Ricorso n. 29 del 23 febbraio 2012 (Regione Veneto)
Ricorso per questione di legittimita' costituzionale depositato in
cancelleria il 23 febbraio 2012 (della Regione Veneto) .
(GU n. 12 del 21.03.2012 )
Ricorso proposto dalla Regione Veneto, (C.F…. - P.IVA …), in persona del Presidente della Giunta Regionale dott. Luca Zaia (C.F….), autorizzato con delibera della Giunta regionale n. 150 del 31 gennaio 2012 (all. 1), rappresentato e difeso, per mandato a margine del presente atto, tanto unitamente quanto disgiuntamente, dagli avv.ti prof. Bruno Barel (C.F.
…) del Foro di Treviso, prof. Luca Antonini (C.F. …) del Foro di Milano, Ezio Zanon (C.F. …) coordinatore dell'Avvocatura regionale, Daniela Palumbo (C.F….) della Direzione Affari Legislativi e Luigi Manzi (C.F….) del Foro di Roma, con domicilio eletto presso lo studio di quest'ultimo in Roma, Via Confalonieri, n. 5 (per eventuali comunicazioni: fax …, posta elettronica certificata …);
Contro il Presidente del Consiglio dei ministri pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, presso la quale e' domiciliato ex lege in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
Per la dichiarazione di illegittimita' costituzionale delle seguenti disposizioni del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, cosi' come convertito in legge, con modificazioni, dalla legge di conversione 22 dicembre 2011, n. 214, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 300 del 27 dicembre 2011:
dell'art. 5, per violazione degli articoli 3, 117, III e IV comma; 118, I e II comma; 119 della Costituzione e del principio di leale collaborazione tra Stato e Regioni di cui all'art. 120 della Costituzione;
dell'art. 23, comma 14, per violazione degli articoli 118, I e II comma, della Costituzione;
dell'art. 23, comma 15, per violazione degli articoli 3, 5 e 114 della Costituzione;
dell'art. 23, comma 16, per violazione degli articoli l, 5, 114, 138 della Costituzione;
dell'art. 23, comma 17, per violazione degli articoli 3, 5 e 114 della Costituzione;
dell'art. 23, comma 18, per violazione degli articoli 118, I e II comma, e 120 della Costituzione;
dell'art. 23, comma 19, per violazione dell'articolo 119 della Costituzione;
dell'art. 23, comma 20, per violazione degli articoli 1, 3, 5 e 114 della Costituzione;
dell'art. 27, per violazione degli articoli 117, 118 e 119 della Costituzione;
dell'art. 31, comma I, per violazione degli articoli 114, 117, I e IV comma, 118 della Costituzione;
dell'art. 35, per violazione degli articoli 3, 97, I comma,
113, I comma, della Costituzione, 117, VI comma, 118, I e II comma,
nonche' della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 e del
principio di leale collaborazione di cui all'art. 120 della
Costituzione;
dell'art. 44-bis, per violazione degli articoli 97, 117 e 118
della Costituzione e del principio di leale collaborazione di cui
all'art. 120 della Costituzione;
Con istanza di sospensione dell'art. 23, commi da 14 a 20, e
dell'art. 31, comma 1.
Premessa.
Il decreto-legge n. 201/2011, cosi' come convertito, con
modificazioni, dalla legge di conversione 22 dicembre 2011, n. 214,
pubblicata nella G.U. n. 300 del 27 dicembre 2011, contiene numerose
disposizioni che contrastano con il quadro complessivo dell'autonomia
territoriale cosi' come risultante dalla Costituzione e
conseguentemente ledono il sistema costituzionale delle competenze
riconosciute alla Regione.
