Ricorso n. 171 del 23 ottobre 2012 (Regione Puglia)
Ricorso per questione di legittimita' costituzionale depositato in cancelleria il 23 ottobre 2012 (della Regione Puglia).
(GU n. 1 del 2.1.2013)
Ricorso della Regione Puglia, in persona del Presidente della Regione pro tempore, autorizzato con deliberazione della Giunta regionale 1971/12, rappresentata e difesa, come da procura speciale a margine dall'avv. prof. Alberto Lucarelli con domicilio eletto in Roma presso Cancelleria Corte costituzionale.
Contro il Presidente del Consiglio dei Ministri per la dichiarazione di illegittimita' costituzionale, previa sospensione dell'esecuzione dell'art. 4, commi 1 e 8, del decreto-legge del 6 luglio 2012, n. 95, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 135 pubblicata in SO n. 173, reiativo alla G.U. 14 agosto
2012, n. 189.
Per violazione:
dell'art 117, primo, secondo, terzo, quarto, quinto e sesto comma, della Costituzione;
dell'art. 118, primo e secondo comma, della Costituzione;
dell'art. 119 della Costituzione;
dell'art. 41 della Costituzione;
dell'art. 42 della Costituzione;
dell'art. 43 della Costituzione;
degli artt. 1, 5, 75, 77, 114 della Costituzione, nei modi e per i profili di seguito illustrati.
Con il decreto-legge del 6 luglio 2012, n. 95, convertito con modificazioni dalla legge n. 7 agosto 2012, n. 135, il legislatore statale ha introdotto alcune disposizioni che incidono sulle competenze delle Regioni.
In particolare, l'art. 4, rubricato «Riduzione di spese, messa in liquidazione e privatizzazione di societa pubbliche», al comma 1, dispone: «Nei confronti delle societa' controllate direttamente o indirettamente dalla pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2 del decreto legislativo n. 165 del 2001, che abbiano
conseguito nell'anno 2011 un fatturato da prestazione di servizi a favore di pubbliche amministrazioni superiore al 90 per cento (dell'intero fatturato), si procede, altemativamente:
a) allo scioglimento della societa' entro il 31 dicembre
2013. Gli atti e le operazioni poste in essere in favore delle
pubbliche amministrazioni di cui al presente comma in seguito allo
scioglimento della societa' sono esenti da imposizione fiscale, fatta
salva l'applicazione dell'imposta sul valore aggiunto, e assoggettati
in misura fissa alle imposte di registro, ipotecarie e catastali;
b) all'alienazione con procedure di evidenza pubblica, delle
partecipazioni detenute alla data di entrata in vigore del presente
decreto entro il 30 giugno 2013 ed alla contestuale assegnazione del
servizio per cinque anni (non rinnovabili) a decorrere dal 1° gennaio
2014. Il bando di gara considera, tra gli elementi rilevanti di
valutazione dell'offerta, l'adozione di strumenti di tutela dei
livelli di occupazione. L'alienazione deve riguardare l'intera
partecipazione della pubblica amministrazione».
Inoltre, cosi' il successivo comma 2 dell'art. 4: «Ove
l'amministrazione non proceda secondo quanto stabilito ai sensi del
comma 1, a decorrere dal 1° gennaio 2014 le predette societa' non
possono comunque ricevere affidamenti diretti di servizi, ne' possono
fruire del rinnovo di affidamenti di cui sono titolari...».
I suddetti commi 1 e 2 dell'art. 4, come precisato dal successivo
comma 3, non si applicano «... alle societa' che svolgono servizi di
interesse generale, anche aventi rilevanza economica, alle societa'
che svolgono prevalentemente compiti di centrali di committenza ai
sensi dell'art. 33 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163,
nonche' alle societa' di cui all'art. 23-quinquies, commi 7 e 8, del
presente decreto, e alle societa' finanziarie partecipate dalle
regioni, ovvero a quelle che gestiscono banche dati strategiche per
il conseguimento di obiettivi economico-finanziari, individuate, in
relazione alle esigenze di tutela della riservatezza e della
sicurezza dei dati, nonche' all'esigenza di assicurare l'efficacia
del controlli sull'erogazione degli aiuti comunitari del settore
agricolo, con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, da
adottare su proposta del Ministro o dei Ministri aventi poteri di
indirizzo e vigilanza, di concerto con il Ministro dell'economia e
delle finanze, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri. Le
medesime disposizioni non si applicano qualora, per le peculiari
caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del
contesto, anche territoriale, di riferimento non sia possibile per
l'amministrazione pubblica controllante un efficace e utile ricorso
al mercato. In tal caso, l'amministrazione, in tempo utile per
rispettare i termini di cui al comma 1, predispone un'analisi del
mercato e trasmette una relazione contenente gli esiti della predetta
verifica all'Autorita' garante della concorrenza e del mercato per
l'acquisizione del parere vincolante, da rendere entro sessanta
giorni dalla ricezione della relazione. Il parere dell'Autorita' e'
comunicato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Le
disposizioni del presente articolo non si applicano altresi' alle
societa' costituite al fine della realizzazione dell'evento di cui al
Presidente del Consiglio dei Ministri, 30 agosto 2007, richiamato
dall'art. 3, comma 1, lett. a), del decreto-legge 15 maggio 2012, n.
59, convertito con modificazioni, dalla legge 12 luglio 2012, n.
100».
Il comma 3-sexies, sempre in merito ai servizi di cui al comma 1,
ha previsto un'ulteriore disciplina dal carattere della
eccezionalita': «Entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore
della legge di conversione del presente decreto le pubbliche
amministrazioni di cui al comma 1 possono predisporre appositi piani
di ristrutturazione e razionalizzazione delle societa' controllate.
Detti piani sono approvati previo parere favorevole del Commissario
straordinario per la razionalizzazione della spesa per acquisto di
beni e servizi di cui all'art. 2 del decreto-legge 7 maggio 2012, n.
