Ricorso per questione di legittimita'  costituzionale  depositato  in cancelleria il 23 ottobre 2012 (della Regione Puglia).

 

 

(GU n. 1 del 2.1.2013)

 

    Ricorso della Regione Puglia, in  persona  del  Presidente  della Regione pro  tempore,  autorizzato  con  deliberazione  della  Giunta regionale 1971/12, rappresentata e difesa, come da procura speciale a margine dall'avv. prof. Alberto Lucarelli  con  domicilio  eletto  in Roma presso Cancelleria Corte costituzionale.

    Contro  il  Presidente  del  Consiglio  dei   Ministri   per   la dichiarazione di illegittimita'  costituzionale,  previa  sospensione dell'esecuzione dell'art. 4, commi 1 e 8,  del  decreto-legge  del  6 luglio 2012, n. 95, convertito con modificazioni dalla  L.  7  agosto 2012, n. 135 pubblicata in SO n. 173, reiativo alla  G.U.  14  agosto

2012, n. 189.

    Per violazione:

        dell'art 117, primo, secondo, terzo, quarto, quinto  e  sesto comma, della Costituzione;

        dell'art. 118, primo e secondo comma, della Costituzione;

        dell'art. 119 della Costituzione;

        dell'art. 41 della Costituzione;

        dell'art. 42 della Costituzione;

        dell'art. 43 della Costituzione;

        degli artt. 1, 5, 75, 77, 114 della Costituzione, nei modi  e per i profili di seguito illustrati.

    Con il decreto-legge del 6 luglio 2012,  n.  95,  convertito  con modificazioni dalla legge n. 7 agosto 2012, n.  135,  il  legislatore statale  ha  introdotto  alcune  disposizioni  che   incidono   sulle competenze delle Regioni.

    In particolare, l'art. 4, rubricato «Riduzione di spese, messa in liquidazione e privatizzazione di societa  pubbliche»,  al  comma  1, dispone: «Nei confronti delle  societa'  controllate  direttamente  o indirettamente dalla pubbliche amministrazioni  di  cui  all'art.  1, comma 2  del  decreto  legislativo  n.  165  del  2001,  che  abbiano

conseguito nell'anno 2011 un fatturato da prestazione  di  servizi  a favore  di  pubbliche  amministrazioni  superiore  al  90  per  cento (dell'intero fatturato), si procede, altemativamente:

        a) allo scioglimento della  societa'  entro  il  31  dicembre

2013. Gli atti e le  operazioni  poste  in  essere  in  favore  delle

pubbliche amministrazioni di cui al presente comma  in  seguito  allo

scioglimento della societa' sono esenti da imposizione fiscale, fatta

salva l'applicazione dell'imposta sul valore aggiunto, e assoggettati

in misura fissa alle imposte di registro, ipotecarie e catastali;

        b) all'alienazione con procedure di evidenza pubblica,  delle

partecipazioni detenute alla data di entrata in vigore  del  presente

decreto entro il 30 giugno 2013 ed alla contestuale assegnazione  del

servizio per cinque anni (non rinnovabili) a decorrere dal 1° gennaio

2014. Il bando di gara  considera,  tra  gli  elementi  rilevanti  di

valutazione dell'offerta,  l'adozione  di  strumenti  di  tutela  dei

livelli  di  occupazione.  L'alienazione  deve  riguardare   l'intera

partecipazione della pubblica amministrazione».

    Inoltre,  cosi'  il  successivo  comma  2   dell'art.   4:   «Ove

l'amministrazione non proceda secondo quanto stabilito ai  sensi  del

comma 1, a decorrere dal 1° gennaio 2014  le  predette  societa'  non

possono comunque ricevere affidamenti diretti di servizi, ne' possono

fruire del rinnovo di affidamenti di cui sono titolari...».

    I suddetti commi 1 e 2 dell'art. 4, come precisato dal successivo

comma 3, non si applicano «... alle societa' che svolgono servizi  di

interesse generale, anche aventi rilevanza economica,  alle  societa'

che svolgono prevalentemente compiti di centrali  di  committenza  ai

sensi dell'art. 33 del decreto legislativo 12 aprile  2006,  n.  163,

nonche' alle societa' di cui all'art. 23-quinquies, commi 7 e 8,  del

presente decreto,  e  alle  societa'  finanziarie  partecipate  dalle

regioni, ovvero a quelle che gestiscono banche dati  strategiche  per

il conseguimento di obiettivi economico-finanziari,  individuate,  in

relazione  alle  esigenze  di  tutela  della  riservatezza  e   della

sicurezza dei dati, nonche' all'esigenza  di  assicurare  l'efficacia

del controlli sull'erogazione  degli  aiuti  comunitari  del  settore

agricolo, con decreto del Presidente del Consiglio dei  Ministri,  da

adottare su proposta del Ministro o dei  Ministri  aventi  poteri  di

indirizzo e vigilanza, di concerto con il  Ministro  dell'economia  e

delle finanze, previa deliberazione del Consiglio  dei  Ministri.  Le

medesime disposizioni non si  applicano  qualora,  per  le  peculiari

caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del

contesto, anche territoriale, di riferimento non  sia  possibile  per

l'amministrazione pubblica controllante un efficace e  utile  ricorso

al mercato. In  tal  caso,  l'amministrazione,  in  tempo  utile  per

rispettare i termini di cui al comma  1,  predispone  un'analisi  del

mercato e trasmette una relazione contenente gli esiti della predetta

verifica all'Autorita' garante della concorrenza e  del  mercato  per

l'acquisizione del  parere  vincolante,  da  rendere  entro  sessanta

giorni dalla ricezione della relazione. Il parere  dell'Autorita'  e'

comunicato  alla  Presidenza   del   Consiglio   dei   Ministri.   Le

disposizioni del presente articolo non  si  applicano  altresi'  alle

societa' costituite al fine della realizzazione dell'evento di cui al

Presidente del Consiglio dei Ministri,  30  agosto  2007,  richiamato

dall'art. 3, comma 1, lett. a), del decreto-legge 15 maggio 2012,  n.

59, convertito con modificazioni, dalla  legge  12  luglio  2012,  n.

100».

    Il comma 3-sexies, sempre in merito ai servizi di cui al comma 1,

ha   previsto   un'ulteriore   disciplina   dal    carattere    della

eccezionalita': «Entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore

della  legge  di  conversione  del  presente  decreto  le   pubbliche

amministrazioni di cui al comma 1 possono predisporre appositi  piani

di ristrutturazione e razionalizzazione delle  societa'  controllate.

Detti piani sono approvati previo parere favorevole  del  Commissario

straordinario per la razionalizzazione della spesa  per  acquisto  di

beni e servizi di cui all'art. 2 del decreto-legge 7 maggio 2012,  n.

