N. 25 RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 7 marzo 2003.
Ricorso per questione di legittimita' costituzionale depositato in
cancelleria il 7 marzo 2003 (della Regione Emilia-Romagna)
(GU n. 17 del 30-4-2003)

Ricorso della Regione Emilia-Romagna, in persona del Presidente
della giunta regionale pro tempore sig. Vasco Errani, autorizzato con
deliberazione della giunta regionale n. 254 del 24 febbraio 2003,
rappresentata e difesa come da procura rogata dal notaio Federico
Stame del collegio di Bologna n. 46998 di rep. del 27 febbraio 2003,
dagli avv. prof. Giandomenico Falcon, prof. Franco Mastragostino e
Luigi Manzi di Roma, con domicilio eletto in Roma presso lo studio
dell'avv. Manzi, via Confalonieri n. 5;
Contro il Presidente del Consiglio dei ministri per la
dichiarazione di illegittimita' costituzionale della legge 27
dicembre 2002, n. 289, recante disposizioni per la formazione del
bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2003),
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 305 del 31 dicembre 2002,
suppl. ordinario n. 240, con riferimento alle seguenti disposizioni:
art. 2; art. 3, primo comma, lett. a); artt. 5, 6, 7, 3, 9,
ad eccezione del comma 17; artt. 13, terzo comma, 15 e 16, art. 24,
art. 25; art. 26, commi primo, secondo periodo, secondo e terzo;
art. 27; art. 28, commi quinto e sesto; artt. 30, primo, secondo,
quinto e quindicesimo comma art. 31, decimo comma; art. 33, quarto
comma; art. 34, commi primo, secondo, terzo, quarta, undicesimo;
art. 35; art. 46, commi secondo, terzo, quarto, quinto e sesto; art.
47; art. 48; art. 52, commi quarto, diciannovesimo e ventunesimo;
art. 56; art. 67; art. 69, comma ottavo; art. 72, commi primo,
secondo, terzo e quarto; art. 80, comma sesto, art. 90, commi 18, 20,
21, 22, 24, 25 e 26; art. 91, commi 1, 2, 3 e 4;
per violazione degli artt. 3, 97, 117, 118, 119 Cost., e dei
principi costituzionali di ragionevolezza e proporzionalita', nei
modi e per i profili di seguito indicati.

F a t t o

Nel supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale n. 305 del 31
dicembre 2002 e' stata pubblicata la legge 27 dicembre 2002, n. 289
(finanziaria 2003). In essa sono contenuto disposizioni che incidono
inequivocabilmente su materie di competenza regionale suscettibili,
quindi, di rilevare sul piano dell'illegittimita' costituzionale,
anche e soprattutto a fronte delle innovazioni introdotte dalla legge
costituzionale n. 3/2001.
In estrema sintesi, e come verra' illustrato nei motivi di
diritta, la legge risulta lesiva in primo luogo sotto il profilo
strettamente finanziario, comportando - anziche' l'aumento delle
entrate in attuazione dell'art. 119 Cost.; anche in relazione alle
nuove funzioni del sistema locale, ed in contrasto palese con tale
articolo - una drastica restrizione dell'autonomia di entrata, pur a
fronte di livelli delle prestazioni essenziali espressamente
confermati al livello dagli anni precedenti. Inoltre, a fronte della
restrizione delle entrate regionali, la stessa legge mantiene e
incrementa una pluralita' di spese ed interventi statali in materie
nelle quali secondo la Costituzione lo Stato non ha potesta'
legislativa, o ha potesta' legislativa solo in relazione ai principi
fondamentali. L'esistenza di fondi settoriali in materie regionali
appare di per se' incompatibile con l'autonomia finanziaria di
entrata e di spesa di cui all'art. 119 Cost., ed e' dunque
accettabile soltanto come soluzione transitoria, per assicurare il
finanziamento del settore in attesa della attuazione del nuovo
sistema di finanziamento. Di certo, pero', come si vedra', la
gestione dei fondi non puo' avvenire a livello centrale. Infine, la
legge 289 del 2002 reca disciplina di materie - quali l'istruzione, a
la finanza locale - semplicemente ignorando la potesta' legislativa
concorrente o residuale spettante alle regioni, e per di piu'
ispirando tale disciplina di settore a criteri puramente finanziari,
senza adeguata considerazione delle esigenze proprie di tali materie.
Il fatto che tali disposizioni siano inserite nello strumento
principale della manovra finanziaria dello Stato non puo', peraltro,
sotto alcun profilo rappresentare l'occasione per apportare profonde
ed illegittime incisioni alla sfera di autonomia regionale.
Da qui la necessita' della proposizione del presente ricorso
attraverso cui si contesta l'illegittimita' costituzionale di
specifiche disposizioni, in relazione alle quali l'intervento del
giudice costituzionale puo' valere ad impedire che si consolidino
situazioni non corrispondenti al nuovo assetto conseguente alla
riforma del titolo V e che si pregiudichino prerogative e competenze
di sicura spettanza regionale.
Le disposizioni impugnate risultano in particolare illegittime ed
invasive per le seguenti ragioni di

D i r i t t o

1. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 2 per violazione
dell'art. 119, comma 4 Cost.
L'art. 2 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, nell'avviare il
programma di riforma fiscale con specifico riferimento alla
disciplina dell'imposta sul reddito delle persone fisiche, introduce
il principio secondo cui e' consentita una quota di deduzione dal
reddito imponibile, suscettibile di produrre un risparmio di imposta.
In particolare l'art. 2, comma 4, determina i possibili effetti
del nuovo sistema sulle addizionali I.R.P.E.F., stabilendo che «la
deduzione di cui all'art. 10-bis del testo unico delle imposte sui
redditi di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre
1986, n. 917, introdotto dal comma 1 del presente articolo, non
rileva ai fini della determinazione della base imponibile delle
addizionali all'imposta sul reddito delle persone fisiche, fermo
restando, comunque, quanto previsto dall'art. 50, comma 2, secondo
periodo, del decreto legislativo 15 dicembre 1997 n. 446, e dall'art.
1, comma 4 del decreto legislativo 28 settembre 1998, n 360».
Orbene, gli artt. 50, comma 2, secondo periodo, del d.lgs. 15
dicembre 1997, n. 446, e 1, comma 4, del d.lgs. 28 settembre 1998,
n. 360, comportano che l'addizionale, regionale e comunale, non sia
dovuta qualora per la stesso anno l'I.R.P.E.F., al netto delle
detrazioni e dei crediti riconosciuti rilevanti dal testo unica della
disposizione sul reddito delle persone fisiche, non sia a sua volta
dovuta.
Il che produce una diminuzione delle risorse a disposizione delle
regioni, senza nel contempo prevedere alcuna misura compensativa, in
contrasto con l'art. 119, comma 4, Cost., la' dove viene stabilito
che «le risorse derivanti dalle fonti di cui ai commi precedenti
consentono ... alle regioni di finanziare integralmente le funzioni
pubbliche loro attribuite».
2. - Illegittimita' costituzionale degli art. 3 primo comma.
lett. a); artt. 5, 6, 7, 8, 9, ad eccezione del comma 17; 13, terzo
comma, 15 e l6 per violazione degli artt. 117, 118 e 119, Cost.
Vengono innanzi tutto in rilevo le disposizioni di ordine
tributario-finanziario, in relazione alle quali le misure a tale
titolo previste si traducono in una chiara violazione dell'autonomia
impositiva delle regioni, costituzionalmente garantita.
In particolare: l'art. 3, primo comma, lett. a), prevede una
sospensione degli aumenti delle addizionali all'I.R.P.E.F. per i
comuni e le regioni e della maggiorazione dell'aliquota I.R.A.P. sino
a quando non si raggiunga un accordo in sede di conferenza unificata
tra Stato, regioni ed enti locali sui meccanismi strutturali del
federalismo fiscale.
L'art. 5 introduce una serie di modifiche al decreto legislativo
statale istitutivo dell'I.R.A.P. (n. 446/1997), destinate a ridurne
il gettito.
L'art. 6 istituisce il concordato triennale preventivo, cui
possono accedere anche i contribuenti soggetti all'I.R.A.P.,
definendo per tre anni la base imponibile anche di tale imposta, con
la conseguenza che gli eventuali maggiori imponibili, rispetto a
quello oggetto del concordato, non sono soggetti all'imposta
suddetta.
L'art. 7 prevede la definizione automatica dei redditi di impresa
e di lavoro autonomo per gli anni pregressi mediante
autoliquidazione. Tale definizione automatica ha effetto, per quanto
qui interessa, anche ai fini delle addizionali I.R.P.E.F. per le
Regioni e dell'I.R.A.P. e si perferziona con il versamento, mediante
autoliquidazione, dei tributi derivanti dai maggiori ricavi o
compensi determinati sulla base dei criteri e delle metodologie
stabiliti con decreto, ai sensi del comma 14 della medesima norma.
L'art. 8 prevede la integrazione degli imponibili per gli anni
pregressi che puo' avere effetto, per quanto qui rileva, anche ai
fini delle addizionali I.R.P.E.F., e dell'I.R.A.P.
L'art. 9 disciplina la definizione automatica per gli anni
progressi, che riguarda tutte le imposte e tutti i periodi di imposta
per i quali i termini per la presentazione delle relative
dichiarazioni siano scaduti entro il 31 ottobre 2002. Le modalita' di
perfezionamento di tale forma di condono sono differenziate in
funzione delle imposte interessate. Per quanto riguarda l'I.R.A.P.,
si prevede il pagamento del 18% dell'imposta lorda, se l'imposta
lorda e' risultata di ammontare superiore a Euro 10.000,00 = la
percentuale applicabile all'eccedenza e' del 16%, mentre per importi
superiori a Euro 20.000,00 = si paghera', sull'ulteriore eccedenza,
il 13%.
L'art. 13 prevede la possibilita' per le regioni e gli enti
locali di stabilire la riduzione dell'ammontare delle imposte e tasse
loro dovute, nonche' l'esclusione o la riduzione dei relativi
interessi e sanzioni, qualora i contribuenti adempiano ad obblighi
tributari precedentemente in tutto o in parte non adempiuti. Il terzo
comma specifica, poi, che, ai fini del presente articolo, si
intendono tributi propri della regione i tributi la cui titolarita'
giuridica ed il cui gettito siano alla stessa integralmente
attribuiti, con esclusione delle compartecipazioni ed addizionali a
tributi erariali, nonche' delle mere attribuzioni ad enti
territoriali del gettito, totale e parziale, di tributi erariali.
L'art. 15 prevede che possano formare oggetto di definizione
agevolata gli avvisi di accertamento, gli inviti al contraddittorio e
i processi verbali di constatazione non ancora definiti,
relativamente a tutte le imposte, ivi compresa l'I.R.A.P., e
stabilisce le percentuali da corrispondere per la definizione stessa.
L'art. 16 disciplina la chiusura delle liti fiscali pendenti che
possono essere definite, anche ove relative all'I.R.A.P., con il
pagamento delle somme determinate dalla norma stessa.
Le forme di condono sopra indicate determinano rilevanti effetti
sostanziali, tra cui l'estinzione delle sanzioni amministrative
tributarie, comprese quelle accessorie, relative alle dichiarazioni
condonate.
Le suddette disposizioni si pongono in contrasto con gli artt.
117 e 119 Cost., in quanto applicabili anche All'I.R.A.P. per le
seguenti considerazioni.
1.1. - Codesta ecc.ma Corte costituzionale con la sentenza
n. 138/1999 ha gia' avuto occasione, in riferimento alla originaria
formulazione dell'art. 119 Cost., di qualificare l"I.R.A.P. come
tributo proprio delle regioni contrapponendola alle quote di tributi
erariali. Tale qualificazione, a maggior ragione, vale oggi, in
rapporto alla nuova formulazione della norma costituzionale. Infatti,
era semmai la contrapposizione dei tributi propri alle quote di
tributi erariali che poteva consentire di ricomprendere l'I.R.A.P.
tra le seconde (ma la Corte lo ha escluso), giacche' si potevano, al
limite, qualificare in tal modo quelle imposte che, anche se
integralmente percepite dalle regioni (quota del 100%), dovessero
essere disciplinate soltanto dallo Stato. Una soluzione del genere e'
peraltro esclusa oggi, poiche' nella nuova versione dell'art. 119
Cost. le uniche entrate tributarie, oltre ai tributi propri di cui
regioni ed enti locali possono disporre, sono le compartecipazioni ai
tributi erariali; il diverso termine impiegato dalla norma - non piu'
quote di tributi erariali ma, appunto, compartecipazioni a tali
tributi - e', al riguardo, significativo perche' la compartecipazione
presuppone una ripartizione del relativo gettito con l'ente
competente ad istituire e disciplinare il tributo. In definitiva,
l'I.R.A.P. e' annoverabile tra i tributi propri delle regioni perche'
e' a queste che spetta integralmente il relativo gettito, cosi' come
sono qualificabili nello stesso modo tutti i tributi attualmente
esistenti che presentino analoga caratteristica: cio' che conta e' la
spettanza del gettito, perche' la competenza a disciplinare il
tributo e' questione che dipende dal modo in cui la Costituzione
ripartisce, rispettivamente tra, lo Stato e le regioni, i poteri in
ordine ai tributi propri delle regioni.