In particolare, l'art. 5 del decreto-legge prevede: «1. Con
decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del
Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il
Ministro dell'economia e delle finanze, da emanare, previo parere
delle Commissioni parlamentari competenti, entro il 31 maggio 2012,
sono rivisti le modalita' di determinazione e i campi di applicazione
dell'indicatore della situazione economica equivalente (ISEE) al fine
di: adottare una definizione di reddito disponibile che includa la
percezione di somme, anche se esenti da imposizione fiscale, e che
tenga conto delle quote di patrimonio e di reddito dei diversi
componenti della famiglia nonche' dei pesi dei carichi familiari, in
particolare dei figli successivi al secondo e di persone disabili a
carico; migliorare la capacita' selettiva dell'indicatore,
valorizzando in misura maggiore la componente patrimoniale sita sia
in Italia sia all'estero, al netto del debito residuo per l'acquisto
della stessa e tenuto conto delle imposte relative; permettere una
differenziazione dell'indicatore per le diverse tipologie di
prestazioni. Con il medesimo decreto sono individuate le agevolazioni
fiscali e tariffarie nonche' le provvidenze di natura assistenziale
che, a decorrere dal 1° gennaio 2013, non possono essere piu'
riconosciute ai soggetti in possesso di un ISEE superiore alla soglia
individuata con il decreto stesso. Con decreto del Ministro del
lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro
dell'economia e delle finanze, sono definite le modalita' con cui
viene rafforzato il sistema dei controlli dell'ISEE, anche attraverso
la condivisione degli archivi cui accedono la pubblica
amministrazione e gli enti pubblici e prevedendo la costituzione di
una banca dati delle prestazioni sociali agevolate, condizionate
all'ISEE, attraverso l'invio telematico all'INPS, da parte degli enti
erogatori, nel rispetto delle disposizioni del codice in materia di
protezione dei dati personali, di cui al decreto legislativo 30
giugno 2003, n. 196, delle informazioni sui beneficiari e sulle
prestazioni concesse. Dall'attuazione del presente articolo non
devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza
pubblica. I risparmi derivati dall'applicazione del presente articolo
a favore del bilancio dello Stato e degli enti nazionali di
previdenza e di assistenza sono versati all'entrata del bilancio
dello Stato per essere riassegnati al Ministero del lavoro e delle
politiche sociali per l'attuazione di politiche sociali e
assistenziali. Con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche
sociali, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze,
si provvede a determinare le modalita' attuative di tale
riassegnazione».
In questi termini, la norma prevede: a) l'emanazione di un
decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del
Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il
Ministro dell'economia e delle finanze, per la revisione delle
modalita' di determinazione ed i campi di applicazione
dell'indicatore della situazione economica equivalente (Isee); b) la
definizione, con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche
sociali, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze,
delle modalita' con cui viene rafforzato il sistema dei controlli
dell'Isee; c) la determinazione, sempre con decreto del Ministro del
lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro
dell'economia e delle finanze, delle modalita' di riassegnazione al
Ministero del lavoro e delle politiche sociali dei risparmi,
derivanti dall'attuazione delle nuove norme, da destinare
all'attuazione di politiche sociali e assistenziali.
Nel prevedere una revisione dell'Isee, nella disposizione non si
fa nessun cenno ad un'intesa con le Regioni o con la Conferenza
unificata, cosi come non si prevede nulla in relazione alla
possibilita' per gli enti erogatori di modulare diversamente gli
indicatori.
Si tratta di previsioni procedurali e sostanziali che erano state
previste dalla disciplina attualmente in vigore - seppure emanata
prima della riforma del Titolo V della Costituzione - che ha
significativamente aumentato l'autonomia regionale nella materia
della assistenza sociale. Gia' il decreto legislativo n. 130 del
2000, infatti, nel modificare il decreto legislativo 31 marzo 1998,
n. 109, istitutivo dell'Isee, era stato emanato sentita la Conferenza
unificata. Oltre a queste gravi omissioni, la stessa procedura da
seguire appare alquanto anomala, dal momento che assegna ad un
decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, che non viene
nemmeno qualificato come di natura regolamentare, la forza di
modificare una disciplina stabilita da fonti primarie. La previsione
che i risparmi derivanti dall'attuazione delle nuove norme siano
determinati con decreto ministeriale e riassegnati al Ministero del
lavoro, infine, non sembra considerare minimamente la stretta
interconnessione che esiste tra le politiche regionali in materia
sociale e socio assistenziale che spesso hanno assunto,
volontariamente o perche' tenute a farlo, l'indicatore in oggetto
come parametro.
L'art. 23 del decreto-legge in oggetto ai commi 15, 16 e 17
trasforma la Provincia da ente politico rappresentativo della
popolazione inclusa nell'ambito territoriale di riferimento a ente di
secondo grado, i cui organi di governo sono identificati in un
Consiglio provinciale composto da non piu' di dieci componenti eletti
dai Consigli comunali e in un Presidente eletto dal Consiglio
provinciale tra i suoi componenti. Per le modalita' di elezione si
rinvia a una legge statale da emanare entro il 31 dicembre 2012.
