  possibilita'  di

far valere la propria voce.

    Inoltre, la  questione  della  legittimita'  di  anticipare,  con

misure  di  urgenza,  interventi   di   natura   ordinamentale,   che

dovrebbero, invece, essere  affrontati  nel  quadro  di  un  riordino

organico del sistema dei livelli territoriali  di  governo,  si  pone

ormai in termini acuti, oltre  che  dal  punto  di  vista  del  "buon

governo" del sistema repubblicano, anche nell'assetto delle relazioni

costituzionali che intercorrono tra Stato e Regioni,  le  quali,  per

costante affermazione della Corte costituzionale, devono ispirarsi al

principio di leale collaborazione.

    Ed e' evidente che, nello stesso arco temporale fissato dal comma

9 dell'art. 16, si sarebbe potuto giungere ad  un  testo  meditato  e

condiviso di riforma, dagli effetti assai piu' vasti e benefici,  sia

sotto il profilo della  funzionalita'  dell'Amministrazione  nel  suo

complesso, che del  contenimento  dei  costi  finanziari.  E'  quanto

denuncia il documento approvato il 24 giugno 2010,  dalla  Conferenza

delle Regioni, il quale, in relazione  alla  successione  di  decreti

legge e di altri provvedimenti che si sono accavallati nel  corso  di

quest'ultimo anno, osservava che: "Oltre alla preoccupazione  di  una

disarticolazione del quadro istituzionale, se non corroborato  da  un

quadro  strutturale  organico  di  riforme,   e'   anche   abbastanza

preoccupante  che  provvedimenti  di  riforma  strutturale,  come  il

disegno di legge c.d. Calderoli (C 3118) e il  disegno  di  legge  in

materia di semplificazione e carta dei doveri della P.A.  (C.  3209),

attualmente  all'esame  del  Parlamento,  risultino  progressivamente

svuotati mediante l'anticipazione di singole parti in essi  contenute

nella manovra appena approvata  dal  Governo.  Ci  si  riferisce,  in

particolare, all'art. 14, commi da 25 a 31  (contenenti  disposizioni

in materia di funzioni fondamentali dei  comuni).  Senza  considerare

quanto incida, o possa incidere, questa manovra, sulla  stessa  legge

n. 42/2009 e, soprattutto,  sulla  sua  concreta  attuazione.  Questo

approccio metodologico, anche solo da  un  punto  di  vista  tecnico,

potrebbe mettere a rischio la realizzabilita'  concreta  dei  disegni

complessivi  di  riforma,  e  sconfessa  il  metodo  che  sinora   ha

caratterizzato le relazioni istituzionali tra i  diversi  livelli  di

Governo, improntate al principio di leale collaborazione;  un  metodo

che si regge su precise fondamenta normative  (d.lgs.  n.  281/1997),

tuttora in vigore ed espressione di principi  costantemente  ribaditi

dalla Corte Costituzionale."

    Le Regioni, alla pari dei rappresentanti delle Associazioni degli

enti  locali,  sono  state  coinvolte  in  defatiganti  procedure  di

negoziazione, che avrebbero dovuto portare ad un riassetto chiaro  ed

equilibrato, come da tutti  auspicato,  dei  poteri  locali  e  delle

relazioni,  anche  finanziarie,  tra  Stato,  Regioni   e   autonomie

territoriali.

    E' evidente che esse sono del tutto inutili se poi al Governo  e'

consentito  di  procedere   unilateralmente   a   modificare   tratti

fondamentali del  quadro  istituzionale  con  caotici  e  unilaterali

provvedimenti ordinamentali (dalla legge finanziaria di fine anno, l.

191/2009 e dal decreto legge ad essa  collegato,  convertito  con  1.

42/2010, al successivo  inserimento  di  molta  parte  delle  residue

disposizioni nella c.d. Manovra  estiva  2010,  ovvero  nel  D.L.  n.

78/2010, convertito con legge n. 122/2010,  fino  alle  c.d.  Manovre

estive 2011, ossia il D.L. 98/2011 convertito con legge 111/2011 e il

D.L. 138/2011 convertito dalla  legge  148/2011)  e  soprattutto  con

quelli emanati in forma di decreti-legge, che, come si e' piu'  sopra

evidenziato, sono del tutto ingiustificabili, sia per quanto riguarda

l'urgenza del provvedere, sia per l'effettiva congruita' delle misure

rispetto al fine dichiarato.