Quanto ai poteri spettanti alle regioni sui tributi propri,
bisogna, altresi', considerare che codesta Corte costituzionale, con
la sentenza n. 111/1999, pur qualificando l'I.R.A.P. come tributo
proprio dello regioni, ha poi escluso che la legge statale istitutiva
(che, come e' noto, disciplina compiutamente ogni aspetto della
predetta imposta) violasse l'autonomia speciale della Regione
Sicilia. A questa conclusione la Corte e' pervenuta, pero', muovendo
dal rilievo che il disegno abbozzato dallo statuto di tale regione
non ha trovato poi seguito nell'ordinamento e le disposizioni di
attuazione hanno in realta' delineato un assetto completamente
differente, in cui la Regione Sicilia viene a disporre, sui tributi
propri, dei medesimi spazi di autonomia riconosciuti alle regioni
ordinarie (sentenza n. 138/1999). Questi spazi di autonomia sono
stati peraltro ricostruiti muovendo da una lettura dell'art. 119
Cost. incentrata su due elementi tra loro strettamente connessi: la
potesta' impositiva e' conferita alle regioni dalle leggi di
coordinamento, preposte, secondo l'originaria formulazione dell'art.
119, a stabilire le forme ed i limiti dell'autonomia finanziaria
delle regioni e ad attribuire loro i tributi propri (sentenza
n. 156/1990); inoltre, questa potesta' e' cosa distinta e separata
dalla potesta' legislativa di cui all'art. 117, comma primo, Cost.,
con la conseguenza che non si configura come potesta' di tipo
concorrente ma, semmai, come potesta' attuativa, alla stregua di
quella prevista dall'art. 117 u.c. (sentenza n. 355/1998 e sentenza
n. 295/1993). Sono questi i presupposti che hanno consentito alla
Corte costituzionale di dichiarare infondata la questione di
costituzionalita' relativa all'insufficiente spazio lasciato
all'autonomia normativa regionale dalla disciplina statale istitutiva
dell'I.R.A.P.; senonche' essi non valgono a far ritenere per la
stesso motivo legittime le disposizioni della legge finanziaria 2003,
qui impugnate.
Entrambi i suddetti presupposti sono, infatti, venuti meno a
seguito della modifica del titolo V della Costituzione. Per un verso,
la potesta' l'impositiva e' riconosciuta direttamente dall'art. 119
Cost., in quanto la legge statale non e' piu' preordinata a definire
le forme e di limiti dell'autonomia finanziaria ed in quanto i
tributi propri non sono piu' attribuiti da tale legge. Per altro
verso, per l'esercizio di questa potesta' l'art. 117 riconosce una
competenza legislativa di tipo esclusivo: infatti il sistema
tributario statale e' stato eretto a distinta e specifica materia
dall'art. 117, comma secondo, che attribuisce alla potesta' esclusiva
dello Stato la disciplina del suo sistema contabile e tributario, con
la conseguenza che, poiche' manca, invece, nella elencazione di
materie dell'art. 117 qualsiasi riferimento al sistema tributario
delle regioni e degli enti locali, bisogna concludere che queste due
materie, in quanto non altrimenti attribuite, rientrano nella
potesta' residuale, di tipo esclusivo, delle regioni, ai sensi
dell'art. 117, comma quarto.
In tale diverso contesto, gli unici limiti che possono frapporsi
all'esercizio, da parte delle regioni, della loro potesta' impositiva
sono ravvisabili nella competenza concorrente dello Stata in ordine
al coordinamento del sistema tributario e della finanza pubblica,
materia in ordine alla quale lo Stato puo', quindi, intervenire
esclusivamente in relazione alla «fissazione di principi di
coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario»; il
che significa che lo Stato deve limitarsi a definire gli ambiti,
individuando ad esempio tetti massimi e limiti non valicabili, entro
cui puo' essere esercitata la potesta' impositiva dei vari livelli di
governo, ma non certa a definire disposizioni di dettaglio atte a
costringere in maniere vincolante l'espressione dell'attivita'
legislativa e amministrativa degli altri autonomi livelli di governo.
Da tutto cio' bisogna, quindi, trarre la conclusione che, a
seguito dell'entrata in vigore del nuovo titolo V della Costituzione,
lo Stato ha perso il potere di emanare, in ordine ai tributi propri
delle regioni, disposizioni del tipo di quelle istintive
dell'I.R.A.P. e che disposizioni statali del genere restano in vigore
fino a quando le regioni non provvedano e modificarle mediante
resercizio della loro potesta' legislativa. Ulteriore conclusione e'
che lo Stato ha perso il potere di emanare disposizioni del tipo di
quelle impugnate con il presente motivo di ricorso, tenuto conto che
queste, invece di definire l'ambito della potesta' impositiva delle
regioni (ambito gia' definito dalla attribuzione ad esse
dell'I.R.A.P. e non modificato dalle disposizioni in questione),
disciplinano questa forma di prelievo e lo fanno addirittura con
norme di dettaglio, riducendone per di piu' il gettito.
1.2. - Cio' premesso, piu' specificamente in relazione alle
singole norme censurate, si evidenzia;
1.2.1. - L'art. 3, come rilevato, sospende la potesta',
riconosciuta alle regioni ed agli enti locali dalla previgente
disciplina statale, di aumentare l'addizionale I.R.P.E.F. loro
spettante e quella riconosciuta alle regioni di maggiorare l'aliquota
I.R.A.P. rispetto a quella stabilita dalla legge istitutiva. La norma
appare, per entrambi i profili, in contrasto con la piu' ampia
autonomia impositiva riconosciuta dal nuovo titolo V della
Costituzione.
Quanto alla aliquota I.RA.P. valgono i rilievi precedentemente
svolti, nel senso che, trattandosi di un tributo proprio delle
regioni, la legge statale di coordinamento puo' semmai stabilire una
aliquota massima e puo' semmai successivamente modificare questo
limite, ma certamente non puo' paralizzare l'esercizio dell'autonomia
regionale, con l'esito di impedire un aumento dell'aliquota a quelle
regioni che non abbiano a cio' provveduto entro una certa data.
Cosi' facendo, infatti, si determina il blocco di un fondamentale
canale di finanziamento delle competenze regionali, senza neppure
stabilire un termine certo di durata della sospensione disposta.
Poiche', come e' noto, il bilancio regionale deve necessariamente
chiudere in pareggio, la carenza di risorse finanziari che la
disposta sospensione che si realizzano tramite l'allocazione delle
risorse libere. Percio', la disposizione viola sicuramente il
principio di «autosufficienza finanziaria» sancito dall'art. 119,
comma terzo, Cost. e non consente l'ordinario esercizio delle
competenze proprie della Regione di cui agli artt. 117, 118, Cost.
Cio' risulta particolarmente evidente e grave se solo si legge
l'art. 3 insieme all'art. 30, comma 15, che colpisce con la sanzione
radicale della nullita' gli atti e i contratti con cui gli enti
territoriali ricorrono all'indebitamento per finanziare spese diverse
da quelle di investimento.
Quanto all'addizionale I.R.P.E.F., l'ambito di intervento della
legge statale di coordinamento e' certamente piu' ampio: le
addizionali influiscono, infatti, sulla base imponibile e, quindi,
sul gettito di tributi erariali per cui, nonostante si tratti pur
sempre di tributi propri, e' possibile ritenere che sia la legge
statale di coordinamento ad attribuire la potesta' di istituirle,
proprio per la funzione, svolta da tale legge, di definire l'area di
prelievo spettante a ciascun livello di governo e di evitare cosi'
che ciascuno di essi sia disturbato dal modo in cui gli altri
esercitano le loro potesta'. Tutto cio' non e' pero' sufficiente a
rendere plausibili misure sospensive da parte della legge statale di
coordinamento, perche' delle due l'una: o la podesta' degli enti
autonomi, per il modo in cui era stata precedentemente definita dalla
legge statale, compromette la politica di prelievo dello Stato, nel
caso essa va ridefinita in termini generali e con effetto anche sulle
decisioni adottate da tali enti prima di una certa data; oppure tale
potesta' non compromette la politica di prelievo dello Stato, nel
caso non vi e' motivo di limitarne l'esercizio.
Per entrambi i profili, sia quello relativo all'I.R.A.P. che
quello concernente l'addizionale I.R.P.E.F., la norma appare, poi
incostituzionale perche' a sospensione del potere degli enti autonomi
di determinare le aliquote e' disposta sine die, «fino a quando non
si raggiunga un accordo ... sui meccanismi strutturali del
federalismo fiscale».
Insomma, il legislatore addiviene ad una simile decisione con
percorso a dir poco incongruo ed irrazionale: siccome la modifica del
titolo V della Costituzione ha ampliato le potesta' impositive di
regioni ed enti locali, e' necessario sospendere i poteri gia'
riconosciuti a tali enti, in attesa di definire il sistema
complessivo entro cui questa maggiore autonomia va esercitata, al
fine di avviare l'attuazione del federalismo fiscale la disposizione
a impugnata finisce per eliminare spazi di esercizio di autonomia
impositiva che le regioni avevano gia' in precedenza.
L'incongruenza e l'irrazionalita' di tale iter logico
argomentativo sono rese evidenti dal fatto che l'esigenza di una
preventiva definizione dei «meccanismi strutturali del federalismo
fiscale», se mai potesse giustificare la sospensione dei nuovi poteri
riconosciuti dalla modifica del titolo V della Costituzione, non
potrebbe certo legittimare la sospensione di quelli di cui gli enti
gia' dispongono sulla base delle previgenti norme costituzionali.
1.2.2. - Con riferimento all'art. 5 e alle disposizioni relative
ai vari tipi di condono introdotti, applicabili anche all'I.R.A.P.
(6, 7, 8, 9, 15 e 16), valgono i rilievi svolti al precedente punto l
nel senso che, essendo I.R.A.P. un tributo proprio della regione, la
legge statale non puo' dettare disposizioni di dettaglio per ridurne
il gettito, per disciplinare le modalita' di applicazione
dell'imposta e per determinare misure di condono fiscale in ordine ad
imposte che non sono proprie, ma deve limitarsi a dettare norme per
il coordinamento finanziario dei diversi livelli di governo e,
percio', solo a definire gli ambiti entro cui puo' essere esercitata
la potesta' impositiva dei soggetti cui la stessa e' direttamente
attribuita dall'art. 119 Cost.
1.2.3. - L'art. 13 della legge finanziaria 2003 autorizza le
regioni e gli enti locali ad introdurre e disciplinare misure di
condono fiscale relative ai loro tributi propri e, a questo fine, al
terzo comma stabilisce che «si intendono tributi propri ... i tributi
la cui titolarita' giuridica ed il cui gettito siano integralmente
attribuiti ai predetti enti, con esclusione delle compartecipazioni
ed addizionali a tributi erariali, nonche' delle mere attribuzioni ad
enti territoriali del gettito, totale o parziale, di tributi
erariali».
Tale disposizione contiene una definizione che esclude dalla
categoria dei tributi propri «le mere attribuzioni ad enti
territoriali del gettito totale ... di tributi erariali», volendo con
cio' affermare che un tributo e' erariale per il solo fatto che sia
disciplinato dallo Stato.
Ma questa definizione contrasta con la giurisprudenza
costituzionale che, come si e' visto, ha ritenuto, gia' in relazione
alla originaria formulazione dell'art. 119, che per delimitare
l'ambito dei tributi propri e' rilevante esclusivamente il profilo
della spettanza del relativo gettito e che debbono essere qualificati
in tal modo tutti i tributi il cui gettito spetti integralmente alle
regioni. Del resto, anche ad ignorare tutto cio', non sarebbe
comunque possibile qualificare l'I.R.A.P. come tributo erariale per
il solo fatto che la relativa disciplina e' stabilita integralmente
dalla legge dello Stato. infatti, a seguito della entrata in vigore
del nuovo art. 119 Cost., tale disciplina continua a regolamentare la
predetta imposta soltanto in via transitoria e, cioe', fino a quando
le regioni non esercitino la loro potesta' legislativa, per cui lo
Stato ha perso il potere di modificarla, cosi' come quello di
neutralizzarne gli effetti mediante la introduzione di misure di
condono e sono, semmai, le regioni a poter adottare misure del
genere.
