N. 24 RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 1 marzo 2004.
Ricorso per questione di legittimita' costituzionale depositato in
cancelleria il 1° marzo 2004 (del Presidente del Consiglio dei
ministri)
(GU n. 9 del 3-3-2004)

Ricorso per il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato;

Nei confronti della Regione Friuli-Venezia Giulia, in persona del
suo presidente della giunta, avverso la legge regionale 11 dicembre
2003, n. 22, intitolata «Divieto di sanatoria eccezionale delle opere
abusive», pubblicata nel Boll. uff. n. 52 del 24 dicembre 2003.
La determinazione di proposizione del presente ricorso e' stata
approvata dal Consiglio dei ministri nella riunione del 13 febbraio
2004 (si depositera' estratto del relativo verbale).
La Regione Friuli-Venezia Giulia ha proposto una prima
controversia di legittimita' costituzionale nei riguardi di taluni
commi, puntualmente elencati, dell'art. 32 del d.l. 30 settembre
2003, n. 269 (reg. ric. n. 89 del 2003) ed una seconda similare
controversia nei riguardi dei medesimi commi dello stesso art. 32,
come risultato dalla conversione nella legge 24 novembre 2003,
n. 326. Con la legge ora in esame la Regione ha disposto nell'art. 1
al comma 1 che «non e' ammessa la sanatoria delle opere edilizie
realizzate in assenza dei necessari titoli abilitativi previsti
ovvero in difformita' o con variazioni essenziali rispetto a questi
ultimi»; e al comma 2 periodo primo che «ai fini di consentire
l'oblazione penale degli illeciti edilizi (sanzionati penalmente) la
domanda di definizione di tali illeciti presentata dopo il 2 ottobre
2003 secondo le modalita' previste da disposizioni statali, non
sospende il procedimento per le sanzioni amministrative» (tra queste
comprese - parrebbe - la demolizione e la acquisizione gratuita di
fabbricato e suolo).
La portata dell'art. 1, comma 1, oltremodo - anzi fin troppo -
ampia secondo la «lettera» della disposizione, parrebbe delimitata
solo dall'inciso «salva la procedura prevista dall'articolo stesso»,
ossia prevista dall'art. 108 della legge reg. 19 novembne 1991,
n. 52, e successive modificazioni, contenuto nell'art. 2 della legge
in esame. Diverso discorso dovrebbe farsi se il comma 1 si collegasse
unicamente con gli artt. 101, 102 e (forse) 103 della citata legge
regionale del 1991. Tale legge, malgrado le modificazioni ad essa
apportate, sembrerebbe un po' «datata», e nel complesso non ancora
adeguata all'evoluzione nel corso dell'ultimo decennio, della
normativa statale in argomento, normativa raccolta nel testo unico
d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380; il che e' implicitamente riconosciuto
dalla legge in esame nella quale non si parla di «avvenuto
adeguamento della disciplina regionale» (come invece nella legge
Toscana 4 dicembre 2003, n. 55). Per di piu', pare sussistere anche
qualche difficolta' d'ordine lessicale.
L'anzidetto art. 1, comma 2, prevede, nel terzo periodo, un
«certificato di definizione dell'illecito edilizio», al quale
«equivale» il decorso di 24 mesi senza l'adozione di un provvedimento
negativo del Comune. Non e' chiaro, per il momento, se tale
certificato (o l'equivalente «silenzio») sia equiparabile al «titolo
abilitativo edilizio in sanatoria» previsto dall'art. 32, comma 37,
del d.l. 30 settembre 2003, n. 269, convertito nella legge 24
novembre 2003, n. 326, e comunque sostituisca o meno detto titolo
abilitativo. L'ottavo motivo del menzionato ricorso reg. ric. n. 89
del 2003 indurrebbe a ritenere che il legislatore regionale abbia
inteso, attraverso la previsione del certificato, sminuire l'effetto
giuridico del comportamento silenzioso del comune. Sul punto qualche
chiarimento potrebbe essere utile.