52, convertito con modificazioni, dalla legge 6 luglio 2012, n. 94, e
prevedono l'individuazione delle attivita' connesse esclusivamente
all'esercizio di funzioni amministrative di cui all'art. 118 della
Costituzione, che possono essere riorganizzate e accorpate attraverso
societa' che rispondono ai requisiti della legislazione comunitaria
in materia di in house providing. I termini di cui al comma 1 sono
prorogati per il tempo strettamente necessario per l'attuazione del
piano di ristrutturazione e razionalizzazione con decreto del
Presidente del Consiglio dei Ministri, di concerto con il Ministro
dell'economia e delle finanze, adottato su proposta del Commissario
straordinario per la razionalizzazione della spesa per l'acquisto di
beni e servizi».
Il comma 1 dell'art. 4, seppur con le eccezioni di cui ai commi 3
e 3-sexies, impone, tra l'altro, alle regioni e agli enti locali di
dismettere le societa' partecipate, determinando un sostanziale
impoverimento in capo ad enti quali le regioni. I profili di
illegittimita' risiedono prima facie nella contrarieta' di parte del
comma 1 dell'art. 4 con lo spirito del titolo V, II parte della
Costituzione e con l'assetto delle competenze ivi fissato, informato
alla valorizzazione dell'autonomia degli enti locali, che alla luce
della normativa impugnata, sono di fatto spogliati degli strumenti e
dei margini di operativita' che dovrebbero loro spettare.
Vengono meno del tutto i principi di autonomia ed autarchia,
consacrati anche in ambito sovranazionale - si pensi all'art. 5 TUE
(ex art. 5 TCE) che fissa il principio di auto-organizzazione
dell'ente locale - che spettano alle regioni in sede di
determinazione delle proprie scelte.
Il comma 1 dell'art. 4, nonostante l'introduzione di ipotesi di
ammissibilita', come si e' visto di cui ai commi 3 e 3-sexies, incide
sensibilmente sul potere di auto-organizzazione degli enti
territoriali (e delle regioni in particolare), comprimendo margini di
autonomia costituzionalmente garantiti.
Tale disciplina costringe anche la Regione Puglia ad adeguarsi a
«tappe forzate» - scioglimento (31 dicembre 2013) o all'alienazione
(30 giugno 2013) delle sue societa' - al presunto nuovo «principio
fondamentale per lo sviluppo economico», ledendo la sua potesta'
legislativa, che a norma dell'art. 117, comma primo della
Costituzione deve essere esercitata «nel rispetto della Costituzione»
e, quindi, nel rispetto del regime delle competenze di cui ai commi 2
, 3 e 4 dell'art. 117 Cost. A cio' si aggiunga il carattere
prescrittivo e sanzionatorio di cui al comma 2 dell'art. 4 che
prevede che laddove non si proceda con scioglimento o alienazione le
societa' regionali non potranno fruire del rinnovo degli affidamenti.
Oggetto della norma, cosi' come espressamente affermato dal comma
3, sono tutti i servizi che non rientrano tra i servizi di interesse
generate (SIG), quindi, da una lettura semantica della norma,
sembrerebbe che non siano oggetto della disposizione ne' i servizi di
interesse economico generale (SIEG), ne' i servizi non economici di
interesse generate (SNEIG). I SIG, in quanto portatori di interessi
generali, si articolano tra competenze europee, nazionali e
regionali. Al contrario, i servizi pubblici privi sia di interesse
generate che di rilevanza economica, prestati da societa' controllate
direttamente o indirettamente dalla regione, sono governati e
gestiti, ai sensi dei commi 1, 4, 6 dell'art. 117 Cost. e degli artt.
118 e 119 Cost. L'assenza dell'interesse generate e della dimensione
economica del servizio collocano tali societa' nell'alveo legislativo
regionale, sia dal punto di vista organizzativo, che
gestionale-finanziario.
Il comma 1 dell'art. 4 lede altresi' il principio costituzionale
di tutela della proprieta' pubblica di cui all'art. 42 Cost., laddove
impone l'alienazione o in alternativa la liquidazione di societa'
regionali, ed in senso piu' generale, il principio autonomistico di
cui agli artt. 5 e 114 Cost.
Altra norma che incide sulle prerogative regionali e' il comma 8
dell'art. 4, che dispone: «A decorrere dal 1° gennaio 2014
l'affidamento diretto puo' avvenire solo a favore di societa' a
capitale interamente pubblico, nel rispetto dei requisiti richiesti
dalla normativa e dalla giurisprudenza comunitaria per la gestione in
house e a condizione che il valore economico del servizio o dei beni
oggetto dell'affidamento sia complessivamente pari o inferiore a
200.000 euro annui. Sono fatti salvi gli affidamenti in essere fino
alla scadenza naturale e comunque fino al 31 dicembre 2014».
In effetti, la disciplina introdotta conferma, in parte,
l'impianto dell'art. 23-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112,
convertito nella legge 6 agosto 2008, n. 133 e successivamente
abrogato tramite il referendum del 12-13 giugno 2011 coartando, in
modo costituzionalmente illegittimo, il diritto dell'ente
territoriale responsabile di erogare i proprio servizi e di gestire i
propri beni a favore della propria comunita' e tradendo di fatto
l'esito del suddetto referendum. Infatti, il suddetto comma 8
dell'art. 4, forzando la liberalizzazione delle attivita' inerenti a
servizi pubblici locali di rilevanza economica, marginalizzando le
ipotesi di affidamenti diretti a societa' di capitale pubblico ed
escludendo le ipotesi di affidamenti diretti a soggetti di diritto
pubblico (v. aziende speciali), detta una normativa del tutto
difforme, nello spirito e nei contenuti, dalla volonta' popolare
espressa a seguito della consultazione referendaria, nonche' dagli
stessi principi costituzionali e comunitari. Detta una disciplina che
reintroduce i limiti agli affidamenti diretti a s.p.a. pubbliche,
escludendo totalmente gli affidamenti a soggetti di diritto pubblico,
riproducendo i contenuti dell'art. 4 del decreto-legge n. 138 del
2011, norma annullata successivamente dalla sentenza n. 199 del 2012
della Corte costituzionale.