Per gli organi provinciali che vanno al rinnovo entro il 31
dicembre 2012 il comma 20 dell'art. 23 del decreto-legge dispone
l'applicazione, sino al 31 marzo 2013, dell'art. 141 del decreto
legislativo n. 267/2000 relativo a «Scioglimento e sospensione dei
consigli comunali e provinciali».
In questo modo - con alcuni commi di una disposizione di un
decreto-legge, all'interno di un articolo alquanto eterogeneo, dove
si tratta ad esempio della riduzione dei componenti del Consiglio
Nazionale della Economia e del Lavoro e di altre Autorita'
indipendenti - viene disciplinato un tema eminentemente
costituzionale: in proposito, basta considerare il dibattito svolto
dall'Assemblea costituente sulla soppressione delle Province come
enti autonomi in relazione alla nascita delle Regioni.
E' evidente che le Province sono state concepite dalla
Costituzione come enti di governo locale, elettivi di primo grado, e
che questa posizione e' stata confermata e rafforzata con la riforma
del Titolo V, anzitutto nel nuovo art. 114 dove si prevede che «la
Repubblica e' costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Citta'
metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato».
La tecnica normativa utilizzata appare poi irragionevole dove
disciplina il destino degli organi provinciali che devono essere
rinnovati entro il 31 dicembre 2012: senza nemmeno porre un'apposita
disciplina, il comma 20 dell'art. 23 del decreto-legge rinvia
all'art. 141 del T.u.e.l., che regolamenta ipotesi del tutto diverse
da quella in oggetto. Tale disposizione, infatti, attiene a ben
precise cause, riguardanti la dinamica patologica che puo'
verificarsi in un ente territoriale quando un Consiglio provinciale
compia atti contrari alla Costituzione o gravi e persistenti
violazioni di legge; quando non possa essere assicurato il normale
funzionamento degli organi e dei servizi per: impedimento permanente,
rimozione, decadenza, decesso o dimissioni del presidente della
provincia; nel caso di cessazione dalla carica per dimissioni
contestuali, ovvero rese anche con atti separati purche'
contemporaneamente presentati al protocollo dell'ente, della meta'
piu' uno dei membri assegnati; nel caso di riduzione dell'organo
assembleare per impossibilita' di surroga alla meta' dei componenti
del consiglio; quando non sia approvato nei termini il bilancio. In
questi casi i' consigli provinciali vengono sciolti con decreto
presidenziale, su proposta del Ministro dell'interno; e con il
decreto di scioglimento si provvede alla nomina di un commissario,
che esercita le attribuzioni conferitegli con il decreto stesso. E'
la dinamica patologica che si e' verificata nell'ente a giustificare
il commissariamento, con la sospensione del potere dei soggetti
democraticamente eletti. Nulla a che fare, quindi, con una ipotesi di
scioglimento derivante dalla stessa previsione legislativa.
La previsione del comma 14 dell'art. 23 del decreto impugnato
stabilisce poi che «spettano alla Provincia esclusivamente le
funzioni di indirizzo e coordinamento delle attivita' dei Comuni
nelle materie e nei limiti indicati con legge statale e regionale,
secondo le rispettive competenze».
In questo modo vengono svuotate le funzioni amministrative delle
Province e ridotte esclusivamente a funzioni di coordinamento
dell'attivita' dei Comuni.
Tale disposizione, oltre a porsi in contrasto con le previsioni
degli art.117, II comma, lett. p), e 118, II comma, dove si afferma
che le Province sono titolari di funzioni amministrative fondamentali
e proprie, oltre a quelle conferite con legge statale o regionale,
comprime indebitamente la competenza legislativa regionale che nelle
materie di propria competenza, anche residuale, si trova limitata a
poter trasferire solo funzioni di indirizzo e coordinamento, non
potendo piu' configurarsi come il soggetto deputato a declinare i
principi di sussidiarieta', adeguatezza e differenziazione come
invece stabiliscono i primi due commi dell'art.118 della
Costituzione.
