Ricorso n. 147 del 23 novembre 2011 (Regione Umbria)
Ricorso per questione di legittimita' costituzionale depositato in
cancelleria il 23 novembre 2011 (della Regione Umbria).
(GU n. 1 del 4.1.2012)
Ricorso della Regione Umbria, in persona del Presidente della
Giunta regionale pro-tempore Catiuscia Marini, autorizzata con
deliberazione della Giunta regionale del 14 novembre 2011, n. 1332
(doc. 1), rappresentata e difesa, come da procura speciale a margine
del presente atto, dall'avv. Paola Manuali dell'Avvocatura regionale,
dall'avv. prof. Giandomenico Falcon di Padova, dall'avv. prof. Franco
Mastragostino di Bologna e dall'avv. Luigi Manzi di Roma, con
domicilio eletto in Roma nello studio di quest'ultimo in via
Confalonieri, n. 5;
Contro il Presidente del Consiglio dei ministri per la
dichiarazione di illegittimita' costituzionale del decreto-legge 13
agosto 2011 n. 138, recante Ulteriori misure urgenti per la
stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo, in quanto convertito,
con modificazioni, nella legge n. 148 del 2011, pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale n. del 16 settembre 2011, con riferimento alle
seguenti disposizioni:
articolo 3, commi 2, 3, 4„ 10 e 11; articolo 4, commi 8 e 12,
13, 14, 32 33; articolo 11; articolo 14, comma 1; articolo 16,
per violazione:
- degli articoli 3, 5, 75, 77, 97, 100, 103, 114, 117, 118,
119, 121, 123 e 133 della Costituzione;
- del principi di legalita' sostanziale, di non
discriminazione e di ragionevolezza, di certezza del diritto e di
leale collaborazione;
nei modi e per i profili di seguito illustrati.
Fatto
Il decreto-legge 13 agosto 2011 n. 138 ha introdotto ulteriori
misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo.
Esso e' stato poi convertito, con modificazioni, nella legge n. 148
del 2011. La presente impugnazione si rivolge dunque a talune
disposizioni del decreto-legge, in quanto esse sono state convertite
dalla citata legge e nella forma che con essa hanno assunto.
Naturalmente la Regione Umbria e' ben consapevole delle gravi
ragioni, legate alla situazione della finanza pubblica, che hanno
fornito la motivazione per le diverse disposizioni del decreto.
Ritiene pero' che anche le misure restrittive debbano muoversi nel
quadro delle regole costituzionali dei rapporti tra lo Stato, le
Regioni e le autonomie locali, e che anzi il rispetto di tali regole
sia necessario sempre, ma lo sia ancor piu' quando la loro
applicazione comporta sacrifici per le comunita' territoriali
coinvolte e per le persone che di esse fanno parte.
Cio' premesso, la ricorrente Regione Umbria ritiene che le
disposizioni sopra indicate siano lesive della sua autonomia
regionale costituzionalmente garantita, nonche' in parte
dell'autonomia garantita agli enti locali della Regioni, e che dunque
esse risultino costituzionalmente illegittime per le seguenti ragioni
di
Diritto
I. Illegittimita' costituzionale dell'articolo 3, recante Abrogazione
delle indebite restrizioni all'accesso e all'esercizio delle
professioni e delle attivita' economiche, in relazione ai commi 2, 3,
4, 10 e 11.
L'art. 3 e' dedicato, come ricorda la sua intitolazione, al
tentativo di semplificare il regime giuridico al quale sono
sottoposte le attivita' economiche, nel quadro pero' della necessaria
salvaguardia dei valori pubblici concorrenti e spesso contrapposti.
Esso si apre enunciando, al comma 1, un principio, e prescrivendo
che l'ordinamento di tutti gli enti territoriali, dai Comuni allo
Stato, vi si adegui.
Il principio consiste nella statuizione secondo la quale
"l'iniziativa e l'attivita' economica privata sono libere ed e'
permesso tutto cio' che non e' espressamente vietato dalla legge nei
soli casi di:
a) vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli
obblighi internazionali;
b) contrasto con i principi fondamentali della Costituzione;
c) danno alla sicurezza, alla liberta', alla dignita' umana e
contrasto con l'utilita' sociale;
d) disposizioni indispensabili per la protezione della salute
umana, la conservazione delle specie animali e vegetali,
dell'ambiente, del paesaggio e del patrimonio culturale;
e) disposizioni relative alle attivita' di raccolta di giochi
pubblici ovvero che comunque comportano effetti sulla finanza
pubblica".
Il comma 1, ora illustrato, non forma oggetto della presente
impugnazione.
Esso pone un ovvio principio di liberta' e non meno ovvie regole
che lo limitano, ponendo "eccezioni" che in realta' consistono nel
riferimento a valori ampi ed indeterminati, che non restringono
affatto l'ambito dei possibili divieti, e si traducono in un richiamo
ad un principio di ragionevolezza. Si puo' affermare senza paura di
sbagliare che tutti i divieti oggi esistenti potrebbero giustificarsi
in base ad una o piu' delle categorie enunciate.
Il problema che si pone, come si dira', consiste invece nella
circostanza che per la stessa ragione esso non e' in grado ne' di
funzionare da norma parametro della possibile abrogazione di
particolari regimi amministrativi, ne' di fungere da significativa
indicazione dei contenuti di una possibile normazione attuativa.
Il comma secondo dell'art. 3 stabilisce che "il comma 1
costituisce principio fondamentale per lo sviluppo economico e attua
la piena tutela della concorrenza tra le imprese".
Esso costituisce dunque una qualificazione giuridica del comma 1.
Esso forma oggetto della presente impugnazione per la circostanza che
le qualificazioni che esso assegna ad avviso della ricorrente Regione
sono o del tutto prive di significato, o comunque erronee.
Che il comma 1 costituisca "principio fondamentale per lo
sviluppo economico" potra' essere affermato in senso generico, ma
tradotto in termini di qualificazione giuridica risulta privo di ogni
significato. Infatti, lo sviluppo economico non e' materia di
potesta' legislativa concorrente tra lo Stato e le Regioni, e in
quanto considerato come materia e' semmai materia residuale
regionale. Non vi e' dunque alcuno specifico potere statale di
dettare principi fondamentali.
Ne' si vede quale possa essere il significato concreto della
enunciazione secondo la quale il comma 1 "attua la piena tutela della
concorrenza tra le imprese".
Esso stabilisce - come gia' l'art. 41 Cost. - il principio della
libera iniziativa economica, e lo tempera - sempre come l'art. 41
Cost. - con la necessaria tutela di altri valori competitivi, gli
stessi che l'art. 41 sintetizza nella tutela della utilita' sociale e
della sicurezza, liberta' e dignita' umana, prescrivendo che anche a
tal fine vi siano "i programmi e i controlli opportuni".
Esso dunque descrive i criteri del bilanciamento tra la liberta'
di impresa e le sue limitazioni, e non tutela la concorrenza piu' di
quanto la tuteli qualunque altra regola alla quale tutte le imprese
siano soggette.
Da sempre le Regioni sono competenti, nelle proprie materie e
secondo le regole di ciascuna, a porre limiti all'attivita' di
impresa per la tutela dei valori enunciati al comma 1. Il comma 2
sarebbe dunque del tutto illegittimo ove con tale enunciazione
volesse affermare la competenza esclusiva statale in materia.
Ma che cio' non sia, risulta dallo stesso comma 1, che impegna le
stesse Regioni ad adeguare il proprio ordinamento al principio in
esso enunciato, cosi' direttamente riconoscendo la competenza del
legislatore regionale.
Il nucleo centrale della presente impugnazione ha comunque ad
oggetto i meccanismi giuridici che, secondo il comma 3 dovrebbero
garantire l'operativita' del comma 1.
A termini del comma 3, primo periodo, "sono in ogni caso
soppresse, alla scadenza del termine di cui al comma 1" - cioe'
decorso il termine di un anno - "le disposizioni normative statali
incompatibili con quanto disposto nel medesimo comma, con conseguente
diretta applicazione degli istituti della segnalazione di inizio di
attivita' e dell'autocertificazione con controlli successivi".
Cosi' disponendo il comma 3, pur utilizzando il termine atecnico
della soppressione introduce indubbiamente un meccanismo abrogativo,
che tuttavia non e' in grado di funzionare, per le ragioni gia' sopra
esposte. Infatti, nessun divieto o limitazione posta dalla legge e'
puramente capriccioso, e tutti hanno necessariamente un fondamento in
termini di tutela della sicurezza, liberta', dignita' umana, o sono
destinati ad evitare un contrasto con l'utilita' sociale, o sono
stati ritenuti indispensabili per la protezione della salute umana,
la conservazione delle specie animali e vegetali, dell'ambiente, del
paesaggio e del patrimonio culturale.
Il problema e' piuttosto quello di trovare un corretto
bilanciamento tra le diverse esigenze, ma cio' non puo' avvenire
attraverso un meccanismo abrogativo che si limiti a confrontare un
astratto principio di liberta' con i limiti che proteggono i valori
contrapposti, ma deve essere operato in concreto, norma per norma,
attraverso la specifica fissazione normativa di un nuovo equilibrio.
Di difficile comprensione e' poi la previsione della sostituzione
delle disposizioni "soppresse" con i meccanismi della segnalazione di
inizio di attivita' e dell'autocertificazione con controlli
successivi: si tratta infatti di meccanismi (previsti dalla
legislazione sul procedimento amministrativo) che, quando ne
ricorrono i presupposti, sono gia' autoapplicativi e prevalenti sulle
discipline di settore: mentre se non ne ricorrono i presupposti non
si vede come essi potrebbero essere applicati.
La disposizione risulta dunque illegittima per violazione del
principio di ragionevolezza, dedotto dall'art. 3 Cost., del principio
di buon andamento, di cui all'art. 97, primo comma, Cost., nonche'
del principio di certezza del diritto, palesemente violato dalla
assoluta incertezza sulla disciplina vigente che deriverebbe dalla
applicazione del comma 3.
Conviene precisare che la Regione ritiene di essere legittimata a
far valere il vizio enunciato anche se il comma 3 si riferisce
apparentemente alle sole disposizioni normative statali. Infatti, la
legittimazione e lo stesso interesse della Regione verrebbero meno se
si potesse intendere che il comma 3 e' destinato ad operare soltanto
negli ambiti in cui non puo' intervenire la legislazione regionale,
cioe' negli ambiti materiali statali chiaramente ed oggettivamente
distinti dagli ambiti di legislazione regionale.
Sennonche', proprio i principi enunciati al comma 2 lasciano
invece pensare che la disposizione intenda operare anche negli ambiti
in cui e' legittimata ad intervenire la legislazione regionale: di
qui la legittimazione e l'interesse al ricorso, dal momento che
l'abrogazione delle disposizioni statali e la sostituzione dei
meccanismi vigenti con i meccanismi della segnalazione di inizio di
attivita' e dell'autocertificazione con controlli successivi verrebbe
ad incidere sulla applicazione della legislazione regionale.
Le considerazioni sopra svolte circa l'impossibilita' di una
applicazione diretta del comma 1 nella direzione di un sensato
giudizio di abrogazione delle singole discipline vigenti nei diversi
settori inducono ad affermare che la vera funzione del comma 3 sta
nel fungere da premessa al "vero" meccanismo attuativo previsto
dall'art. 3: il potere regolamentare statale previsto dal secondo e
terzo periodo.
Dispone infatti ancora il comma 3 che "nelle more della
decorrenza del predetto termine, l'adeguamento al principio di cui al
comma 1 puo' avvenire anche attraverso gli strumenti vigenti di
semplificazione normativa" (secondo periodo) e che "entro il 31
dicembre 2012 il Governo e' autorizzato ad adottare uno o piu'
regolamenti ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto
1988, n. 400, con i quali vengono individuate le disposizioni
abrogate per effetto di quanto disposto nel presente comma ed e'
definita la disciplina regolamentare della materia ai fini
dell'adeguamento al principio di cui al comma 1" (terzo periodo).
La previsione di un meccanismo di integrazione normativa che
settore per settore e norma per norma provveda a compiere ex novo la
valutazione necessaria per stabilire un nuovo equilibrio tra il
principio della liberta' di impresa e la tutela costituzionalmente
dovuta dei valori antagonisti si spiega facilmente, alla luce della
illustrata impossibilita' giuridica di una attuazione del comma 1
attraverso il meccanismo della abrogazione implicita.