    Ora, ad avviso della Regione ricorrente deve essere affermato che

cio' viene a ledere non soltanto un generico quadro di buoni rapporti

tra Stato e Regioni, ma anche tutti quei vincoli procedurali  che  le

stesse leggi di delega normalmente prevedono per dare  attuazione  al

principio di leale collaborazione.

    Per questi  motivi,  la  ricorrente  Regione  ritiene  di  essere

legittimata  a   far   valere,   in   relazione   alle   disposizioni

ordinamentali di cui all'art. 16, la violazione dell'art.  77  Cost.,

per quanto riguarda la carenza dei  presupposti  della  necessita'  e

dell'urgenza,  nonche'  per  violazione  degli   artt.   114   (ruolo

costituzionale delle Regioni) e 118, comma 1, (come  espressione  del

piu' generale principio di sussidiarieta'),  ed  infine  dell'art.  5

Cost.,  come  implicito  riconoscimento  del   principio   di   leale

collaborazione.

2. Illegittimita' costituzionale dei commi da 1 a 16  per  violazione

degli artt. 114, primo e secondo comma, 117,  primo,  secondo  comma,

lett. p), e quarto comma, 118 e 133, secondo  comma,  Cost.,  nonche'

per violazione del principio di non discriminazione, ragionevolezza e

di buon andamento, di cui agli art. 3 e 97 Cost.

    L'art. 16, nei commi da 1 a 16, prevede che:

        - a decorrere dalla data fissata dal comma 9,  i  Comuni  con

popolazione fino a 1000 abitanti debbano esercitare obbligatoriamente

in forma associata tutte le funzioni amministrative e tutti i servizi

pubblici loro spettanti tramite una Unione, disciplinata dall'art. 32

del TUEL e dalle norme puntuali, e ampiamente  innovative,  contenute

nei citati commi dell'art. 16;

        - di queste Unioni potranno far parte anche Comuni  superiori

a 1000  abitanti,  che  possono  esercitare  attraverso  di  esse  le

funzioni fondamentali o, a loro scelta, tutte le funzioni  o  servizi

loro attribuiti;

        - a queste Unioni spetta "per conto dei Comuni  che  ne  sono

membri, la programmazione finanziaria e  la  gestione  contabile  con

riferimento  alle  funzioni  esercitate   per   mezzo   dell'Unione",

disponendosi poi che "i Comuni concorrono  alla  predisposizione  del

bilancio di previsione dell'Unione" soltanto "mediante l'adozione  di

un  documento  programmatico,  nell'ambito  del  piano  generale   di

indirizzo deliberato dall'Unione" (comma 4);

        -  l'Unione  succede,  a  tutti  gli  effetti,  nei  rapporti

giuridici in essere che siano inerenti alle funzioni e ai servizi  ad

essa affidati, nonche' nei relativi rapporti finanziari derivanti dal

bilancio; dal  momento  dell'istituzione  dell'Unione,  per  tutti  i

Comuni (compresi  quelli  con  popolazione  superiore  che  svolgano,

mediante l'Unione, tutte le loro funzioni)  decadono  le  Giunte,  ed

unici organi  sono  il  Sindaco  e  il  Consiglio,  a  cui  residuano

"esclusivamente i poteri di indirizzo";

        - l'Unione e' dotata di propri organi ed, in particolare,  di

un  Consiglio  composto  dai  Sindaci  e  da  un  certo  numero   dei

Consiglieri dei Comuni membri, i quali eleggono il Presidente che,  a

sua volta, nomina  la  Giunta  (in  seguito  il  legislatore  statale

potra'prevedere l'elezione a suffragio universale e diretto di questi

organi: commi 10 e 11). I commi 12, 13, 14, 15  inoltre  disciplinano

minutamente composizione, funzioni, durata in  carica  ed  emolumenti

degli organi delle Unioni; i Comuni inferiori a 1000 abitanti possono

derogare all'obbligo di esercitare, tramite l'Unione, tutte  le  loro

funzioni e i loro servizi, solo se adottano altra forma  associativa,

quale la convenzione di cui all'art.30 TUEL, fermo restando che anche

in questo caso devono gestire tutte le funzioni e i servizi  ad  essi

attribuiti tramite la convenzione.