La previsione del comma 18 dell'art. 23 del decreto-legge
rafforza poi la lesione delle competenze regionali, la' dove prevede
che: «Lo Stato e le Regioni, con propria legge, secondo le rispettive
competenze, provvedono a trasferire ai Comuni, entro il 31 dicembre
2012, le funzioni conferite dalla normativa vigente alle Province,
salvo che, per assicurarne l'esercizio unitario, le stesse siano
acquisite dalle Regioni, sulla base dei principi di sussidiarieta',
differenziazione ed adeguatezza. In caso di mancato trasferimento
delle funzioni da parte delle Regioni entro il 31 dicembre 2012, si
provvede in via sostitutiva, ai sensi dell'articolo 8 della legge 5
giugno 2003, n. 131, con legge dello Stato». Lo svuotamento delle
funzioni fondamentali, proprie e conferite, previste dalla
legislazione statale e regionale vigente, ai sensi degli articoli
117, II comma, lett. p) e 118, II comma, e' destinato ad avvenire -
secondo la logica della disposizione - con legge statale o regionale,
entro il 31 dicembre 2012, assegnando tali funzioni ai Comuni o alle
Regioni. In questo modo, pero', la disposizione esclude che i
principi di sussidiarieta', adeguatezza e differenziazione si possano
riferire, al di fuori del mero coordinamento, alle Province e prevede
un illegittimo intervento del potere sostitutivo statale nei
confronti della Regione, oltretutto attivato dalla scadenza di un
termine irragionevolmente breve.
Il comma 19 dell'art. 23 del decreto impugnato, infine, dispone:
«Lo Stato e le Regioni, secondo le rispettive competenze, provvedono
altresi' al trasferimento delle risorse umane, finanziarie e
strumentali per l'esercizio delle funzioni trasferite, assicurando
nell'ambito delle medesime risorse il necessario supporto di
segreteria per l'operativita' degli organi della provincia». In
sostanza, la disposizione prefigura uno scenario dove le Province,
sostanzialmente svuotate dalle attuali funzioni amministrative,
ricevono, dallo Stato e dalle Regioni, risorse solo per lo
svolgimento del supporto di segreteria ai propri organi. In questi
termini, la disposizione appare sostanzialmente contraddittoria
rispetto al quadro dell'autonomia finanziaria provinciale disegnato
dall'art. 119 della Costituzione e altera, essendo configurabile come
norma statale di coordinamento della finanza pubblica, lo stesso
rapporto dell'autonomia finanziaria regionale con quella provinciale
e comunale. Tale rapporto viene infatti prefigurato in termini di
finanza meramente derivata: alle leggi regionali si impone di
trasferire risorse, non di configurare un'autonomia finanziaria.
In sostanza, l'impianto normativo costituito dai commi da 14 a 20
dell'art. 23 del decreto impugnato appare da numerosi punti di vista
in palese contrasto con la Costituzione e potenzialmente idoneo a
creare gravissime difficolta' applicative, nonche' aumenti di costi
maggiori dei risparmi che potrebbe produrre.
La revisione o la razionalizzazione costituzionale dei livelli di
governo del sistema autonomistico italiano puo' senz'altro ritenersi
opportuna, ma deve essere attuata con una legge di revisione
costituzionale, dopo un approfondito esame della situazione e delle
diverse soluzioni possibili, e con un adeguato dibattito.
Soluzioni improvvisate, tecnicamente e economicamente
discutibili, con aperti ed evidenti profili di incostituzionalita',
creano guasti gravi ed irreparabili al sistema in termini di
gestibilita' e di costi aggiuntivi.
L'articolo 27 del decreto-legge contiene una nuova disciplina
sulla valorizzazione, trasformazione, gestione ed alienazione del
patrimonio immobiliare pubblico, che in piu' punti appare lesiva
delle competenze costituzionali della Regione. In particolare, il
comma I inserisce un nuovo articolo (33-bis) nel decreto-legge n.
98/2011, convertito con modificazioni dalla legge 15 luglio 2011, n.