I limiti posti alle procedure di affidamento diretto, di cui al
comma 8 dell'art. 4 della L. n. 135 del 2012, si contrappongono
inoltre alla sentenza n. 24 del 2011 della Corte costituzionale,
laddove in maniera cristallina Codesta Corte evidenzia come il
diritto comunitario ammetta pienamente il diritto di ogni
amministrazione ad erogare direttamente i servizi pubblici
autoproducendoli corrispondentemente alla propria missione (principio
di neutralita' rispetto alle forme giuridiche di cui all'art. 345
TFUE).
La marginalizzazione del ricorso agli affidamenti diretti alle
societa' pubbliche in house costituisce un'ulteriore compressione
dell'autonomia degli enti territoriali nell'individuazione dei
modelli organizzativi piu' idonei per l'erogazione dei propri
servizi, contraria oltre che alle disposizioni costituzionali sopra
richiamate - e allo stesso art. 5 Cost. - finanche al diritto
comunitario, che non fissa gli stessi severi limiti all'applicazione
di modelli pubblici, in ossequio, come si e' visto, al principio di
neutralita' di cui all'art. 345 TFUE.
E' invece soltanto nel momento nel quale un'autorita' pubblica
scelga di esternalizzare il servizio che il procedimento di
affidamento deve rispettare i principi di non discriminazione,
trasparenza, parita' di trattamento, libera circolazione di persone e
imprese ed in particolare la disciplina comunitaria in materia di
appalti pubblici.
Anche il suddetto comma 8 dell'art. 4, risulta, pertanto, lesivo
delle competenze costituzionali delle regioni nelle materie dei
servizi pubblici e dell'organizzazione degli enti locali, che si
snodano nel rispetto del principio di leale collaborazione tra
competenze comunitarie, statali e regionali (art. 117, comma 3).
Peraltro, la Regione Puglia ha esercitato potesta' legislativa in
tali ambiti, per esempio in materia di trasporto pubblico locale, con
la legge regionale 31 ottobre 2002, n. 18, ed in materia di rifiuti
urbani con la legge regionale del 31 dicembre 2009, n. 36, nonche' in
materia di servizio idrico integrato con la l.r. 20 giugno 2011, n.
11.
Di conseguenza, i commi 1 e 8 dell'art. 4 della l. n. 135 del
2012, incidendo in maniera consistente sulla sfera di competenza
della Regione Puglia, sia sul piano patrimoniale-proprietario, che
organizzativo-funzionale e gestionale, violano direttamente gli artt.
114, 117 e 118 Cost.; inoltre, tali disposizioni, entrando in
conflitto con gli artt. 1, 5, 75 e 77 Cost., determinando una
compressione dei suoi poteri. Compressione che contrasta altresi' con
le disposizioni contenute negli artt. 41, 42 e 43 Cost., ancorche'
diverse da quelle attributive di competenza legislativa, ma che
tuttavia le Regioni possono nondimeno far valere «se tale contrasto
si risolva in una esclusione o limitazione del potere regionali»
(Corte cost. sent. 165/2007; ex multis cfr. anche Corte cost. sent.
n. 50/2005, n. 32/1960, n. 961/1988).
In tal senso, si pensi all'impatto che i commi 1 e 8 dell'art. 4
determinano sull'impianto della cosiddetta Costituzione economica
(cfr. soprattutto 41, 42, 43 Cost.), in relazione ad una normativa
che altera irrimediabilmente l'equilibrio tra proprieta' pubblica e
proprieta' privata; tra impresa pubblica e privata, con un facilmente
prevedibile deficit patrimoniale (si tratta di vere e proprie
dismissioni), nonche' in termini di tutela dell'interesse generale e
di tutela dei livelli occupazionali.
Sussiste, quindi, la legittimazione ad agire nel giudizio di cui
all'art. 127 Cost.
Sull'illegittimita' del comma 1 dell'art. 4 della legge n. 135
del 2012 stabilisce che «Nei confronti delle societa' controllate
direttamente o indirettamente delle pubbliche amministrazioni di cui
all'art. 1, comma 2 del decreto legislativo n. 165 del 2001, che
abbiano conseguito nell'anno 2011 un fatturato di prestazione di
servizi a favore di pubbliche amministrazioni superiore al 90 per
cento dell'intero fatturato, si procede, alternativamente: a) allo
scioglimento...; b) all'alienazione...»
Tale disposizione, cosi' come precisato nel successivo comma 3,
non ha ad oggetto le societa' pubbliche che erogano servizi di
interesse generale, ne' quelli aventi rilevanza economica. Quindi, in
merito al regime delle competenze, si tratta di una materia che non
ricade ne' nell'ambito delle competenze comunitarie, ne' nell'ambito
di quelle statali (riservate e/o concorrenti).
Si e' in presenza di una materia che rientra nelle competenze
legislative di cui all'art. 117, comma 4 Cost., ovvero nelle
competenze residuali delle regioni. Il titolo di legittimazione per
gli interventi del legislatore statale, costituito dalla tutela della
concorrenza, non e' applicabile a questo tipo di servizi, proprio
perche in riferimento ad essi non esiste un mercato concorrenziale.
Quindi la norma non ha ad oggetto i SIEG che, ai sensi dell'art. 117,
comma 2, lett. e) Cost. rientrano - seppur con una serie di distinguo
- nella competenza legislativa esclusiva dello Stato: «tutela della
concorrenza».