    Ad avviso della ricorrente  Regione,  l'intera  disciplina  sopra

sintetizzata, risulta viziata da  illegittimita'  costituzionale  per

violazione degli artt. 114,  primo  e  secondo  comma,  117,  secondo

comma, lettera p), e quarto comma, 118 e 133,  secondo  comma,  cost.

nonche' per violazione del principio  di  ragionevolezza  e  di  buon

andamento di cui agli art. 3 e 97 Cost.

    Conviene  qui  in  primo   luogo   riassumere   le   disposizioni

costituzionali che riguardano  i  Comuni,  e  le  competenze  che  in

relazione ad essi spettano allo Stato e  alle  Regioni.  Non  occorre

ricordare che secondo l'art. 114, primo comma, della  Costituzione  i

Comuni,  insieme  alle  Province,  alle  Citta'  metropolitane,  alle

Regioni ed allo Stato costituiscono la Repubblica. Inoltre, ai  sensi

del secondo comma, essi  "sono  enti  autonomi  con  propri  statuti,

poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione".

    Secondo l'art. 118, comma primo, ai Comuni spettano  le  funzioni

amministrative, nel quadro del principio di sussidiarieta', e secondo

il comma terzo essi hanno funzioni proprie, oltre a quelle  conferite

ad essi dalla Regione e dallo Stato.

    Secondo l'art. 117, comma secondo, lett. p),  spetta  alla  legge

statale definire le funzioni  fondamentali  dei  Comuni,  ed  inoltre

spetta ad essa la competenza in materia di legislazione elettorale  e

organi di governo.

    Invece, spetta alle Regione, ai sensi dell'art. 133, primo comma,

della Costituzione, "istituire nel proprio territorio nuovi Comuni  e

modificare  le  loro  circoscrizioni  e  denominazioni",  sentite  le

popolazioni interessate. E pure alla competenza regionale spetta,  ai

sensi dell'art. 117, quarto comma, Cost., la disciplina di ogni altro

aspetti delle istituzioni  comunali,  in  quanto  non  si  tratti  di

aspetti riservati alla loro stessa autonomia.

    Questo quadro di garanzie costituzionali delle autonomie locali e

questo riparto di competenze  va  ovviamente  tenuto  presente  anche

nell'affrontare il problema - che certo la Regione non ignora (avendo

intrapreso essa stessa,  sempre  in  accordo  con  gli  enti  locali,

rilevanti  iniziative  istituzionali  rivolte  a  risolverlo)   della

insufficiente dimensione di molti dei Comuni italiani.

    Si tratta di un problema complesso, che non puo'  essere  risolto

in modo sbrigativo e per via traversa - come  fa  la  disciplina  qui

impugnata (si conferma qui la gia' lamentata drammatica inadeguatezza

dello  strumento   della   decretazione   d'urgenza),   mediante   lo

svuotamento istituzionale dei comuni con popolazione inferiore a 1000

abitanti, privandoli delle funzioni, strutture e risorse  finanziarie

e  disponendo  la  loro  pratica  sostituzione  con  un  ente  nuovo,

l'Unione, nella quale finisce per  "sciogliersi"ogni  comune  la  cui

popolazione non superi la soglia indicata: un ente che ovviamente non

compare nella tipologia costituzionale degli  enti  costituivi  della

Repubblica e privo di legittimazione  democratica  diretta,  come  e'

stato  rilevato,  nel  corso  dei  lavori  preparatori,   sia   dalla

Commissione Affari Costituzionali del Senato, che  dalla  Commissione

parlamentare per le Questioni Regionali  che,  nel  parere  reso  sul

disegno  di  legge  di  conversione  del  D.L.  138/2011,   suggeriva

"l'opportunita' di sopprimere l'articolo 16".

    In effetti, altro e' promuovere entita' associative attraverso le

quali i Comuni  associati  possano  meglio  esercitare  alcune  delle

proprie funzioni,  fermo  restando  il  nucleo  centrale  della  loro

consistenza funzionale e strutturale di Comuni, altro  e'  ridurre  i

Comuni a mere strutture di rappresentanza, da aggregare in altro ente

che  -  senza  essere  esso   stesso   "Comune",   con   le   proprie

caratteristiche di immediata espressione della democrazia al  livello

locale - dei Comuni originari  assorbe  pressoche'  integralmente  le

funzioni, le strutture e le risorse.