Per tutti i suddetti motivi, pertanto, le impugnate disposizioni
sono illegittime per violazione degli artt. 117 118 e 119 Cost.
3. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 24 per violazione
dell'art. 117 Cost.
L'art. 24 dispone l'obbligo per le amministrazioni
aggiudicatrici, come individuate nell'art. 1 del d.lgs. n. 358/1992 e
nell'art. 2 del d.lgs. n. 157/1995, di ricorrere alle procedure
comunitarie per l'acquisizione di beni e servizi di importo superiore
a Euro 50.000, in relazione alle procedure «aperte o ristrette»
(senza alcun riferimento, quindi, alle procedure negoziate: in primis
la trattativa privata o gara informale, cui si fa ricorso anche per
l'effettuazione delle spese in economia), in sostanza essendosi
determinato l'abbassamento della soglia per l'applicazione della
normativa comunitaria, da 200.000 DSP (249,000 euro) a 50.000 euro.
Il secondo comma prevede, poi, l'esclusione dal suddetto obbligo:
per i comuni con popolazione inferiore a 5000 abitanti; per le
amministrazioni pubbliche che facciano ricorso alle convenzioni
quadro definite dalla CONSIP S.p.a., o al mercato elettronico della
P.A.; per le cooperative sociali. E' inoltre previsto che i contratti
stipulati in violazione del comma 1 siano nulli, con responsabilita'
personale del dipendente che ha sottoscritto il contratto; ed ancora,
che anche nelle ipotesi in cui la vigente normativa ammette la
trattativa privata e' fatto obbligo per le amministrazioni di
ricorrervi solo in casi eccezionali e motivati, previo esperimento di
una documentata indagine di mercato, con comunicazione alla sezione
regionale della Corte dei conti.
Il nono comma stabilisce, poi, che le disposizioni contenute nei
commi 1, 2 e 5 costituiscono per le regioni norme di principio e di
coordinamento.
Senonche', la disciplina delle acquisizioni di appalti, servizi e
forniture, per la parte che non concerne le acquisizioni di beni e
servizi da parte delle amministrazioni statali, e' da ascrivere alla
potesta' normativa generale, residuale ed esclusiva delle regioni, ai
sensi dell'art. 117, quarto comma, Cost., fermo restando ovviamente
il rispetto dei vincoli comunitari.
Con la norma in esame lo Stato ha individuato, invece, un sistema
per legiferare con effetti vincolanti in un campo non assegnato ne'
alla sua potesta' normativa esclusiva, ne' alla potesta' concorrente;
mentre la dichiarata riconduzione della materia degli appalti alla
tutela della concorrenza e della trasparenza del mercato non appare
affatto convincente, come si dira'.
Sotto tale profilo, l'art. 24 mira ad autolegittimarsi sul piano
costituzionale, allorche' esordisce con il richiamo a ragioni di
«trasparenza e di tutela della concorrenza». Ma e' evidente che, pur
qualificandosi come disposizione mirata a tutelare la concorrenza, la
norma in questione non ha, in realta', un chiaro contenuto relativo
alla predetta materia.
Infatti, tale norma agisce sulle procedure di gara, prevedendo
che si applichino le procedure comunitarie anche per le acquisizioni
di beni e servizi di valore superiore a 50.000 Euro, ma non introduce
alcuna nuova regola di tutela o di sviluppo della concorrenza;
obiettivo che, al contrario, viene addirittura contraddetto dalle
stesse disposizioni contenute nell'art. 24, che prevedono consistenti
eccezioni derogatorie alla regola di «tutela» affermata nel primo
comma.
La prima di queste eccezioni e' l'esenzione, dall'applicazione
del sistema comunitario richiamato al comma 1, nei confronti dei
comuni con popolazione inferiore a 5000 ab., il cui effetto e'
permettere a ben 7000 e piu' stazioni appaltanti di porre in essere
un regime differenziato, che non puo' non incidere sulla composizione
dello stesso mercato, determinando la differenziazione fra imprese
specializzate nel partecipare alle gare per enti locali di piccole
dimensioni e imprese in grado di concorrere in un mercato piu' ampio.
II che appare contrario all'obiettivo della concorrenza e della
tutela del mercato, che non e' certo quello di creare nicchie,
peraltro di economia debole, ma di favorire l'allargamento del
mercato.
La seconda e piu' problematica esenzione dalla applicazione
dell'art. 24 e' prevista nei confronti delle amministrazioni
pubbliche che facciano ricorso alle convenzioni con il CONSIP,
soggetto legittimato a fungere da stazione appaltante. Ma di certo il
sistema dell'acquisizione di beni e servizi con le convenzioni
CONSIP, in luogo delle gare, non facilita la concorrenza nel mercato,
visto che riduce sensibilmente la possibilita' di partecipazione a
gare pubbliche, da un lato, ed impone forzosamente un prezziario
(frutto di ribassi in gare pubbliche) che deve costituire base di
gara nei casi in cui le amministrazioni procedano al di fiori delle
convezioni medesime, dall'altro. Senza considerare, altresi', la
ancora limitata capacita' di tale organismo di corrispondere alle
variegate tipologie di beni e servizi necessari per l'attivita' di
una pluralita' di amministrazioni appaltanti (comuni, regione, ma
anche aziende sanitarie).
E' evidente che tale disposizione non tutela affatto la
concorrenza e non ha come fine l'estensione del mercato, ma
all'opposto, produce una forte limitazione, ovvero un consistente
orientamento del mercato medesimo. Non sussistono, quindi, i
presupposti legittimanti l'esercizio della potesta' legislativa
esclusiva dello Stato, ammantata delle dichiarate esigenze di tutela
della trasparenza e della concorrenza: le invocate esigenze di tutela
della concorrenza (che farebbero scattare la competenza esclusiva ai
sensi dell'art. 117, secondo comma, lett. e)) non paiono infatti
ricorrere ove si abbia riguardo alla accezione in cui e' intesa la
tutela della concorrenza, che attiene alla disciplina dei mercati in
senso proprio, a regole antitrust e a interventi volti a correggere
effetti distorsivi e di abuso di posizione dominante, condizioni che
non sono perseguite dalla norma in esame e che non legittimano,
pertanto, un intervento dello Stato penetrante e di dettaglio come
quello in esame. Non basta, infatti, l'autoqualificazione di una
norma per legittimarla come limite costituzionale (come dimostra la
costante giurisprudenza di codesta stessa Corte, che ha
sistematicamente negato ai legislatore statale il potere di definire,
con effetti per cosi' dire «vincolanti», cio' che e' «principio
fondamentale», «norma fondamentale di riforma economico-sociale»,
ecc.), dovendo la autoqualificazione della norma essere accertata
secondo criteri di ragionevolezza e proporzionalita'. Il che, nel
caso presente, pone il problema di se e in che termini possa tutelare
la concorrenza un'applicazione sottosoglia, rispetto al dato di
riferimento precedente, di procedure europee (ma con esclusione delle
procedure CONSIP e dei 7000 comuni minori) il cui costo in termini di
appesantimento amministrativo non pare giustificato dai risultati,
meramente ipotetici, che si potrebbero raggiungere per il solo fatto
di imporre, ma solo ad una parte delle amministrazioni pubbliche, una
forte limitazione del ricorso alla trattativa privata per
l'acquisizione di beni e servizi essenziali. Ne', d'altra parte, le
ragioni di trasparenza possono costituire, ai sensi dell'art. 117,
secondo comma, un titolo legittimante l'intervento della potesta'
esclusiva dello Stato, attraverso una disciplina cosi' analitica e
non graduabile secondo le circostanze, la qualita' delle
amministrazioni, la tipologia dei beni e dei servizi.
Ma un altro rilievo si impone.
La norma in esame, al nono comma, stabilisce che le disposizioni
contenute nei commi 1, 2 e 5, costituiscono norme di principio e di
coordinamento: il che desta disorientamento ancora maggiore. Emerge
qui un'insanabile contraddizione.
Da un lato, infatti, la norma si autolegittima come
regolamentazione di una materia appartenente alla potesta' normativa
esclusiva dello Stato, «la tutela della concorrenza»; dall'altro e
contemporaneamente, nel suo ultimo comma la medesima norma si
qualifica come «principio», sottintendendo una collocazione della
«materia» acquisizione di beni e di servizi nell'ambito della
competenza concorrente. Delle due l'una: o l'intervento normativo di
cui all'art. 24 e' fondato sulla materia della tutela della
concorrenza, e allora non esprime un principio, ma una
regolamentazione che trova fonte nella competenza esclusiva e che e'
immediatamente vincolante per le Regioni; ovvero, al contrario, si
tratta di un «principio», e allora e' necessario in primo luogo
dichiarare quale sia la competenza concorrente cui si riferisce
(poiche' non si puo' prescindere «dalla indagine sulla esistenza di
riserve, esclusive o parziali, di competenza statale», come ha
affermato codesta Corte nella sent. 282/2002) e, in secondo luogo,
verificare se il tenore della disposizione stessa abbia le
caratteristiche proprie di un «principio fondamentale». Sotto
quest'ultimo profilo, va osservato che non potrebbe essere
accreditata come «principio fondamentale» la norma che introduce
contestualmente deroghe vistose al principio stesso (escludendo, nel
caso, la maggior parte dei comuni dal suo rispetto, nonche' le
amministrazioni che ricorrano a procedure di acquisizione di assai
dubbia compatibilita' con l'affermata esigenza di espandere il
«mercato» e la concorrenza), cosi' come e' tradizionale affermare
della giurisprudenza di codesta Corte.
4. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 25.
L'art. 25 si occupa del pagamento e riscossine di somme di
modesto ammontare, e prevede, fra l'altro, che il Ministro
dell'economia detti, ai sensi dell'art. 17, comma 2, legge
n. 400/1988, «disposizioni relative alla disciplina del pagamento e
della riscossione di crediti di modesto ammontare e di qualsiasi
natura, anche tributaria», applicabili anche alle regioni.
In relazione ai crediti delle regioni, l'art. 25 non risulta
riconducibile ad alcuna delle competenze statali, ne' esclusive ne'
concorrenti. Se, guardando al fine della norma, che sembra quello di
razionalizzare le spese connesse al pagamento e alla riscossione di
somme modeste, si ritenesse che l'art. 25 sia norma di coordinamento
della finanza pubblica, esso sarebbe comunque lesivo delle competenze
in quanto l'unico principio fondamentale in materia potrebbe essere,
appunto, quello di limitare o eliminare le spese di cui sopra, mentre
la disciplina attuativa dovrebbe essere dettata dalle regioni.
Invece, l'art. 25 non si limita a tale principio fondamentale, come
risulta chiaramente dai commi 2, 3 e 4, recante norme di dettaglio.
Inoltre, ancora piu' evidente e' la lesivita' della previsione di
un regolamento ministeriale di delegificazione in materia regionale.
Poiche' l'art. 117, comma 6, attribuisce alle regioni la potersta'
regolamentare, salvo che nelle materie di potesta' statale esclusiva,
l'art. 25, comma 1, prevedendo un regolamento applicabile alle
regioni in materia non rientrante nell'art. 117, comma 2, lede la
sfera di competenza costituzionale regionale.
5. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 26, commi 1, secondo
periodo, 2 e 3.
L'art. 26 istituisce il fondo per il finanziamento di progetti di
innovazione tecnologica nelle pubbliche amministrazioni e nel Paese,
e prevede che con decreti ministeriali «di natura non regolamentare»
siano stabilite le modalita' di funzionamento del fondo ed
individuati «i progetti da finanziare e, ove necessario, la relativa
ripartizione tra le amministrazioni interessate» (comma 1). Al comma
2 si attribuiscono al Ministro per l'innovazione, al fine di
razionalizzare la spesa informatica nonche' «di indirizzare gli
investimenti nelle tecnologie informatiche», svariati poteri
paranormativi ed amministrativi (di direttiva, controllo,
coordinamento, valutazione, approvazione di piani e progetti ed
altri), con norme di dettaglio. Al comma 3 si prevede che, «nei casi
in cui i progetti di cui ai commi 1 e 2 riguardino l'organizzazione e
la dotazione tecnologica delle regioni e degli enti territoriali, i
provvedimenti sono adottati sentita la Conferenza unificata».