Ma per la stessa ragione la previsione di regolamenti di
semplificazione e di delegificazione si rivela costituzionalmente
illegittima, in primo luogo per violazione del principio di legalita'
sostanziale. Sono infatti del tutto generici, ed in pratica dunque
assolutamente assenti, quei criteri, indicazioni e vincoli di
contenuto che devono costituire la cornice legislativa al cui interno
puo' esplicarsi: sicche' la disciplina regolamentare finisce per
essere meramente potestativa da parte del potere esecutivo.
Inoltre, l'assenza di qualunque delimitazione di materia del
potere regolamentare cosi' creato finisce per estenderne l'ambito sia
alle materie di potesta' concorrente che alle materie di potesta'
residuale regionale, con specifica violazione dell'art. 117, sesto
comma.
In subordine, ove in denegata ipotesi per ragioni di
sussidiarieta' dovesse essere ammessa la legittimita' del potere
regolamentare cosi' attribuito, la sua disciplina procedimentale
rimarrebbe illegittima per la mancata previsione dell'intesa con la
Conferenza Stato Regioni per i profili di connessione o interferenza
con le materie regionali.
Il comma 4 dell'art. 3 dispone che "l'adeguamento di Comuni,
Province e Regioni all'obbligo di cui al comma 1 costituisce elemento
di valutazione della virtuosita' dei predetti enti ai sensi dell'art.
20, comma 3, del decreto legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito dalla
legge 15 luglio 2011, n. 111".
Ad avviso della ricorrente Regione, anche tale disposizione e'
illegittima, sotto un duplice profilo.
In primo luogo, essendo (come sopra esposto) i criteri ai quali
le Regioni dovrebbero adeguarsi del tutto generici ed indefiniti,
cosi' come risulta impossibile un giudizio di abrogazione di
specifiche disciplina, allo stesso modo risulta indeterminato il
dovere di adeguamento, ed ulteriormente privo di parametri il
giudizio sull'avvenuto o non avvenuto adeguamento. Di qui la
complessiva incertezza ed irrazionalita' della disciplina, e la
sottoposizione della potesta' legislativa regionale a limiti diversi
da quelli previsti dalla Costituzione.
In secondo luogo, se anche i criteri ai quali adeguarsi fossero
definiti, non vi e' alcun collegamento razionale tra le discipline
regionali in questione e lo stato della finanza regionale, sicche' e'
del tutto incongruo che la Regione possa venire finanziariamente
penalizzata per presunti mancati adeguamenti ai principi statali
nell'esercizio della potesta' legislativa.
I commi 8 e 9 - che non formano oggetto della presente
impugnazione - prevedono la diretta abrogazione di una serie di
restrizioni all'esercizio di attivita' economiche.
E' invece impugnato il comma 10, secondo il quale "le restrizioni
diverse da quelle elencate nel comma 9 precedente possono essere
revocate con regolamento da emanare ai sensi dell'articolo 17, comma
2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, emanato su proposta del
Ministro competente".
Tale potere regolamentare risulta illegittimo per le stesse
ragioni gia' illustrate in relazione al comma 3, secondo e terzo
periodo: violazione del principio di legalita' sostanziale, per
assenza di qualunque criterio al cui interno il potere regolamentare
possa dirsi meramente esecutivo, violazione dell'art. 117, sesto
comma, in quanto il regolamento possa estendersi ad oggetti ed ambiti
di competenza regionale; in subordine, violazione del principio di
leale collaborazione, non prevedendosi per le materie di competenza
regionale l'intesa con la Conferenza Stato-Regioni.
Il comma 11 dispone che "singole attivita' economiche possono
essere escluse, in tutto o in parte, dall'abrogazione delle
restrizioni disposta ai sensi del comma 8", e che "in tal caso, la
suddetta esclusione, riferita alle limitazioni previste dal comma 9,
puo' essere concessa, con decreto del Presidente del Consiglio dei
Ministri, su proposta del Ministro competente di concerto con il
Ministro dell'economia e delle finanze, sentita l'Autorita' garante
della concorrenza e del mercato, entro quattro mesi dalla data di
entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto,
qualora: a) la limitazione sia funzionale a ragioni di interesse
pubblico, tra cui in particolare quelle connesse alla tutela della
salute umana; b) la restrizione rappresenti un mezzo idoneo,
indispensabile e, dal punto di vista del grado di interferenza nella
liberta' economica, ragionevolmente proporzionato all'interesse
pubblico cui e' destinata; c) la restrizione non introduca una
discriminazione diretta o indiretta basata sulla nazionalita' o, nel
caso di societa', sulla sede legale dell'impresa.
Anche tale disposizione appare costituzionalmente illegittima in
primo luogo in quanto consente solo allo Stato, e non anche alle
Regioni, di far valere, per le materie di propria competenza, le
ragioni di interesse pubblico che ostano al venir meno della
limitazione in questione.
In secondo luogo, ove per ragioni di uniformita' e sussidiarieta'
dovesse apparire legittima la esclusiva competenza statale, sembra
evidente che gli interessi rappresentati dalle Regioni nelle materie
di propria competenza dovrebbero pur sempre trovare espressione nella
necessita' dell'intesa con la Conferenza Stato-Regioni: intesa di cui
non vi e' traccia nella disposizione impugnata. Di qui
l'illegittimita' per violazione del principio di leale
collaborazione.
II. Illegittimita' costituzionale dell'art. 4, recante "Adeguamento
della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e
alla normativa dell'Unione europea" e segnatamente, dei commi
8,12,13,32,33 e 14, per violazione degli arti. 75 e 117, quarto comma
Cost.
All'art. 4 sono introdotte innovazioni legislative che incidono
sulle modalita' di affidamento dei servizi pubblici locali a
rilevanza economica, in una materia gia' oggetto di pronuncia
referendaria abrogativa di disposizioni in buona parte del tutto
analoghe a quelle oggi reintrodotte (art 23 bis). Tali disposizioni
intervengono in una materia - quella dei servizi pubblici locali -
che in quanto tale spetta pur sempre alla competenza legislativa
residuale regionale, ai sensi dell'art 117, quarto comma Cost.
Ad avviso della ricorrente Regione, le disposizioni statali qui
impugnate non sono giustificate da ragioni di tutela della
concorrenza, ma, soprattutto, violano la volonta', manifestata
attraverso il referendum, di riduzione/eliminazione dei vincoli,
aggiuntivi rispetto ai vincoli del diritto comunitario,
discrezionalmente introdotti dal legislatore statale con l'art 23
bis, in ordine alle forme di gestione dei servizi pubblici locali.
Alle Regioni spetta, inoltre, la legittimazione ad impugnare le
leggi statali in via diretta non solo a tutela della propria
legislazione, ma anche con il riferimento alla prospettata lesione,
da parte della legge nazionale, della autonomia propria degli enti
territoriali.
L'art. 4 ripropone disposizioni precedentemente contenute
nell'art. 23 bis del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, convertito in legge
6 agosto 2008, n. 133, come modificato dall'art. 30, comma 26, della
legge 23 luglio 2009, n. 99 e dall'art. 15 del decreto-legge 25
settembre 2009 n. 135, convertito, con modificazioni, dalla legge 20
novembre 2009, n. 166, abrogate con efficacia dal giorno successivo a
quello di pubblicazione del d.P.R. 18 luglio 2011, n. 13 (G.U. 20
luglio 2011, n. 167) e disposizioni del d.P.R. 7 settembre 2010, n.
168, recante "Regolamento in materia di servizi pubblici locali di
rilevanza economica, a norma dell'articolo 23 bis comma 10, del
decreto legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito con modificazioni,
dalla legge 6 agosto 2008, n. 133", la cui efficacia e' venuta meno a
seguito di tale abrogazione.
In sede di ammissibilita' della richiesta di referendum per
l'abrogazione dell'art. 23 bis del d.l. 25 giugno 2008, n. 112,
convertito con modificazioni dalla legge 6 agosto 2008, n. 133 e
s.m.i., nel testo risultante a seguito della sentenza n. 325 del 2010
di codesta Ecc.ma Corte, e' stato evidenziato che tale abrogazione
non ha "ad oggetto una legge a contenuto comunitariamente vincolato
(e, quindi, costituzionalmente vincolato, in applicazione degli artt.
11 e 117, primo comma, Cost.)" e che "in particolare, l'eventuale
abrogazione referendaria non comporterebbe alcun inadempimento degli
obblighi comunitari", in quanto ". la sentenza n. 325 del 2010, ha
espressamente escluso che l'art. 23-bis costituisca applicazione
necessitata del diritto dell'Unione europea" (cfr. Corte cost. n.
24/2011).
Del resto, le disposizioni ivi previste recanti regole
concorrenziali (come quelle in tema di gara ad evidenza pubblica per
l'affidamento della gestione di servizi pubblici) risultano piu'
rigorose di quelle minime, richieste dal diritto dell'Unione europea,
non essendo, peraltro, imposte dall'ordinamento comunitario, ma
integrando solo "una delle diverse discipline possibili della materia
che il legislatore avrebbe potuto legittimamente adottare senza
violare" il primo comma dell'art.117 Cost." (cfr. Corte cost. n.
325/2010).
L'esito del referendum abrogativo ha determinato una riduzione
dei vincoli discrezionalmente introdotti dal legislatore statale con
l'art. 23-bis nelle forme di gestione dei servizi pubblici locali, in
particolare rendendo meno restrittivo il modello in house e piu'
flessibile il modello misto, favorendo cosi', entro i limiti dettati
dalla formativa e dalla giurisprudenza comunitaria, il riespandersi
del potere di scelta degli locali, il cui ruolo in materia di
organizzazione e assetto dei servizi pubblici locali incisivamente
evidenziato, a livello comunitario, dagli articoli 14 e 106 del
Trattato funzionamento dell'Unione europea e dall'allegato Protocollo
26 che, con riguardo al settore dei servizi di interesse economico
generale, sottolinea che i valori comuni dell'Unione europea
comprendono, in particolare, "il ruolo essenziale e l'ampio potere
discrezionale delle autorita' nazionali, regionali e locali di
fornire, commissionare e organizzare servizi di interesse economico
generale, piu' vicini possibile alle esigenze degli utenti",
riconoscendo, nel contempo, "la diversita' tra i vari servizi di
interesse economico generale e le differenze delle esigenze e
preferenze degli utenti che possono discendere da situazioni
geografiche, sociali e culturali diverse".
Invero, in sede di adozione dell'art. 4, il legislatore statale
ha inteso riproporre - salvo prevedere la sola esclusione del
servizio idrico integrato dalla relativa disciplina (comma 34) -, in
modo quasi completo ed in forma pressoche' testuale, il contenuto
dispositivo restrittivo di molteplici nonne gia' contenute nell'art.
23 bis e nel relativo regolamento di attuazione, di cui al d.P.R. n.
168/2010, in materia di gestioni in house, di partecipazione di
soggetti privati per la costituzione di societa' miste, di regime
transitorio degli affidamenti a societa' a partecipazione mista
pubblica e privata e a societa' a partecipazione pubblica (anche
quotate in borsa) e di limiti alla capacita' di azione delle societa'
titolari di affidamenti diretti, ponendosi cosi' in netto e radicale
contrasto con i limiti che il potere legislativo incontra, in seguito
alla abrogazione referendaria, nell'intervenire nella materia oggetto
di referendum, con particolare riferimento al "divieto di far
rivivere la normativa abrogata" dal referendum medesimo (Corte cost.
n. 33/1993, 32/1993, e ord. n. 9/1997).
Del resto, codesta Ecc.ma Corte, richiamando la "peculiare natura
del referendum quale atto fonte dell'ordinamento", ha osservato che,
a "differenza del legislatore, che puo' correggere o addirittura
disvolvere quanto ha in precedenza statuito, il referendum manifesta
una volonta' definitiva e irripetibile" (Corte cost. n. 468/1990).
Tale principio e' stato sviluppato nella sentenza n. 32/1993, ove la
Corte ha circoscritto la possibilita', per il legislatore, di
"correggere, modificare o integrare la disciplina residua" entro i
"limiti del divieto di formale o sostanziale ripristino della
normativa abrogata dalla volonta' popolare", nonche', soprattutto,
nell'ord. n. 9/1997, che ha sancito la "possibilita' di un controllo
di questa Corte in ordine all'osservanza, da parte del legislatore,
di tali limiti". Sicche', pare corretto ritenere che "la limitazione
alla potesta' legislativa delle Camere possa circoscriversi al
divieto di approvazione di una nuova legge che reintroduca i principi
ispiratori della disciplina abrogata ed i contenuti normativi
essenziali dei singoli precetti, in analogia con quanto indicato
nella sentenza n. 68/1978" (cfr. S.Bartole, R.Bin, Commentario breve
alla Costituzione, sub art. 75, CEDAM, 2008, pag. 687).