52, convertito con modificazioni, dalla legge 6 luglio 2012, n. 94, e

prevedono l'individuazione delle  attivita'  connesse  esclusivamente

all'esercizio di funzioni amministrative di cui  all'art.  118  della

Costituzione, che possono essere riorganizzate e accorpate attraverso

societa' che rispondono ai requisiti della  legislazione  comunitaria

in materia di in house providing. I termini di cui al  comma  1  sono

prorogati per il tempo strettamente necessario per  l'attuazione  del

piano  di  ristrutturazione  e  razionalizzazione  con  decreto   del

Presidente del Consiglio dei Ministri, di concerto  con  il  Ministro

dell'economia e delle finanze, adottato su proposta  del  Commissario

straordinario per la razionalizzazione della spesa per l'acquisto  di

beni e servizi».

    Il comma 1 dell'art. 4, seppur con le eccezioni di cui ai commi 3

e 3-sexies, impone, tra l'altro, alle regioni e agli enti  locali  di

dismettere  le  societa'  partecipate,  determinando  un  sostanziale

impoverimento in  capo  ad  enti  quali  le  regioni.  I  profili  di

illegittimita' risiedono prima facie nella contrarieta' di parte  del

comma 1 dell'art. 4 con lo spirito  del  titolo  V,  II  parte  della

Costituzione e con l'assetto delle competenze ivi fissato,  informato

alla valorizzazione dell'autonomia degli enti locali, che  alla  luce

della normativa impugnata, sono di fatto spogliati degli strumenti  e

dei margini di operativita' che dovrebbero loro spettare.

    Vengono meno del tutto i  principi  di  autonomia  ed  autarchia,

consacrati anche in ambito sovranazionale - si pensi all'art.  5  TUE

(ex art.  5  TCE)  che  fissa  il  principio  di  auto-organizzazione

dell'ente  locale  -  che  spettano   alle   regioni   in   sede   di

determinazione delle proprie scelte.

    Il comma 1 dell'art. 4, nonostante l'introduzione di  ipotesi  di

ammissibilita', come si e' visto di cui ai commi 3 e 3-sexies, incide

sensibilmente  sul   potere   di   auto-organizzazione   degli   enti

territoriali (e delle regioni in particolare), comprimendo margini di

autonomia costituzionalmente garantiti.

    Tale disciplina costringe anche la Regione Puglia ad adeguarsi  a

«tappe forzate» - scioglimento (31 dicembre 2013)  o  all'alienazione

(30 giugno 2013) delle sue societa' - al  presunto  nuovo  «principio

fondamentale per lo sviluppo  economico»,  ledendo  la  sua  potesta'

legislativa,  che  a  norma  dell'art.   117,   comma   primo   della

Costituzione deve essere esercitata «nel rispetto della Costituzione»

e, quindi, nel rispetto del regime delle competenze di cui ai commi 2

, 3 e  4  dell'art.  117  Cost.  A  cio'  si  aggiunga  il  carattere

prescrittivo e sanzionatorio di  cui  al  comma  2  dell'art.  4  che

prevede che laddove non si proceda con scioglimento o alienazione  le

societa' regionali non potranno fruire del rinnovo degli affidamenti.

    Oggetto della norma, cosi' come espressamente affermato dal comma

3, sono tutti i servizi che non rientrano tra i servizi di  interesse

generate  (SIG),  quindi,  da  una  lettura  semantica  della  norma,

sembrerebbe che non siano oggetto della disposizione ne' i servizi di

interesse economico generale (SIEG), ne' i servizi non  economici  di

interesse generate (SNEIG). I SIG, in quanto portatori  di  interessi

generali,  si  articolano  tra  competenze   europee,   nazionali   e

regionali. Al contrario, i servizi pubblici privi  sia  di  interesse

generate che di rilevanza economica, prestati da societa' controllate

direttamente  o  indirettamente  dalla  regione,  sono  governati   e

gestiti, ai sensi dei commi 1, 4, 6 dell'art. 117 Cost. e degli artt.

118 e 119 Cost. L'assenza dell'interesse generate e della  dimensione

economica del servizio collocano tali societa' nell'alveo legislativo

regionale,   sia   dal   punto   di    vista    organizzativo,    che

gestionale-finanziario.

    Il comma 1 dell'art. 4 lede altresi' il principio  costituzionale

di tutela della proprieta' pubblica di cui all'art. 42 Cost., laddove

impone l'alienazione o in alternativa  la  liquidazione  di  societa'

regionali, ed in senso piu' generale, il principio  autonomistico  di

cui agli artt. 5 e 114 Cost.

    Altra norma che incide sulle prerogative regionali e' il comma  8

dell'art.  4,  che  dispone:  «A  decorrere  dal     gennaio   2014

l'affidamento diretto puo' avvenire  solo  a  favore  di  societa'  a

capitale interamente pubblico, nel rispetto dei  requisiti  richiesti

dalla normativa e dalla giurisprudenza comunitaria per la gestione in

house e a condizione che il valore economico del servizio o dei  beni

oggetto dell'affidamento sia  complessivamente  pari  o  inferiore  a

200.000 euro annui. Sono fatti salvi gli affidamenti in  essere  fino

alla scadenza naturale e comunque fino al 31 dicembre 2014».

    In  effetti,  la  disciplina  introdotta  conferma,   in   parte,

l'impianto dell'art. 23-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112,

convertito nella legge  6  agosto  2008,  n.  133  e  successivamente

abrogato tramite il referendum del 12-13 giugno  2011  coartando,  in

modo   costituzionalmente   illegittimo,   il    diritto    dell'ente

territoriale responsabile di erogare i proprio servizi e di gestire i

propri beni a favore della propria  comunita'  e  tradendo  di  fatto

l'esito  del  suddetto  referendum.  Infatti,  il  suddetto  comma  8

dell'art. 4, forzando la liberalizzazione delle attivita' inerenti  a

servizi pubblici locali di rilevanza  economica,  marginalizzando  le

ipotesi di affidamenti diretti a societa'  di  capitale  pubblico  ed

escludendo le ipotesi di affidamenti diretti a  soggetti  di  diritto

pubblico  (v.  aziende  speciali),  detta  una  normativa  del  tutto

difforme, nello spirito e  nei  contenuti,  dalla  volonta'  popolare

espressa a seguito della consultazione  referendaria,  nonche'  dagli

stessi principi costituzionali e comunitari. Detta una disciplina che

reintroduce i limiti agli affidamenti  diretti  a  s.p.a.  pubbliche,

escludendo totalmente gli affidamenti a soggetti di diritto pubblico,

riproducendo i contenuti dell'art. 4 del  decreto-legge  n.  138  del

2011, norma annullata successivamente dalla sentenza n. 199 del  2012

della Corte costituzionale.