La norma impugnata, attraverso la vendita o la liquidazione delle
societa' pubbliche regionali, che non prestano attivita' di interesse
generale e di rilevanza economica, determina una evidente lesione
delle competenze regionali, con effetti invasivi concreti sulla sfera
costituzionale. Come e' noto, nei casi di effetti invasivi concreti
da parte di norme statali su competenze regionali, la Corte ha
affermato che possa parlarsi di lesione delle prerogative (Corte
Cost. n. 329 del 2003). Nel caso specifico si tratta di norme
dall'alto impatto socio-economico che hanno quali effetti
l'alienazione e/o la liquidazione di asset proprietari con
ripercussioni altresi' sul piano occupazionale e sulla tutela del
lavoro. Cosi', l'ordinamento autonomo regionale e' chiamato a
modificarsi secondo gli enunciati principi (sic!) di messa in
liquidazione e privatizzazione di societa' pubbliche, principi
estranei alla «Costituzione economica» - basata su un perfetto
equilibrio tra proprieta' pubblica e proprieta' privata, tra
iniziativa economica dei privati ed utilita' sociale - in piena
violazione dell'art. 114 co. 2 Cost. che pone quale limite ampio
all'autonomia locale il rispetto dei «principi della Costituzione».
Principi costituzionali che si articolano attraverso quel complesso
normativo che contribuisce alla costruzione della struttura
istituzionale e socio-economica del Paese e che, in questo senso, non
puo' non comprendere anche la dinamica equilibrata tra proprieta'
pubblica/proprieta' privata (art. 41 Cost.), a maggior ragione in
ambiti estranei alle logiche del mercato e della concorrenza.
A cio' si aggiunga che l'equiparazione delle Regione agli altri
enti locali, dal punto di vista dello scioglimento e
dell'alienazione, costituisce un'ulteriore forzatura dell'ordine
costituzionale delle fonti. Infatti, a differenza di Provincie e
Comuni, le Regioni, come e' noto, hanno potesta' legislativa autonoma
garantita direttamente dalla Costituzione (art. 117, commi 2 e 3):
non puo' esser quindi introdotto per legge ordinaria un nuovo
sedicente principio di privatizzazione, idoneo a coartarne la
sovranita' legislativa negli ambiti ad esse costituzionalmente
riconosciuti.
E' dunque evidente che il comma 1 dell'art. 4 della l. n. 135 del
2011, da una parte viola il regime delle competenze tra Stato e
regione, legiferando in una materia di competenza legislativa
regionale residuale, di cui all'art. 117, comma 4 Cost., dall'altra
marginalizza la struttura profonda della Costituzione economica
italiana, imponendo una scelta centralizzatrice e privatistica,
lontana dagli equilibri costituzionali vigenti, ignorando
l'architettura istituzionale decentrata descritta dal Titolo V della
Carta.
Infine, non si comprende per quail motivi - di manifesta
illogicita' ed irragionevolezza - la potesta' regionale in tale
materia venga «recuperata» come strumento reattivo e di
contrapposizione ai processi di alienazione e di liquidazione.
Ovvero, processi dall'alto impatto socio-econonnico, quali
l'alienazione e la liquidazione delle societa' pubbliche regionali,
sono governati e gestiti, come si e' detto, illegittimamente
attraverso leggi dello Stato, ma irragionevolmente il comma 3
dell'art. 4 attribuisce alle regioni il potere di predisporre
un'analisi del mercato e trasmettere una relazione contenente gli
esiti della predetta verifica all'Autorita' garante della concorrenza
e del mercato per l'acquisizione del parere vincolante, da rendere
entro sessanta giorni dalla ricezione della relazione. In sostanza,
la regione puo' decidere di predisporre tale analisi, in tempo utile
per rispettare i termini di cui al comma 1, laddove ritenga che per
le peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e
geomorfologiche del contesto, anche territoriale, di riferimento non
sia possibile per l'amministrazione pubblica controllante un efficace
e utile ricorso al mercato.
Si tratta di attribuzione alle regioni di un potere «debole»,
estraneo al reale governo e gestione dei processi societari, un
potere che puo' essere sempre ed in ogni caso interdetto e svuotato
di effettivita', laddove ad un organo dell'amministrazione centrale,
ancorche' indipendente, quale e' l'Autorita' garante della
concorrenza e del mercato, e' attribuito il potere vincolante di
decidere se sussistano o meno le condizioni per non procedere allo
scioglimento o all'alienazione delle societa'.
Sull'illegittimita' del comma 8 dell'art. 4 della legge n. 135
del 2012: a) per effetto della centralizzazione del potere ai danni
della Regione.
Occorre chiarire in limine, nell'ambito di un ricorso di
costituzionalita' diretto di una regione, necessariamente
circoscritto dalla sua natura, che la «scelta» di un regime
concorrenziale estremo, reiterata dal legislatore nazionale dopo il
referendum abrogativo del 13 giugno, circoscrive coercitivamente
l'ambito delle possibili scelte che le regioni possono porre in
essere tanto in via di prerogative primarie quanto sussidiarie.
Infatti, l'analisi della disciplina impugnata evidenzia come essa
non possa essere unicamente ricondotta nella materia «tutela della
concorrenza» - appartenendo quindi ad una delle competenze esclusive
dello Stato - ma coinvolga necessariamente attribuzioni regionali,
incidendo sulle sfere di competenza proprie degli enti locali.
Il comma 8 dell'art. 4, limitando il potere delle regioni e degli
enti locali all'affidamento diretto soltanto a favore di societa' a
capitale interamente pubblico, a condizione che il valore economico
del servizio dell'affidamento sia complessivamente pari o inferiore a
200.000 euro, viola da una parte l'ordinamento comunitario, laddove
il legislatore statale pone regole piu' restrittive, dall'altra
ripropone il contenuto di norme (comma 13 dell'art. 4 del
decreto-legge n. 138 del 2011) dichiarate incostituzionali dalla
Corte costituzionale con sentenza n. 199 del 2012.
Come e' noto, dopo l'abrogazione, in via referendaria, dell'art.
23-bis del decreto c.d. Ronchi e prima dell'introduzione dell'art. 4
del decreto-legge n. 138 del 2011, successivamente dichiarato
incostituzionale, le Regioni, e gli enti locali in generale, sono
state nuovamente protagoniste attive del processo decisionale
relativo alla gestione e all'affidamento dei servizi pubblici locali
(SIEG).