    Quanto alle funzioni,  infatti,  la  disposizione  qui  censurata

priva i Comuni interessati di tutte le funzioni amministrative  e  di

gestione dei servizi pubblici. Quanto all'organizzazione, se e'  vero

che la legge di conversione ha evitato la drastica soppressione dello

stesso consiglio comunale accanto a quella mantenuta della Giunta, e'

anche vero che tali consigli comunali restano  come  semplici  organi

d'indirizzo ai quali "competono esclusivamente  poteri  di  indirizzo

nei confronti  del  consiglio  dell'Unione"  (comma  9).  Gli  stessi

sindaci dei Comuni diventano semplici  rappresentanti  nel  consiglio

dell'Unione, mentre le funzioni di Sindaco vengono assunte, a termini

del comma 12, dal presidente  dell'Unione.  Paradossalmente,  privati

delle funzioni di vertice del Comune,  i  Sindaci  si  caratterizzano

ormai soprattutto per l'esercizio delle funzioni relative ai  servizi

statali di cui all'art. 54 del d. lgs. n. 267 del 2000.

    Insomma, e' palese che  il  disegno  proprio  delle  disposizioni

dell'art. 16, nei commi da 1 a 16, e' di sostituire nella sostanza  i

Comuni di piccola dimensione con le Unioni. Questo disegno, tuttavia,

contrasta con le garanzie che la Costituzione offre a tutti i Comuni,

e costituisce un aggiramento delle apposite  procedure  e  competenze

che essa stabilisce per  la  creazione  di  nuovi  comuni  e  per  il

mutamento delle circoscrizioni comunali.

    In altre parole, le disposizioni impugnate costituiscono non solo

superamento dei poteri statali previsti dall'art. 117, comma secondo,

ma anche e prima di tutto violazione dell'art. 133 Cost.

    Solo in apparenza il legislatore  statale  dispone  di  organi  e

funzioni degli enti locali, perche', in realta', quello che ne  viene

alterata  e'  la  stessa  mappa  dell'autonomia  comunale,   che   e'

costituzionalmente garantita dalle peculiari procedure  appositamente

apprestate dall'art. 133. Infatti, i Comuni  sotto  i  1000  abitanti

vengono svuotati di ogni loro attribuzione e delle  risorse  umane  e

strumentali, e  persino  della  titolarita'  dei  rapporti  giuridici

relativi alle funzioni amministrative, tutte  trasferite  all'Unione.

Cio' significa che dei  vecchi  comuni  resta  solo  l'involucro;  di

fatto, essi sono svuotati e ridotti a poco  piu'  che  circoscrizioni

elettorali dell'Unione di cui fanno parte.

    Come codesta Corte ha osservato nella sent. n. 2/2004 a proposito

degli  Statuti  regionali,  le  disposizioni   costituzionali   vanno

interpretate rispettandone lo  spirito,  oltre  che  la  lettera:  se

questo fondamentale principio vale per gli Statuti regionali, vale di

certo anche per il legislatore ordinario.  Mal  si  concilia  con  lo

"spirito"  dell'art.  133   Cost.   una   legge   che   lasci   delle

circoscrizioni comunali soltanto le indicazioni segnaletiche, perche'

l'esercizio  delle  funzioni  amministrative  e'  stato,   d'imperio,

traslocato altrove.

    Come sopra accennato, non si vuole certo negare che un  riassetto

delle autonomie locali sia necessario, ma non lo si puo' operare  con

strumenti  impropri  e  improvvisati  nella   fretta,   paralizzando,

oltretutto, il lavoro di elaborazione condivisa che da tempo si stava

sviluppando nelle sedi istituzionali disponibili.

    Il complesso normativo costituito dall'art. 16, commi da 1 a  16,

non  e'  dunque  compatibile  con  i  principi  costituzionali  sopra

esposti: ne' con il riconoscimento, che e' espressamente fatto, della

natura costitutiva dei Comuni  nella  costruzione  della  Repubblica,

nEcon i principi di autonomia statutaria, organizzativo-regolamentare

e finanziaria, nEcon i principi piu' specifici dell'art.  118  Cost.,

per quanto riguarda le funzioni fondamentali e  le  funzioni  proprie

dei Comuni, che - come insegna codesta Corte  (sent.  n.  43/2004)  -

sono "definite dalla legge, sulla base di criteri oggi  assistiti  da

garanzia  costituzionale".  Lo  stesso  principio  di  sussidiarieta'

subisce una violazione, in quanto la "differenziazione" dei Comuni  e

delle loro funzioni non puo' essere disgiunta da una  considerazione,

in  concreto,  della  capacita'  amministrativa  e  di  gestione  che

distingue gli enti minori in ogni diversa realta' del  Paese,  e  non

puo' ridursi alla privazione delle funzioni dei Comuni minori.