    I limiti posti alle procedure di affidamento diretto, di  cui  al

comma 8 dell'art. 4 della L.  n.  135  del  2012,  si  contrappongono

inoltre alla sentenza n. 24  del  2011  della  Corte  costituzionale,

laddove in  maniera  cristallina  Codesta  Corte  evidenzia  come  il

diritto  comunitario  ammetta   pienamente   il   diritto   di   ogni

amministrazione  ad   erogare   direttamente   i   servizi   pubblici

autoproducendoli corrispondentemente alla propria missione (principio

di neutralita' rispetto alle forme giuridiche  di  cui  all'art.  345

TFUE).

    La marginalizzazione del ricorso agli  affidamenti  diretti  alle

societa' pubbliche in  house  costituisce  un'ulteriore  compressione

dell'autonomia  degli  enti  territoriali   nell'individuazione   dei

modelli  organizzativi  piu'  idonei  per  l'erogazione  dei   propri

servizi, contraria oltre che alle disposizioni  costituzionali  sopra

richiamate - e allo  stesso  art.  5  Cost.  -  finanche  al  diritto

comunitario, che non fissa gli stessi severi limiti  all'applicazione

di modelli pubblici, in ossequio, come si e' visto, al  principio  di

neutralita' di cui all'art. 345 TFUE.

    E' invece soltanto nel momento nel  quale  un'autorita'  pubblica

scelga  di  esternalizzare  il  servizio  che  il   procedimento   di

affidamento  deve  rispettare  i  principi  di  non  discriminazione,

trasparenza, parita' di trattamento, libera circolazione di persone e

imprese ed in particolare la disciplina  comunitaria  in  materia  di

appalti pubblici.

    Anche il suddetto comma 8 dell'art. 4, risulta, pertanto,  lesivo

delle competenze  costituzionali  delle  regioni  nelle  materie  dei

servizi pubblici e dell'organizzazione  degli  enti  locali,  che  si

snodano nel  rispetto  del  principio  di  leale  collaborazione  tra

competenze comunitarie, statali e  regionali  (art.  117,  comma  3).

Peraltro, la Regione Puglia ha  esercitato  potesta'  legislativa  in

tali ambiti, per esempio in materia di trasporto pubblico locale, con

la legge regionale 31 ottobre 2002, n. 18, ed in materia  di  rifiuti

urbani con la legge regionale del 31 dicembre 2009, n. 36, nonche' in

materia di servizio idrico integrato con la l.r. 20 giugno  2011,  n.

11.

    Di conseguenza, i commi 1 e 8 dell'art. 4 della  l.  n.  135  del

2012, incidendo in maniera  consistente  sulla  sfera  di  competenza

della Regione Puglia, sia sul  piano  patrimoniale-proprietario,  che

organizzativo-funzionale e gestionale, violano direttamente gli artt.

114, 117  e  118  Cost.;  inoltre,  tali  disposizioni,  entrando  in

conflitto con gli artt.  1,  5,  75  e  77  Cost.,  determinando  una

compressione dei suoi poteri. Compressione che contrasta altresi' con

le disposizioni contenute negli artt. 41, 42 e  43  Cost.,  ancorche'

diverse da quelle  attributive  di  competenza  legislativa,  ma  che

tuttavia le Regioni possono nondimeno far valere «se  tale  contrasto

si risolva in una esclusione  o  limitazione  del  potere  regionali»

(Corte cost. sent. 165/2007; ex multis cfr. anche Corte  cost.  sent.

n. 50/2005, n. 32/1960, n. 961/1988).

    In tal senso, si pensi all'impatto che i commi 1 e 8 dell'art.  4

determinano sull'impianto  della  cosiddetta  Costituzione  economica

(cfr. soprattutto 41, 42, 43 Cost.), in relazione  ad  una  normativa

che altera irrimediabilmente l'equilibrio tra proprieta'  pubblica  e

proprieta' privata; tra impresa pubblica e privata, con un facilmente

prevedibile  deficit  patrimoniale  (si  tratta  di  vere  e  proprie

dismissioni), nonche' in termini di tutela dell'interesse generale  e

di tutela dei livelli occupazionali.

    Sussiste, quindi, la legittimazione ad agire nel giudizio di  cui

all'art. 127 Cost.

    Sull'illegittimita' del comma 1 dell'art. 4 della  legge  n.  135

del 2012 stabilisce che «Nei  confronti  delle  societa'  controllate

direttamente o indirettamente delle pubbliche amministrazioni di  cui

all'art. 1, comma 2 del decreto legislativo  n.  165  del  2001,  che

abbiano conseguito nell'anno 2011  un  fatturato  di  prestazione  di

servizi a favore di pubbliche amministrazioni  superiore  al  90  per

cento dell'intero fatturato, si procede,  alternativamente:  a)  allo

scioglimento...; b) all'alienazione...»

    Tale disposizione, cosi' come precisato nel successivo  comma  3,

non ha ad oggetto  le  societa'  pubbliche  che  erogano  servizi  di

interesse generale, ne' quelli aventi rilevanza economica. Quindi, in

merito al regime delle competenze, si tratta di una materia  che  non

ricade ne' nell'ambito delle competenze comunitarie, ne'  nell'ambito

di quelle statali (riservate e/o concorrenti).

    Si e' in presenza di una materia  che  rientra  nelle  competenze

legislative  di  cui  all'art.  117,  comma  4  Cost.,  ovvero  nelle

competenze residuali delle regioni. Il titolo di  legittimazione  per

gli interventi del legislatore statale, costituito dalla tutela della

concorrenza, non e' applicabile a questo  tipo  di  servizi,  proprio

perche in riferimento ad essi non esiste un  mercato  concorrenziale.

Quindi la norma non ha ad oggetto i SIEG che, ai sensi dell'art. 117,

comma 2, lett. e) Cost. rientrano - seppur con una serie di distinguo

- nella competenza legislativa esclusiva dello Stato:  «tutela  della

concorrenza».