La Corte costituzionale con sentenza n. 199 del 2012, depositata
il 20 luglio, pronunciandosi sui ricorsi presentati da diverse
regioni, ha annullato l'art. 4 del decreto-legge n. 138 del 2011.
Infatti, ad avviso del Giudice delle leggi, tale norma avrebbe
riproposto svariate disposizioni dell'art. 23-bis del decreto-legge
n. 112 del 2008, in violazione del divieto di ripristino della
normativa abrogata dalla volonta' popolare, desumibile dall'art. 75
Cost.
La motivazione risulta evidente nel passaggio della sentenza in
cui si rileva che «a distanza a meno di un mese dalla pubblicazione
del decreto dichiarativo dell'avvenuta abrogazione dell'art. 23-bis
del d.l. n. 112 del 2008, il Governo e' intervenuto nuovamente sulla
materia con l'impugnato art. 4, il quale (...) detta una nuova
disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, che
non e' solo contraddistinta dalla medesima ratio di quella abrogata,
in quanto opera una drastica riduzione delle ipotesi di affidamenti
in house, al di la' di quanto prescritto dalla normativa comunitaria,
ma e' anche letteralmente riproduttiva, in buona parte, di svariate
disposizioni dell'abrogato art. 23-bis e di molte disposizioni del
regolamento attuativo del medesimo art. 23-bis nel d.p.r. n. 168 del
2010». Sebbene la ragione della dichiarata incostituzionalita'
risieda nella violazione dell'art. 75 Cost., Codesta Corte non
rinuncia, in un importante passaggio, ad esprimere una valutazione di
merito sulla disciplina dell'in house providing, laddove sottolinea
la «difformita'» dell'incisiva compressione di tale istituto
«rispetto a quanto previsto dalla normativa comunitaria che consente,
anche se non impone (sentenza n. 325 del 2010) , la gestione diretta
del servizio pubblico da parte dell'ente locale, allorquando
l'applicazione delle regole di concorrenza ostacoli, in diritto o in
fatto, la speciale missione dell'ente pubblico (art. 106 TFUE)».
Il comma 8 dell'art. 4 della l. n. 135 del 2012 6 la fotocopia in
peius, dell'art. 4, comma 13 del d.l. n. 138 del 2011, dichiarato
incostituzionale con sentenza n. 199 della Corte costituzionale, per
violazione del vincolo referendario, ma anche per aver introdotto,
cosi' come l'abrogato art. 23-bis, elementi di «difformita'» della
disciplina interna rispetto a quella comunitaria. La Corte, nel
sottolineare tale difformita' rispetto al diritto comunitario, in
particolare per quanto attiene alle disposizioni riproposte dal comma
8 dell'art. 4, adombra il principio che non sono ammesse ulteriori
limitazioni alle ipotesi di affidamento in house del servizio, il
quale, ricorda la Corte, e' consentito nell'ordinamento comunitario
«alle sole condizioni del capitale totalmente pubblico della societa'
affidataria, del cosiddetto controllo «analogo» (il controllo
esercitato dall'aggiudicante sull'affidatario deve essere di
«contenuto analogo» a quello esercitato dall'aggiudicante sui propri
uffici) ed in fine dello svolgimento della parte piu' importante
dell'attivita' dell'affidatario in favore dell'aggiudicante».
Insomma, e' chiaro che ulteriori limiti, posti dal legislatore
statale agli affidamenti diretti in house, sarebbero illegittimi ed
in contrasto con il diritto comunitario. Del resto, e' stato
evidenziato proprio di recente come la giurisprudenza in tema di
autoproduzione di servizi da parte di enti pubblici indichi che detta
scelta sia da considerarsi legittima in linea di principio, come
manifestazione dell'autonomia organizzativa dell'ente, come
applicazione del principio comunitario di libera definizione (si veda
TPG, T-289/03, BUPA), e non come soluzione eccezionale di tipo
sussidiario (M. Libertini, Le societa' di autoproduzione in mano
pubblica, controllo analogo, destinazione prevalente dell'attivita' e
autonomia statutaria, in Riv. Dir. soc., 2012, p. 206).
Per i suddetti motivi, il comma 8 dell'art. 4 risulterebbe
palesemente incostituzionale e la normativa applicabile
immediatamente in tema di servizi pubblici locali, esclusa la
reviviscenza delle norme abrogate, come affermato dalla Corte cost.,
con sentenza n. 24 del 2011 (in particolare art. 113 TUEL), gia' per
effetto dell'art. 23-bis, oggetto dell'ultimo referendum popolare,
risulta la normativa comunitaria relativa alle regole concorrenziali
minime in tema di gara ad evidenza pubblica per l'affidamento della
gestione di servizi pubblici locali di rilevanza economica. L'in
house deve tornare ad essere soggetto alle regole definite dalla
giurisprudenza comunitaria.
Il comma 8 dell'art. 4 viola contestualmente il vincolo
referendario, i contenuti della sentenza n. 199 del 2012 e
l'ordinamento comunitario in tema di affidamento dei servizi
pubblici. Infatti, in conformita' con quanto affermato da Codesta
Corte, all'abrogazione referendaria dell'art. 23-bis e' conseguita
l'applicazione immediata nell'ordinamento italiano della normativa
comunitaria, non verificandosi alcun vuoto legislativo, ne' alcuna
reviviscenza di disposizioni precedentemente abrogate dallo stesso
art. 23-bis (cfr. sent. n. 24 del 26 gennaio 2011, punto 4.2.2.).
I principi e le regole del diritto comunitario, cosi' come
affermato dalla giurisprudenza costituzionale richiamata, possono
applicarsi direttamente nel nostro ordinamento, anche in assenza di
una disciplina nazionale di adeguamento. Tale normativa,
riassuntivamente esposta, prevede quanto segue:
1) la gestione diretta del servizio di rilevanza economica,
attraverso un affidatario, anche di diritto pubblico, che costituisce
la longa manus di un ente pubblico che lo controlla totalmente (Corte
cost. 325/2010, punti 6.1 e 8.1), e' ammessa qualora lo Stato
nazionale ritenga di ostacolo alla «speciale missione» dell'ente
pubblico i meccanismi della concorrenza e lo strumento
dell'affidamento a terzi mediante una gara ad evidenza pubblica (art.