    Inoltre, risulta violata la Carta europea delle autonomie locali,

ratificata dall'Italia con la legge 30  dicembre  1989,  n.  439.  Il

contrasto e' evidente, in particolare, con l'art. 3, che nel definire

il Concetto di autonomia locale non solo precisa che  "per  autonomia

locale, s'intende  il  diritto  e  la  capacita'  effettiva,  per  le

collettivita' locali, di regolamentare  ed  amministrare  nell'ambito

della  legge,  sotto  la  loro  responsabilita',  e  a  favore  delle

popolazioni, una parte importante di affari pubblici" (comma  1),  ma

sottolinea anche che  "tale  diritto  e'  esercitato  da  Consigli  e

Assemblee costituiti da membri eletti a  suffragio  libero,  segreto,

paritario, diretto ed universale, in  grado  di  disporre  di  organi

esecutivi responsabili nei loro confronti".

    Dunque, il trasferimento coattivo  delle  funzioni,  strutture  e

risorse relative a tutte le funzioni amministrative e di gestione dei

pubblici servizi dei Comuni  minori  ad  amministrazioni  di  secondo

grado viola anche gli impegni  liberamente  assunti  dall'Italia  nel

quadro  europeo,  e  con  cio'  l'art.  117,   primo   comma,   della

Costituzione. Si noti, tra l'altro, che in concreto  molto  spesso  i

comuni con  popolazione  non  superiore  a  1000  abitanti  non  sono

contigui, sicche' essi debbono partecipare ad Unioni che  comprendono

Comuni che affidano all'Unione solo alcune  delle  proprie  funzioni,

mantenendo per il resto (ed ovviamente)  la  pienezza  della  propria

natura di Comuni: sicche' la situazione istituzionale  risulta  anche

fortemente asimmetrica e diseguale, con il  solo  comune  minore  che

perde nella sostanza la propria natura di vero Comune,  a  favore  di

una Unione che per tutti gli altri  comuni  rimane  un'organizzazione

settoriale. In altre parole la stessa Unione non ha la stessa  natura

per tutti i comuni componenti, dato che per  la  maggior  parte  essa

resta una organizzazione funzionale di servizio, mentre per il Comune

fino a 1000 abitanti essa in  realta'  subentra  nel  ruolo  di  vero

Comune.

    Ad avviso della Regione sotto questo profilo  risultano  violati,

oltre che l'art. 114, anche  gli  artt.  3  e  97  Cost.,  in  quanto

soluzione discriminatrice, priva di ragionevolezza  ed  in  contrasto

con il principio di buon andamento dell'amministrazione.

    Oltre  alle  regole  costituzionali  in  materia   di   autonomia

comunale, le disposizioni impugnate violano le  competenze  residuali

delle Regioni in materia di associazionismo tra enti locali.

    Infatti, come confermato da codesta  Corte  costituzionale  nella

sent. n. 456/2005 (ivi il riferimento specifico era  alla  disciplina

delle Comunita' montane),  nello  stabilire  la  competenza  statale,

l'art. 117, secondo comma, lettera p), "fa  espresso  riferimento  ai

Comuni, alle Province e alle  Citta'  metropolitane  e  l'indicazione

deve ritenersi tassativa".  Dunque,  la  potesta'  legislativa  dello

Stato si ferma all'ordinamento degli enti locali, e  non  si  estende

alle loro forme associative (cfr. anche la sent.n.  27/2010),  ne'  a

quel "caso speciale  di  Unioni  di  Comuni"  (cfr.  Corte  cost.  n.

456/2005) quali sono, appunto, le Comunita' montane, enti non  dotati

di "autonomia costituzionalmente garantita" (sent. n.  397/2006).  In

effetti, la giurisprudenza costituzionale  ha  in  diverse  occasioni

confermato l'incompetenza del legislatore statale ad  intervenire  in

un  ambito,  quello  delle  forme  associative,  riconducibile   alla

potesta' legislativa regionale residuale (sentenze nn. 244 e 456  del

2005, n. 387 del 2006, n. 237/2009, n. 27/2010 e n. 326/2010).