I commi che si intendono impugnare dell'art. 4 e che verranno di
seguito declinati violano i suddetti principi, proprio in quanto
ripristinano, in maniera sia formale che sostanziale, la normativa
abrogata per effetto del referendum.
Procedendo all'esame puntuale di tali disposizioni, si evidenzia
che:
- il comma 8 ripropone il comma 2, lett.a), l'art. 23-bis del
d.l. 112/2008 e s.m.i., escludendo l'affidamento diretto in house
dalle forme ordinarie di conferimento della gestione dei servizi
pubblici, se superiore ai limiti dettati dal successivo comma 13;
- il comma 12 ripropone il comma 2, lett.b) dell'art. 23-bis
e l'art. 3, comma 4 del d.P.R. n. 168/2011, prevedendo che
l'affidamento del servizio a societa' a partecipazione mista pubblica
costituita con procedura avente ad oggetto, allo stesso tempo, la
selezione del socio privato, cui devono essere attribuiti specifici
compiti operativi e una partecipazione non inferiore al 40 per cento,
e l'affidamento del servizio, con cio' imponendo limiti che escludono
altre fattispecie di partenariato istituzionale pubblico privato
presenti a livello comunitario (ad esempio, le societa' miste con
partecipazione privata inferiore al 40%);
- il comma 13 introduce un limite di valore, non presente a
livello comunitario, per l'affidamento in house. Il servizio puo'
essere affidato a societa' a capitale interamente pubblico in
possesso dei requisiti comunitari, ma a condizione che il valore
economico del medesimo sia pari o inferiore alla somma complessiva di
900 mila euro annui;
- il comma 32 disciplina il regime transitorio degli
affidamenti, riproponendo, in termini sostanzialmente analoghi,
limitazioni e scadenze al regime degli affidamenti in atto, gia'
fissate dall'abrogato art. 23-bis e va, quindi, impugnato, in quanto
consequenziale ai commi 8 e 12. Nel merito, la disposizione prevede
che:
a) la gestione affidata a societa' in house non conformi ai requisiti
richiesti dal comma 13 (limite di 900 mila euro e requisiti
comunitari), nonche' ad altre societa' non aventi i requisiti
richiesti dal medesimo comma 32, cessa improrogabilmente e senza
necessita' di apposita deliberazione dell'ente affidante, alla data
del 31 marzo 2012 (31 dicembre 2011 nella versione dell'art. 23-bis);
b) la gestione affidata a societa' a partecipazione mista, il cui
socio privato e' stato selezionato con procedure competitive, che non
hanno riguardato l'attribuzione di specifici compiti operativi,
cessa, improrogabilmente e senza necessita' di apposita deliberazione
dell'ente affidante, alla data del 30 giugno 2012, riproponendo
sostanzialmente il comma 8, lett. b) dell'art. 23-bis, ma
prolungandone la scadenza di sei mesi; c) le gestioni delle societa'
a partecipazione pubblica assentite alla data dell'1 ottobre 2003 e
gia' quotate in borsa a tale data e le societa' da queste controllate
ai sensi dell'art. 2359 c.c. - qualora la partecipazione pubblica non
si riduca progressivamente ad una quota non superiore al 40 per cento
entro il 30 giugno 2013 e ad una quota non superiore al 30 per centro
entro il 31 dicembre 2013 - cessano, improrogabilmente e senza
necessita' di apposita deliberazione dell'ente affidante, alla data
del 30 giugno 2013 o del 31 dicembre 2015, riproponendo
sostanzialmente il comma 8, lett. d), dell'art. 23-bis;
- il comma 33 ripropone formalmente e sostanzialmente il
comma 9 dell'art. 23 bis, confermando il divieto, per le societa'
titolari di affidamenti diretti (tra queste anche quelle in house),
di acquisire servizi ulteriori ovvero in ambiti territoriali diversi,
nonche' di svolgere servizi o attivita' per altri enti pubblici o
privati, ne' direttamente, ne' tramite societa' ad esse riferite, ne'
partecipando a gare;
- infine, il comma 14 - che, per comodita' espositiva, si
tratta a parte, in quanto censurato anche sotto altro profilo -
assoggetta le societa' in house affidatarie dirette della gestione di
servizi pubblici locali al patto di stabilita' interno, secondo
modalita' definite, con il concerto del Ministro per le riforme del
federalismo, in sede di attuazione dell'art. 18, comma 2-bis, del
d.l. n. 112/2008, convertito con la legge n. 133/2008 e s.m.i., con
la precisazione che "gli enti locali vigilano sull'osservanza, da
parte dei soggetti indicati al periodo precedente, al cui capitale
partecipano, dei vincoli derivanti dal patto di stabilita' interno".
Prendendo le mosse dalla disciplina dei sistemi di affidamento
della gestione dei servizi pubblici locali (commi 8, 12 e 13), si
evidenzia che essi rappresentano, appunto, la riproposizione della
disciplina abrogata dal referendum e, per tale motivo, costituiscono
una netta violazione dell'art. 75 Cost.
Nei suoi termini effettivi e concreti, infatti, il referendum ha
inteso abrogare l'applicazione di norme che, rendendo estremamente
limitate le ipotesi di affidamento diretto e, in particolare, quelle
di gestione in house di quasi tutti i servizi pubblici locali di
rilevanza economica, ivi compreso il servizio idrico, escludevano di
fatto la gestione in house, comunque consentita a livello comunitario
nel rispetto dei (soli) requisiti (comunitari) del controllo analogo
e dell'attivita' prevalente. Invero, le peculiari condizioni
"oggettive" che, nell'impianto normativo delineato dal previgente
art. 23-bis, condizionavano la possibilita', per gli enti locali, di
ricorrere all'autoproduzione dei servizi (in house providing), hanno
ceduto il passo ad una soglia di valore (900.000 euro annui),
arbitrariamente fissata dal legislatore nazionale (peraltro, in
assenza di qualsivoglia forma di previa concertazione con gli enti
territoriali), al di sopra della quale e', in ogni caso, esclusa la
possibilita' per gli enti stessi di ricorrere alla modalita'
organizzativa dell'in house.
Ebbene, al di la' del fatto che l'introduzione della suddetta
soglia di valore costituisca formalmente una innovazione, occorre
considerare che, in realta', detta previsione rappresenta, comunque,
una forte limitazione della capacita' di scelta degli enti
territoriali, suscettibile di incidere sull'autonomia loro
riconosciuta in subiecta materia, invero ancor piu' restrittiva di
quella precedentemente fissata dal comma 3 dell'art. 23-bis, con cio'
sostanzialmente riproducendo lo stesso schema limitativo che
caratterizzava la disciplina recata dall'art. 23-bis e che il
referendum ha inteso eliminare in toto.
Sotto il medesimo profilo (violazione art. 75 Cost.), si rileva
che tali nuove disposizioni (commi 8, 12 e 13) contenute nell'art. 4
violano la ratio del referendum, in quanto contrastano con l'intento,
sotteso al quesito referendario, di rendere perfettamente equivalenti
le diverse modalita' di affidamento (gara, societa' mista, in house
providing) contemplate dalla normativa e cio', in ossequio alle
indicazioni comunitarie. Ancora una volta, invece, il legislatore
nazionale indica come alternative ed equivalenti le sole modalita' di
esternalizzazione (gara e societa' mista), mentre qualifica come
eccezionale l'autoproduzione, introducendo, nel palese intento di
aggirare il divieto di riproposizione della disciplina formale e
sostanziale oggetto di abrogazione referendaria, l'innovativo limite
di valore (comma 13), di cui sopra si e' detto. Il quale limite deve,
quindi, essere censurato sia - al pari del sistema complessivo degli
affidamenti - sotto il profilo della violazione dell'art. 75, in
quanto contrastante con lo spirito referendario, sia perche'
arbitrario, con riferimento alla omessa concertazione con gli enti
territoriali, ed illogico, in quanto riferito indifferentemente alla
generalita' dei servizi pubblici locali, a prescindere dalle
specificita' che caratterizzano le varie tipologie di servizi
(invero, la manutenzione delle strade ha caratteristiche diverse
dall'illuminazione votiva).
Coerentemente con l'impugnazione dei commi 8, 12 e 13, si censura
anche il successivo comma 32, laddove prevede un periodo transitorio
degli affidamenti ancora una volta marcatamente caratterizzato dalla
penalizzazione delle forme di autoproduzione dei servizi. A ben
vedere, detta disposizione perderebbe, comunque, di significato
qualora fosse dichiarata l'illegittimita' costituzionale dei
precedenti commi 8, 12 e 13, con conseguente ripristino della
perfetta equiparazione delle varie modalita' di affidamento dei
servizi pubblici locali ed e' per queste ragioni di intima
connessione con il sistema degli affidamenti che tale norma va
compresa nello stesso quadro impugnatorio.
Quanto al successivo comma 33, che costituisce la pedissequa
trasposizione dell'abrogato comma 9 dell'art. 23-bis, si rileva che
esso restringe eccessivamente la capacita' di azione delle societa'
titolari di affidamenti diretti. Infatti, preclude del tutto alle
societa' in house e miste, titolari di affidamenti conseguiti senza
gara, la possibilita' di conseguire nuove commesse (da enti pubblici
o privati), privandole completamente della capacita' imprenditoriale
loro spettante. Invero, detta disposizione impedisce alle societa' in
house la facolta', pacificamente riconosciuta loro dal diritto
comunitario e, peraltro, ribadita da codesta Ecc.ma Corte, di
eseguire una parte, seppur marginale, della propria attivita' a
favore di altri mercati (da attivita' "prevalente" ad esclusiva). Al
riguardo, vale la pena di sottolineare che la stessa Autorita'
garante della concorrenza e del mercato ha osservato che tale
restrizione rischia di limitare drasticamente il numero degli
operatori ammissibili alle procedure di gara, favorendo cosi'
l'aggiudicazione al precedente affidatario, spesso l'unico
partecipante alla gara (AS 864 del 26 agosto 2011). Sul punto, si
segnala la proposta formulata dall'Autorita' di "attenuare le
condizioni che consentono agli affidatari diretti di partecipare ad
altre gare, consentendo loro di farlo nel caso in cui (i) i soggetti
in questione siano nella fase finale (inferiore ai due anni) del
proprio affidamenti e (il) sia gia' stata bandita la gara per il
riaffidamento del servizio o, almeno, sia stata adottata la decisione
di procedere al nuovo affidamento attraverso procedure ad evidenza
pubblica, per il servizio erogato dall'affidatario diretto".
Da ultimo e sotto altro profilo si censura il comma 14 per
violazione dell'art. 117, commi terzo e sesto, Cost.
Tale ultima disposizione riveste carattere innovativo essendo
gia' stata espunta dall'art. 23-bis in un momento anteriore al
referendum e, precisamente, in sede di scrutinio della legittimita'
costituzionale del medesimo art. 23-bis, effettuato con la sent. n.
325/2010.
La disposizione in parola prevede l'assoggettamento delle
societa' in house al patto di stabilita' interno "secondo le
modalita' definite, con il concerto del Ministro per le riforme per
il federalismo, in sede di attuazione dell'art. 18, comma 2 bis, del
d.l. n. 112/2008".
Ebbene, il cit. comma 14 deve ritenersi costituzionalmente
illegittimo per le stesse ragioni per le quali codesta Ecc.ma Corte,
con la piu' volte cit. sent. n. 325/2010, ha ritenuto
incostituzionale il riferimento al patto di stabilita', a suo tempo
previsto dal comma 10, lett. a) dell'art. 23 bis, sul presupposto che
"l'ambito di applicazione del patto di stabilita' interno attiene
alla materia del coordinamento della finanza pubblica (sent. nn. 284
e 237 del 2009; n. 267 del 2006), di competenza legislativa
concorrente, e non a materie di competenza legislativa esclusiva
statale, per le quali soltanto l'art. 117, sesto comma, cost.
attribuisce allo Stato la potesta' regolamentare" (cfr. ivi, punto
12.6 del diritto).