106, comma 2 TFUE);
2) la gestione c.d. in house e' subordinata al verificarsi di
tre condizioni: capitale totalmente pubblico del gestore;
possibilita' di esecuzione del controllo di c.d. «contenuto analogo»
a quello esercitato dall'aggiudicante stesso sui propri uffici;
svolgimento della parte principale dell'attivita' dell'affidatario in
favore dell'aggiudicante.
E' agevole notare the il diritto comunitario (id est il contesto
normativo antecedente alla legge impugnata) relativo alle regole
concorrenziali minime in tema di gara ad evidenza pubblica conceda
agli enti locali una maggiore liberta' nella definizione delle
procedure di affidamento: sul piano sostanziale, la normativa
comunitaria, ben prevedendo ipotesi alternative al ricorso alla
regola della concorrenza, e' assai «meno restrittiva» di quella posta
dall'art. 23-bis (come riconosciuto da Corte cost. n. 24/2011),
dall'art. 4 del decreto-legge n. 138 del 2011 e, ora, di quella
risultante dalla disposizione de quo, decisamente orientata verso
forme di gestione privatistica dei servizi (al pari dell'abrogato
art. 23-bis e dell'annullato art. 4 del d.l. n. 138 del 2012), al
punto da contemplare modelli di affidamento diretto a soggetti di
diritto pubblico (si pensi all'azienda speciale contemplata
dall'ordinamento giuridico italiano).
Pertanto, sussiste una chiara lesione dell'autonomia
costituzionale della Regione, proprio in forza della descritta
compressione dei poteri ad essa attribuiti dalla legge: il comma 8
dell'art. 4, infatti, riproponendo, in parte la disciplina abrogata
dal referendum, in particolare per quanto attiene ai limiti agli
affidamenti in house e ai limiti a ricorrere ad un soggetto di
diritto pubblico, in contrasto altresi' con quanto ammesso dal
diritto comunitario, e comprimendo in capo agli enti territoriali e
locali il potere di scegliere i relativi modelli di gestione, anche
per quanto attiene alla natura giuridica del soggetto, stravolge
l'effetto abrogativo prodotto dall'esito referendario e della
successiva sentenza della Corte costituzionale n. 199 del 2012,
operando una centralizzazione del potere decisionale in materia di
beni e servizi pubblici, incompatibile con gli assetti decentrati
previsti at Titolo V della Costituzione di cui le Regioni sono i
principali beneficiari.
A fronte di tale cornice giuridica, i servizi pubblici locali non
possono essere esclusivamente ricondotti all'art. 117 comma 2, lett.
e) Cost.: oltre al profilo di tutela e promozione della concorrenza
emerge una parte consistente della loro disciplina che e'
necessariamente rimessa agli enti locali e che, prescindendo da
valutazioni di mercato, coinvolge altresi' la competenza regionale
(art. 117 commi 3 e 4).
Il coinvolgimento delle regioni e degli enti locali, nel governo
e nella gestione dei servizi pubblici locali, anche quelli a
rilevanza economica (SIEG), trova conferma nella tradizione storica
dei servizi pubblici locali, la cui disciplina ha sempre avuto un
collegamento essenziale con le comunita' di riferimento, seppur
all'interno di una cornice giuridica generale statale: non e' dunque
pensabile, oltre ad essere concretamente impossibile, che il
legislatore statale attui un'espropriazione delle funzioni in capo a
regioni enti locali, in merito alle scelte e alle modalita' di
gestione dei propri servizi.
Del resto, quanto detto sinora, trova un autorevole precedente
nella giurisprudenza di Codesta Corte ed in particolare nella
sentenza n. 272 del 2004: l'estremo dettaglio della disciplina
inerente l'affidamento dei servizi pubblici di rilevanza economica
«va al di la' della pur doverosa tutela degli aspetti concorrenziali
inerenti alla gara», la regolamentazione autoapplicativa «pone in
essere una illegittima compressione dell'autonomia regionale, poiche'
risulta ingiustificato e non proporzionato rispetto all'obiettivo
della tutela della concorrenza l'intervento legislativo statale».
Cosi', se e' vero che la mancanza di una precisa definizione
dell'ambito di appartenenza dei servizi pubblici locali rende
difficile la loro collocazione nelle sfere di competenza definite con
l'art. 117 Cost., e' ancor piu' vero che inquadrarli unicamente negli
schematismi della concorrenza rappresenta un'operazione priva di
contatto con la realta'.
Ed allora, il quesito che si discute in questa IIlustre Sede e'
se sia legittimo che nella (e per la) concorrenza si confondano altri
capisaldi del nostro diritto costituzionale e comunitario, quali
appunto il pluralismo normativo ed istituzionale.
E' di fatti indiscutibile che la previsione in sede statale di
una regolamentazione contraria all'esito referendario, e alla recente
giurisprudenza costituzionale (sent. n. 199 del 2012) che comprime
intere disposizioni dei Trattati (ad es., l'art. 5 TUE, gli artt. 14
e 106 co. 2 TFUE, ma anche l'art. 36 Carta europea dei diritti
fondamentali), altera i delicati rapporti tra principi e deroghe in
esse stabiliti, oltre che il principio di sussidiarieta' di cui
all'art. 118 Costituzione, imponendo un monismo istituzionale e
normativo in capo allo Stato che si pone in radicale contrasto con
quel pluralismo delle fonti che caratterizza l'esperienza europea
contemporanea e che vede come protagonisti irrinunciabili anche le
regioni.
Insomma, l'art. 4 della l. n. 135 del 2012, segnatamente nei
commi 1 e 8, costituisce un tentativo di restaurazione del monismo
giuridico statalista che non 6 piü compatibile con l'ordine
costituzionale vigente, espressione di una dialettica complessa e
continua fra Costituzione, Trattati Europei obblighi internazionali e
competenze riservate a regioni ed enti locali.