    La norma impugnata, attraverso la vendita o la liquidazione delle

societa' pubbliche regionali, che non prestano attivita' di interesse

generale e di rilevanza economica,  determina  una  evidente  lesione

delle competenze regionali, con effetti invasivi concreti sulla sfera

costituzionale. Come e' noto, nei casi di effetti  invasivi  concreti

da parte di norme  statali  su  competenze  regionali,  la  Corte  ha

affermato che possa parlarsi  di  lesione  delle  prerogative  (Corte

Cost. n. 329 del  2003).  Nel  caso  specifico  si  tratta  di  norme

dall'alto   impatto   socio-economico   che   hanno   quali   effetti

l'alienazione  e/o  la  liquidazione   di   asset   proprietari   con

ripercussioni altresi' sul piano occupazionale  e  sulla  tutela  del

lavoro.  Cosi',  l'ordinamento  autonomo  regionale  e'  chiamato   a

modificarsi  secondo  gli  enunciati  principi  (sic!)  di  messa  in

liquidazione  e  privatizzazione  di  societa'  pubbliche,   principi

estranei alla  «Costituzione  economica»  -  basata  su  un  perfetto

equilibrio  tra  proprieta'  pubblica  e  proprieta'   privata,   tra

iniziativa economica dei privati  ed  utilita'  sociale  -  in  piena

violazione dell'art. 114 co. 2 Cost.  che  pone  quale  limite  ampio

all'autonomia locale il rispetto dei «principi  della  Costituzione».

Principi costituzionali che si articolano attraverso  quel  complesso

normativo  che  contribuisce   alla   costruzione   della   struttura

istituzionale e socio-economica del Paese e che, in questo senso, non

puo' non comprendere anche la  dinamica  equilibrata  tra  proprieta'

pubblica/proprieta' privata (art. 41 Cost.),  a  maggior  ragione  in

ambiti estranei alle logiche del mercato e della concorrenza.

    A cio' si aggiunga che l'equiparazione delle Regione  agli  altri

enti   locali,   dal   punto   di   vista   dello   scioglimento    e

dell'alienazione,  costituisce  un'ulteriore  forzatura   dell'ordine

costituzionale delle fonti. Infatti,  a  differenza  di  Provincie  e

Comuni, le Regioni, come e' noto, hanno potesta' legislativa autonoma

garantita direttamente dalla Costituzione (art. 117, commi  2  e  3):

non puo'  esser  quindi  introdotto  per  legge  ordinaria  un  nuovo

sedicente  principio  di  privatizzazione,  idoneo  a  coartarne   la

sovranita'  legislativa  negli  ambiti  ad  esse   costituzionalmente

riconosciuti.

    E' dunque evidente che il comma 1 dell'art. 4 della l. n. 135 del

2011, da una parte viola il  regime  delle  competenze  tra  Stato  e

regione,  legiferando  in  una  materia  di  competenza   legislativa

regionale residuale, di cui all'art. 117, comma 4  Cost.,  dall'altra

marginalizza  la  struttura  profonda  della  Costituzione  economica

italiana,  imponendo  una  scelta  centralizzatrice  e  privatistica,

lontana   dagli   equilibri   costituzionali    vigenti,    ignorando

l'architettura istituzionale decentrata descritta dal Titolo V  della

Carta.

    Infine,  non  si  comprende  per  quail  motivi  -  di  manifesta

illogicita' ed irragionevolezza  -  la  potesta'  regionale  in  tale

materia   venga   «recuperata»   come   strumento   reattivo   e   di

contrapposizione ai processi di alienazione e di liquidazione.

    Ovvero,  processi  dall'alto  impatto   socio-econonnico,   quali

l'alienazione e la liquidazione delle societa'  pubbliche  regionali,

sono  governati  e  gestiti,  come  si  e'  detto,   illegittimamente

attraverso  leggi  dello  Stato,  ma  irragionevolmente  il  comma  3

dell'art.  4  attribuisce  alle  regioni  il  potere  di  predisporre

un'analisi del mercato e trasmettere  una  relazione  contenente  gli

esiti della predetta verifica all'Autorita' garante della concorrenza

e del mercato per l'acquisizione del parere  vincolante,  da  rendere

entro sessanta giorni dalla ricezione della relazione.  In  sostanza,

la regione puo' decidere di predisporre tale analisi, in tempo  utile

per rispettare i termini di cui al comma 1, laddove ritenga  che  per

le  peculiari  caratteristiche  economiche,  sociali,  ambientali   e

geomorfologiche del contesto, anche territoriale, di riferimento  non

sia possibile per l'amministrazione pubblica controllante un efficace

e utile ricorso al mercato.

    Si tratta di attribuzione alle regioni  di  un  potere  «debole»,

estraneo al reale governo  e  gestione  dei  processi  societari,  un

potere che puo' essere sempre ed in ogni caso interdetto  e  svuotato

di effettivita', laddove ad un organo dell'amministrazione  centrale,

ancorche'  indipendente,   quale   e'   l'Autorita'   garante   della

concorrenza e del mercato, e'  attribuito  il  potere  vincolante  di

decidere se sussistano o meno le condizioni per  non  procedere  allo

scioglimento o all'alienazione delle societa'.

    Sull'illegittimita' del comma 8 dell'art. 4 della  legge  n.  135

del 2012: a) per effetto della centralizzazione del potere  ai  danni

della Regione.

    Occorre  chiarire  in  limine,  nell'ambito  di  un  ricorso   di

costituzionalita'   diretto   di   una    regione,    necessariamente

circoscritto  dalla  sua  natura,  che  la  «scelta»  di  un   regime

concorrenziale estremo, reiterata dal legislatore nazionale  dopo  il

referendum abrogativo  del  13  giugno,  circoscrive  coercitivamente

l'ambito delle possibili scelte  che  le  regioni  possono  porre  in

essere tanto in via di prerogative primarie quanto sussidiarie.

    Infatti, l'analisi della disciplina impugnata evidenzia come essa

non possa essere unicamente ricondotta nella  materia  «tutela  della

concorrenza» - appartenendo quindi ad una delle competenze  esclusive

dello Stato - ma coinvolga  necessariamente  attribuzioni  regionali,

incidendo sulle sfere di competenza proprie degli enti locali.

    Il comma 8 dell'art. 4, limitando il potere delle regioni e degli

enti locali all'affidamento diretto soltanto a favore di  societa'  a

capitale interamente pubblico, a condizione che il  valore  economico

del servizio dell'affidamento sia complessivamente pari o inferiore a

200.000 euro, viola da una parte l'ordinamento  comunitario,  laddove

il legislatore  statale  pone  regole  piu'  restrittive,  dall'altra

ripropone  il  contenuto  di  norme  (comma  13   dell'art.   4   del

decreto-legge n. 138  del  2011)  dichiarate  incostituzionali  dalla

Corte costituzionale con sentenza n. 199 del 2012.

    Come e' noto, dopo l'abrogazione, in via referendaria,  dell'art.

23-bis del decreto c.d. Ronchi e prima dell'introduzione dell'art.  4

del  decreto-legge  n.  138  del  2011,  successivamente   dichiarato

incostituzionale, le Regioni, e gli enti  locali  in  generale,  sono

state  nuovamente  protagoniste  attive  del   processo   decisionale

relativo alla gestione e all'affidamento dei servizi pubblici  locali

(SIEG).