A ben vedere, la censure evidenziate risultano vieppiu'
confermate dalla circostanza secondo cui il procedimento di
approvazione del decreto attuativo dell'art. 18, comma 2-bis, del
d.l. n. 112/2008, richiamato dalla disposizione in esame, contempla
esclusivamente una fase consultiva non vincolante innanzi alla
Conferenza unificata e non prevede alcun coinvolgimento diretto delle
Regioni, escludendole ancora una volta.
III. Illegittimita' costituzionale dell'art. 11 recante "Livelli di
tutela essenziali per l'attivazione dei tirocini,'Violazione
dell'art.117, quarto comma cost. e del principio di leale
collaborazione.
Dopo aver precisato che "i tirocinii formativi e di orientamento
possono essere promossi unicamente da soggetti in possesso degli
specifici requisiti preventivamente determinati dalle normative
regionali, in funzione di idonee garanzie all'espletamento delle
iniziative medesime", l'art. 11 dispone che "fatta eccezione per i
disabili, gli invalidi fisici, psichici e sensoriali, i soggetti in
trattamento psichiatrico, i tossicodipendenti, gli alcolisti e i
condannati ammessi a misure alternative di detenzione, i tirocinii
formativi e di orientamento non curricolari non possono avere una
durata superiore a sei mesi, proroghe comprese, e possono essere
promossi unicamente a favore di neo-diplomati o neo-laureati entro e
non oltre dodici mesi dal conseguimento del relativo titolo di
studio". Viene, poi, precisato che in assenza di specifiche
regolamentazioni regionali, trovano applicazione le disposizioni
contenute nell'art. 18 della legge 24 giugno 1997 n. 196 ed il
relativo regolamento di attuazione. Con tale norma viene dettata una
disciplina statale dei tirocini formativi e di orientamento non
curriculari omogenea ed uniforme per tutto il territorio nazionale.
Sennonche', si tratta di una materia di sicura competenza residuale
regionale, qual e' quella della "istruzione e formazione
professionale" nel cui ambito la disciplina del tirocinio formativo e
di orientamento pacificamente rientra.
Il legislatore statale ha ritenuto di potersi "ritagliare" un
importante spazio della materia, in virtu' del titolo competenziale
di cui all'art. 117, secondo comma, lettera m) cost. "determinazione
dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili
e sociali" che, infatti, e' evocato nella stessa rubrica dell'art.
11.
Tale qualificazione, tuttavia, e' ingannevole. Infatti, la legge
statale, ben lungi dal fissare prestazioni da garantire, ne fissa
invece limitazioni, impedendo alle Regioni di garantire le
prestazioni in termini piu' estesi. Si tratta dunque di "limiti
prestazionali" e non della determinazione di "livelli minimi
essenziali".
La non riconducibilita' della norma alla indicata competenza
statale ne comporta l'illegittimita', per difetto di competenza.
A parte cio', tali limitazioni, per quanto bene intenzionate,
appaiono anche irragionevoli nella loro uniformita' per tutto il
territorio nazionale, che e' invece caratterizzato da una varieta' di
esigenze e situazioni che richiedono risposte diversificate, quali
solo la competenza regionale puo' assicurare.
Ma, anche se l'indicato titolo di competenza potesse giustificare
un intervento statale, va comunque rilevato che tale intervento non
potrebbe consistere nella uniforme e rigida unilaterale
determinazione uguale per tutto il territorio nazionale, ma semmai
nella istituzione di una procedura di collaborazione per le singole
determinazioni in sede locale.
E' fuori di dubbio, infatti, che laddove si rinvenga un
"intreccio" tra livelli essenziali delle prestazioni e competenze
regionali, la condizione di legittimita' dell'intervento statale e'
data dalla "previsione di adeguate procedure di coinvolgimento delle
Regioni nella specificazione delle prestazioni", come la stessa Corte
ha piu' volte indicato. In altri termini, quando vi e' l'intreccio
delle competenze, derivante dalla sovrapposizione di interessi
statali e regionali convergenti, l'ente "minore" deve comunque essere
consultato, in misura graduata in base al livello di incisione della
sua competenza ed al rilievo dell'interesse di cui e' portatore, in
virtu' del principio di leale collaborazione (in tal senso sent.
88/2003; 387/2007; 134/2006, che ha sanzionato l'illegittima
riduzione della partecipazione regionale al livello del semplice
parere, anziche' della necessaria intesa).
Nessuna procedura di coinvolgimento e' contenuta nella
disposizione in esame, che si limita a dettare una disciplina
uniforme dell'istituto, senza prevedere fasi successive di
specificazione ed attuazione dei livelli essenziali delle prestazioni
entro cui coinvolgere le Regioni, con la conseguenza che deve esserne
dichiarata l'illegittimita' per violazione dell'art. 117, quarto
comma, Cost e del principio di leale collaborazione.
IV. Illegittimita' costituzionale dell'art. 14, recante "Riduzione
del numero dei consiglieri e assessori regionali e relative
indennita'. Misure premiali"', in relazione al comma 1.
1. Illegittimita' costituzionale in quanto le norme limitano
l'autonomia statutaria e legislativa, sottoponendone l'esercizio a
sanzione negativa. Violazione degli artt.123 e 117, comma secondo,
Cost.
L'art. 14 (Riduzione del numero dei consiglieri e assessori
regionali e relative indennita'. Misure premiali) al comma 1
introduce una serie di "obblighi di adeguamento" a cui le Regioni
devono ottemperare per non essere escluse dall'applicazione dell'art.
20, c. 3, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 convertito, con
modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111.
Questa norma si riferisce alle Regioni "virtuose" che, avendo
conseguito gli obiettivi di finanza pubblica fissati dal patto di
stabilita', non sono tenute a concorrere, a partire dal 2013, alla
realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica attraverso i
pesanti "tagli" fissati dal comma 5 dello stesso articolo e
dall'articolo 14 del decreto-legge n. 78 del 2010.
Gli obblighi posti dall'art. 14 consistono in una serie di misure
che avrebbero l'obiettivo di ridurre i "costi della politica"
regionale. Essi si concretizzano, per la parte che forma oggetto del
presente ricorso, in una riduzione del numero sia dei consiglieri
regionali che dei componenti della Giunta regionale.
Precisamente, si tratta delle seguenti disposizioni:
"a) previsione che il numero massimo dei consiglieri
regionali, ad esclusione del Presidente della Giunta regionale, sia
uguale o inferiore a 20 per le Regioni con popolazione fino ad un
milione di abitanti; a 30 per le Regioni con popolazione fino a due
milioni di abitanti; a 40 per le Regioni con popolazione fino a
quattro milioni di abitanti; a 50 per le Regioni con popolazione fino
a sei milioni di abitanti; a 70 per le Regioni con popolazione fino
ad otto milioni di abitanti; a 80 per le Regioni con popolazione
superiore ad otto milioni di abitanti. La riduzione del numero dei
consiglieri regionali rispetto a quello attualmente previsto e'
adottata da ciascuna Regione entro sei mesi dalla data di entrata in
vigore del presente decreto e deve essere efficace dalla prima
legislatura regionale successiva a quella della data di entrata in
vigore del presente decreto. Le Regioni che, alla data di entrata in
vigore del presente decreto, abbiano un numero di consiglieri
regionali inferiore a quello previsto nella presente lettera, non
possono aumentarne il numero;
b) previsione che il numero massimo degli assessori regionali
sia pari o inferiore ad un quinto del numero dei componenti del
Consiglio regionale, con arrotondamento all'unita' superiore. La
riduzione deve essere operata entro sei mesi dalla data di entrata in
vigore del presente decreto e deve essere efficace, in ciascuna
regione, dalla prima legislatura regionale successiva a quella in
corso alla data di entrata in vigore del presente decreto".
Puo' considerarsi pacifico che la Costituzione non attribuisce al
legislatore statale poteri legislativi tali da incidere direttamente
sulla materia, che dalla Costituzione e' gelosamente riservata agli
Statuti regionali. Eben noto, infatti, che l'art. 123, discostandosi
dalla precedente formulazione, assoggetta gli Statuti regionali -
oltre che alle specifiche disposizioni dettate in tema di forma di
governo - al solo criterio della "armonia con la Costituzione", ad
esclusione di qualunque vincolo disposto dalla legge ordinaria
statale. Conformemente, la giurisprudenza di codesta ecc.ma Corte ha
sancito che "la composizione dell'organo legislativo regionale
rappresenta una fondamentale «scelta politica sottesa alla
determinazione della "forma di governo" della Regione» (sentenza n. 3
del 2006)" (cosi' la sent.n. 188/2011 di codesta Corte). Edunque
escluso che la legge statale possa imporre alle Regioni un obbligo di
adeguamento, in quanto il potere statutario e' vincolato ad essere
"in armonia" con la Costituzione, ma non e' piu' soggetto alla
legislazione ordinaria dello Stato.
E' probabilmente per tale ragione che il legislatore ha inserito
nella rubrica dell'articolo l'autoqualificazione delle misure
introdotte come "misure premiali". Si tratterebbe, dunque, non di un
qualcosa a cui la Regione sia costretta, ma di qualche cosa che la
Regione puo' volontariamente fare per ottenere un premio, cioe' uno
specifico vantaggio.
Tuttavia non e' certo questo il significato ne' il modo di
funzionamento della norma, e l'erronea autoqualificazione, mentre
rivela la consapevolezza di non disporre dei necessari poteri, non
puo' occultare la reale natura dell'intervento statale.
E' infatti giurisprudenza costante della Corte costituzionale che
le qualificazioni di una norma, che siano contenute nel testo o nella
rubrica, non hanno alcun valore condizionante, dovendosi, invece,
tenere conto della natura oggettiva della norma, che spetta alla
Corte stessa di valutare: diversamente, la rigidita' e lo stesso
significato del riparto costituzionale delle attribuzioni verrebbe
meno, potendo il legislatore statale disporne a piacere.
Occorre, dunque, valutare se il dovere di modificare la
composizione degli organi statutari, al fine di mantenere (in realta'
di poter mantenere, ricorrendo tutte le altre condizioni) la
qualifica di Regione virtuosa, sia da considerarsi come una norma
giuridica a carattere effettivamente "premiale" o meno.
La risposta negativa sembra evidente, ma converra' comunque
debitamente argomentarla.
Sotto un profilo di teoria generale, le norme "premiali" non
presentano una struttura diversa da quelle "normali": e' prescritto
un comportamento, assistendo questa prescrizione con una sanzione
"positiva" (il "premio") anziche' con una "negativa" (la pena).
Nelle relazioni con le Regioni, lo Stato Etalvolta ricorso al
meccanismo delle norme "premiali" o "promozionali" (si veda ad es. il
caso del contributo finanziario introdotto per promuovere il
coordinamento preventivo dei programmi relativi all'eutrofizzazione
delle acque marine e lacustri, nel caso deciso dalla sent. n.
800/1988).
La distinzione tra il premio e la pena non puo' essere solo
lessicale, ma deve guardare alla sostanza della situazione giuridica
che la sanzione realizza. Per decidere se una disposizione di legge
sia una normale prescrizione con sanzione negativa o una norma
premiale e' necessario badare alla situazione giuridica in cui la
norma opera e come questa viene cambiata dalla sanzione comminata (si
veda in questo senso la sent. n. 283/2009, a proposito di una legge
della Regione Puglia): solo cosi' si puo' cogliere se la norma in
questione ha natura "promozionale" o "coattiva" (si veda in tal
senso, a proposito di una norma a favore delle c.d. "quote rosa", la
sent. n. 4/2010). Ad esempio, prescrivere che "chiunque riveli
l'identita' dei suoi collaboratori sara' mantenuto in vita", non
Ediverso da minacciare i renitenti con la pena di morte.
In altre parole, una norma potra' dirsi premiale quando la sua
osservanza comporta il prodursi di una nuova situazione favorevole,
prima inesistente; e sara' al contrario "penale" (in senso generico)
o affittiva, quando la sua in osservanza comporti il prodursi di una
nuova situazione sfavorevole, prima inesistente.
Nel caso della disposizione qui impugnata, e' palese che il
rispetto degli obiettivi posti dallo Stato non comporta per la
Regione l'acquisizione di un "di piu'", ma semplicemente il
mantenimento di uno status che evita alla Regione stessa di subire
ulteriori sanzioni negative di tipo finanziario. Se poi si colloca
questo effetto nell'attuale contesto della finanza regionale, e'
evidente che quello che alla Regione inadempiente si minaccia e' a
tutti gli effetti una sanzione negativa, quantificabile in termini di
tagli di bilancio.