111, prevedendo la facolta' per l'Agenzia del Demanio di costituire
societa', consorzi e fondi immobiliari per la valorizzazione del
patrimonio pubblico, anche se appartenente a Regioni, Province e
Comuni. Dispone inoltre che «Qualora le iniziative di cui al presente
articolo prevedano forme societarie, ad esse partecipano i soggetti
apportanti e il Ministero dell'economia e delle finanze - Agenzia del
demanio, che aderisce anche nel caso in cui non vi siano inclusi beni
di proprieta' dello Stato in qualita' di finanziatore e di struttura
tecnica di supporto», assegnando poi all'Agenzia del demanio un ruolo
determinante nell'individuare, «attraverso procedure di evidenza
pubblica, gli eventuali soggetti privati partecipanti» e prevedendo
che la stessa Agenzia, «possa avvalersi di soggetti specializzati nel
settore, individuati tramite procedure ad evidenza pubblica o di
altri soggetti pubblici». L'Agenzia del demanio in questi termini
viene ad assumere un ruolo determinante, in violazione degli articoli
118, I e II, comma e 119, ultimo comma, della Costituzione, comma 7
del nuovo articolo 33-bis poi, modifica i commi l e 2 del
decreto-legge n. 112 del 2008, cosi' come convertito dalla legge n.
133 del 2008, prevedendo per le Regioni che queste «entro 60 giorni
dalla data di entrata in vigore della presente disposizione» debbano
disciplinare «l'eventuale equivalenza della deliberazione del
consiglio comunale di approvazione quale variante allo strumento
urbanistico generale, ai sensi dell'articolo 25 della legge 28
febbraio 1985, n. 47, anche disciplinando le procedure semplificate
per la relativa approvazione». Dispone inoltre: «Le Regioni,
nell'ambito della predetta normativa approvano procedure di
copianificazione per l'eventuale verifica di conformita' agli
strumenti di pianificazione sovraordinata, al fine di concludere il
procedimento entro il termine perentorio di 90 giorni dalla
deliberazione comunale. Trascorsi i predetti 60 giorni, si applica il
comma 2 dell'articolo 25 della legge 28 febbraio 1985, n. 47. Le
varianti urbanistiche di cui al presente comma, qualora rientrino
nelle previsioni di cui al paragrafo 3 dell'articolo 3 della
direttiva 2001/42/CE e al comma 4 dell'articolo 7 del decreto
legislativo 3 aprile 2006, n. 152 e s.m.i. non sono soggette a
valutazione ambientale strategica».
Tale previsione si pone in aperto contrasto con la competenza
costituzionalmente riconosciuta alla Regione nella misura in cui
stabilisce un termine decisamente ridotto per le modifiche normative
e prevede poi, una volta decorso tale termine, l'applicazione del
comma 2 dell'articolo 25 della legge 28 febbraio 1985, n. 47.
Il comma 2 dell'art. 27 del decreto impugnato inserisce poi un
nuovo articolo nel decreto-legge n. 351 del 2001, cosi' come
convertito dalla legge n. 410 del 2001, disciplinando il processo di
valorizzazione degli immobili pubblici. Prevede che il Presidente
della Giunta regionale, ovvero l'Organo di governo preposto, promuova
«la sottoscrizione di un accordo di programma ai sensi dell'articolo
34 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 nonche' in base
alla relativa legge regionale di regolamentazione della volonta' dei
soggetti esponenziali del territorio di procedere alla variazione di
detti strumenti di pianificazione, al quale partecipano tutti i
soggetti, anche in qualita' di mandatari da parte degli enti
proprietari, che sono interessati all'attuazione del programma. 7.
Nell'ambito dell'accordo di programma di cui al comma 6, puo' essere
attribuita agli enti locali interessati dal procedimento una quota
compresa tra il 5 e il 15 del ricavato della vendita degli immobili
valorizzati se di proprieta' dello Stato da corrispondersi a
richiesta dell'ente locale interessato, in tutto o in parte, anche
come quota parte dei beni oggetto del processo di valorizzazione.
Qualora tali immobili, ai fini di una loro valorizzazione, siano
oggetto di concessione o locazione onerosa, all'Amministrazione
comunale e' riconosciuta una somma non inferiore al 50 e non
superiore al 100 del contributo di costruzione dovuto ai sensi
dell'articolo 16 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e delle relative
leggi regionali per l'esecuzione delle opere necessarie alla
riqualificazione e riconversione, che il concessionario o il
locatario corrisponde all'atto del rilascio o dell'efficacia del
titolo abilitativo edilizio».
Tale norma, nella parte in cui prevede una disciplina di
dettaglio vincolante nella determinazione dei contenuti dell'accordo
di programma, appare in contrasto con l'autonomia costituzionalmente
riconosciuta alla Regione.