Tale disciplina; la' dove si applica alle Regioni, agli enti
pararegionali e agli enti locali, riguarda l'organizzazione regionale
e degli enti locali materie di competenza regionale piena, salvi gli
organi di governo degli enti locali), e la gestione ministeriale di
un fondo settoriale in una materia regionale risulta lesiva
dell'autonomia finanziaria regionale, dato che le Regioni dovrebbero,
in base ai principi di cui all'art. 119, poter gestire autonomamente
le risorse nelle materie di propria competenza. Risultano lese poi le
potesta' legislativa ed amministrativa, in quanto si conferiscono al
Ministro (con norme dettagliate) poteri sostanzialmente normativi ed
amministrativi in materia regionale. Ne' si puo' invocare il fatto
che l'art. 26, comma 1, parli di decreti «di natura non
regolamentare»: se per le fonti primarie i criteri di identificazione
sono prettamente formali, per le fonti secondarie, come noto, si
ricorre soprattutto a criteri sostanziali, e la legge non puo' mutare
la natura dell'atto attribuendogli una certa «etichetta», perche', se
un atto contiene precetti generali e astratti, innovativi
dell'ordinamento, esso non puo' che essere sovraordinato (e cioe'
normativo) agli atti amministrativi esecutivi. Del resto, sarebbe
troppo facile «aggirare» l'art. 117, comma 6, se la legge statale
potesse attribuire poteri sostanzialmente normativi al Governo solo
evitando il nomem, di regolamento. Dunque, il comma 1 prevede un
potere sostanzialmente regolamentare e, in violazione dell'art. 117,
commi 4 e 6.
Neppure le suddette lesioni vengono meno per il previsto parere
della Conferenza unificata di cui al comma 3, essendo il parere un
mero strumento di partecipazione e per di piu' assai debole.
A conclusioni diverse non si arriverebbe qualora l'art. 26 fosse
ricondotto alla materia del «sostegno all'innovazione per i settori
produttivi», che, a dire il vero, sembra fare riferimento alle
imprese e non alle pubbliche amministrazioni. Comunque, tale materia
e' di potesta' concorrente, per cui in essa «spetta alle Regioni la
potesta' legislativa, salvo che per la determinazione dei principi
fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato». Anche nelle
materie concorrenti sono preclusi regolamenti statali (vedi art. 117,
comma 6) e spetta alle Regioni allocare le funzioni amministrative:
infatti l'art. 118, comma 2, fa riferimento alle competenze
legislative e, come visto, l'art. 117, comma 3, attribuisce alle
Regioni la potesta' legislativa nelle materie concorrenti (salvi i
principi). Del resto, che nelle materie concorrenti le funzioni
amministrative debbano essere regolate dalle Regioni e' confermato
con chiarezza dall'art. 117, comma 6, dato che la potesta'
regolamentare si accompagna naturaliter alle funzioni amministrative.
Cio' non toglie, ovviamente, che lo Stato possa trattenere funzioni
amministrative fondate sui compiti ad esso spettanti ex art. 117,
comma 2, anche se interferenti con materie regionali: ma non e'
questo il caso. Dunque, se anche l'art. 26 riguardasse una materia di
potesta' concorrente, le lesioni sopra viste dell'autonomia
finanziaria, legislativa ed amministrativa non verrebbero meno.
In definitiva, l'art. 26, commi 1, 2 e 3, risulta illegittimo
nella parte in cui attribuisce al Ministro poteri normativi ed
amministrativi relativi alla gestione del fondo in questione anche in
relazione alle Regioni, agli enti pararegionali e agli enti locali,
anziche' prevedere la mera ripartizione del fondo tra le Regioni. In
subordine, esso risulta illegittimo nella parte in cui non prevede
che i poteri statali siano esercitati previa intesa con la Conferenza
unificata, dato che nelle materie regionali il principio di leale
collaborazione impone un coordinamento fra i soggetti interessati.
6. - Illegittimita' dell'art. 27.
L'art. 27 istituisce un «Fondo speciale, denominato "PC ai
giovani"», destinato a coprire le spese del relativo progetto
promosso dal Dipartimento per l'innovazione e le tecnologie e volto
ad incentivare l'acquisizione e l'utilizzo degli strumenti
informatici e digitali tra i giovani che compiono sedici anni nel
2003». La disposizione prevede che con decreto ministeriale «di
natura non regolamentare», adottato dal Ministro dell'economia, siano
«stabilite le modalita' di presentazione delle istanze degli
interessati, nonche' di erogazione degli incentivi stessi prevedendo
anche la possibilita' di avvalersi a, tal fine della collaborazione
di organismi esterni alla pubblica amministrazione».
Non e' facile collocare tale disciplina in una materia precisa,
ma di certo essa non rientra in nessuna delle materie di cui all'art.
117, commi 2 e 3, dato che il «sostegno all'innovazione» riguarda
specificamente i «settori produttivi» e «l'istruzione» potrebbe
essere invocata solo se il progetto venisse attuato in ambito
scolastico, mentre i destinatari sono i giovani in generale. La
disposizione in questione, dunque, ricade nella competenza piena
delle Regioni. Ora, per le ragioni gia' esposte nel punto precedente,
la gestione ministeriale di un fondo settoriale in una materia
regionale risulta lesiva dell'autonomia finanziaria regionale.
Risultano lese poi le potesta' legislativa ed amministrativa, in
quanto si conferiscono al Ministro (con norme dettagliate) poteri
sostanzialmente normativi (vedi sempre il motivo n. 5) ed al
Dipartimento per l'innovazione poteri amministrativi in materia
regionale. A conclusioni diverse non si arriverebbe qualora l'art. 27
fosse ricondotto ad una materia di potesta' concorrente.
In definitiva l'art. 27 risulta illegittimo nella parte in cui
attribuisce al Ministro e al Dipartimento per l'innovazione poteri
normativi ed amministrativi relativi alla gestione del fondo in
questione, anziche' prevedere la mera ripartizione del fondo tra le
Regioni. In subordine, esso risulta illegittimo nella parte in cui
non prevede che i poteri statali ivi previsti siano esercitati previa
intesa con la Conferenza Stato-Regioni, dato che nelle materie
regionali il principio di leale collaborazione impone un
Coordinamento fra i soggetti interessati.
7. - Illegittimita' dell'art. 28, commi 5 e 6.
L'art. 28, comma 3, della legge qui impugnata stabilisce che
«tutti gli incassi e i pagamenti e i dati di competenza economica
rilevati dalle amministrazioni pubbliche ... devono essere codificati
con criteri uniformi su tutto il territorio nazionale», al fine di
garantire la rispondenza dei conti pubblici all'art. 104 Trattato CE.
Il comma 5 dispone che «il Ministro dell'economia e delle finanze,
sentita la Conferenza unificata ..., stabilisce ... la codificazione,
le modalita' e i tempi per l'attuazione delle disposizioni di cui ai
commi 3 e 4».
Queste disposizioni possono ascriversi alla competenza statale in
materia di «coordinamento informativo», ma risulta in contrasto con
il principio di leale collaborazione la previsione di un mero parere
anziche' di un'intesa con la Conferenza unificata. Infatti,
trattandosi di definire le modalita' di rilevazione dei dati
economici da parte di tutte le amministrazioni pubbliche, pare
necessario che tali modalita' siano concordate da tutti gli enti
territoriali. Infatti, le competenze statali devono esercitate in
modo da tener conto delle competenze regionali interferenti: ora,
poiche' la codificazione di cui sopra incide in modo rilevante
sull'organizzazione regionale e degli enti locali, e'
costituzionalmente necessario che essa sia definita d'intesa con la
Conferenza unificata, in virtu' del principio di leale
collaborazione.
Il comma 6 dell'art. 28 sostituisce il comma 6 dell'art. 227 del
d.lgs. n. 267/2000, stabilendo che gli enti locali inviano
telematicamente il rendiconto della gestione alla Sezione enti locali
della Corte dei conti e che «tempi, modalita' e protocollo di
comunicazione per la trasmissione telematica dei dati sono stabiliti
con decreto di natura non regolamentare del Ministro dell'economia e
delle finanze, sentita la Conferenza Stato, citta' e autonomie locali
e la Corte dei conti».
Ammesso che anche tale disposizione possa ricondursi alla
competenza statale in materia di «coordinamento informativo», e non
riguardi invece solo l'organizzazione degli enti locali (avendo ad
oggetto le modalita' della trasmissione telematica del rendiconto),
e' comunque certo che essa incide su tale organizzazione. Ora,
poiche' l'organizzazione degli enti locali rientra nella potesta'
regionale piena (salvi gli organi di governo) e nell'autonomia
regolamentare degli stessi enti locali, non e' sufficiente che il
decreto sostanzialmente regolamentare previsto dal comma 6 sia
emanato con il solo parere della Conferenza Stato-citta', ma e'
costituzionalmeute necessario, in virtu' del principio di leale
collaborazione, che esso sia emanato previa intesa con la Conferenza
unificata.
8. - Illeggittimita' costituzionale dell'art. 30, commi 1, 2, 5 e
15, per violazione degli articoli 117 e 119 Cost.
L'art. 30, al primo comma, stabilisce che, al fine di avviare
l'attuazione dell'art. 119 Cost. e in attesa di definire le modalita'
per il passaggio al sistema di finanziamento attraverso la
fiscalita', entro sei mesi dall'entrata in vigore della legge, il
Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con il Ministro
per gli affari regionali e con il Ministro per le riforme
istituzionali e la devoluzione e con le Amministrazioni statali
interessate, di intesa con la Conferenza unificata, procede alla
ricognizione di tutti i trasferimenti erariali di parte corrente non
localizzati, attualmente attribuiti alle Regioni, per farli confluire
in un fondo unico da istituire presso il Ministero dell'economia e
delle finanze e da ripartire secondo criteri fissati d'intesa con la
Conferenza unificata.
Tale disposizione, pur giustificata dalla finalita' di avviare
l'attuazione dell'art. 119, si pone in realta' in contrasto con il
sistema di finanziamento delineato dalla suddetta norma
costituzionale e con le competenze legislative regionali in tema di
finanza e sistema tributario regionale, derivanti dall'art. 117. Come
gia' si e' evidenziato in relazione al primo motivo del ricorso con
riguardo alle disposizioni di cui all'art. 3, in base alla nuova
formulazione dell'art. 119 la Regione consegue l'autonomia
finanziaria di entrata e di spesa direttamente dalla norma
costituzionale, con la conseguenza che in subiecta materia la Regione
non e' piu' dipendente e limitata dalla legislazione statale, dovendo
rispettare soltanto i principi di coordinamento della finanza
pubblica, atteso che, inoltre, l'art. 117 include nelle materie a
legislazione concorrente l'armonizzazione dei bilanci pubblici e il
coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario.
Ora, la disposizione impugnata non esprime affatto un principio
di coordinamento, ma si limita a rinviare l'attuazione dell'art. 119
(e, in forza delle disposizioni introdotte con l'art. 3, a sospendere
gli aumenti delle addizionali lrpef e di maggiorazione dell'aliquota
dell'Irap, successive al 29 settembre 2002, fino alla definizione di
un futuro accordo in sede di Conferenza unificata), finendo con
l'eliminare, in tal modo, gli spazi di esercizio dell'autonomia
impositiva delle Regioni ed impedendo, di fatto, ogni possibilita' di
assumere, da parte di tali Enti qualsiasi decisione di spesa.
Il che si traduce nel mancato rispetto delle competenze regionali
in materia.
Ma anche il secondo comma dell'art. 30 presenta un evidente
profilo di incostituzionalita', in quanto, nel regolamentare il fondo
di cofinanziamento dell'offerta turistica e i criteri di riparto, la
disposizione statale incide in una materia di competenza esclusiva
regionale, senza che sia ravvisabile alcun principio giustificativo.
Il quinto comma dello stesso art. 30 risulta illegittimo perche',
di fronte alla delicata decisione circa la ripartizione tra le
Regioni dell'importo con cui si deve far fronte alla perdita di
gettito conseguente alla riduzione dell'accisa sulla benzina, prevede
che la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato e le
Regioni, sia coinvolta solo a livello consultivo anziche' con intesa.
Infine, il comma 15 dell'art. 30 risulta gravemente lesivo delle
attribuzioni regionali in quanto prevede, come conseguenza della
«violazione» del divieto di ricorrere all'indebitamento per
finanziare spese diverse sia quelle di investimento, la sanzione
della radicale nullita' degli atti e dei contratti, nonche' la
condanna ad una sanzione pecuniaria di importo particolarmente
elevato da irrogarsi da parte della Corte dei conti. La lesione delle
attribuzioni regionali deriva dal fatto che la disciplina dettata non
rientra nell'ordinamento processuale, ma attiene ad un profilo
sanzionatorio che necessariamente inerisce, come costantemente
ripetuto dalla giurisprudenza di codesta Corte, alla competenza
sostanziale: per cui la disciplina dell'ordinamento e
dell'organizzazione amministrativa, comprensiva degli aspetti di
responsabilita' amministrativa e contabile, puo' essere dettata dalio
Stato solo per cio' che riguarda l'amministrazione statale e degli
enti pubblici nazionali (art. 117, comma 2, lett. g), e non certo
anche per l'amministrazione regionale.
9. - Illegittimita' dell'art. 31, comma 10.