Dunque, nonostante il titolo edulcorato, la Regione e' posta
davanti ad un obbligo di modificare il proprio Statuto, obbligo
fornito di una evidente sanzione negativa, con violazione della
autonomia statutaria garantita dall'art. 123 Cost., nonche' dell'art.
117, comma 2, in cui sono descritti i limiti della potesta'
legislativa dello Stato.
Ed e' evidente che in questi termini la disposizione impugnata
limita indebitamente l'ambito della potesta' statutaria definito
dalla Costituzione.
Ne' l'illegittima intromissione si puo' giustificare a titolo di
coordinamento della finanza pubblica, essendo evidente che non esiste
alcuna connessione necessaria tra il numero dei consiglieri e degli
assessori ed un determinato risultato complessivo della gestione
finanziaria. Al contrario, il riferimento al coordinamento
finanziario evidenzia un ulteriore profilo di illegittimita'
costituzionale, come di seguito esposto.
2. Violazione dell'autonomia finanziaria regionale garantita dall'art
119 Cost.
Infatti, una ulteriore ragione di illegittimita' della norma de
qua deriva dalla natura stessa degli obiettivi assegnati da essa alle
Regioni, e dei corrispondenti vincoli imposti.
La disciplina del patto di stabilita' introdotta dall'art. 20 del
decreto-legge 98/2011, come convertito dalla legge 111/2011, fissa
delle modalita' di raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica
da parte delle singole Regioni, che possono essere concordate tra lo
Stato e le Regioni stesse attraverso una procedura negoziata. In
questo ambito si prevede che le Regioni siano responsabili dei
risultati conseguiti, e si fissano i criteri con cui valutare le loro
prestazioni. Le Regioni verranno suddivise in quattro classi di
virtuosita', sulla base di una serie considerevole di "parametri di
virtuosita'" definiti in termini "performativi", ossia fissando
obiettivi di finanza pubblica, che lasciano la singola Regione
pienamente responsabile di trovare gli strumenti per conseguirli.
La norma ora impugnata introduce, invece, un criterio nuovo e del
tutto eterogeneo, di tipo "esigenziale". Anche se la Regione sara'
stata capace di individuare gli strumenti adatti a raggiungere gli
obiettivi di finanza pubblica, non sara' inserita tra gli enti
virtuosi, se non avra' rispettato l'obbligo di adeguamento ad un
criterio numerico (relativo al numero dei consiglieri e di componenti
dell'esecutivo), fissato in ragione proporzionale con la popolazione
dell'ente. In questo modo, ad essere apprezzato non sara' il
risultato conseguito usando opportunamente la propria autonomia
finanziaria, ma l'aver applicato un criterio che vincola la Regione
in modo tassativo, senza consentirle alternative equivalenti per il
risultato.
Appare, percio', lesa l'autonomia finanziaria, garantita alla
Regione dall'art. 119 cost. Alla Regione Etolta la possibilita' di
scegliere attraverso quale via raggiungere gli obietti fissati,
perche' le si impone, in nome del coordinamento della finanza
pubblica, di operare in un modo rigidamente vincolato. Non adempiere
a questo requisito esigenziale impedisce di accedere alla qualifica
perseguita, malgrado si siano conseguiti tutti i risultati finanziari
richiesti dagli altri requisiti, con conseguenze negative che hanno
un evidente carattere sanzionatorio.
3. In ogni modo, illegittimita' costituzionale delle disposizioni, in
quanto disposizioni di dettaglio. Violazione dell'art. 117 comma
terzo.
Se pure fosse giustificato il riferimento della disciplina alla
materia del coordinamento della finanza pubblica, essa rimarrebbe
ugualmente illegittima in quanto fondata su regole di dettaglio, in
violazione dell'art. 117, terzo comma, cost. Infatti, con riferimento
a tale profilo, pare evidente, sulla scorta della stessa
giurisprudenza costituzionale, che la disposizione in esame ha
carattere di estremo dettaglio, che non si limita ad indicare alle
Regioni obiettivi, standard, tetti da raggiungere con mezzi e
modalita' individuabili dalla stessa Regione, nell'ambito della sfera
di discrezionalita'/autonomia alla medesima costituzionalmente
garantita, ma fissa direttamente ed obbligatoriamente tagli e
riduzioni degli organici del Consiglio, sulla base di parametri
(consistenza popolazione), che erano stati superati dalla stessa
riforma costituzionale del 1999, allorche' era stata demandato alla
competenza statutaria delle Regioni ("nuovo" art. 123, comma 1,
Cost.) il compito di determinare il numero, ritenuto ottimale e
rappresentativo, dei componenti del Consiglio regionale. Nell'ambito
della giurisprudenza costituzionale, si rinviene un orientamento
consolidato (Corte Cost nn. 159/2008, 36/2004, 390/2004, 449/2005,
95/2007) secondo cui costituiscono principi fondamentali le
disposizioni che si limitano a prescrivere obiettivi da realizzare,
lasciando alle Regioni la scelta del modo attraverso cui perseguirli.
Mentre, di contro, e' da escludere la possibilita' di simile
qualificazione, nel caso di disposizioni che impongono misure
analitiche, di dettaglio e vincoli puntuali. Pertanto, nella misura
in cui la disposizione in esame non si limita a stabilire un
obiettivo, ma indica direttamente i mezzi ed anche il dettaglio
minuto della relativa applicazione, non lasciando alternativa alcuna,
e' evidente che la stessa fuoriesce dalla qualificazione in termini
di norma di "principio".
Sotto altro profilo, occorre considerare che, pur non essendo
sempre chiara la ratio distinguendi fra norma di dettaglio e norma di
principio, emerge dalla giurisprudenza della Corte e, specialmente,
dalla dottrina, la considerazione secondo cui la norma di principio
puo' spingersi nel dettaglio soltanto qualora si possa dimostrare che
la disposizione enunciata e' l'unica modalita' possibile di
perseguimento dell'obiettivo atteso. Eevidente che detta regola non
vale affatto a giustificare la pervasivita' dell'intervento posto con
l'art. 14, considerato che l'obiettivo perseguito dalla manovra e'
sostanzialmente quello del contenimento dei costi della politica
delle Regioni; obiettivo, in verita', che puo' essere perseguito
mediante una pluralita' di azione diverse.
Per queste ragioni, ai precedenti motivi di impugnazione, si
aggiunge anche la violazione dell'art. 117, comma 3, laddove, in
materia di "armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della
finanza pubblica e del sistema tributario", detta norma
costituzionale assegna allo Stato potesta' legislativa concorrente, e
percio' limitata alla sola "determinazione dei principi
fondamentali".
4. In subordine. Ulteriore illegittimita' costituzionale della
disposizione, in quanto sanziona la Regione per una circostanza della
quale essa stessa non dispone compiutamente.
Una ulteriore ragione di illegittimita' degli obblighi di
adeguamento che le disposizioni impugnate impongono alle Regioni,
risulta dalla circostanza che la richiesta riduzione del numero
massimo dei consiglieri (e degli assessori) regionali potra' con
certezza essere "operata entro sei mesi dalla data di entrata in
vigore del presente decreto" solo se lo Statuto non abbisogna a tal
fine di una revisione, ponendo indicazioni numeriche diverse.
Ove invece il numero dei consiglieri sia determinato dallo
Statuto, lo stesso Ente Regione non puo' essere considerato del tutto
libero di apportare al suo Statuto le modifiche richieste. La
Regione, in quanto ente, non e' in grado ne' di determinare
compiutamente i tempi della approvazione, ne' la stessa approvazione
delle modifiche richieste.
Infatti, come prescrive la Costituzione, la legge di revisione
statutaria e' potenzialmente sottoposta a ben tre altre "autorita'",
oltre a quella dell'Assemblea legislativa: al controllo preventivo
del Governo, all'eventuale giudizio preventivo della Corte
costituzionale, all'eventuale referendum approvativo. Quindi, l'art.
14 pone a carico dell'Ente Regione un obbligo giuridico sanzionato
che, pero', puo' essere impedito da soggetti che stanno fuori del
novero delle istituzioni regionali politicamente responsabili.
Ne' si dica che i primi due eventi conseguono alla illegittimita'
delle norme eventualmente adottate: perche' il giudizio - iniziato
per ragioni di legittimita' - potra' bene concludersi con la
reiezione del ricorso, ma intanto i tempi di approvazione delle
modifiche saranno completamente saltati.
Ancor piu' evidente appare la possibilita' che la modifica
statutaria venga sottoposta a referendum, con la conseguente
impossibilita' di predire il risultato.
L'irragionevolezza e' palese: la riduzione del numero dei
consiglieri regionali potra' anche essere "adottata" entro il termine
di sei mesi (pure non previsto dalla Costituzione) attraverso una
delibera dell'Assemblea legislativa, ma che essa sia "efficace dalla
prima legislatura regionale, successiva a quella della data di
entrata in vigore del presente decreto", e' un fatto che dipende
dalla volonta' di altri soggetti (Governo, Corte costituzionale,
corpo elettorale).
E' chiaro, peraltro, che la minaccia delle gravi conseguenze che
la norma impugnata ricollega al mancato adempimento degli obblighi
previsti, si tradurrebbe in una forte pressione sul corpo elettorale,
affinche' non eserciti la sua facolta' di promuovere il referendum
conformativo. L'irragionevolezza di questa norma determina sotto
questo profilo anche una ulteriore violazione dell'autonomia
statutaria della Regione, alterando il ruolo che il corpo elettorale
svolge nell'adozione e nella modifica dello Statuto in base all'art.
123, c. 6, della cost. Lo Statuto e' anche un atto politico della
comunita'/popolo regionale, atto di cui, dunque, la Regione "ente"
non dispone completamente.
5. Illegittimita' costituzionale dell'obbligo di istituzione Collegio
dei revisori e dei poteri regolamentari affidati alla Corte dei
Conti. Violazione degli articoli 100, comma secondo, 103, comma
secondo, 117, commi terzo e sesto, 121 della Costituzione.
La disposizione contenuta nella lettera e) prevede l'obbligatoria
istituzione, in ogni Regione, a decorrere dal 1 gennaio 2012, di un
Collegio dei revisori dei conti, quale organo di vigilanza sulla
regolarita' contabile, finanziaria ed economica della gestione
dell'Ente, il quale, "ai fini del coordinamento della finanza
pubblica, opera in raccordo con le Sezioni regionali di controllo
della Corte dei conti".
Alla stessa Corte dei conti e' demandata l'individuazione dei
criteri per la determinazione della specifica qualificazione
professionale in materia di contabilita' pubblica e gestione
economica e finanziaria degli enti territoriali, richiesta per
l'iscrizione nell'elenco, dal quale debbono essere estratti i
componenti (oltre a tale qualificazione, per l'iscrizione sono
richiesti anche i requisiti previsti dai principi contabili
internazionali e la qualifica di revisori legali).
Ad avviso della ricorrente Regione tali disposizioni sono
costituzionalmente illegittime: si dispone l'istituzione di un nuovo
organo necessario delle Regioni, in contrasto con il dettato
costituzionale e all'autonomia statutaria regionale, con in piu' la
singolare - ma anche illegittima - attribuzione di poteri normativi
alla Corte dei conti circa l'individuazione dei componenti. Ora,
l'art. 121 cost. individua direttamente gli organi necessari delle
Regioni (Presidente, Giunta e Consiglio); mentre, di converso,
l'istituzione degli organi non necessari (ossia eventuali) e' rimessa
allo Statuto o alla legge regionale, ferma restando l'intangibilita'
delle competenze affidate dalla Costituzione agli organi necessari.
Pertanto, il legislatore statale ordinario difetta di qualsivoglia
competenza in ordine alla stessa previsione/ imposizione del nuovo
organo quale componente necessaria dell'organizzazione regionale.
Ed in effetti lo Statuto della Regione Umbria gia' prevede,
all'art. 78, comma 2, gia' prevede che il controllo sulla gestione
finanziaria della Regione sia esercitato da un Collegio dei revisori
dei conti, per la cui disciplina si rinvia alla legge regionale: che
in effetti e' intervenuta con la legge regionale n. 22 del 2005.