Si prenda ad esempio il comma 8 dell'art. 4 della l. n. 135 del
2012, che sostanzialmente riproduce l'annullato comma 13 dell'art. 4
del decreto-legge n. 138 del 2011 che, limitando le ipotesi di
affidamento diretto in house senza gara al di sotto di 200.000 euro
alle sole societa' a capitale interamente pubblico, vulnera i
principi di autodeterminazione degli enti locali (artt. 5, 114, 117,
118 Cost.), nonche' il principio comunitario di neutralita' rispetto
agli assetti proprietari delle imprese e alle relative forme
giuridiche ex art. 345 TFUE, oltre che, in generale, quello della cd.
preemption, in base al quale la regolamentazione a livello UE ha
l'effetto di precludere l'adozione a livello nazionale di discipline
divergenti (cfr. CGCE, causa C-478/07, conclusioni dell'Avvocato
Generale Ruiz-jarabo Colomer).
In tal modo, in capo agli enti territoriali e locali, gia'
indeboliti da politiche economiche, assai recessive rispetto ai
trasferimenti, residuano spazi ridotti (per non dire inesistenti) in
merito alla determinazione delle proprie politiche in materia di
servizi pubblici locali, relativamente sia alla definizione della
natura dei servizi sia alla scelta della forma giuridica da adottare
per organizzare ed erogare tali servizi.
(Segue): b) per effetto della violazione del vincolo referendario.
I tratti di incostituzionalita' denunciati nel precedente
paragrafo che, violando il pluralismo istituzionale e normativo
danneggiano le Regioni, non possono essere colti in tutta la propria
gravita' sostanziale se non anche in rapporto alla vicenda
referendaria dello scorso giugno 2011. Infatti, prima del referendum,
Codesta Corte aveva respinto il ricorso di diverse Regioni (fra cui
l'esponente Puglia) avverso l'art. 23-bis (successivamente abrogato
da voto referendario) ammettendone l'astratta costituzionalita'
rispetto ad un ricorso diretto.
La ricorrente Regione Puglia ha ben dimostrato che proprio dopo
tale voto referendario il contesto sia cambiato e che le lesioni
apportate ai suoi danni e l'espropriazione di potesta' costituzionali
siano illegittime non solo per il loro contenuto, ma anche per lo
strumentario giuridico con cui sono state perpetrate.
Come si dira' di seguito, la norma che non soltanto, in parte,
ripristini una disciplina abrogata in via referendaria, ma che in
sostanza disattenda quanto affermato da Codesta Corte (sent. n. 199
del 2012) e' evidentemente incostituzionale nella forma, in quanto
lesiva della volonta' popolare espressa ex art 75 Cost. Per questo
motivo, il comma 8 dell'art. 4 della legge n. 135 del 2012, e'
inadatto a produrre effetti sostanziali costituzionalmente
ammissibili e a limitare le prerogative e le competenze di regioni ed
enti locali.
Codesta Corte ha stabilito in varie pronunce il «divieto di
formale o sostanziale ripristino della normativa abrogata dalla
volonta' popolare» (Corte cost. n. 9 del 1997, n. 199 del 2012).
Invero, il legislatore «pur dopo l'accoglimento della proposta
referendaria, conserva il potere d'intervenire nella materia oggetto
di referendum senza limiti particolari che non siano quelli connessi
al divieto di far rivivere la normativa abrogata» (Corte cost. n.
32/1993 , n. 33/1993, n. 199 del 2012). Insomma, «il referendum
manifesta una volonta' definitiva e irripetibile», di guisa che la
caducazione di una norma non puo' «consentire al legislatore la
scelta politica di far rivivere la normativa ivi contenuta a titolo
transitorio» (Corte cost. n. 468/1990, lungo il solco tracciato con
la celebre sentenza n. 68/1978, con cui fu dichiarato illegittimo
l'art. 39 della legge n. 352 del 1970 «limitatamente alla parte in
cui non prevede che se l'abrogazione degli atti o delle singole
disposizioni cui si riferisce il referendum venga accompagnata da
altra disciplina della stessa materia, senza modificare ne' i
principi ispiratori della complessiva disciplina preesistente ne' i
contenuti normativi essenziali dei singoli precetti, il referendum si
effettui sulle nuove disposizioni legislative»).
Orbene, nel caso di specie, e' evidente che il legislatore abbia
in parte ripristinato la normativa abrogata dal referendum (art.
23-bis) e poi annullata dalla Corte (art. 4 del decreto-legge n. 138
del 2011), introducendo una disciplina che riproduce i principi
ispiratori (privatizzazione dei servizi pubblici locali e scelta
politica pro-concorrenza) piu' restrittivi rispetto a quelli dello
stesso dritto comunitario.
Come si e' detto, il comma 8 dell'art. 4, in tema di affidamenti
diretti in house providing, riproduce i contenuti di cui al comma 13
dell'art. 4 del decreto-legge n. 138 del 2011, dichiarato
incostituzionale anche per violazione di vincolo referendario.
Pertanto, in considerazioni delle suddette argomentazioni, anche
il comma 8 dell'art. 4 va ritenuto lesivo della volonta' referendaria
(violazione del vincolo referendario), oltre che in contrasto con il
diritto comunitario che disciplina la materia degli affidamenti
diretti in house. In particolare il comma 8 dell'art. 4 contiene
norme interne illegittimamente ed irragionevolmente piu' stringenti
del diritto comunitario che hanno quali conseguenze: la violazione
del principio di neutralita' rispetto agli assetti proprietari, la
violazione del principio di sussidiarieta' verticale, la violazione
del principio della «libera definizione» che attribuisce alla regione
ed agli enti locali il potere di qualificare la natura del servizio e
la relativa modalita' di gestione da cui si evince la natura e la
qualificazione del servizio, l'esclusione dall'affidamento diretto
del servizio a soggetti di diritto pubblico).