    Di  conseguenza,  l'intera  disciplina  della   speciale   Unione

prevista dai commi da 1 a 16, a maggiore ragione per il suo carattere

dettagliato e minuzioso, appare  costituzionalmente  illegittima  per

lesione della  competenze  residuale  delle  Regioni  in  materia  di

associazionismo tra enti locali.

    Si noti che la Regione Umbria ha gia' esercitato tale  competenza

con la legge regionale n. 18 del 2003, recante tra l'altro  Norme  in

materia di forme associative dei Comuni  e  di  incentivazione  delle

stesse.

    Da  ultimo,  e  in   subordine,   va   censurata   la   specifica

incostituzionalita' di talune disposizioni dell'art. 16 che prevedono

poteri regolativi e amministrativi statali nella  applicazione  della

normativa impugnata.

    Cosi' il comma 4 dispone, tra l'altro, che "con  regolamento"  da

adottare ai sensi dell'articolo 17, comma 1, della  legge  23  agosto

1988, n. 400 "su proposta del Ministro dell'interno, di concerto  con

il Ministro per le riforme per il federalismo, sono  disciplinati  il

procedimento amministrativo-contabile di formazione e  di  variazione

del  documento  programmatico,  i  poteri  di  vigilanza  sulla   sua

attuazione e la successione nei rapporti amministrativo-contabili tra

ciascun comune e l'unione".

    Ad avviso della ricorrente Regione, si tratta di un potere che in

nessun modo e' riconducibile alla competenza legislativa  statale  in

materia di individuazione della funzioni fondamentali,  o  ad  alcuna

altra  materia  di  competenza  statale.  Si  tratta   invece   della

disciplina  dei  rapporti  tra  i  Comuni  e  l'entita'  associativa,

rapporti che - per la parte che non  ricade  nella  stessa  autonomia

comunale - compete alla Regione ai sensi dell'art. 117, quarto comma,

Cost.

    Di conseguenza, non vi e' potere regolamentare statale, a termini

dell'art. 117, comma sesto, Cost.

    In ulteriore subordine, ove  dovesse  ammettersi  una  competenza

statale, risulta violato il principio di  leale  collaborazione,  non

essendo prevista ne' l'intesa con la Regione interessata ne' l'intesa

con la Conferenza unificata.

    Ugualmente, risulta illegittimo il comma 16, per  violazione  del

principio di leale collaborazione, per avere il  legislatore  statale

completamente pretermesso le Regioni nella valutazione - demandata in

via esclusiva al Ministro degli Interni - in ordine al conseguimento,

da parte dei Comuni  gia'  coinvolti  in  forme  associative  di  cui

all'art. 30 del T.U.E.L., dei "significativi livelli di efficacia  ed

efficienza nella gestione,  mediante  convenzione,  delle  rispettive

attribuzioni". E' eclatante la  circostanza  che  gli  effetti  delle

leggi regionali  sull'associazionismo  vengano  a  dipendere  da  una

valutazione unilaterale e centralizzata del Ministero degli  Interni,

senza  alcun  coinvolgimento  delle  Regioni  stesse,  in  violazione

dell'art.  117,  comma  4.  E'  evidente,  altresi',  la   violazione

dell'art. 114, in quanto detta disposizione  introduce  un  controllo

statale sulla efficacia ed  efficienza  della  gestione  delle  forme

associative  diverse  dalle  unioni,  in  violazione   dell'autonomia

riconosciuta agli enti territoriali dall'attuale testo dell'art. 114,

come modifica dalla riforma del titolo V. 

 

                               P. Q. M.

 

    Voglia codesta Ecc.ma Corte costituzionale accogliere il ricorso,

dichiarando   l'illegittimita'   costituzionale    delle    impugnate

disposizioni del decreto-legge 13 agosto 2011 n. 138, come convertito

nella legge n. 148 del 2011, nelle  parti,  nei  termini  e  sotto  i

profili esposti nel presente ricorso.

        Padova-Bologna-Roma, 14 novembre 2011

 

               L'Avv. Manuali - Il Prof. Avv. Falcon -

             Il Prof. avv. Mastragostino - L'Avv. Manzi

 

    Allegati:

        1) Deliberazione della Giunta regionale del 14 novembre 2011,

n. 1332.

        2) Deliberazione del Consiglio delle autonomie locali dell'11

novembre 2011, n. 301.

 

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