    La Corte costituzionale con sentenza n. 199 del 2012,  depositata

il 20  luglio,  pronunciandosi  sui  ricorsi  presentati  da  diverse

regioni, ha annullato l'art. 4 del decreto-legge  n.  138  del  2011.

Infatti, ad avviso  del  Giudice  delle  leggi,  tale  norma  avrebbe

riproposto svariate disposizioni dell'art. 23-bis  del  decreto-legge

n. 112 del 2008,  in  violazione  del  divieto  di  ripristino  della

normativa abrogata dalla volonta' popolare, desumibile  dall'art.  75

Cost.

    La motivazione risulta evidente nel passaggio della  sentenza  in

cui si rileva che «a distanza a meno di un mese  dalla  pubblicazione

del decreto dichiarativo dell'avvenuta abrogazione  dell'art.  23-bis

del d.l. n. 112 del 2008, il Governo e' intervenuto nuovamente  sulla

materia con l'impugnato art.  4,  il  quale  (...)  detta  una  nuova

disciplina dei servizi pubblici locali di  rilevanza  economica,  che

non e' solo contraddistinta dalla medesima ratio di quella  abrogata,

in quanto opera una drastica riduzione delle ipotesi  di  affidamenti

in house, al di la' di quanto prescritto dalla normativa comunitaria,

ma e' anche letteralmente riproduttiva, in buona parte,  di  svariate

disposizioni dell'abrogato art. 23-bis e di  molte  disposizioni  del

regolamento attuativo del medesimo art. 23-bis nel d.p.r. n. 168  del

2010».  Sebbene  la  ragione  della  dichiarata   incostituzionalita'

risieda nella  violazione  dell'art.  75  Cost.,  Codesta  Corte  non

rinuncia, in un importante passaggio, ad esprimere una valutazione di

merito sulla disciplina dell'in house providing,  laddove  sottolinea

la  «difformita'»  dell'incisiva  compressione   di   tale   istituto

«rispetto a quanto previsto dalla normativa comunitaria che consente,

anche se non impone (sentenza n. 325 del 2010) , la gestione  diretta

del  servizio  pubblico  da  parte  dell'ente   locale,   allorquando

l'applicazione delle regole di concorrenza ostacoli, in diritto o  in

fatto, la speciale missione dell'ente pubblico (art. 106 TFUE)».

    Il comma 8 dell'art. 4 della l. n. 135 del 2012 6 la fotocopia in

peius, dell'art. 4, comma 13 del d.l. n.  138  del  2011,  dichiarato

incostituzionale con sentenza n. 199 della Corte costituzionale,  per

violazione del vincolo referendario, ma anche  per  aver  introdotto,

cosi' come l'abrogato art. 23-bis, elementi  di  «difformita'»  della

disciplina interna rispetto  a  quella  comunitaria.  La  Corte,  nel

sottolineare tale difformita' rispetto  al  diritto  comunitario,  in

particolare per quanto attiene alle disposizioni riproposte dal comma

8 dell'art. 4, adombra il principio che non  sono  ammesse  ulteriori

limitazioni alle ipotesi di affidamento in  house  del  servizio,  il

quale, ricorda la Corte, e' consentito  nell'ordinamento  comunitario

«alle sole condizioni del capitale totalmente pubblico della societa'

affidataria,  del  cosiddetto  controllo  «analogo»   (il   controllo

esercitato  dall'aggiudicante   sull'affidatario   deve   essere   di

«contenuto analogo» a quello esercitato dall'aggiudicante sui  propri

uffici) ed in fine dello  svolgimento  della  parte  piu'  importante

dell'attivita' dell'affidatario in favore dell'aggiudicante».

    Insomma, e' chiaro che ulteriori limiti,  posti  dal  legislatore

statale agli affidamenti diretti in house, sarebbero  illegittimi  ed

in  contrasto  con  il  diritto  comunitario.  Del  resto,  e'  stato

evidenziato proprio di recente come  la  giurisprudenza  in  tema  di

autoproduzione di servizi da parte di enti pubblici indichi che detta

scelta sia da considerarsi legittima  in  linea  di  principio,  come

manifestazione   dell'autonomia   organizzativa    dell'ente,    come

applicazione del principio comunitario di libera definizione (si veda

TPG, T-289/03, BUPA),  e  non  come  soluzione  eccezionale  di  tipo

sussidiario (M. Libertini, Le  societa'  di  autoproduzione  in  mano

pubblica, controllo analogo, destinazione prevalente dell'attivita' e

autonomia statutaria, in Riv. Dir. soc., 2012, p. 206).

    Per i suddetti  motivi,  il  comma  8  dell'art.  4  risulterebbe

palesemente   incostituzionale    e    la    normativa    applicabile

immediatamente  in  tema  di  servizi  pubblici  locali,  esclusa  la

reviviscenza delle norme abrogate, come affermato dalla Corte  cost.,

con sentenza n. 24 del 2011 (in particolare art. 113 TUEL), gia'  per

effetto dell'art. 23-bis, oggetto  dell'ultimo  referendum  popolare,

risulta la normativa comunitaria relativa alle regole  concorrenziali

minime in tema di gara ad evidenza pubblica per  l'affidamento  della

gestione di servizi pubblici  locali  di  rilevanza  economica.  L'in

house deve tornare ad essere  soggetto  alle  regole  definite  dalla

giurisprudenza comunitaria.

    Il  comma  8  dell'art.  4  viola  contestualmente   il   vincolo

referendario,  i  contenuti  della  sentenza  n.  199  del   2012   e

l'ordinamento  comunitario  in  tema  di  affidamento   dei   servizi

pubblici. Infatti, in conformita' con  quanto  affermato  da  Codesta

Corte, all'abrogazione referendaria dell'art.  23-bis  e'  conseguita

l'applicazione immediata nell'ordinamento  italiano  della  normativa

comunitaria, non verificandosi alcun vuoto  legislativo,  ne'  alcuna

reviviscenza di disposizioni precedentemente  abrogate  dallo  stesso

art. 23-bis (cfr. sent. n. 24 del 26 gennaio 2011, punto 4.2.2.).

    I principi e  le  regole  del  diritto  comunitario,  cosi'  come

affermato dalla  giurisprudenza  costituzionale  richiamata,  possono

applicarsi direttamente nel nostro ordinamento, anche in  assenza  di

una   disciplina   nazionale   di   adeguamento.   Tale    normativa,

riassuntivamente esposta, prevede quanto segue:

        1) la gestione diretta del servizio di  rilevanza  economica,

attraverso un affidatario, anche di diritto pubblico, che costituisce

la longa manus di un ente pubblico che lo controlla totalmente (Corte

cost. 325/2010, punti  6.1  e  8.1),  e'  ammessa  qualora  lo  Stato

nazionale ritenga di  ostacolo  alla  «speciale  missione»  dell'ente

pubblico   i   meccanismi   della   concorrenza   e   lo    strumento

dell'affidamento a terzi mediante una gara ad evidenza pubblica (art.