La ratio dell'art. 23-bis, identificabile del favor verso lo
strumento della gara per l'affidamento dei servizi pubblici locali e
nei limiti posti all'affidamento in house e le relative modalita' di
applicazione, cosi' come sopra sinteticamente elencate, rappresentano
quella «intenzione del legislatore» che un intervento normativo
successivo all'abrogazione in via referendaria non puo' riprodurre.
Una «intenzione del legislatore» sostanzialmente ripresa nel comma 8
dell'art. 4 della l. n. 135 del 2012, laddove si consente che
l'affidamento diretto del servizio possa avvenire soltanto a favore
di societa' a capitale interamente pubblico... a condizione che il
valore economico del servizio... oggetto dell'affidamento sia
complessivamente pari o inferiore a 200.000 euro annui...» La norma
interviene restrittivamente sulla qualificazione della natura
giuridica del soggetto affidatario e sulle modalita' di affidamento.
Oltre alla riproduzione della ratio e del contenuto, una lettura
sovrapposta consente di rilevare altresi' una vera e propria
identita' linguistica tra le due disposizioni (comma 13 art. 4
decreto-legge n. 138 del 2011 e comma 8 art. 4 della l. n. 135 del
2012).
Questo quadro rende percio' evidente che il legislatore abbia
ripristinato sostanzialmente non solo la disciplina abrogata in via
referendaria, ma altresi' la sentenza di Codesta Corte n. 199 del
2012, disattendendo contestualmente la volonta' popolare, il quadro
normativo comunitario e la recente giurisprudenza della Corte
costituzionale.
Il legislatore ha ancora una volta violeto il vincolo
referendario, ricorrendo nuovamente per l'affidamento diretto dei
servizi pubblici locali ad un'interpretazione estrema delle regole
del mercato e della concorrenza, ignorando peraltro le indicazioni
emerse della sentenza n. 325 del 2010 di codesta Corte, che aveva
chiarito come l'art. 23-bis rappresentasse soltanto «una delle
diverse discipline possibili della materia che il legislatore avrebbe
potuto legittimamente adottare senza violare il diritto comunitario».
Orbene, e' chiaro che quell'opzione politica concretantesi in una
delle diverse discipline possibili a livello europeo, ancorche'
aperta nel 2010 (ai tempi della sentenza n. 325) non lo e' piu' dopo
il referendum del 13 giugno 2011 perche' il popolo italiano si e'
orientato nel senso di escluderne la possibilita'. Come detto
chiaramente da Codesta Corte a seguito dell'abrogazione referendaria
di quella disciplina (art. 23-bis) risulta oggi direttamente
applicabile in Italia il diritto comunitario che, oltre ad essere da
sempre «neutrale» circa il quantum di proprieta' pubblica o private
presente in ciascuno Stato membro (art. 345 TFUE), riequilibra con il
Trattato di Lisbona il c.d. modello socio-economico europeo,
riconoscendo un fondamentale collegamento tra beni, servizi,
cittadinanza europea e tutela dei diritti fondamentali, contribuendo
a configurare le linee generali del c.d. diritto pubblico europeo
dell'economia.
L'illegittimita' rileva, pertanto, sia dal punto di vista della
forma tecnico-normativa, relativamente al regime giuridico vigente in
seguito all'approvazione del referendum ed alla sentenza di Codesta
Corte n. 199 del 2012, sia dal punto di vista sostanziale,
relativamente alle opzioni individuate nel comma 8 dell'art. 4 della
l. n. 135 del 2012.
E' stato illustrato come i principi e le regole del diritto
comunitario, cosi' come affermati dalla giurisprudenza costituzionale
richiamata, possano applicarsi direttamente nel nostro ordinamento,
anche in assenza di una disciplina nazionale di adeguamento. In una
prospettiva di legittimita', anche legata al fraseggio dell'art. 77
Cost., risulta percio' difficile scorgere le ragioni di
«straordinaria necessita' ed urgenza» per le quali adottare una
disciplina interna che contrasta con la normativa europea, e che
sembrerebbe soltanto ispirata ai principi della svendita del
patrimonio pubblico ed orientata al c.d. super principio delle
privatizzazioni e della concorrenza, estraneo alla Costituzione
italiana.
Un intervento legislativo statale in conseguenza del prodursi
dell'effetto abrogativo e della giurisprudenza di Codesta Corte,
sarebbe dovuto essere di razionale sistemazione di una materia,
quella del rapporto fra pubblico e privato nella gestione dei servizi
pubblici locali di rilevanza economica, in armonia con l'attuale
forma di Stato e con il dettato degli artt. 41, 42, 43 della
Costituzione.
Lungi dal poter essere portato avanti con urgenza (art. 77 Cost.)
e senza dibattito parlamentare, un tale intervento di adeguamento
alla volonta' popolare avrebbe semmai dovuto svolgersi nelle forme e
nei modi meditati di un intervento strutturale di riforma, capace di
cogliere appieno le novita' politiche ed istituzionali introdotte dal
referendum e tradurle in un quadro articolato di principi e regole
coerenti con gli assetti decentrati introdotti dalla Costituzione
italiana e con il pieno rispetto sia della volonta' del suo popolo,
che attraverso il referendum ha esercitato la sua sovranita' «nelle
forme e nei limiti della Costituzione» (art. 1), che delle recenti
decisioni di Codesta Corte costituzionale.
P. Q. M.
Voglia Codesta Ecc.ma Corte costituzionale accogliere il ricorso,
dichiarando l'illegittimita' costituzionale dei commi 1 e 8 dell'art.
4 della legge n. 135 del 2012 per violazione degli articoli 117,
primo, secondo, terzo, quarto, quinto e sesto comma; 118, primo e
secondo comma, 119; 41; 42; 43; nonche' degli artt. 1, 5, 75, 77, 114
della Costituzione.
Napoli - Roma, 13 ottobre 2012
Prof. avv. Lucarelli - Avv. Triggiani