Dunque, la previsione statale verrebbe a sostituirsi alle regole
che la Regione, nella sua autonomia, ha gia' dettato allo stesso
scopo, senza che vi sia alcun titolo che legittimi un intervento
cosi' pervasivo. Non si tratta dunque di un "principio" di
coordinamento di finanza pubblica, ma di una norma organizzativa
dettagliata che impone addirittura la specifica
composizione/qualificazione professionale del nuovo organo e dei suoi
componenti, esorbitando dai limiti della competenza legislativa
statale, in violazione dell'art. 117, terzo comma Cost.
Specificamente ed ulteriormente illegittimo, inoltre, appare
l'affidamento alla Corte dei conti di poteri regolamentari il cui
esercizio non solo interferisce con l'autonomia legislativa
regionale,ma snatura la funzione stessa della Corte dei conti quale
organo di controllo e giurisdizionale, per definizione esterno
rispetto all'organizzazione degli enti in relazione ai quali essa
svolge la sua azione, in violazione degli artt. 100 e 103 cost. Ne'
lo Stato, privo esso stesso della potesta' regolamentare nelle
materie concorrenti, puo' demandarla all'organo di controllo, in
violazione dell'art. 117, commi terzo e sesto.
6. Ulteriore specifica illegittimita' costituzionale della
disposizione secondo cui le Regioni che, alla data di entrata in
vigore del presente decreto, abbiano un numero di consiglieri
regionali inferiore a quello previsto nella presente lettera, non
possono aumentarne il numero. Violazione degli artt. 3 e 97 Cost.
Accanto a quelle sopra lamentate, una specifica ragione di
illegittimita' costituzionale colpisce la disposizione secondo la
quale "le Regioni che, alla data di entrata in vigore del presente
decreto, abbiano un numero di consiglieri regionali inferiore a
quello previsto nella presente lettera, non possono aumentarne il
numero".
Infatti, se pure in denegata ipotesi vi fosse un potere del
legislatore statale di determinare il numero dei consiglieri in modo
indiretto, impropriamente sanzionando la Regione sul piano dei
vincoli giuridici ed economici per il mancato adeguamento, tale
potere non potrebbe esercitarsi che secondo un principio di
razionalita' ed in condizioni di uguaglianza per tutte le Regioni che
si trovassero nelle medesime condizioni.
A tale elementare principio contraddice la regola secondo la
quale una Regione non sarebbe neppure libera di determinare un numero
di consiglieri regionali che la stessa legge statale mostra di
giudicare congruo, per la sola ragione che con precedente scelta la
Regione stessa aveva determinato un numero inferiore. Si tratta, in
definitiva, di violazione del principio di uguaglianza tra enti, che
hanno, sotto tutti i profili rilevanti, le medesime caratteristiche
oggettive.
7. Illegittimita' costituzionale per difetto di urgenza. Violazione
dell'art. 77 Cost.
Benche' si sia qui preferito dare la priorita' alle censure che
riguardano il merito dispositivo della norma impugnata, per
completezza va aggiunto che, ad avviso della ricorrente Regione, essa
e' costituzionalmente illegittima anche sotto il diverso profilo
della carenza dei presupposti del decreto-legge.
Essa pone un termine assai stringente per la "adozione" o per la
"operativita'" della modifica statutaria (6 mesi), senza alcuna
esigenza di urgenza, visto che la norma stessa dispone che le nuove
misure saranno "efficaci" solo con la prossima legislatura regionale,
quindi non prima di maggio 2015. Risulta percio' violato anche l'art.
77 Cost., che sottopone la decretazione d'urgenza a precisi requisiti
di urgenza, oltre che di straordinarieta' e necessita'.
Stabilire un termine "urgente" di sei mesi per l'approvazione di
disposizioni destinate ad operare non prima di quattro anni
dall'entrata in vigore del provvedimento, sembra un caso molto chiaro
di violazione delle condizioni poste dall'art. 77 Cost.
Sui presupposti a cui la giurisprudenza costituzionale subordina
la legittimazione della Regione ad agire per la violazione delle
norme costituzionali relative alle "forme" degli atti legislativi, si
rinvia alle motivazioni sviluppate in seguito in relazione all'art.
16, che qui vengono richiamate in toto.
V. Illegittimita' costituzionale dell'art. 16, recante "Riduzione dei
costi relativi alla rappresentanza politica nei comuni e
razionalizzazione dell'esercizio delle funzioni comunali".
Si premette che la Regione Umbria impugna l'art. 16 in nome
proprio, ma anche su richiesta del Consiglio delle Autonomie,
formulata ai sensi dell'art. 9, c. 2, della legge 5 giugno 2003, n.
131, che modifica l'art. 32, c. 2, della 1. 11 marzo 1953 n. 87, e
quale portatrice dei loro interessi istituzionali (cfr. deliberazione
del Consiglio delle autonomie locali dell'il novembre 2011, n. 301,
allegato doc. 2).
1.Illegittimita' dell'art. 16 per violazione dell'art. 77, commi
primo e secondo, Cost.
L'intero art. 16, qui impugnato, appare in primo luogo
costituzionalmente illegittimo per difetto del requisito dei "casi
straordinari di necessita' e d'urgenza" richiesti dall'art. 77, commi
primo e secondo, della Costituzione.
Si tratta, invero, di norme ordinamentali che incidono
profondamente sullo status istituzionale dei Comuni. Infatti, i commi
da 1 a 16 impongono ai Comuni fino a 1000 abitanti la gestione
associata ed altre modalita' vincolate per l'esercizio di tutte le
funzioni amministrative e la gestione di tutti i servizi, definendo
altresi' minutamente l'istituzione e la composizione degli organi di
una nuova forma di associazione obbligatoria denominata Unione;
mentre i commi da 17 a 21 innovano nella composizione e
nell'articolazione degli organi dei Comuni in genere, incidendo sulla
loro autonomia organizzativa e sul loro attuale funzionamento, e
dispongono in materia di retribuzione dei componenti degli organi di
governo degli enti territoriali. Lo stesso decreto-legge stabilisce
che la disciplina varata non e' di immediata applicazione, laddove al
comma 9 pospone la sua operativita' "a decorrere dal giorno della
proclamazione degli eletti negli organi di governo del Comune che,
successivamente al 13 agosto 2012, sia per primo interessato al
rinnovo". Appare dunque di tutta evidenza che l'applicazione delle
disposizioni in questione non e' destinata a compiersi, e nemmeno ad
iniziare, nell'immediato.
E' altrettanto evidente che entro quel termine - ed anzi molto
prima - avrebbe potuto attivarsi e compiersi l'ordinario procedimento
legislativo, e che dunque non vi era ragione alcuna per la quale il
Governo dovesse sostituirsi al naturale titolare della funzione
legislativa.
Ne' si potrebbe replicare che l'urgenza, se non era di queste
disposizioni, era invece di altre contenute nello stesso decreto:
perche' questo, anziche' giustificare, aggrava il vulnus inferto alle
regole sulle competenze costituzionali, avendo con cio' il Governo
costretto il Parlamento a deliberare senza ragione nel breve termine
che la conversione del decreto-legge, e la reale urgenza economica
del paese, richiedevano.
A rendere ancor piu' evidente il gia' evidente difetto di urgenza
delle disposizioni introdotte vale ulteriormente la considerazione
che esse non solo sono destinate ad attuarsi in un momento lontano
nel tempo, ma neppure appaiono connesse a risparmi di spesa che si
possano considerare certi e rilevanti.
Infatti, i contenuti delle norme censurate non sembrano
rispondere adeguatamente alla finalita' del "contenimento delle spese
degli enti territoriali", perseguita in nome del risanamento della
finanza pubblica, non essendo, tra l'altro, nemmeno quantificati i
supposti risparmi di spesa. Sicche', mentre gli effetti di
innovazione ordinamentale contenuti in queste norme sono di
grandissima rilevanza, anche sotto il profilo costituzionale, gli
effetti concreti che queste possono determinare sul contenimento
della spesa appaiono incerti e, comunque, solo eventuali: mancano,
infatti, di quella precisione ed evidenza che ne potrebbe
giustificare l'emanazione per decreto-legge. Sotto il profilo
economico e di contenimento della spesa manca ogni quantificazione
anche nella relazione della Ragioneria Generale che ha accompagnato
il provvedimento di urgenza.
All'opposto, sarebbero stati da tenere in considerazione, anche
ai fini della copertura delle spese, gli oneri amministrativi a
carico delle Amministrazioni coinvolte, che deriverebbero
dall'applicazione di queste norme come conseguenza dei mutamenti di
organizzazione, di strutture operative, di semplici ma non
irrilevanti costi di ristrutturazione degli uffici e del materiale
amministrativo. Si tratta di costi certi, che rendono solo
benintenzionata, ma non certo efficace, quella disposizione che
legislatore ha inserito in chiusura alla nuova disciplina (comma 30)
secondo cui "dall'applicazione di ciascuna delle disposizioni di cui
al presente articolo non devono derivare nuovi o maggiori oneri a
carico della finanza pubblica".
Si tratta di una clausola la cui presenza non fa che introdurre
un ulteriore elemento di irrazionalita' nella disciplina, perche' le
spese sono davvero certe, ove si consideri che anche semplici
adempimenti burocratici, come il cambiamento dell'intestazione della
carta ufficiale, dei timbri o degli indirizzi elettronici dovra'
inevitabilmente comportare una qualche spesa a carico del bilancio
pubblico.
Che il difetto dei requisiti di necessita' ed urgenza generi
vizio di legittimita' costituzionale e' fuori di dubbio.
Gia' con la "storica" sent. n. 29/1995, codesta Corte ha
fermamente ribadito la sindacabilita' della sussistenza dei
presupposti di straordinarieta', necessita' e urgenza del
decreto-legge, i quali costituiscono "un requisito di validita'
costituzionale dell'adozione del predetto atto", di modo che
l'eventuale evidente mancanza di quel presupposto configura tanto un
vizio di legittimita' costituzionale del decreto-legge [...] quanto
un vizio in procedendo della legge di conversione, avendo
quest'ultima [...] valutato erroneamente l'esistenza di presupposti
di validita' in realta' insussistenti e, quindi, convertito in legge
un atto che non poteva essere legittimo oggetto di conversione" -
vizio che rimane censurabile quand'anche il decreto e' gia' stato
convertito in legge, come la stessa Corte ha ribadito nelle ben note
sent. nn. 171/2007 e 128/2008.
E' vero che la Corte ha affermato anche che la mancanza dei
presupposti della decretazione d'urgenza puo' dar luogo ad un vizio
di legittimita' dell'atto "solo quando essa appaia chiara e manifesta
perche' solo in questo caso il sindacato di legittimita' della Corte
non rischia di sovrapporsi alla valutazione di opportunita' politica
riservata al Parlamento" (sent. 398/1998, n. 3 del considerato in
diritto). Ma un decreto-legge che pospone l'operativita' delle
proprie misure ad una data indefinita, ma che comunque in nessun caso
puo' cadere prima di un anno dalla sua entrata in vigore appare del
tutto incompatibile con quella "immediata applicazione" che la legge
400/1988, in attuazione dell'art. 77 Cost., pone come vincolo al
potere governativo di decretazione d'urgenza.
Denunciato il vizio, che ad avviso della ricorrente Regione
inficia l'intera disciplina dell'art. 16, occorre ora affrontare, per
i dubbi che potrebbero essere sollevati in proposito, il tema della
legittimazione della Regione a farlo valere.
Infatti, come codesta Ecc.ma Corte ha piu' volte avuto modo di
affermare, "le Regioni non sono legittimate a far valere nei ricorsi
in via principale gli ipotetici vizi nella formazione di una fonte
primaria statale, se non «quando essi si risolvano in violazioni o
menomazioni delle competenze» regionali (in particolare le sentenze
n. 398 del 1998; fra le molte analoghe anche le sentenze n. 383 e n.
50 del 2005)", perche' puo' essere fatto valere il contrasto "con
norme costituzionali diverse da quelle attributive di competenza
legislativa soltanto se esso si risolva in una esclusione o
limitazione dei poteri regionali, senza che possano avere rilievo
denunce di illogicita' o di violazione di principi costituzionali che
non ridondino in lesione delle sfere di competenza regionale (tra le
molte, sentenze n. 383 e n. 50 del 2005; n. 287 del 2004)." (la
citazione e' tratta dalla sent.n. 116/2006). L'unico interesse che le
Regioni sono legittimate a far valere e', infatti, "quello alla
salvaguardia del riparto delle competenze delineato dalla
Costituzione; esse, pertanto, hanno titolo a denunciare soltanto le
violazioni che siano in grado di ripercuotere i loro effetti, in via
diretta ed immediata, sulle prerogative costituzionali loro
riconosciute dalla Costituzione" (sent. n. 216/2008).