106, comma 2 TFUE);

        2) la gestione c.d. in house e' subordinata al verificarsi di

tre   condizioni:   capitale   totalmente   pubblico   del   gestore;

possibilita' di esecuzione del controllo di c.d. «contenuto  analogo»

a quello  esercitato  dall'aggiudicante  stesso  sui  propri  uffici;

svolgimento della parte principale dell'attivita' dell'affidatario in

favore dell'aggiudicante.

    E' agevole notare the il diritto comunitario (id est il  contesto

normativo antecedente alla  legge  impugnata)  relativo  alle  regole

concorrenziali minime in tema di gara ad  evidenza  pubblica  conceda

agli enti  locali  una  maggiore  liberta'  nella  definizione  delle

procedure  di  affidamento:  sul  piano  sostanziale,  la   normativa

comunitaria, ben  prevedendo  ipotesi  alternative  al  ricorso  alla

regola della concorrenza, e' assai «meno restrittiva» di quella posta

dall'art. 23-bis (come  riconosciuto  da  Corte  cost.  n.  24/2011),

dall'art. 4 del decreto-legge n. 138  del  2011  e,  ora,  di  quella

risultante dalla disposizione de  quo,  decisamente  orientata  verso

forme di gestione privatistica dei  servizi  (al  pari  dell'abrogato

art. 23-bis e dell'annullato art. 4 del d.l. n.  138  del  2012),  al

punto da contemplare modelli di affidamento  diretto  a  soggetti  di

diritto  pubblico  (si   pensi   all'azienda   speciale   contemplata

dall'ordinamento giuridico italiano).

    Pertanto,   sussiste   una    chiara    lesione    dell'autonomia

costituzionale  della  Regione,  proprio  in  forza  della  descritta

compressione dei poteri ad essa attribuiti dalla legge:  il  comma  8

dell'art. 4, infatti, riproponendo, in parte la  disciplina  abrogata

dal referendum, in particolare per  quanto  attiene  ai  limiti  agli

affidamenti in house e ai  limiti  a  ricorrere  ad  un  soggetto  di

diritto pubblico,  in  contrasto  altresi'  con  quanto  ammesso  dal

diritto comunitario, e comprimendo in capo agli enti  territoriali  e

locali il potere di scegliere i relativi modelli di  gestione,  anche

per quanto attiene alla  natura  giuridica  del  soggetto,  stravolge

l'effetto  abrogativo  prodotto  dall'esito  referendario   e   della

successiva sentenza della  Corte  costituzionale  n.  199  del  2012,

operando una centralizzazione del potere decisionale  in  materia  di

beni e servizi pubblici, incompatibile  con  gli  assetti  decentrati

previsti at Titolo V della Costituzione di  cui  le  Regioni  sono  i

principali beneficiari.

    A fronte di tale cornice giuridica, i servizi pubblici locali non

possono essere esclusivamente ricondotti all'art. 117 comma 2,  lett.

e) Cost.: oltre al profilo di tutela e promozione  della  concorrenza

emerge  una  parte  consistente  della   loro   disciplina   che   e'

necessariamente rimessa agli  enti  locali  e  che,  prescindendo  da

valutazioni di mercato, coinvolge altresi'  la  competenza  regionale

(art. 117 commi 3 e 4).

    Il coinvolgimento delle regioni e degli enti locali, nel  governo

e  nella  gestione  dei  servizi  pubblici  locali,  anche  quelli  a

rilevanza economica (SIEG), trova conferma nella  tradizione  storica

dei servizi pubblici locali, la cui disciplina  ha  sempre  avuto  un

collegamento essenziale  con  le  comunita'  di  riferimento,  seppur

all'interno di una cornice giuridica generale statale: non e'  dunque

pensabile,  oltre  ad  essere  concretamente  impossibile,   che   il

legislatore statale attui un'espropriazione delle funzioni in capo  a

regioni enti locali, in  merito  alle  scelte  e  alle  modalita'  di

gestione dei propri servizi.

    Del resto, quanto detto sinora, trova  un  autorevole  precedente

nella  giurisprudenza  di  Codesta  Corte  ed  in  particolare  nella

sentenza n.  272  del  2004:  l'estremo  dettaglio  della  disciplina

inerente l'affidamento dei servizi pubblici  di  rilevanza  economica

«va al di la' della pur doverosa tutela degli aspetti  concorrenziali

inerenti alla gara», la  regolamentazione  autoapplicativa  «pone  in

essere una illegittima compressione dell'autonomia regionale, poiche'

risulta ingiustificato e  non  proporzionato  rispetto  all'obiettivo

della tutela della concorrenza l'intervento legislativo statale».

    Cosi', se e' vero che la  mancanza  di  una  precisa  definizione

dell'ambito  di  appartenenza  dei  servizi  pubblici  locali   rende

difficile la loro collocazione nelle sfere di competenza definite con

l'art. 117 Cost., e' ancor piu' vero che inquadrarli unicamente negli

schematismi della  concorrenza  rappresenta  un'operazione  priva  di

contatto con la realta'.

    Ed allora, il quesito che si discute in questa IIlustre  Sede  e'

se sia legittimo che nella (e per la) concorrenza si confondano altri

capisaldi del nostro  diritto  costituzionale  e  comunitario,  quali

appunto il pluralismo normativo ed istituzionale.

    E' di fatti indiscutibile che la previsione in  sede  statale  di

una regolamentazione contraria all'esito referendario, e alla recente

giurisprudenza costituzionale (sent. n. 199 del  2012)  che  comprime

intere disposizioni dei Trattati (ad es., l'art. 5 TUE, gli artt.  14

e 106 co. 2 TFUE, ma  anche  l'art.  36  Carta  europea  dei  diritti

fondamentali), altera i delicati rapporti tra principi e  deroghe  in

esse stabiliti, oltre che  il  principio  di  sussidiarieta'  di  cui

all'art. 118  Costituzione,  imponendo  un  monismo  istituzionale  e

normativo in capo allo Stato che si pone in  radicale  contrasto  con

quel pluralismo delle fonti  che  caratterizza  l'esperienza  europea

contemporanea e che vede come protagonisti  irrinunciabili  anche  le

regioni.