L'articolo 31, comma 1, dispone: «1 . In materia di esercizi
commerciali, all'articolo 3, comma l, lettera d-bis, del
decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni,
dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, sono soppresse le parole: "in via
sperimentale" e dopo le parole "dell'esercizio" sono soppresse le
seguenti "ubicato nei comuni inclusi negli elenchi regionali delle
localita' turistiche o citta' d'arte"».
Modifica cosi' il dettato normativo dell'art. 3, comma 1, lettera
d-bis, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito con
modificazioni dalla legge 4 agosto 2006, n. 248 (correntemente noto
come decreto Bersani). A seguito della modifica introdotta, la
disposizione al punto d-bis) e' stata riformulata nei termini
seguenti: «d-bis) il rispetto degli orari di apertura e di chiusura,
l'obbligo della chiusura domenicale e festiva, nonche' quello della
mezza giornata di chiusura infrasettimanale».
In questo modo, sono stati eliminati, in via generale ed
assoluta, i limiti e le prescrizioni relativi agli orari di apertura
e chiusura, alla chiusura domenicale e festiva e (parziale)
infrasettimanale degli esercizi commerciali, inclusi quelli di
somministrazione di alimenti e bevande.
La disposizione cosi' riformulata, nella sua assolutezza e
inderogabilita', lede la competenza legislativa regionale in materia
di commercio, violando gli articoli 117, I e IV comma, della
Costituzione, nonche' la potesta' regionale connessa all'esercizio
delle funzioni amministrative di cui all'art. 118, I e II comma,
della Costituzione; appare altresi' incompatibile con il principio di
equiordinazione di cui all'art. 114 della Costituzione medesima.
L'articolo 35, I comma, dispone: «I. L'Autorita' garante della
concorrenza e del mercato legittimata ad agire in giudizio contro gli
atti amministrativi generali, i regolamenti ed i provvedimenti di
qualsiasi amministrazione pubblica che violino le norme a tutela
della concorrenza e del mercato. 2. L'Autorita' garante della
concorrenza e del mercato, se ritiene che una pubblica
amministrazione abbia emanato un atto in violazione delle norme a
tutela della concorrenza e del mercato, emette, entro sessanta
giorni, un parere motivato, nel quale indica gli specifici profili
delle violazioni riscontrate. Se la pubblica amministrazione non si
conforma nei sessanta giorni successivi alla comunicazione del
parere, l'Autorita' puo' presentare, tramite l'Avvocatura dello
Stato, il ricorso, entro i successivi trenta giorni. 3. Ai giudizi
instaurati ai sensi del comma l si applica la disciplina di cui al
Libro IV, Titolo V, del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104.».
In questi termini. la norma viene a conferire all'Autorita'
garante della concorrenza e del mercato il potere di emettere un
parere motivato in ordine ad ogni provvedimento proveniente da
qualsivoglia pubblica amministrazione che contenga presunte
violazioni delle norme poste a tutela della concorrenza e del
mercato. Contestualmente, la medesima norma attribuisce alla stessa
Autorita' la legittimazione attiva ad impugnare, per il tramite della
Avvocatura dello Stato, i provvedimenti interloquiti e non adeguati
nei termini imposti. La norma censurata, modificando la legge n. 287
del 1990, configura una surrettizia introduzione della figura del
Pubblico Ministero nel processo amministrativo, contrastante con la
sua natura strutturale di giurisdizione soggettiva, e inoltre
introduce una nuova surrettizia modalita' di controllo sugli atti
delle Regioni, che si pone in contrasto con la legge costituzionale
n. 3/2001 abrogativa dei controlli sugli atti regionali a suo tempo
previsti dall'art. 125 della Costituzione.
L'articolo 44-bis dispone: «I. Ai sensi del presente articolo,
per «opera pubblica incompiuta» si intende l'opera che non e' stata
completata:
a) per mancanza di fondi;
b) per cause tecniche;
c) per sopravvenute nuove norme tecniche o disposizioni di
legge;
d) per il fallimento dell'impresa appaltatrice;
e) per il mancato interesse al completamento da parte del
gestore.
2. Si considera in ogni caso opera pubblica incompiuta un'opera
non rispondente a tutti i requisiti previsti dal capitolato e dal
relativo progetto esecutivo e che non risulta fruibile dalla
collettivita'.