Comunque, la legge in esame, per quanto significato dalla
«lettera di essa», appare percorsa da qualche intima contraddizione:
da un lato si proclama «non e' ammessa la sanatoria», d'altro lato si
apprestano strumenti perche' una sanatoria ovviamente diversa da (e
piu' ampia di) quella prevista «a regime» dal citato art. 108 possa
operare. Peraltro, le parole «ai fini di consentire l'oblazione
penale» (in apertura del citato comma 2) parrebbero destinate a
rimanere prive di concreta effettivita' qualora il «non e' ammessa»
contenute nel comma 1 superasse il vaglio di legittimita'
costituzionale per non essersi ravvisata lesione della competenza
legislativa esclusiva dello Stato in materia di «ordinamento penale»;
competenza questa esclusiva per l'art. 117, comma secondo, lettera L,
Cost. e non inclusa tra le materie «elencate» nello Statuto speciale
legge cost. 31 gennaio 1963, n. 1. Competenza legislativa che il
legislatore statale ha utilizzato nel produrre quelle norme
sull'oblazione che costituiscono il fulcro delle disposizioni che si
vorrebbero non applicabili, e che il legislatore regionale solo
apparentemente salvaguarda.
Posto che la materia «ordinamento penale» e' di esclusiva
competenza statale, la sottrazione dal territonio nazionale del
territorio di una o piu' regioni introduce disuguaglianze (art. 3
Cost.) non legittimate dal riconoscimento in Costituzione delle
autonomie regionali. Queste non possono condurre a discipline
diversificate nell'ambito delle materie riservate allo Stato. Non
pane che fatti identici (ad esempio, edificazioni in assenza di
permesso di costruire) siano repressi penalmente in una Regione, e
non repressi perche' sanati «per condono» in altre regioni.
In questo quadro, la legge regionale in esame appare, oltre che
irriguardosa dell'art. 117, comma secondo, lettena L, Cost. e lesiva
dell'art. 3 Cost., anche contrastante con l'art. 4 dello statuto
speciale, con gli artt. 81 e 119 Cost., e persino con gli artt. 51,
127, comma secondo, e 134 Cost.
La legge in esame evoca l'art. 4 dello statuto speciale, ove
pero' alla competenza legislativa cosiddetta primaria della Regione
sono posti limiti confrontabili con (anche se minoni di) quelli posti
dal novellato art. 117, terzo comma, Cost. alla competenza
legislativa concorrente. Sarebbe erroneo assimilare la competenza ex
art. 4 citato ad una competenza esclusiva; e nessuna modifica
discende, per quanto qui interessa, dall'art. 10 della legge cost. 18
ottobre 2001, n. 3. Codesta Corte ha insegnato che spetta tuttora
allo Stato - anche per le evidenti e plurime connessioni con la
materia «ordinamento civile» (art. 117, comma secondo, lettera L,
Cost.) - produrre la disciplina normativa in tema di titoli
abilitativi edilizi. In questo ambito deve collocarsi pure la
previsione di titoli abilitativi non ordinari, quali quelli per
sanatoria non «a regime», specie se tale previsione si salda con (ed
e' integrata da) la prefigurazione di programmi di riqualificazione
urbanistico-edilizia.
Considerato che gli introiti attesi dalle oblazioni sono stati
inseriti nella finanziaria 2004 dello Stato (legge 24 dicembre 2003,
n. 350), impedire l'applicazione nel territorio di una Regione delle
disposizioni statali contenute in commi dell'art. 32 citato concreta
una ingerenza nella formazione del bilancio annuale dello Stato e
quindi una lesione di quella «autonomia finanziania» che anche, ed
anzitutto, allo Stato deve essene garantita, una compressione della
competenza legislativa per il «coordinamento della finanza pubblica e
dei sistemi tributari», una sottrazione di risorse destinate alla
copertura (art. 81 Cost.) di spese pubbliche approvate dal
Parlamento, e - da ultimo - una rottura del vincolo dato dal patto di
stabilita' concordato a livello di Unione europea.
L'art. 119 Cost. e' qui evocato anche perche' essenziale dovere
costituzionale dello Stato e' assicurare a se stesso ed agli enti «a
finanza derivata» le risorse occorrenti: tale dovere e' talmente
prioritario e fondamentale da aver reso superflua l'esplicita
indicazione in Costituzione dei modi e dei mezzi consentiti per farvi
fronte; significativa e' l'assenza nell'art. 119 Cost. di una
esplicita garanzia di risorse proprie anche per lo Stato.