In base all'art. 31, comma 10, «a decorrere dal 1° gennaio 2003,
le basi di calcolo dei sovracanoni» di cui all'art. 27, comma 10,
legge n. 448/01 «sono fissate rispettivamente in 18 euro e 4,50
euro». Tale disposizione si occupa dei sovracanoni dovuti dai
concessionari di derivazione d'acqua per produzione di energia
idroelettrica. Si tratta di una norma di estremo dettaglio in materia
rientrante nell'art. 117, comma 4, o, al massimo, nell'art. 117,
comma 3 (produzione dell'energia): di piu' la sua chiara
illegittimita'. Si tenga presente, ad abundiantiam, che, gia' ai
sensi dell'art. 86, comma 1, d.lgs. n. 112/1998, «alla gestione dei
beni del demanio idrico provvedono le regioni e gli enti locali
competenti per territorio».
10. - Illegittimita' dell'art. 33, comma 4, secondo periodo.
L'art. 33, comma 4, secondo periodo, prevede che «i comitati di
settore, in sede di deliberazione degli atti di indirizzo previsti
dall'articolo 47, comma 1», del d.lgs. n. 165/01, «si attengono i
criteri previsti per il personale delle amministrazioni di cui al
comma 1 del presente articolo [cioe', per il personale statale] e
provvedono alla quantificazione delle risorse necessarie per
l'attribuzione dei medesimi benefici economici individuando le quote
da destinare all'incentivazione della produttivita».
In relazione al comparto Regioni - Autonomie locali, il comitato
di settore (che ha il compito di esercitare «il potere di indirizzo
nei confronti dell'ARAN e le altre competenze relative alle procedure
di contrattazione collettiva nazionale» (art. 41, comma 1, d.lgs.
n. 165/2001) e' costituito «nell'ambito della Conferenza dei
presidenti delle regioni, per le amministrazioni regionali e per le
amministrazioni del Servizio sanitario nazionale, e dell'Associazione
nazionale dei comuni d'Italia - ANCI e dell'unione delle province
d'Italia - UPI e dell'Unioncamere, per gli enti locali
rispettivamente rappresentati» (art. 41, comma 3, lett. a). In base
all'art. 47, comma 1, «gli indirizzi per la contrattazione collettiva
nazionale sono deliberati dai comitati di settore prima di ogni
rinnovo contrattuale e negli altri casi in cui e' richiesta una
attivita' negoziale dell'ARAN»; si prevede poi che «gli atti di
indirizzo delle amministrazioni diverse dallo Stato sono sottoposti
al Governo che, non oltre dieci giorni, puo' esprimere le sue
valutazioni per quanto attiene agli aspetti riguardanti la
compatibilita' con le linee di politica economica e finanziaria
nazionale».
Dunque, in base al t.u. pubblico impiego, precedente la legge
costituzionale n. 3 del 2001, il potere di indirizzo nei confronti
dell'ARAN, per la contrattazione relativa al personale regionale e
degli enti locali, spetta in sostanza alle Regioni ed agli enti
locali, senza interferenze da parte statale (salva la valutazione
governativa sulla compatibilita' finanziaria). La materia rientra ora
nella potesta' regionale piena, per tutto cio' che va oltre i livelli
essenziali dei diritti dei lavoratori: eppure la norma qui impugnata
assoggetta gli atti di indirizzo del comitato di settore «regionale»
ai «criteri» previsti per il personale statale: pare di capire, ai
criteri relativi all'entita' degli oneri derivanti dai rinnovi
contrattuali, cioe', in pratica, all'entita' degli aumenti previsti
per il personale statale. Inoltre, il comitato di settore regionale
e' vincolato ad attribuire i «medesimi benefici economici», potendo
solo individuare «le quote da destinare all'incentivazione della
produttivita».
Pare, dunque, evidente la lesione della potesta' legislativa
regionale in materia di personale regionale e degli enti locali,
dell'autonomia finanziaria regionale nonche' dell'autonomia
amministrativa, in relazione ai vincoli posti all'attivita' del
comitato di settore regionale.
Ne' pare possibile invocare, a sostegno della norma impugnata, la
competenza statale in materia di «coordinamento della finanza
pubblica». Lo stesso art. 33, comma 4, precisa che gli oneri
derivanti dai rinnovi contrattuali relativi al personale regionale
ricadono sulle stesse Regioni, «nell'ambito delle disponibilita' dei
rispettivi bilanci»: dunque, destinare maggiori o minori alla spesa
del personale o ad altri scopi e' questione di «politica regionale»;
che non incide sulle finanze statali. La competenza in materia di
coordinamento della finanza non puo' legittimare lo Stato a dettare
qualsiasi norma animata dal fine di porre un freno alla spesa
pubblica, a pena di voler vanificare l'autonomia legislativa e
finanziaria che la Costituzione attribuisce alle Regioni.
11. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 34, commi primo,
secondo, terzo, quarto, undicesimo, per violazione dell'art. 117
Cost.
La norma si apre imponendo alle Amministrazioni di cui agli
articoli 1, comma 2, e 70, comma 4 del d.lgs. n. 165/2001 (e, quindi,
anche alle Regioni) la rideterminazione delle dotazioni organiche,
tenendo conto del processo di riforma delle amministrazioni in atto a
dei processi di trasferimento delle funzioni alle Regioni e agli enti
locali, il secondo comma stabilisce, poi, il principio
dell'invarianza della spesa, prevedendo che le dotazioni organiche
rideterminate non possono superare il numero dei posti di organico
complessivi vigenti alla data del 29 settembre 2002; il terzo comma
aggiunge che sino alla rideterminazione di cui al primo comma, le
datazioni organiche sono provvisoriamente individuate in misura pari
ai posti coperti al 31 dicembre 2002. Segue il divieto di procedere
ad assunzioni di personale a tempo indeterminato (quarto comma),
mentre l'undicesimo comma rinvia a futuri d.P.C.m., previo accordo
fra Governo, Regioni ed Enti locali in sede di Conferenza Unificata,
la fissazione anche per le Regioni di criteri e limiti per le
assunzioni a tempo indeterminato per l'anno 2003, le quali debbono
comunque essere contenute entro percentuali non superiori al 50%
delle cessazioni dal servizio verificatesi nel corso del 2002.
Trattasi di disposizioni chiaramente di carattere ordinamentale
ed organizzatorio, come tali estranee al contenuto tipico della legge
finanziaria (cfr. l'art. 11 della legge n. 468/1978, come modificato
dalla legge n. 208/1999, che disciplina i contenuti ammissibili della
legge finanziaria) che non possono certo costituire per lo Stato una
legittima via di sostituzione del necessario «titolo di competenza
della sua legislazione» (S. Bartole, «Dopo il Referendum di ottobre»,
in Le Regioni 2001, 5, 798). Si deve sottolineare, infatti, che una
competenza normativa generale in materia di organizzazione delle
Amministrazioni pubbliche non sussiste piu' in capo allo Stato a
seguito della riforma del Titolo V. E' peraltro pacifico che
l'art. 117, secondo comma Cost. riserva alla potesta' esclusiva
statale unicamente la materia della organizzazione o dell'ordinamento
amministrativo dello Stato e degli enti pubblici nazionali ed e'
quindi ad esso consentito di dettare norme vincolanti unicamente per
le amministrazioni ed enti statali. Conseguentemente e' riservata
alla potesta' legislativa residuale delle Regioni, ai sensi
dell'art. 117, quarto comma, l'organizzazione amministrativa e
l'ordinamento del personale regionale, sicche' in tale materia la
competenza regionale e' esclusiva ed esercitabile nel rispetto della
Costituzione e dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e
dagli obblighi internazionali.
Peraltro, l'ampia autonomia regionale in materia di ordinamento
degli uffici e dello stato giuridico del proprio personale e' stata
riconosciuta dalla stessa Corte cost. anche nella sussistenza del
regime previgente (sent. nn. 10/1980, 277/1983, 278/1983, 772/1988,
ordinanza n. 515/2002) e a maggior ragione tale potesta' deve essere,
dunque, affermata oggi.
Ne consegne la palese illegittimita' costituzionale dei vincoli e
dei limiti in ordine alla assunzione e reclutamento del personale
introdotti dalla disposizione in esame (commi secondo, terzo, quarto.
undicesimo), che esulano completamente dal necessario idoneo titolo
di competenza legislativa statale e la cui illegittimita' non appare
mitigata neppure dalla prevista emanazione dei futuri decreti di
recepimento di accordi, stabiliti in sede di conferenza unificata,
atteso che essi non valgono a sostituire e a compensare una potesta'
legislativa costituzionalmente attribuita alle Regioni.
Oltre a cio' tali vincoli appaiono anche privi di ragionevolezza,
posto che dal punto di vista delle regioni, chiamate a svolgere
ulteriori funzioni ed a gestire tutte quelle trasferite, non appare
logico vincolare la dotazione organica a quella in essere al 31
dicembre 2002, cosi' come non sembra ragionevole in un'ottica di
necessario completamento del processo di decentramento che sia
autoritativamente ed unilateralmente sancito il blocco delle
assunzioni, in attesa dei previsti decreti. Cio' anche in
considerazione della circostanza che la Regione-Emilia Romagna e'
gia' autonomamente intervenuta sul piano del contenimento della spesa
per il personale, avendo approvato un progetto di legge (pubblicato
sul BURER del 24 dicembre 2002, suppl. sp. n. 219) finalizzato a
misure di razionalizzazione della spesa inerente al personale e alla
salvaguardia delle politiche di copertura dei posti vacanti in
riferimento alle risorse professionali necessarie per il
raggiungimento delle finalita' dell'Ente.
Ne consegue un'evidente lesione di prerogative ed esigenze
costituzionalmente riservate alla competenza regionale e non
giustificabili neppure sul piano della riserva statale connessa al
«sistema tributario e contabile dello Stato» (art. 117, secondo
comma, lett. e) o alla «armonizzazione dei bilanci pubblici e
coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario»
(art. 117, terzo comma), se e' vero che le disposizioni dinanzi
citate non rappresentano «norme tesa a realizzare effetti finanziari
con decorrenza dal primo anno considerato nel bilancio pluriennale»
come dispone la legge che disciplina i contenuti dello strumento
finanziario dello Stato, ma si risolvono piuttosto in misure
tipicamente organizzatorie, impropriamente assurte a livello di
disposizioni di contenimento della spesa, senza alcun rispetto delle
regole costituzionalmente fissate in relazione ai rispettivi ambiti
di autonomia e competenza.
12. - lllegittimita' costituzionale dell'art. 35.
L'art. 35 dispone «Misure di razionalizzazione in materia di
organizzazione scolastica».
Esso e' costituzionalmente illegittimo nel suo complesso, in
quanto completamente ignora la disposizione costituzionale secondo la
quale la materia istruzione e' disciplinata dalla legge regionale, in
conformita' ai principi fondamentali dettati dalla legge statale.
Compito del legislatore ordinario statale, dunque, e' dettare i
principi in base ai quali il sistema possa operare, regionalizzato,
sulla base della disciplina delle singole regioni.
Specifica illegittimita' costituzionale colpisce in ogni modo il
comma 2, secondo il quale «con decreto del Ministro dell'istruzione,
dell'universita' e della ricerca, di concerto con il Ministro
dell'economia e delle finanze, sono fissati i criteri e i parametri
per la definizione delle dotazioni organiche dei collaboratori
scolastici in modo da conseguire nel triennio 2003-2005 una riduzione
complessiva del 6 per cento della consistenza numerica della
dotazione organica determinata per 1 anno scolastico 2002-2003»,
precisandosi poi che, «per ciascuno degli anni considerati, detta
riduzione non deve essere inferiore al 2 per cento».
Tale disposizione e' in primo luogo incostituzionale in quanto
determina una riduzione dell'organico dei collaboratori scolastici a
prescindere da qualunque criterio di correlazione con la necessita'
della formazione scolastica, in relazione ai numero degli studenti:
il quale, secondo rilevazioni che la Regione si riserva di
documentare, e' aumentato nel corso dell'ultimo anno di alcune
migliaia. Di qui la necessita', al contrario di quanto disposto, di
un aumento dell'organico. Ma cio' che qui si vuole dire e' che le
decisioni in tale materia non possono essere assunte in astratto e
quali pure misure di risparmio, senza un collegamento con le
necessita' razionalmente accertate. In definitiva, la «riduzione del
personale» non puo' essere in quanto tale un principio della
legislazione scolastica.
Inoltre, lo stesso comma 2 dispone che a tale riduzione si
pervenga secondo i criteri e i parametri fissati con decreto del
Ministro dell'istruzione, dell'universita' e della ricerca, di
concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze: sembra
evidente che, anche supposta la legittimita' costituzionale di tale
misura di riduzione, e' del tutto illegittimo che alla attuazione e
alla fissazione di criteri e parametri provveda il Ministro
dell'istruzione, senza neppure una concertazione con le Regioni.