    Insomma, l'art. 4 della l. n.  135  del  2012,  segnatamente  nei

commi 1 e 8, costituisce un tentativo di  restaurazione  del  monismo

giuridico  statalista  che  non  6  piü  compatibile   con   l'ordine

costituzionale vigente, espressione di  una  dialettica  complessa  e

continua fra Costituzione, Trattati Europei obblighi internazionali e

competenze riservate a regioni ed enti locali.

    Si prenda ad esempio il comma 8 dell'art. 4 della l. n.  135  del

2012, che sostanzialmente riproduce l'annullato comma 13 dell'art.  4

del decreto-legge n. 138  del  2011  che,  limitando  le  ipotesi  di

affidamento diretto in house senza gara al di sotto di  200.000  euro

alle  sole  societa'  a  capitale  interamente  pubblico,  vulnera  i

principi di autodeterminazione degli enti locali (artt. 5, 114,  117,

118 Cost.), nonche' il principio comunitario di neutralita'  rispetto

agli  assetti  proprietari  delle  imprese  e  alle  relative   forme

giuridiche ex art. 345 TFUE, oltre che, in generale, quello della cd.

preemption, in base al quale la  regolamentazione  a  livello  UE  ha

l'effetto di precludere l'adozione a livello nazionale di  discipline

divergenti (cfr.  CGCE,  causa  C-478/07,  conclusioni  dell'Avvocato

Generale Ruiz-jarabo Colomer).

    In tal modo, in  capo  agli  enti  territoriali  e  locali,  gia'

indeboliti da  politiche  economiche,  assai  recessive  rispetto  ai

trasferimenti, residuano spazi ridotti (per non dire inesistenti)  in

merito alla determinazione delle  proprie  politiche  in  materia  di

servizi pubblici locali, relativamente  sia  alla  definizione  della

natura dei servizi sia alla scelta della forma giuridica da  adottare

per organizzare ed erogare tali servizi.

(Segue): b) per effetto della violazione del vincolo referendario.

    I  tratti  di  incostituzionalita'  denunciati   nel   precedente

paragrafo che,  violando  il  pluralismo  istituzionale  e  normativo

danneggiano le Regioni, non possono essere colti in tutta la  propria

gravita'  sostanziale  se  non  anche  in   rapporto   alla   vicenda

referendaria dello scorso giugno 2011. Infatti, prima del referendum,

Codesta Corte aveva respinto il ricorso di diverse Regioni  (fra  cui

l'esponente Puglia) avverso l'art. 23-bis  (successivamente  abrogato

da  voto  referendario)  ammettendone  l'astratta   costituzionalita'

rispetto ad un ricorso diretto.

    La ricorrente Regione Puglia ha ben dimostrato che  proprio  dopo

tale voto referendario il contesto sia  cambiato  e  che  le  lesioni

apportate ai suoi danni e l'espropriazione di potesta' costituzionali

siano illegittime non solo per il loro contenuto,  ma  anche  per  lo

strumentario giuridico con cui sono state perpetrate.

    Come si dira' di seguito, la norma che non  soltanto,  in  parte,

ripristini una disciplina abrogata in via  referendaria,  ma  che  in

sostanza disattenda quanto affermato da Codesta Corte (sent.  n.  199

del 2012) e' evidentemente incostituzionale nella  forma,  in  quanto

lesiva della volonta' popolare espressa ex art 75  Cost.  Per  questo

motivo, il comma 8 dell'art. 4  della  legge  n.  135  del  2012,  e'

inadatto   a   produrre   effetti   sostanziali    costituzionalmente

ammissibili e a limitare le prerogative e le competenze di regioni ed

enti locali.

    Codesta Corte ha stabilito  in  varie  pronunce  il  «divieto  di

formale o  sostanziale  ripristino  della  normativa  abrogata  dalla

volonta' popolare» (Corte cost. n. 9 del 1997, n. 199 del 2012).

    Invero, il legislatore «pur dopo  l'accoglimento  della  proposta

referendaria, conserva il potere d'intervenire nella materia  oggetto

di referendum senza limiti particolari che non siano quelli  connessi

al divieto di far rivivere la normativa  abrogata»  (Corte  cost.  n.

32/1993 , n. 33/1993, n.  199  del  2012).  Insomma,  «il  referendum

manifesta una volonta' definitiva e irripetibile», di  guisa  che  la

caducazione di una norma  non  puo'  «consentire  al  legislatore  la

scelta politica di far rivivere la normativa ivi contenuta  a  titolo

transitorio» (Corte cost. n. 468/1990, lungo il solco  tracciato  con

la celebre sentenza n. 68/1978, con  cui  fu  dichiarato  illegittimo

l'art. 39 della legge n. 352 del 1970 «limitatamente  alla  parte  in

cui non prevede che se  l'abrogazione  degli  atti  o  delle  singole

disposizioni cui si riferisce il  referendum  venga  accompagnata  da

altra  disciplina  della  stessa  materia,  senza  modificare  ne'  i

principi ispiratori della complessiva disciplina preesistente  ne'  i

contenuti normativi essenziali dei singoli precetti, il referendum si

effettui sulle nuove disposizioni legislative»).

    Orbene, nel caso di specie, e' evidente che il legislatore  abbia

in parte ripristinato la  normativa  abrogata  dal  referendum  (art.

23-bis) e poi annullata dalla Corte (art. 4 del decreto-legge n.  138

del 2011), introducendo  una  disciplina  che  riproduce  i  principi

ispiratori (privatizzazione dei  servizi  pubblici  locali  e  scelta

politica pro-concorrenza) piu' restrittivi rispetto  a  quelli  dello

stesso dritto comunitario.

    Come si e' detto, il comma 8 dell'art. 4, in tema di  affidamenti

diretti in house providing, riproduce i contenuti di cui al comma  13

dell'art.  4  del  decreto-legge  n.   138   del   2011,   dichiarato

incostituzionale anche per violazione di vincolo referendario.

    Pertanto, in considerazioni delle suddette argomentazioni,  anche

il comma 8 dell'art. 4 va ritenuto lesivo della volonta' referendaria

(violazione del vincolo referendario), oltre che in contrasto con  il

diritto comunitario  che  disciplina  la  materia  degli  affidamenti

diretti in house. In particolare il  comma  8  dell'art.  4  contiene

norme interne illegittimamente ed irragionevolmente  piu'  stringenti

del diritto comunitario che hanno quali  conseguenze:  la  violazione

del principio di neutralita' rispetto agli  assetti  proprietari,  la

violazione del principio di sussidiarieta' verticale,  la  violazione

del principio della «libera definizione» che attribuisce alla regione

ed agli enti locali il potere di qualificare la natura del servizio e

la relativa modalita' di gestione da cui si evince  la  natura  e  la

qualificazione del servizio,  l'esclusione  dall'affidamento  diretto

del servizio a soggetti di diritto pubblico).