3. Presso il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e'
istituito l'elenco-anagrafe nazionale delle opere pubbliche
incompiute.
4. L'elenco-anagrafe di cui al comma 3 e' articolato a livello
regionale mediante l'istituzione di elenchi-anagrafe presso gli
assessorati regionali competenti per le opere pubbliche.
5. La redazione dell'elenco-anagrafe di cui al comma 3 e'
eseguita contestualmente alla redazione degli elenchi-anagrafe su
base regionale, all'interno dei quali le opere pubbliche incompiute
sono inserite sulla base di determinati criteri di adattabilita'
delle opere stesse ai fini del loro riutilizzo, nonche' di criteri
che indicano le ulteriori destinazioni a cui puo' essere adibita ogni
singola opera.
6. Entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge di
conversione del presente decreto, il Ministro delle infrastrutture e
dei trasporti stabilisce, con proprio regolamento, le modalita' di
redazione dell'elenco-anagrafe, nonche' le modalita' di formazione
della graduatoria e dei criteri in base ai quali le opere pubbliche
incompiute sono iscritte nell'elenco-anagrafe, tenendo conto dello
stato di avanzamento dei lavori ed evidenziando le opere prossime al
completamento.
7. Ai fini della fissazione dei criteri di cui al comma 5, si
tiene conto delle diverse competenze in materia attribuite allo Stato
e alle regioni».
Tale disposizione prevede l'istituzione presso il Ministero
competente, di un elenco-anagrafe nazionale delle opere pubbliche
incompiute, ma lo articola anche presso l'Amministrazione regionale
ai fini del coordinamento dei dati. Lo fa tuttavia con una
regolamentazione di dettaglio che appare lesiva dell'autonomia
organizzativa regionale, costituzionalmente tutelata.
Motivi
1. Illegittimita' costituzionale dell'art. 5, per violazione degli
articoli 3, 117, III e IV comma; 118, I e II comma; 119 della
Costituzione, nonche' del principio di leale collaborazione tra Stato
e Regioni di cui all'art. 120 della Costituzione.
La disposizione dell'art. 5 del decreto-legge n. 201/2011, cosi'
come convertito, con modificazioni, dalla legge di conversione 22
dicembre 2011 n. 214, prevede al primo comma che con un decreto del
Presidente del Consiglio dei Ministri su proposta del Ministro del
lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro
dell'economia e delle finanze, siano riviste le modalita' di
determinazione ed i campi di applicazione dell'indicatore della
situazione economica equivalente (Isee).
Al riguardo, va rilevato che la recente giurisprudenza
amministrativa (Consiglio di Stato, n. 1607/2011) ha fatto rientrare
l'Isee nella materia dei livelli essenziali delle prestazioni,
richiamando la legge n. 328/2000 che all'art. 25 dispone: «ai fini
dell'accesso ai servizi disciplinati dalla presente legge, la
verifica della condizione economica del richiedente e' effettuata
secondo le disposizioni previste dal decreto legislativo 31 marzo
1998, n. 109, come modificato dal decreto legislativo 3 maggio 2000,
n. 130.».
Va pero' rilevato come la disciplina attuale contenga anche
previsioni che consentono alle Regioni di integrare i criteri
stabiliti (ad esempio, l'art. 3 del d.lgs. n. 130/2000 dispone che:
«gli enti erogatori, ai quali compete la fissazione dei requisiti per
fruire di ciascuna prestazione, possono prevedere, ai sensi
dell'articolo 59, comma 52, della legge 27 dicembre 1997, n. 449,
accanto all'indicatore della situazione economica equivalente, come
calcolato ai sensi dell'articolo 2 del presente decreto, criteri
ulteriori di selezione dei beneficiari»).
Va anche considerato come la disciplina attuale, in particolare
lo stesso decreto legislativo n. 130 del 2000, nel modificare il
decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 109, istitutivo dell'Isee, sia
stato emanato, sebbene anteriore alla riforma del Titolo V della
Costituzione, dopo che era stato acquisito il parere della Conferenza
unificata.