Allo stesso risultato di riduzione del servizio scolastico
pervengono anche le disposizioni del comma 1, relative alle modalita'
di riconduzione dell'orario degli insegnanti a quello obbligatorio.
Anche tale disposizione soffre dunque della stessa complessiva
irrazionalita'. Essa inoltre non lascia alcuno spazio alla potesta'
concorrente della Regione nel determinare il livello del servizio
scolastico, ne' all'autonomia stessa delle istituzioni scolastiche.
L'intero articolo ed in particolare le disposizioni di cui al
comma 1 e al comma 2 sono dunque illegittimi per violazione dell'art.
117, comma 3, e degli articoli 3 e 97 Cost.
13. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 46, commi 2, 3, 4,
5, e 6, relativi al fondo nazionale per le politiche sociali ed al
finaziamento della federazione maestri del lavoro.
L'art. 46 disciplina la gestione del Fondo nazionale per le
politiche sociali.
Puo' dirsi sostanzialmente pacifico che, dopo la legge
costituzionale n. 3 del 2001, la materia attiene alla competenza
legislativa residuale delle Regioni, tranne che per quanto riguarda i
livelli essenziali delle prestazioni. Non puo' dunque spettare allo
Stato altro compito che quello di ripartire il fondo tra le Regioni,
competenti ad assicurarne l'utilizzo secondo le disposizioni
legislative vigenti, sia statali che regionali, e secondo le
ulteriori disposizioni che esse emaneranno. Tocca pertanto alle
Regioni, e non al «Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di
concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze» (secondo
quanto dispone il comma 2 dell'art. 46) di assicurare l'integrale
finanziamento degli interventi che costituiscono diritti soggettivi
mentre risulta privo di base costituzionale l'ulteriore vincolo, dato
al 10 per cento di tali risorse, della destinazione - tra i diversi
obbiettivi di politica sociale possibili - al «sostegno delle
politiche in favore delle famiglie di nuova costituzione, in
particolare per l'acquisto della prima casa di abitazione e per il
sostegno alla natalita». Si tratta infatti di concrete scelte di
politica sociale, la cui priorita' puo' variare nelle diverse
Regioni, secondo criteri di decisione ormai regionali.
Si noti che l'invasivita' della disposizione non viene meno per
il fatto che la ripartizione del fondo tra i diversi usi avverrebbe
«d'intesa con la Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del
decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281». Da un lato, infatti,
secondo la regola generale il Governo ha il potere di provvedere
unilateralmente qualora l'intesa non sia raggiunta, sia pure con
onere di motivazione; d'altro lato - e piu' in profondita' - secondo
l'attuale assetto costituzionale le scelte di politica sociale di cui
e' oggetto spettano a ciascuna singola Regione, e non devono essere
assunte attraverso un meccanismo centralizzato, sia pure comprendente
la partecipazione delle Regioni.
Il comma 3 della disposizione riguarda i livelli essenziali delle
prestazioni, per la quale e' prevista la fissazione «con decreto del
Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro del
lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro
dell'economia e delle finanze, d'intesa con la Conferenza unificata».
La Regione Emilia-Romagna non contesta tale meccanismo, che ritiene
di per se' conforme alla competenza legislativa dello Stato su tale
profilo, in coordinamento con la competenza regionale residuale per i
rimanenti aspetti della materia.
La contestazione riguarda invece la parte in cui si prevede che
la determinazione di tali livelli avvenga «nei limiti delle risorse
ripartibili del fondo nazionale per le politiche sociali, tenendo
conto delle risorse ordinarie destinate alla spesa sociale dalle
regioni e dagli enti locali e nel rispetto delle compatibilita'
finanziarie definite per l'intera sistema di finanza pubblica dal
documento di programmazione economico-finanziaria»: non perche' si
ritenga che possa non tenersi conto dei vincoli derivanti dal
carattere limitato delle risorse, ma perche' tale carattere limitato
sembra venire assunto - come paiono confermare, per quanto noto le
prime stime di previsione sulla consistenza del Fondo per l'anno
2003, che risulterebbe dimezzato rispetto al precedente anno - come
un indiscutibile dato di partenza, senza alcun rapporto con il previo
accertamento delle esigenze del settore.
In altri termini, e' la stessa misura complessiva del fondo che
dovrebbe in primo luogo essere oggetto di una determinazione
concordata tra Stato e Regioni, al fine di assicurarne una dimensione
che permetta un livello delle prestazioni adeguato, anche se non
ottimale.
In questo quadro di ristrettezza risalta a maggiore ragione
l'arbitrarieta' e la lesivita' della sottrazione al fondo - e dunque
al riparto in vista del sistema generale delle prestazioni - di quote
di risorse comunque destinate alla attivita' assistenziale, quale
operata dal comma 6 della disposizione qui impugnata: ai sensi del
quale, «per far fronte alle spese derivanti dalle attivita'
statutarie della federazione dei maestri del lavoro d'Italia,
consistenti nell'assistenza ai giovani al fine di facilitarne
l'inserimento nel mondo del lavoro e nella collaborazione
volontaristica con gli enti proposti alla difesa civile, alla
protezione delle opere d'arte, all'azione ecologica, all'assistenza
ai portatori di handicap ed agli anziani non autosufficienti, e'
conferito alla federazione medesima, per il triennio 2003-2005, un
contributo annuo di 260.000 euro».
Si tratta di una destinazione legislativa arbitraria ed
irrazionale, compiuta al di fuori di una competenza statale
all'intervento. L'illegittimita' di tale decisione di spesa non viene
meno per il fatto che all'onere elativo si provveda «a carico del
fondo per l'occupazione di cui all'art. 1, comma 7, del decreto-legge
20 marzo 1993, n. 148, convertito, con modificazioni, dalla legge 19
luglio 1993, n. 236». Infatti, da un lato anche la tutela del lavoro
e' ugualmente materia assegnata alle regioni dall'art. 117, comma 3,
nei limiti dei principi della legislazione statale (mentre non si
puo' ovviamente definire principio una singola largizione),
dall'altro cio' che conta e' che, se il legislatore intende destinare
i fondi ai fini assistenziali, come sono quelli in questione, la
relativa gestione non puo' che seguire le regole proprie del settore.
Illegittimo costituzionalmente risulta infine il comma 5, secondo
cui, «in caso di mancato utilizzo delle risorse da parte degli enti
destinatari entro il 30 giugno dell'anno successivo a quello in cui
sono state assegnate, il Ministro del lavoro e delle politiche
sociali provvede alla revoca dei finanziamenti, i quali sono versati
all'entrata del bilancio dello Stato per la successiva assegnazione
al Fondo di cui al comma 1».
Infatti, il vincolo di destinazione puo' essere accettato in
quanto inevitabile, nel presente stato di inattuazione dell'art. 119:
ma esso non comporta e non richiede che si fissi un gravoso termine,
in grado di frustrare la programmazione e la gestione di fondi da
parte della singola regione. Il termine decadenziale della
disponibilita' dei fondi rappresenta dunque una violazione
dell'autonomia finanziaria, non necessaria nel meccanismo del fondo.
14. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 47.
L'art. 47, comma 1, attribuisce al Ministro del lavoro e delle
politiche sociali, di concerto con il Ministro dell'economia, il
potere di determinare «i criteri e le modalita' per la destinazione
dell'importo aggiuntivo di 1 milione di euro, per il finanziamento
degli interventi di cui all'art. 80, comma 4», della legge
n. 448/1998. Questa disposizione stabilisce che, «nell'ambito del
fondo per l'occupazione di cui all'art. 1, comma 7, del d.l. 20
maggio 1993, n. 148, convertito, con modificazioni, dalla legge 19
luglio 1993, n. 236, la somma di lire 18 miliardi e' destinata al
finanziamento degli interventi di cui alla legge 14 febbraio 1987,
n. 40, in materia di formazione professionale». La legge n. 40/1987
prevede contributi statali «per la copertura delle spese generali di
amministazione degli enti privati gestori di attivita' formative».
Al comma 2, l'art. 47 modifica l'art. 118, comma 16, legge
n. 388/2000, prevedendo che il Ministero del lavoro e della
precedenza sociale, con proprio decreto, destini 100 milioni di euro,
per il 2003, «per le attivita' di formazione nell'esercizio
dell'apprendistato anche se svolte oltre il compimento del
diciottesimo anno di eta', secondo le modalita' di cui all'art. 16
della legge 24 giugno 1997, n. 196».
Dunque, l'art. 47 prevede finanziamenti in materia di formazione
professionale (spettante alla competenza piena delle regioni) e
attribuisce al Ministro il potere di definire i criteri di
destinazione. Anche questa disposizione, dunque, viola la potesta'
finanziaria, legislativa e amministrativa regionale, perche' lo Stato
non puo', attribuendo fra l'altro poteri sostanzialmente
regolamentari ad un ministro (al comma 1), trattenere a se la
disciplina e la gestione di un finanziamento che ricade in materia
regionale. L'art. 47 e', pertanto, illegittimo nella parte in cui
prevede che la disciplina e la gestione dei finanziamenti relativi
alla formazione professionale siano mantenuti allo Stato anziche'
essere attribuiti alle regioni. In subordine, esso risulta
illegittimo nella parte in cui non prevede che i poteri statali ivi
previsti siano esercitati previa intesa con la Conferenza
Stati-Regioni, dato che nelle materie regionali il principio di leale
collaborazione impone un coordinamento fra i soggetti interessati.
15. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 48, relativo ai
fondi interprofessionali per la formazione continua.
L'art. 48 desciplina fondi destinati dalla parti sociali alla
formazione continua. Come ricordato al punto precedente, la materia
della formazione professionale e' affidata alla potesta' residuale
delle regioni per l'espressa disposizione dell'art. 117, comma 3, che
esplicitamente la eccettua dalla materia concorrente istruzione.
Ne risulta che il sistema della formazione professionale non puo'
avere un livello nazionale di organizzazione e gestione. Dunque e'
illegittima la previsione che tali fondi siano costituiti al livello
nazionale, come disposto dall'art. 48, comma 1, attraverso i nuovi
commi 1 e 6 dell'art. 118 della legge n. 388 del 2000 (essendo
previsto soltanto che i fondi, (previo accordo tra le parti, si
possono articolare regionalmente o territorialmente»). Tali fondi
devono potere invece essere per coerenza con il sistema generale a
livello regionale.
Inoltre, una volta che tali soggetti privati di gestione dei
fondi siano stati costituiti, ogni potere amministrativo in relazione
a tali fondi non puo' che spettare alla disciplina regionale, che
provvedera' ad assegnare alla stessa regione o ad altri enti, in
attuazione delle regole dell'art. 118 Cost., la relativa titolarita'.
Cosi' non puo' che spettare alla regione la disciplina della
attivazione, ed ove occorra la relativa autorizzazione. Ugualmente
devono competere alla regioni la disciplina e l'esercizio della
vigilanza e del monitoraggio sulla gestione dei fondi, come pure le
relative funzioni sanzionatorie (sospensione dell'operativita' o il
commissariamento).
Ugualmente spetta alle regioni la nomina di membri o del
presidente del collegio sindacale. Risultano percio' tutte
illegittime le diverse previsioni del comma 2 dell'art. 118 della
legge n. 388 del 2000, quali introdotte dall'art. 48 della legge qui
impugnata.
16. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 52, commi 4, 19 e
21.
L'art. 52 e' dedicato alla razionalizzazione della spesa
sanitaria.
Occorre ricordare che in base all'art. 54 i livelli essenziali
delle prestazioni sono rimasti immutati. Le risorse regionali,
invece, si sono ridotte in misura rilevante, proprio per le misure
contenute nella presente legge, e in parte sopra impugnate: le quali
hanno da un lato - come sopra esposto - determinato diminuzioni nette
del gettito, dell'altro paralizzato - pur se, come si ritiene,
illegittimamente - la capacita' regionale di incrementare con proprie
decisioni le proprie entrate fiscali.
Ne risulta uno squilibrio strutturale tra risorse e obbligazioni
di spesa - per assicurare le prestazioni stabilite con atto dello
Stato - la cui sola esistenza e' in contrasto con i principi di
autonomia finanziaria, ed in particolare con l'art. 119, quarto
comma, che prescrive che le entrate proprie e le compartecipazioni
debbono consentire alle regioni «di finanziare integralmente le
funzioni pubbliche loro attribuite».
Di tale squilibrio strutturale - come detto gia' di per se'
costituzionalmente inammissibile - sembra prendere atto il comma 4
dell'art. 52, il quale prevede, anche richiamando precedenti leggi,
un futuro «adeguamento del finanziamento del Servizio sanitario per
gli anni 2003, 2004 e 2005», al quale le regioni potranno accedere.
Si sottolinea qui che anche questo meccanismo di «finanziamento
futuro» si colloca al di fuori dell'art. 119 Cost.