La Regione la quale ostacoli mediante propria legge una manovra
di linanza pubblica statale dovrebbe farsi carico di assicurare
altrimenti l'invarianza del «livello massimo del saldo netto da
finanziare» (art. 1, comma 1 della legge finanziaria citata), ad
esempio rinunciando ad apporti di finanza derivata dallo Stato.
Da ultimo, occorre rilevare - e trattasi di argomento assorbente
- che ai legislatori regionali non puo' essere consentito di produrre
norme meramante demolitorie e «di reazione», le quali statuiscano la
non applicazione nel territorio regionale di disposizioni poc'anzi
prodotte dallo Stato. Iniziative siffatte possono pregiudicare
l'unita' della Repubblica (art. 5 Cost. ) e comunque concretano una
sosta di anomala «autodichia». L'ordinamento costituzionale (ora
art. 127, comma secondo, Cost.) riconosce ad ogni Regione la facolta'
di sottoporre a codesta Corte le disposizioni statali che reputa
affette da illegittimita' costituzionale, e cosi' esclude che il
potere legislativo regionale possa - grazie alla agevolmente
realizzabile rapidita' della produzione legislativa ad opera dei
consigli regionali ed alla soppressione dell'istituto del rinvio
governativo, e facendo leva sulla successione delle leggi nel tempo -
essere utilizzato per contrastare l'applicazione di dette
disposizioni statali (non rileva se in assenza o in pendenza del
ricorso della Regione).
Quest'ultima considerazione appare di particolare importanza per
il sereno ed equilibrato esplicarsi dei poteri legislativi dello
Stato e delle autonomie. Si confida in un insegnamento di codesta
Corte, il quale tenga conto anche dell'esigenza di salvaguardare
appieno l'autorita' del Parlamento nazionale.
La legge regionale in esame, impedendo ai proprietani di immobili
siti nella Regione Friuli-Venezia Giulia (proprietari non
necessariamente in essa residenti) l'accesso alla sanatoria
straordinaria degli abusi edilizi durante la pendenza del processo
costituzionale, arreca pregiudizio all'interesse dello Stato e degli
enti «a finanza derivata» al conseguimento degli introiti «da
condono» previsti dal bilancio e dalla legge finanziaria dello Stato.
Lo Stato potrebbe trovarsi costretto a sostituire i mancati o
ritardati introiti con manovre di finanza straordinaria (per le quali
del resto i parametri di Maastricht lasciano margini strettissimi) e
con inasprimenti ulteriori della gia' pesante fiscalita', cosi'
soffocando ogni speranza di «agganciare» la auspicata ripresa
economica e rendendo problematica persino il rimanere all'interno di
un contesto concorrenziale; oppure - in alternativa - ad operare
«tagli» alla spesa pubblica sia corrente (compreso il «welfare») sia
per investimenti. La scelta di ricorrere ad introiti «da condono» non
e' stata voluttuaria o di tolleranza degli abusi; essa e' stata
imposta dalla bassa congiuntura e dalla distanza che, malgrado
semisecolari progressi, ancora separa il nostro Paese dalle economie
piu' solidamente strutturate.
Inoltre, la legge in esame arreca pregiudizio all'ordinamento
giuridico della Repubblica per le considerazioni esposte dianzi nel
prospettare i motivi di ricorso.
Questa difesa si rende conto dell'esigenza (non solo processuale)
di non impegnare codesta Corte nell'esame di istanze cautelari; e
pero' istanze siffatte sono state formulate da Regioni ricorrenti
avverso l'art. 32 citato.
La sospensione ex art. 9, comma 4, della legge 5 giugno 2003,
n. 131, e' chiesta solo per l'art. 1 della legge in esame.


P. Q. M.
Si chiede pertanto che sia dichiarata la illegittimita'
costituzionale della legge sottoposta a giudizio, previa sospensione
della sua vigenza, con ogni conseguenziale pronuncia.
Roma, 14 febbraio 2004
Vice avvocato generale: Franco Favara

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