    La ratio dell'art. 23-bis,  identificabile  del  favor  verso  lo

strumento della gara per l'affidamento dei servizi pubblici locali  e

nei limiti posti all'affidamento in house e le relative modalita'  di

applicazione, cosi' come sopra sinteticamente elencate, rappresentano

quella «intenzione  del  legislatore»  che  un  intervento  normativo

successivo all'abrogazione in via referendaria non  puo'  riprodurre.

Una «intenzione del legislatore» sostanzialmente ripresa nel comma  8

dell'art. 4 della l.  n.  135  del  2012,  laddove  si  consente  che

l'affidamento diretto del servizio possa avvenire soltanto  a  favore

di societa' a capitale interamente pubblico... a  condizione  che  il

valore  economico  del  servizio...  oggetto   dell'affidamento   sia

complessivamente pari o inferiore a 200.000 euro annui...»  La  norma

interviene  restrittivamente  sulla   qualificazione   della   natura

giuridica del soggetto affidatario e sulle modalita' di affidamento.

    Oltre alla riproduzione della ratio e del contenuto, una  lettura

sovrapposta  consente  di  rilevare  altresi'  una  vera  e   propria

identita' linguistica tra  le  due  disposizioni  (comma  13  art.  4

decreto-legge n. 138 del 2011 e comma 8 art. 4 della l.  n.  135  del

2012).

    Questo quadro rende percio' evidente  che  il  legislatore  abbia

ripristinato sostanzialmente non solo la disciplina abrogata  in  via

referendaria, ma altresi' la sentenza di Codesta  Corte  n.  199  del

2012, disattendendo contestualmente la volonta' popolare,  il  quadro

normativo  comunitario  e  la  recente  giurisprudenza  della   Corte

costituzionale.

    Il  legislatore  ha  ancora  una   volta   violeto   il   vincolo

referendario, ricorrendo nuovamente  per  l'affidamento  diretto  dei

servizi pubblici locali ad un'interpretazione  estrema  delle  regole

del mercato e della concorrenza, ignorando  peraltro  le  indicazioni

emerse della sentenza n. 325 del 2010 di  codesta  Corte,  che  aveva

chiarito  come  l'art.  23-bis  rappresentasse  soltanto  «una  delle

diverse discipline possibili della materia che il legislatore avrebbe

potuto legittimamente adottare senza violare il diritto comunitario».

    Orbene, e' chiaro che quell'opzione politica concretantesi in una

delle diverse  discipline  possibili  a  livello  europeo,  ancorche'

aperta nel 2010 (ai tempi della sentenza n. 325) non lo e' piu'  dopo

il referendum del 13 giugno 2011 perche' il  popolo  italiano  si  e'

orientato  nel  senso  di  escluderne  la  possibilita'.  Come  detto

chiaramente da Codesta Corte a seguito dell'abrogazione  referendaria

di  quella  disciplina  (art.  23-bis)  risulta   oggi   direttamente

applicabile in Italia il diritto comunitario che, oltre ad essere  da

sempre «neutrale» circa il quantum di proprieta' pubblica  o  private

presente in ciascuno Stato membro (art. 345 TFUE), riequilibra con il

Trattato  di  Lisbona  il  c.d.  modello   socio-economico   europeo,

riconoscendo  un  fondamentale  collegamento   tra   beni,   servizi,

cittadinanza europea e tutela dei diritti fondamentali,  contribuendo

a configurare le linee generali del  c.d.  diritto  pubblico  europeo

dell'economia.

    L'illegittimita' rileva, pertanto, sia dal punto di  vista  della

forma tecnico-normativa, relativamente al regime giuridico vigente in

seguito all'approvazione del referendum ed alla sentenza  di  Codesta

Corte  n.  199  del  2012,  sia  dal  punto  di  vista   sostanziale,

relativamente alle opzioni individuate nel comma 8 dell'art. 4  della

l. n. 135 del 2012.

    E' stato illustrato come i  principi  e  le  regole  del  diritto

comunitario, cosi' come affermati dalla giurisprudenza costituzionale

richiamata, possano applicarsi direttamente nel  nostro  ordinamento,

anche in assenza di una disciplina nazionale di adeguamento.  In  una

prospettiva di legittimita', anche legata al fraseggio  dell'art.  77

Cost.,   risulta   percio'   difficile   scorgere   le   ragioni   di

«straordinaria necessita' ed  urgenza»  per  le  quali  adottare  una

disciplina interna che contrasta con  la  normativa  europea,  e  che

sembrerebbe  soltanto  ispirata  ai  principi  della   svendita   del

patrimonio pubblico  ed  orientata  al  c.d.  super  principio  delle

privatizzazioni  e  della  concorrenza,  estraneo  alla  Costituzione

italiana.

    Un intervento legislativo statale  in  conseguenza  del  prodursi

dell'effetto abrogativo e  della  giurisprudenza  di  Codesta  Corte,

sarebbe dovuto essere  di  razionale  sistemazione  di  una  materia,

quella del rapporto fra pubblico e privato nella gestione dei servizi

pubblici locali di rilevanza  economica,  in  armonia  con  l'attuale

forma di Stato e  con  il  dettato  degli  artt.  41,  42,  43  della

Costituzione.

    Lungi dal poter essere portato avanti con urgenza (art. 77 Cost.)

e senza dibattito parlamentare, un  tale  intervento  di  adeguamento

alla volonta' popolare avrebbe semmai dovuto svolgersi nelle forme  e

nei modi meditati di un intervento strutturale di riforma, capace  di

cogliere appieno le novita' politiche ed istituzionali introdotte dal

referendum e tradurle in un quadro articolato di  principi  e  regole

coerenti con gli assetti  decentrati  introdotti  dalla  Costituzione

italiana e con il pieno rispetto sia della volonta' del  suo  popolo,

che attraverso il referendum ha esercitato la sua  sovranita'  «nelle

forme e nei limiti della Costituzione» (art. 1),  che  delle  recenti

decisioni di Codesta Corte costituzionale.

 

                              P. Q. M.

 

    Voglia Codesta Ecc.ma Corte costituzionale accogliere il ricorso,

dichiarando l'illegittimita' costituzionale dei commi 1 e 8 dell'art.

4 della legge n. 135 del 2012  per  violazione  degli  articoli  117,

primo, secondo, terzo, quarto, quinto e sesto  comma;  118,  primo  e

secondo comma, 119; 41; 42; 43; nonche' degli artt. 1, 5, 75, 77, 114

della Costituzione.

      Napoli - Roma, 13 ottobre 2012

 

                Prof. avv. Lucarelli - Avv. Triggiani

 

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