Ma l'illegittimita' della disposizione impugnata non si ferma
alla logica generale della manovra, con la relativa sottrazione di
risorse, che costringe le regioni ad operare in condizioni di
insufficienza strutturale, salvo futuro adeguamento del
finanziamento, ma si estende, ed assume una connotazione specifica,
in relazione alle particolare condizioni cui tale adeguamento e'
subordinato. Si vuol dire cioe' che il principio della sufficienza
delle risorse in relazione alle funzioni non puo' essere subordinato
a condizioni e «adempimenti»: se le risorse sono oggettivamente
carenti in relazione alle funzioni obbligatorie, l'adeguamento del
finanziamento e' costituzionalmente dovuto, pur non potendo neppure
con cio' dirsi conforme al sistema costituzionale, che richiede la
preventiva sufficienza delle risorse.
Spicca in particolare, tra gli adempimenti cui il comma 4
dell'art. 52 subordina l'accesso all'adeguamento, l'illegittimita' di
quello previsto alla lett. d), secondo cui le regioni debbono
adottare «provvedimenti diretti a prevedere, ai sensi dell'art. 3,
comma 2, lettera c), del decreto-legge 18 settembre 2001, n. 347,
convertito, con modificazioni, dalla legge 16 novembre 2001, n. 405,
la decadenza automatica dei direttori generali nell'ipotesi di
mancato raggiungimento dell'equilibrio economico delle aziende
sanitarie e ospedaliere, nonche' delle aziende ospedaliere autonome».
Tale disposizione e' in prima luogo incostituzionale perche', in
violazione dell'art. 97 Cost. (per non dire della stessa soggettiva
privazione del lavoro nell'amministrazione, in violazione dell'art. 4
e dell'art. 51), prevede la rimozione sanzionatoria dalla carica per
il puro verificarsi di circostanze oggettive, in assenza di alcuna
prova o riscontro che il mancato raggiungimento dell'equilibrio
economico fosse in qualche modo evitabile da parte dello stesso
direttore generale. Sembra evidente che non puo' che toccare alla
regione, quale responsabile generale del servizio sanitario e quale
amministrazione nominante, la valutazione del comportamento del
direttore generale e del grado di responsabilita' che ad esso possa
imputarsi nel mancato conseguimento dell'equilibrio economico: che
puo' bene essere dovuto - in condizione di carenza finanziaria
strutturale - all'obbligo di assicurare le prestazioni.
Analoga specifica illegittimita' colpisce l'adempimento di cui
alla lett. c), nella parte in cui si prevede lo svolgimento, per
giunta «senza maggiori oneri a carico del bilancio dello Stato»,
degli accertamenti diagnostici «in maniera continuativa, con
l'obiettivo finale della copertura del servizio nei sette giorni
della settimana». Si tratta infatti di misure puramente
organizzative, che limitano la relativa autonomia legislativa
regionale anziche' limitarsi a fissare un principio in termini di
risultato, che le Regioni rimangono libere di raggiungere secondo le
proprie scelte organizzative.
Una specifica ulteriore illegittimita' costituzionale, diversa da
quella di cui al comma 4, sin qui lamentata, colpisce il comma 19,
che da un lato limita alla «misura massima del 50 per cento di quelli
notificati al Ministro della salute nell'anno 2003 o autorizzati ai
sensi del comma 7 del citato articolo», la possibilita' per le
imprese farmaceutiche titolari dell'autorizzazione all'immissione in
commercio di medicinali «di organizzare e contribuire a realizzare
mediante finanziamenti anche indiretti in Italia o all'estero per gli
anni 2004, 2005 e 2006 congressi, convegni o riunioni ai sensi
dell'art. 12 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 541, e
successive modificazioni», dall'altro stabilisce che «non concorrono
al raggiungimento della percentuale di cui al periodo precedente gli
eventi espressamente autorizzati dalla Commissione nazionale per la
formazione continua di cui all'art. 16-ter del decreto legislativo 30
dicembre 1992, n. 502, e successive modificazioni».
Da una parte, infatti, risulta illegittima la pregiudiziale
limitazione ad un astratto 50% della possibilita' per le imprese di
contribuire alla realizzazione di convegni, seminari, etc., lesiva
non solo dell'autonomia organizzativa del servizio sanitario ma della
stessa autonomia privata e di iniziativa economica; dall'altra,
risulta altresi' illegittimo che da tale limitazione siano esonerati
«gli eventi espressamente autorizzati dalla Commissione nazionale per
la formazione continua di cui all'art. 16-ter del decreto legislativo
30 dicembre 1992, n. 502»: sembra evidente, infatti, che, ove
risultasse costituzionalmente legittima la predetta limitazione, la
valutazione e la autorizzazione di eventi che non sottostiano a tale
limitazione non puo' che spettare alle regioni interessate dallo
svolgimento dell'evento, e non ad un organismo nazionale privo di
qualunque titolo costituzionale per lo svolgimento di una simile
funzione.
Ulteriore illegittimita' costituzionale colpisce il comma 21
dell'art. 52, nella parte in cui non prevede alcuna codecisione delle
Regioni nella realizzazione del Centro nazionale di adroterapia
oncologica per il quale e' assegnato al Centro nazionale di
adroterapia oncologica l'importo di 5 milioni di euro per l'anno 2003
e di 10 milioni di euro per ciascuno degli anni 2004 e 2005. E'
evidente infatti che tale centro dovra' necessariamente essere
collegato al sistema dell'assistenza sanitaria, di cui potra'
costituire una risorsa essenziale: di qui la necessita' che le
regioni, titolari del compito costituzionale dell'assistenza
sanitaria, siano chiamate a dare la propria intesa alle scelte
relative al Centro, sia in relazione alla localizzazione che in
relazione alla attivita' che esso e' chiamato a svolgere.
17. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 56.
L'art. 56 istituisce «un fondo finalizzato al finanziamento di
progetti di ricerca, di rilevante valore scientifico, anche con
riguardo alla tutela della salute e all'innovazione tecnologica»,
stabilendo che «alla ripartizione del fondo, istituito nello stato di
previsione del Ministero dell'economia e delle finanze, tra le
diverse finalita' provvede il Presidente del Consiglio dei ministri,
con proprio decreto, su proposta del Ministro dell'istruzione,
dell'universita'' e della ricerca, sentiti i Ministri dell'economia e
delle finanze, della salute e per l'innovazione tecnologica». Con lo
stesso decreto «sono stabiliti procedure, modalita» e strumenti per
l'utilizzo delle risorse».
Tale disciplina interessa una materia di potesta' concorrente (la
ricerca scientifica) e, come gia' visto per altre norme,
illegittimamente istituisce un fondo settoriale a gestione centrale,
attribuendo (con norme di dettaglio) poteri sostanzialmente normativi
ed amministrativi al Presidente del Consiglio dei ministri. L'art.
56, dunque, viola gli artt. 117, comma 3 e 6, 118, comma 2, e 119 per
le ragioni gia' illustrate a proposito dell'art. 27 della legge
n. 289/2002. Esso, in definitiva, risulta illegittimo nella parte in
cui attribuisce al Presidente del Consiglio dei ministri poteri
normativi ed amministrativi relativi alla gestione del fondo in
questione, anziche' prevedere la mera ripartizione del fondo tra le
Regioni.
In subordine, esso risulta illegittimo nella parte in cui non
prevede che i poteri attribuiti al Presidente del Consiglio dei
ministri siano esercitati previa intesa con la Conferenza
Stato-Regioni, dato che nelle materie concorrenti il principio di
leale collaborazione impone un coordinamento fra i soggetti
interessati.
18. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 67.
L'art. 67 estende ai comuni montani con meno di 5000 abitanti la
normativa sulle misure straordinarie per la promozione e lo sviluppo
dell'imprenditorialita' giovanile nel Mezzogiorno, stabilendo che «i
criteri e le procedure applicative per l'estensione ..., ivi compresa
la definizione della quota dei fondi in essere ... a tale fine
riservata, sono determinati dal CIPE, su proposta del Ministro
dell'economia e delle finanze, sentita la Conferenza permanente per i
rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e
di Bolzano».
Gli incentivi alle imprese giovanili costituiscono materia di
potesta' regionale piena. Lo Stato e' legittimato, dall'art. 119,
comma 5, a destinare «risorse aggiuntive ... in favore di determinati
comuni», per promuovere lo sviluppo economico, ma cio' lo abilita
appunto a destinare le risorse, non a mantenere il potere
(sostanzialmente normativo secondario) di definizione dei criteri di
gestione delle risorse stesse, con la sola consultazione della
Conferenza Stato-Regioni.
Dunque, l'art. 67 viola l'art. 117, comma 4 e 6, e l'art. 119
Cost., risultando illegittimo nella parte in cui attribuisce al CIPE
un potere normativo relativo alla gestione del fondo in questione,
anziche' prevedere la mera attribuzione delle risorse aggiuntive alle
Regioni. In subordine, esso risulta illegittimo nella parte in cui
non prevede che il potere attribuito al CIPE sia esercitato previa
intesa con la Conferenza Stato-Regioni, anziche' previo parere, dato
che in una materia di potesta' regionale piena il principio di leale
collaborazione impone un coordinamento piu' forte fra i soggetti
interessati.
19. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 69, comma 8.
Le disposizioni dell'art. 69, in materia di agricoltura, formano
oggetto di impugnazione limitatamente al comma 8, sotto il profilo di
seguito esposto.
Dispone tale comma 8 che, «nell'ambito delle risorse finanziarie
di cui ai decreti legislativi 18 maggio 2001, n. 227 e n. 228 un
importo pari a 30 milioni di euro per l'anno 2003 e' destinato
all'Agenzia per le erogazioni in agricoltura per le esigenze connesse
agli adempimenti di cui al regolamento (CEE) n. 729/1970 del
Consiglio, del 21 aprile 1970, ed al regolamento (CE) n. 1663/1995
della Commissione, del 7 luglio 1995».
Si tratta dunque di un finanziamento destinato all'AGEA, per i
pagamenti connessi all'attuazione di normativa comunitaria.
Sennonche' l'AGEA, che opera nella maggior parte delle regioni, non
opera nella Regione Emilia-Romagna, per la ragione che in questa e'
stata sostituita da una agenzia regionale denominata
corrispondentemente AGREA, istituita dalla legge regionale n. 21 del
2001 (Istituzione dell'Agenzia regionale per le erogazioni in
agricoltura - AGREA), secondo una facolta' espressamente riconosciuta
dall'art. 3 del d.lgs. n. 165 del 1999. E' dunque l'AGREA, e non
l'AGEA, che nella Regione Emilia-Romagna cura gli adempimenti di cui
ai regolamenti della Comunita' europea citati al comma 8
dell'art. 69.
In questo modo il finanziamento in favore soltanto della AGEA
risulta discriminatorio nei riguardi della Regione, che non verrebbe
a goderne esclusivamente per il fatto di avere provveduto alla
costituzione di una propria organizzazione per l'esercizio degli
stessi compiti. Sembra dunque chiara l'illegittimita' costituzionale
consistente nel non avere considerato che in alcune regioni, e
segnatamente nella Regione Emilia-Romagna, le attivita' cui il
finanziamento si riferisce vengono svolte da un organismo regionale,
e nell'avere conseguentemente escluso, senza alcuna ragione obiettiva
di differenziazione, tale organismo dal finanziamento, in violazione
degli articoli 119 e 3 della Costituzione, nonche' del principio di
ragionevolezza.
Naturalmente, la discriminazione non vi sarebbe se la
disposizione fosse da intendere nel senso che l'AGEA, una volta
ricevuto il finanziamento, ha a sua volta l'obbligo di trasferire
all'ente regionale la quota ad esso spettante e l'impugnazione sopra
esposta e' prospettata in via cautelativa, ove non fosse questa
l'interpretazione esatta.
20. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 72, e commi 1, 2, 3
e 4.
L'art. 72 (Fondi rotativi per le imprese) stabilisce che «le
somme iscritte nei capitoli del bilancio dello Stato aventi natura di
trasferimenti alle imprese per contributi alla produzione e agli
investimenti affluiscono ad appositi fondi rotativi in ciascuno stato
di previsione della spesa» (comma 1). Al comma 2 si prevede che «i
contributi a carico dei fondi di cui al comma 1 ... sono attribuiti
secondo criteri e modalita' stabiliti dal Ministro dell'economia e
delle finanze, d'intesa con il Ministro competente, sulla base dei
seguenti principi: a) l'ammontare della quota di contributo soggetta
a rimborso non puo' essere inferiore al 50 per cento dell'importo
contributivo b) la decorrenza del rimborso inizia dal primo
quinquennio dalla concessione contributiva, secondo un piano
pluriennale di rientro da ultimare comunque nel secondo quinquennio;
c) il tasso d'interesse da applicare alle somme rimborsate viene
determinato in misura non inferiore allo 0,50 per cento annuo». A
tali decreti interministeriali il comma 3 attribuisce «natura non
regolamentare». Il comma 4, poi, dichiara che, «ai fini deI concorso
delle autonomie territoriali al rispetto degli obblighi comunitari
per la realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica, le
disposizioni di cui al presente articolo costituiscono norme di
principio e di coordinamento», e' «conseguentemente gli enti
interessati provvedono ad adeguare i propri interventi alle
disposizioni di cui al presente articolo».