Benche' questa consolidata giurisprudenza abbia finora impedito
alle Regioni di poter far valere i vizi "formali" degli atti
legislativi, la Corte non ha mai dichiarato questa preclusione nei
confronti del soggetto Regione in quanto tale, ma in relazione alla
particolare (e particolarmente restrittiva) definizione
dell'interesse ad agire. Come sottolinea la sentenza da ultimo
citata, perche' tale interesse sia ritenuto ammissibile e' richiesto
che "l'iniziativa assunta dalle Regioni ricorrenti sia oggettivamente
diretta a conseguire l'utilita' propria", in quanto la sussistenza
dell'interesse ad agire puo' essere postulata "soltanto quando esso
presenti le caratteristiche della concretezza e dell'attualita',
consistendo in quella utilita' diretta ed immediata che il soggetto
che agisce puo' ottenere con il provvedimento richiesto al giudice".
Tuttavia, l'"utilita' propria, diretta e immediata" non puo'
essere fatta coincidere con la difesa della specifica attribuzione
legislativa assegnata alla Regione, dal momento che la violazione di
questa costituirebbe un vulnus al riparto costituzionale delle
competenze denunciabile per se' stesso, senza che venga in rilievo la
specifica forma dell'atto legislativo che ne e' responsabile.
Le "prerogative costituzionali" delle Regjoni debbono pertanto
estendersi, ad avviso della Regione, anche al loro status
costituzionale e al ruolo ad esse assegnato nel processi decisionali.
E lo stesso deve dirsi anche per i Comuni, quali enti che
primariamente "costituiscono" la Repubblica ai sensi dell'art. 114
della Costituzione, che ugualmente la violazione della regola del
procedimento legislativo ordinario ha privato della possibilita' di
far valere la propria voce.
Inoltre, la questione della legittimita' di anticipare, con
misure di urgenza, interventi di natura ordinamentale, che
dovrebbero, invece, essere affrontati nel quadro di un riordino
organico del sistema dei livelli territoriali di governo, si pone
ormai in termini acuti, oltre che dal punto di vista del "buon
governo" del sistema repubblicano, anche nell'assetto delle relazioni
costituzionali che intercorrono tra Stato e Regioni, le quali, per
costante affermazione della Corte costituzionale, devono ispirarsi al
principio di leale collaborazione.
Ed e' evidente che, nello stesso arco temporale fissato dal comma
9 dell'art. 16, si sarebbe potuto giungere ad un testo meditato e
condiviso di riforma, dagli effetti assai piu' vasti e benefici, sia
sotto il profilo della funzionalita' dell'Amministrazione nel suo
complesso, che del contenimento dei costi finanziari. E' quanto
denuncia il documento approvato il 24 giugno 2010, dalla Conferenza
delle Regioni, il quale, in relazione alla successione di decreti
legge e di altri provvedimenti che si sono accavallati nel corso di
quest'ultimo anno, osservava che: "Oltre alla preoccupazione di una
disarticolazione del quadro istituzionale, se non corroborato da un
quadro strutturale organico di riforme, e' anche abbastanza
preoccupante che provvedimenti di riforma strutturale, come il
disegno di legge c.d. Calderoli (C 3118) e il disegno di legge in
materia di semplificazione e carta dei doveri della P.A. (C. 3209),
attualmente all'esame del Parlamento, risultino progressivamente
svuotati mediante l'anticipazione di singole parti in essi contenute
nella manovra appena approvata dal Governo. Ci si riferisce, in
particolare, all'art. 14, commi da 25 a 31 (contenenti disposizioni
in materia di funzioni fondamentali dei comuni). Senza considerare
quanto incida, o possa incidere, questa manovra, sulla stessa legge
n. 42/2009 e, soprattutto, sulla sua concreta attuazione. Questo
approccio metodologico, anche solo da un punto di vista tecnico,
potrebbe mettere a rischio la realizzabilita' concreta dei disegni
complessivi di riforma, e sconfessa il metodo che sinora ha
caratterizzato le relazioni istituzionali tra i diversi livelli di
Governo, improntate al principio di leale collaborazione; un metodo
che si regge su precise fondamenta normative (d.lgs. n. 281/1997),
tuttora in vigore ed espressione di principi costantemente ribaditi
dalla Corte Costituzionale."
Le Regioni, alla pari dei rappresentanti delle Associazioni degli
enti locali, sono state coinvolte in defatiganti procedure di
negoziazione, che avrebbero dovuto portare ad un riassetto chiaro ed
equilibrato, come da tutti auspicato, dei poteri locali e delle
relazioni, anche finanziarie, tra Stato, Regioni e autonomie
territoriali.
E' evidente che esse sono del tutto inutili se poi al Governo e'
consentito di procedere unilateralmente a modificare tratti
fondamentali del quadro istituzionale con caotici e unilaterali
provvedimenti ordinamentali (dalla legge finanziaria di fine anno, l.
191/2009 e dal decreto legge ad essa collegato, convertito con 1.
42/2010, al successivo inserimento di molta parte delle residue
disposizioni nella c.d. Manovra estiva 2010, ovvero nel D.L. n.
78/2010, convertito con legge n. 122/2010, fino alle c.d. Manovre
estive 2011, ossia il D.L. 98/2011 convertito con legge 111/2011 e il
D.L. 138/2011 convertito dalla legge 148/2011) e soprattutto con
quelli emanati in forma di decreti-legge, che, come si e' piu' sopra
evidenziato, sono del tutto ingiustificabili, sia per quanto riguarda
l'urgenza del provvedere, sia per l'effettiva congruita' delle misure
rispetto al fine dichiarato.
Ora, ad avviso della Regione ricorrente deve essere affermato che
cio' viene a ledere non soltanto un generico quadro di buoni rapporti
tra Stato e Regioni, ma anche tutti quei vincoli procedurali che le
stesse leggi di delega normalmente prevedono per dare attuazione al
principio di leale collaborazione.
Per questi motivi, la ricorrente Regione ritiene di essere
legittimata a far valere, in relazione alle disposizioni
ordinamentali di cui all'art. 16, la violazione dell'art. 77 Cost.,
per quanto riguarda la carenza dei presupposti della necessita' e
dell'urgenza, nonche' per violazione degli artt. 114 (ruolo
costituzionale delle Regioni) e 118, comma 1, (come espressione del
piu' generale principio di sussidiarieta'), ed infine dell'art. 5
Cost., come implicito riconoscimento del principio di leale
collaborazione.
2. Illegittimita' costituzionale dei commi da 1 a 16 per violazione
degli artt. 114, primo e secondo comma, 117, primo, secondo comma,
lett. p), e quarto comma, 118 e 133, secondo comma, Cost., nonche'
per violazione del principio di non discriminazione, ragionevolezza e
di buon andamento, di cui agli art. 3 e 97 Cost.
L'art. 16, nei commi da 1 a 16, prevede che:
- a decorrere dalla data fissata dal comma 9, i Comuni con
popolazione fino a 1000 abitanti debbano esercitare obbligatoriamente
in forma associata tutte le funzioni amministrative e tutti i servizi
pubblici loro spettanti tramite una Unione, disciplinata dall'art. 32
del TUEL e dalle norme puntuali, e ampiamente innovative, contenute
nei citati commi dell'art. 16;
- di queste Unioni potranno far parte anche Comuni superiori
a 1000 abitanti, che possono esercitare attraverso di esse le
funzioni fondamentali o, a loro scelta, tutte le funzioni o servizi
loro attribuiti;
- a queste Unioni spetta "per conto dei Comuni che ne sono
membri, la programmazione finanziaria e la gestione contabile con
riferimento alle funzioni esercitate per mezzo dell'Unione",
disponendosi poi che "i Comuni concorrono alla predisposizione del
bilancio di previsione dell'Unione" soltanto "mediante l'adozione di
un documento programmatico, nell'ambito del piano generale di
indirizzo deliberato dall'Unione" (comma 4);
- l'Unione succede, a tutti gli effetti, nei rapporti
giuridici in essere che siano inerenti alle funzioni e ai servizi ad
essa affidati, nonche' nei relativi rapporti finanziari derivanti dal
bilancio; dal momento dell'istituzione dell'Unione, per tutti i
Comuni (compresi quelli con popolazione superiore che svolgano,
mediante l'Unione, tutte le loro funzioni) decadono le Giunte, ed
unici organi sono il Sindaco e il Consiglio, a cui residuano
"esclusivamente i poteri di indirizzo";
- l'Unione e' dotata di propri organi ed, in particolare, di
un Consiglio composto dai Sindaci e da un certo numero dei
Consiglieri dei Comuni membri, i quali eleggono il Presidente che, a
sua volta, nomina la Giunta (in seguito il legislatore statale
potra'prevedere l'elezione a suffragio universale e diretto di questi
organi: commi 10 e 11). I commi 12, 13, 14, 15 inoltre disciplinano
minutamente composizione, funzioni, durata in carica ed emolumenti
degli organi delle Unioni; i Comuni inferiori a 1000 abitanti possono
derogare all'obbligo di esercitare, tramite l'Unione, tutte le loro
funzioni e i loro servizi, solo se adottano altra forma associativa,
quale la convenzione di cui all'art.30 TUEL, fermo restando che anche
in questo caso devono gestire tutte le funzioni e i servizi ad essi
attribuiti tramite la convenzione.
Ad avviso della ricorrente Regione, l'intera disciplina sopra
sintetizzata, risulta viziata da illegittimita' costituzionale per
violazione degli artt. 114, primo e secondo comma, 117, secondo
comma, lettera p), e quarto comma, 118 e 133, secondo comma, cost.
nonche' per violazione del principio di ragionevolezza e di buon
andamento di cui agli art. 3 e 97 Cost.
Conviene qui in primo luogo riassumere le disposizioni
costituzionali che riguardano i Comuni, e le competenze che in
relazione ad essi spettano allo Stato e alle Regioni. Non occorre
ricordare che secondo l'art. 114, primo comma, della Costituzione i
Comuni, insieme alle Province, alle Citta' metropolitane, alle
Regioni ed allo Stato costituiscono la Repubblica. Inoltre, ai sensi
del secondo comma, essi "sono enti autonomi con propri statuti,
poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione".
Secondo l'art. 118, comma primo, ai Comuni spettano le funzioni
amministrative, nel quadro del principio di sussidiarieta', e secondo
il comma terzo essi hanno funzioni proprie, oltre a quelle conferite
ad essi dalla Regione e dallo Stato.
Secondo l'art. 117, comma secondo, lett. p), spetta alla legge
statale definire le funzioni fondamentali dei Comuni, ed inoltre
spetta ad essa la competenza in materia di legislazione elettorale e
organi di governo.
Invece, spetta alle Regione, ai sensi dell'art. 133, primo comma,
della Costituzione, "istituire nel proprio territorio nuovi Comuni e
modificare le loro circoscrizioni e denominazioni", sentite le
popolazioni interessate. E pure alla competenza regionale spetta, ai
sensi dell'art. 117, quarto comma, Cost., la disciplina di ogni altro
aspetti delle istituzioni comunali, in quanto non si tratti di
aspetti riservati alla loro stessa autonomia.
Questo quadro di garanzie costituzionali delle autonomie locali e
questo riparto di competenze va ovviamente tenuto presente anche
nell'affrontare il problema - che certo la Regione non ignora (avendo
intrapreso essa stessa, sempre in accordo con gli enti locali,
rilevanti iniziative istituzionali rivolte a risolverlo) della
insufficiente dimensione di molti dei Comuni italiani.
Si tratta di un problema complesso, che non puo' essere risolto
in modo sbrigativo e per via traversa - come fa la disciplina qui
impugnata (si conferma qui la gia' lamentata drammatica inadeguatezza
dello strumento della decretazione d'urgenza), mediante lo
svuotamento istituzionale dei comuni con popolazione inferiore a 1000
abitanti, privandoli delle funzioni, strutture e risorse finanziarie
e disponendo la loro pratica sostituzione con un ente nuovo,
l'Unione, nella quale finisce per "sciogliersi"ogni comune la cui
popolazione non superi la soglia indicata: un ente che ovviamente non
compare nella tipologia costituzionale degli enti costituivi della
Repubblica e privo di legittimazione democratica diretta, come e'
stato rilevato, nel corso dei lavori preparatori, sia dalla
Commissione Affari Costituzionali del Senato, che dalla Commissione
parlamentare per le Questioni Regionali che, nel parere reso sul
disegno di legge di conversione del D.L. 138/2011, suggeriva
"l'opportunita' di sopprimere l'articolo 16".
In effetti, altro e' promuovere entita' associative attraverso le
quali i Comuni associati possano meglio esercitare alcune delle
proprie funzioni, fermo restando il nucleo centrale della loro
consistenza funzionale e strutturale di Comuni, altro e' ridurre i
Comuni a mere strutture di rappresentanza, da aggregare in altro ente
che - senza essere esso stesso "Comune", con le proprie
caratteristiche di immediata espressione della democrazia al livello
locale - dei Comuni originari assorbe pressoche' integralmente le
funzioni, le strutture e le risorse.
Quanto alle funzioni, infatti, la disposizione qui censurata
priva i Comuni interessati di tutte le funzioni amministrative e di
gestione dei servizi pubblici. Quanto all'organizzazione, se e' vero
che la legge di conversione ha evitato la drastica soppressione dello
stesso consiglio comunale accanto a quella mantenuta della Giunta, e'
anche vero che tali consigli comunali restano come semplici organi
d'indirizzo ai quali "competono esclusivamente poteri di indirizzo
nei confronti del consiglio dell'Unione" (comma 9). Gli stessi
sindaci dei Comuni diventano semplici rappresentanti nel consiglio
dell'Unione, mentre le funzioni di Sindaco vengono assunte, a termini
del comma 12, dal presidente dell'Unione. Paradossalmente, privati
delle funzioni di vertice del Comune, i Sindaci si caratterizzano
ormai soprattutto per l'esercizio delle funzioni relative ai servizi
statali di cui all'art. 54 del d. lgs. n. 267 del 2000.
Insomma, e' palese che il disegno proprio delle disposizioni
dell'art. 16, nei commi da 1 a 16, e' di sostituire nella sostanza i
Comuni di piccola dimensione con le Unioni. Questo disegno, tuttavia,
contrasta con le garanzie che la Costituzione offre a tutti i Comuni,
e costituisce un aggiramento delle apposite procedure e competenze
che essa stabilisce per la creazione di nuovi comuni e per il
mutamento delle circoscrizioni comunali.
In altre parole, le disposizioni impugnate costituiscono non solo
superamento dei poteri statali previsti dall'art. 117, comma secondo,
ma anche e prima di tutto violazione dell'art. 133 Cost.
Solo in apparenza il legislatore statale dispone di organi e
funzioni degli enti locali, perche', in realta', quello che ne viene
alterata e' la stessa mappa dell'autonomia comunale, che e'
costituzionalmente garantita dalle peculiari procedure appositamente
apprestate dall'art. 133. Infatti, i Comuni sotto i 1000 abitanti
vengono svuotati di ogni loro attribuzione e delle risorse umane e
strumentali, e persino della titolarita' dei rapporti giuridici
relativi alle funzioni amministrative, tutte trasferite all'Unione.
Cio' significa che dei vecchi comuni resta solo l'involucro; di
fatto, essi sono svuotati e ridotti a poco piu' che circoscrizioni
elettorali dell'Unione di cui fanno parte.
Come codesta Corte ha osservato nella sent. n. 2/2004 a proposito
degli Statuti regionali, le disposizioni costituzionali vanno
interpretate rispettandone lo spirito, oltre che la lettera: se
questo fondamentale principio vale per gli Statuti regionali, vale di
certo anche per il legislatore ordinario. Mal si concilia con lo
"spirito" dell'art. 133 Cost. una legge che lasci delle
circoscrizioni comunali soltanto le indicazioni segnaletiche, perche'
l'esercizio delle funzioni amministrative e' stato, d'imperio,
traslocato altrove.
Come sopra accennato, non si vuole certo negare che un riassetto
delle autonomie locali sia necessario, ma non lo si puo' operare con
strumenti impropri e improvvisati nella fretta, paralizzando,
oltretutto, il lavoro di elaborazione condivisa che da tempo si stava
sviluppando nelle sedi istituzionali disponibili.
Il complesso normativo costituito dall'art. 16, commi da 1 a 16,
non e' dunque compatibile con i principi costituzionali sopra
esposti: ne' con il riconoscimento, che e' espressamente fatto, della
natura costitutiva dei Comuni nella costruzione della Repubblica,
nEcon i principi di autonomia statutaria, organizzativo-regolamentare
e finanziaria, nEcon i principi piu' specifici dell'art. 118 Cost.,
per quanto riguarda le funzioni fondamentali e le funzioni proprie
dei Comuni, che - come insegna codesta Corte (sent. n. 43/2004) -
sono "definite dalla legge, sulla base di criteri oggi assistiti da
garanzia costituzionale". Lo stesso principio di sussidiarieta'
subisce una violazione, in quanto la "differenziazione" dei Comuni e
delle loro funzioni non puo' essere disgiunta da una considerazione,
in concreto, della capacita' amministrativa e di gestione che
distingue gli enti minori in ogni diversa realta' del Paese, e non
puo' ridursi alla privazione delle funzioni dei Comuni minori.
Inoltre, risulta violata la Carta europea delle autonomie locali,
ratificata dall'Italia con la legge 30 dicembre 1989, n. 439. Il
contrasto e' evidente, in particolare, con l'art. 3, che nel definire
il Concetto di autonomia locale non solo precisa che "per autonomia
locale, s'intende il diritto e la capacita' effettiva, per le
collettivita' locali, di regolamentare ed amministrare nell'ambito
della legge, sotto la loro responsabilita', e a favore delle
popolazioni, una parte importante di affari pubblici" (comma 1), ma
sottolinea anche che "tale diritto e' esercitato da Consigli e
Assemblee costituiti da membri eletti a suffragio libero, segreto,
paritario, diretto ed universale, in grado di disporre di organi
esecutivi responsabili nei loro confronti".
Dunque, il trasferimento coattivo delle funzioni, strutture e
risorse relative a tutte le funzioni amministrative e di gestione dei
pubblici servizi dei Comuni minori ad amministrazioni di secondo
grado viola anche gli impegni liberamente assunti dall'Italia nel
quadro europeo, e con cio' l'art. 117, primo comma, della
Costituzione. Si noti, tra l'altro, che in concreto molto spesso i
comuni con popolazione non superiore a 1000 abitanti non sono
contigui, sicche' essi debbono partecipare ad Unioni che comprendono
Comuni che affidano all'Unione solo alcune delle proprie funzioni,
mantenendo per il resto (ed ovviamente) la pienezza della propria
natura di Comuni: sicche' la situazione istituzionale risulta anche
fortemente asimmetrica e diseguale, con il solo comune minore che
perde nella sostanza la propria natura di vero Comune, a favore di
una Unione che per tutti gli altri comuni rimane un'organizzazione
settoriale. In altre parole la stessa Unione non ha la stessa natura
per tutti i comuni componenti, dato che per la maggior parte essa
resta una organizzazione funzionale di servizio, mentre per il Comune
fino a 1000 abitanti essa in realta' subentra nel ruolo di vero
Comune.
Ad avviso della Regione sotto questo profilo risultano violati,
oltre che l'art. 114, anche gli artt. 3 e 97 Cost., in quanto
soluzione discriminatrice, priva di ragionevolezza ed in contrasto
con il principio di buon andamento dell'amministrazione.
Oltre alle regole costituzionali in materia di autonomia
comunale, le disposizioni impugnate violano le competenze residuali
delle Regioni in materia di associazionismo tra enti locali.
Infatti, come confermato da codesta Corte costituzionale nella
sent. n. 456/2005 (ivi il riferimento specifico era alla disciplina
delle Comunita' montane), nello stabilire la competenza statale,
l'art. 117, secondo comma, lettera p), "fa espresso riferimento ai
Comuni, alle Province e alle Citta' metropolitane e l'indicazione
deve ritenersi tassativa". Dunque, la potesta' legislativa dello
Stato si ferma all'ordinamento degli enti locali, e non si estende
alle loro forme associative (cfr. anche la sent.n. 27/2010), ne' a
quel "caso speciale di Unioni di Comuni" (cfr. Corte cost. n.
456/2005) quali sono, appunto, le Comunita' montane, enti non dotati
di "autonomia costituzionalmente garantita" (sent. n. 397/2006). In
effetti, la giurisprudenza costituzionale ha in diverse occasioni
confermato l'incompetenza del legislatore statale ad intervenire in
un ambito, quello delle forme associative, riconducibile alla
potesta' legislativa regionale residuale (sentenze nn. 244 e 456 del
2005, n. 387 del 2006, n. 237/2009, n. 27/2010 e n. 326/2010).
Di conseguenza, l'intera disciplina della speciale Unione
prevista dai commi da 1 a 16, a maggiore ragione per il suo carattere
dettagliato e minuzioso, appare costituzionalmente illegittima per
lesione della competenze residuale delle Regioni in materia di
associazionismo tra enti locali.
Si noti che la Regione Umbria ha gia' esercitato tale competenza
con la legge regionale n. 18 del 2003, recante tra l'altro Norme in
materia di forme associative dei Comuni e di incentivazione delle
stesse.
Da ultimo, e in subordine, va censurata la specifica
incostituzionalita' di talune disposizioni dell'art. 16 che prevedono
poteri regolativi e amministrativi statali nella applicazione della
normativa impugnata.
Cosi' il comma 4 dispone, tra l'altro, che "con regolamento" da
adottare ai sensi dell'articolo 17, comma 1, della legge 23 agosto
1988, n. 400 "su proposta del Ministro dell'interno, di concerto con
il Ministro per le riforme per il federalismo, sono disciplinati il
procedimento amministrativo-contabile di formazione e di variazione
del documento programmatico, i poteri di vigilanza sulla sua
attuazione e la successione nei rapporti amministrativo-contabili tra
ciascun comune e l'unione".
Ad avviso della ricorrente Regione, si tratta di un potere che in
nessun modo e' riconducibile alla competenza legislativa statale in
materia di individuazione della funzioni fondamentali, o ad alcuna
altra materia di competenza statale. Si tratta invece della
disciplina dei rapporti tra i Comuni e l'entita' associativa,
rapporti che - per la parte che non ricade nella stessa autonomia
comunale - compete alla Regione ai sensi dell'art. 117, quarto comma,
Cost.
Di conseguenza, non vi e' potere regolamentare statale, a termini
dell'art. 117, comma sesto, Cost.
In ulteriore subordine, ove dovesse ammettersi una competenza
statale, risulta violato il principio di leale collaborazione, non
essendo prevista ne' l'intesa con la Regione interessata ne' l'intesa
con la Conferenza unificata.
Ugualmente, risulta illegittimo il comma 16, per violazione del
principio di leale collaborazione, per avere il legislatore statale
completamente pretermesso le Regioni nella valutazione - demandata in
via esclusiva al Ministro degli Interni - in ordine al conseguimento,
da parte dei Comuni gia' coinvolti in forme associative di cui
all'art. 30 del T.U.E.L., dei "significativi livelli di efficacia ed
efficienza nella gestione, mediante convenzione, delle rispettive
attribuzioni". E' eclatante la circostanza che gli effetti delle
leggi regionali sull'associazionismo vengano a dipendere da una
valutazione unilaterale e centralizzata del Ministero degli Interni,
senza alcun coinvolgimento delle Regioni stesse, in violazione
dell'art. 117, comma 4. E' evidente, altresi', la violazione
dell'art. 114, in quanto detta disposizione introduce un controllo
statale sulla efficacia ed efficienza della gestione delle forme
associative diverse dalle unioni, in violazione dell'autonomia
riconosciuta agli enti territoriali dall'attuale testo dell'art. 114,
come modifica dalla riforma del titolo V.
P. Q. M.
Voglia codesta Ecc.ma Corte costituzionale accogliere il ricorso,
dichiarando l'illegittimita' costituzionale delle impugnate
disposizioni del decreto-legge 13 agosto 2011 n. 138, come convertito
nella legge n. 148 del 2011, nelle parti, nei termini e sotto i
profili esposti nel presente ricorso.
Padova-Bologna-Roma, 14 novembre 2011
L'Avv. Manuali - Il Prof. Avv. Falcon -
Il Prof. avv. Mastragostino - L'Avv. Manzi
Allegati:
1) Deliberazione della Giunta regionale del 14 novembre 2011,
n. 1332.
2) Deliberazione del Consiglio delle autonomie locali dell'11
novembre 2011, n. 301.