Tale disciplina riguarda i contributi alle imprese e ricade,
dunque, nell'art. 117, comma 4, Cost. Anche in questo caso, dunque,
si prevedono illegittimamente fondi gestiti a livello di ciascun
ministero, sulla base di criteri stabiliti con decreti
interministeriali di natura sostanzialmente regolamentare, nonostante
l'elusiva «etichetta» apposta dal legislatore (su cio' v. il motivo
relativo all'art. 26). Dunque, i commi 1, 2 e 3 sono illegittimi e
lesivi delle competenze regionali nella parte in cui prevedono poteri
regolamentari e poteri di sovvenzione statali in materia regionale
anziche' prevedere che le somme relative siano ripartite tra le
Regioni.
Quanto al comma 4, esso vorrebbe vincolare i contributi regionali
al rispetto delle disposizioni di cui ai commi precedenti,
qualificate come «norme di principio e di coordinamento» (della
finanza pubblica, si suppone). Il comma 4 pare riferirsi ai principi
di cui alle lettere a), b) e c) del comma 2, dato che i criteri
ministeriali valgono per i contributi statali. Anche in questa
misura, pero', il comma 4 risulta illegittimo e lesivo. L'art. 117,
comma 3, non attribuisce allo Stato competenza in materia di «finanza
pubblica» ma in materia di «coordinamento della finanza pubblica».
Dunque, i principi fondamentali di tale materia non possono
tradursi in regole specifiche relative ad un singolo settore, che
vincolano le scelte politiche delle Regioni, ma devono limitarsi a
garantire l'equilibrio complessivo della finanza. In altre parole, lo
Stato puo' porre principi relativi alla spesa globale in un certo
settore, ma non decidere anche come la spesa deve essere effettuata
in quel settore dalle Regioni. Anche il comma 4, dunque, lede
l'autonomia legislativa e finanziaria regionale, e la lederebbe
ancora di piu' se «norme di principio» fossero considerati anche i
criteri ministeriali di cui al comma 2.
Nella disposizione del comma 4 si accenna a disposizioni di
origine comunitaria, ma esse non sono minimamente indicate. Siffatta
indicazione generica non puo' dunque costituire autonoma
giustificazione del vincolo fermo restando l'obbligo delle regioni di
rispettare le disposizioni comunitarie effettivamente esistenti.
21. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 80, comma 6.
Secondo l'art. 80, comma 6, «al fine di favorire l'autonoma
iniziativa per lo svolgimento di attivita', di interesse generale, in
attuazione dell'art. 118, quarto comma, della Costituzione le
istituzioni di assistenza e beneficenza e gli enti religiosi che
perseguono rilevanti finalita' umanitarie o culturali possono
ottenere la concessione o locazione di beni immobili demaniali o
patrimoniali dello Stato, non trasferiti alla «Patrimonio dello Stato
S.p.a.», costituita ai sensi dell'art. 7 del decreto-legge 15 aprile
2002, n. 63, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 giugno
2002, n. 112, ne' suscettibili di utilizzazione per usi governativi,
a un canone ricognitorio determinato ai sensi degli articoli l e 4
della legge 11 luglio 1986, n. 390, e successive modificazioni».
La disposizione suppone dunque che vi siano immobili appartenenti
al demanio o al patrimonio dello Stato che non siano «suscettibili di
utilizzazione per usi governativi», e dispone che tali immobili
possano essere affidati ad enti di assistenza o ad enti religiosi con
finalita' umanitarie o assistenziali.
Tale disposizione e' affetta, ad avviso della ricorrente regione,
da plurime illegittimita' costituzionali. In primo luogo, infatti,
essa interviene al di fuori delle materie di competenza esclusiva o
concorrente statale, con violazione dell'art. 117, commi 2, 3 e 4.
Ne' puo' valere l'obiezione che lo Stato puo' disporre come crede dei
propri beni, dato che si tratta qui non di atti di disposizione
privatistici o per fini patrimoniali, ma di previsioni di legge e di
provvedimenti amministrativi nel campo della politica sociale.
Inoltre, ed in secondo luogo, il legislatore statale ha in primo
luogo l'obbligazione costituzionale di dare attuazione all'art. 119
Cost., il quale al comma 6 dispone che «i comuni, le province, le
Citta' metropolitane, e le Regioni hanno un proprio patrimonio
attribuito secondo i principi generali determinati dalla legge dello
Stato». Sembra dunque evidente che il legislatore statale non puo',
prima di avere dato attuazione a tale disposizione, disporre dei beni
attualmente statali - ma in prospettiva da assegnare agli altri enti
territoriali secondo un criterio di coerenza con le rispettive
finzioni - in modo tale da vincolarli e in definitiva depauperarne il
valore e ridurne la possibilita' di impiego, per giunta nell'ambito
di una scelta di politica sociale che spetta ormai alle Regioni.
22. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 90, commi 18, 20,
21 e 22, 24, 25 e 26.
L'art. 90, comma 18, prevede che, con uno o piu' regolamenti
governativi di delegificazione emanati nel rispetto di non meglio
identificate «disposizioni dell'ordinamento generale e
dell'ordinamento sportivo, secondo i seguenti principi generali, sono
individuati: a) i contenuti dello statuto e dell'atto costitutivo
delle societa' e delle associazioni sportive dilettantistiche, con
particolare riferimento a: 1) assenza di fini di lucro; 2) rispetto
del principio di democrazia interna; 3) organizzazione di attivita'
sportive dilettantistiche, compresa l'attivita' didattica per
l'avvio, l'aggiornamento e il perfezionamento nelle attivita'
sportive; 4) disciplina del divieto per gli amministratori di
ricoprire cariche sociali in altre societa' e associazioni sportive
nell'ambito della medesima disciplina; 5) gratuita degli incarichi
degli amministratori; 6) devoluzione ai fini sportivi del patrimonio
in caso di scioglimento delle societa'' e delle associazioni; 7)
obbligo di conformarsi alle norme e alle direttive del CONI nonche'
agli statuti e ai regolamenti delle Federazioni sportive nazionali o
dell'ente di promozione sportiva cui la societa' o l'associazione
intende affiliarsi; b) le modalita' di approvazione dello statuto, di
riconoscimento ai fini sportivi e di affiliazione ad una o piu'
Federazioni sportive nazionali del CONI o alle discipline sportive
associate o a uno degli enti di promozione sportiva riconosciuti dal
CONI, anche su base regionale; c) i provvedimenti da adottare in caso
di irregolare funzionamento o di gravi irregolarita' di gestione o di
gravi infrazioni all'ordinamento sportivo».
La materia e', pacificamente, di competenza concorrente
(«ordinamento sportivo») e in tali materie, altrettanto pacificamente
(art. 117, comma 6), non sono ammessi regolamenti statali. Non
possono esserci dubbi, dunque, sulla lesivita' del comma 18, che
doveva limitarsi a dettare principi fondamentali in materia,
lasciando alle Regioni la disciplina degli oggetti che sono stati
illegittimamente rimossi al regolamento di delegificazione.
I commi 20 e 21 dell'art. 90 prevedono che presso il CONI sia
istituito «il registro delle societa» e delle associazioni sportive
dilettantistiche», distinto in tre sezioni, e che le modalita' di
tenuta del registro ... nonche' le procedure di verifica, la notifica
delle variazioni dei dati e l'eventuale cancellazione sono
disciplinate da apposita delibera del Consiglio nazionale del CONI,
che e' trasmessa al Ministero vigilante ai sensi dell'art. 1, comma
3, della legge 31 gennaio 1992, n. 138».
Dunque, sempre in materia di potesta' concorrente tali
disposizioni attribuiscono poteri amministrativi e normativi ad un
ente parastatale, in contrasto con l'art. 117, comma 3 e 6, e con
l'art. 118, comma 2, Cost. Fra l'altro, non c'e' nessuna ragione che
le associazioni sportive dilettantistiche debbano essere iscritte in
un registro nazionale gestito dal CONI: anzi, l'orientamento generale
e' che gli albi ed elenchi siano tenuti a livello locale (v. l'albo
delle organizzazioni di volontariato, delle associazioni di
promozione sociale, delle societa' cooperative). Dunque, se anche si
ritenesse che, nelle materie di cui all'art. 117, comma 3, spettasse
allo Stato allocare le funzioni amministrative (cosa che ad avviso
della Regione non corrisponde al diritto costituzionale vigente), i
commi 20 e 21 sarebbero comunque illegittimi per violazione
dell'art. 118, comma 1.
Il comma 22 dell'art. 90 stabilisce che, «per accedere ai
contributi pubblici di qualsiasi natura, le societa' e le
associazioni sportive dilettantistiche devono dimostrare l'avvenuta
iscrizione nel registro di cui al comma 20». Tale disposizione e' di
dettaglio e dunque lede la potesta' legislativa regionale; inoltre
essa condiziona illegittimamente la potesta' amministrativa regionale
di sovvenzionare le associazioni sportive, ed interferisce
illegittimamente con le leggi regionali che gia' prevedano tali
sovvenzioni.
I commi 24 e 25 dettano norme che non riguardano l'ordinamento
sportivo ma l'uso degli impianti sportivi degli enti territoriali e
l'affidamento della loro gestione nel caso in cui l'ente territoriale
non intenda gestirlo direttamente. Il contenuto del comma 24 e' di
per se' condivisibile (a parte la limitazione ai «cittadini» se
all'espressione dovesse darsi un significato preciso) ma non si vede
quale sia il titolo di competenza statale a dettare una norma del
genere. Essa viola dunque l'art. 117, comma 4, cosi' come il comma
25, che detta criteri per l'affidamento della gestione degli
impianti, lasciando alle Regioni la sola disciplina delle modalita'.
Entrambi i commi, inoltre, violano l'autonomia degli enti locali.
L'art. 26, poi, stabilisce che «le palestre, le aree di gioco e
gli impianti sportivi scolastici, compatibilmente con le esigenze
dell'attivita' didattica e delle attivita' sportive della scuola, ...
devono essere posti a disposizione di societa' e associazioni
sportive dilettantistiche aventi sede nel medesimo comune in cui ha
sede l'istituto scolastico o in comuni confinanti». Anche tale norma
ricade nell'art. 117, comma 4, ledendo la potesta' legislativa
regionale e l'autonomia delle istituzioni scolastiche.
23. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 91, commi 1, 2, 3 e
4.
L'art. 91 istituisce il «fondo di rotazione per il finanziamento
dei datori di lavoro che realizzano, nei luoghi di lavoro, servizi di
asilo nido e micro-nidi», dettando alcune norme di dettaglio in
merito (v. commi 2, 3 e 4) e attribuendo al Ministro del lavoro e
delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell'economia e
delle finanze e con il Ministro per le pari opportunita', il potere
sostanzialmente regolamentare di definire i criteri per la
concessione dei finanziamenti (ed i prospetti da utilizzare) ed il
potere amministrativo di concedere e revocare il finanziamento.
Poiche' i servizi sociali sono materia di potesta' regionale
piena, e' palese la lesivita' di tali norme, che violano l'art. 119,
l'art. 117, commi 4 e 6, e l'art. 118, comma 2, per le ragioni gia'
illustrate nel punto relativo all'art. 27 della legge qui impugnata.
Dunque, i commi sopra indicati dell'art. 91 sono illegittimi
nella parte in cui attribuiscono al Ministro, con norme di dettaglio,
poteri normativi ed amministrativi relativi al fondo in questione,
anziche' prevedere la mera ripartizione del fondo tra le regioni. In
subordine, esso risulta illegittimo nella parte in cui non prevede
che i poteri normativi previsti dai commi 3 e 4 siano esercitati
previa intesa con la Conferenza Stato-Regioni, dato che nelle materie
regionali il principio di leale collaborazione impone un
coordinamento fra i soggetti interessati.

P. Q. M.
La Regione Emilia-Romagna, come sopra rappresentata e difesa
chiede, che voglia codesta Ecc.ma Corte costituzionale accogliere il
ricorso, dichiarando l'illegittimita' delle disposizioni sopra
indicate, nei termini sopra esposti.
Padova-Bologna-Roma, addi' 28 febbraio 2003
Prof. avv. Giandomenico Falcon - prof. avv. Franco Mastragostino -
avv. Luigi Manzi

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