Va infatti evidenziato che il criterio dell'Isee e' utilizzato
nella legislazione regionale per definire l'accesso a prestazioni
come asili nido e altri servizi educativi per l'infanzia, mense
scolastiche, servizi socio-sanitari domiciliari, servizi
socio-sanitari diurni, residenziali, ecc. ed altre prestazioni
economiche assistenziali.
Se da questo punto di vista la materia dell'Isee, in base al
diritto vivente, tende ad essere inquadrata nella competenza statale
sulla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni
concernenti i diritti sociali, va pero' richiamata la sentenza n. 88
del 2003 di codesta ecc.ma Corte, dove si precisa: «L'inserimento nel
secondo comma dell'art. 117 del nuovo Titolo V della Costituzione,
fra le materie di legislazione esclusiva dello Stato, della
determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i
diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il
territorio nazionale attribuisce al legislatore statale un
fondamentale strumento per garantire il mantenimento di una adeguata
uniformita' di trattamento sul piano dei diritti di tutti i soggetti,
pur in un sistema caratterizzato da un livello di autonomia regionale
e locale decisamente accresciuto. La conseguente forte incidenza
sull'esercizio delle funzioni nelle materie assegnate alle competenze
legislative ed amministrative delle Regioni e delle Province autonome
impone evidentemente che queste scelte, almeno nelle loro linee
generali, siano operate dallo Stato con legge, che dovra' inoltre
determinare adeguate procedure e precisi atti formali per procedere
alle specificazioni ed articolazioni ulteriori che si rendano
necessarie nei vari settori». Si specifica quindi: «Anche a voler
prescindere dal problema relativo alla ulteriore utilizzabilita'
dell'art. 118 del d.P.R. n. 309 del 1990 alla luce del nuovo Titolo V
della Costituzione ed in particolare del terzo e del sesto comma
dell'art. 117 Cost., risulta evidente che la violazione dello
specifico procedimento di consultazione della Conferenza permanente
per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di
Trento e di Bolzano e quindi del principio di leale collaborazione,
rendono illegittima la compressione dei poteri delle Regioni e delle
Province autonome (fra le molte, si vedano le sentenze n. 39 del
1984, n. 206 del 1985, n. 116 del 1994)».
Nel settore sanitario, ad esempio, per giungere alla definizione
dei livelli essenziali di assistenza il procedimento di adozione
prevede espressamente il coinvolgimento delle Regioni attraverso la
previa intesa con il Governo.
Il rispetto del principio di leale collaborazione costituisce
quindi uno degli aspetti piu' consolidati del cammino
giurisprudenziale sui livelli essenziali delle prestazioni, che ha
sempre valorizzato la portata di tale principio, assumendolo -
talvolta anche nell'accezione «forte» dell'intesa (ad esempio nella
sentenza di codesta ecc.ma Corte n. 134/2006) - quale uno dei fattori
di legittimazione costituzionale dell'intervento statale che, pur
fondato su un titolo di competenza proprio, incide su ambiti di
rilevanza legislativa regionale.
Non va poi dimenticato che nel caso di specie non sussistono quei
particolari presupposti di necessita', ravvisati nella sentenza n. 10
del 2010, affinche' il diritto costituzionale all'assistenza non
resti ineffettivo in un periodo di difficile congiuntura economica e,
di conseguenza, si garantiscano ai suoi titolari, in condizioni di
uniformita' su tutto il territorio nazionale, i «mezzi adeguati» ad
un'esistenza dignitosa.
Anzi, nel caso qui in esame e' opportuno richiamare piuttosto la
precisa indicazione data da codesta ecc.ma Corte proprio nella
sentenza n. 10 del 2010, quando ha specificato: «che, una volta
cessata la situazione congiunturale che ha imposto un intervento di
politica sociale esteso alla diretta erogazione della provvidenza,
dagli strumenti di coinvolgimento delle regioni e delle province
autonome non si possa prescindere, avendo cura cosi' di garantire
anche la piena attuazione del principio di leale collaborazione,
nell'osservanza del riparto delle competenze definito dalla
Costituzione».
Nel caso di specie, se si puo' ritenere sussistente una
situazione di emergenza economica, l'oggetto e' profondamente diverso
da quello relativo alla sentenza n. 10 del 2010, dal momento che non
si tratta piu' di una norma indirizzata a istituire uno strumento
diretto di intervento come la carta acquisti a favore delle persone
bisognose, la cui caducazione avrebbe esposto queste ultime. Si
tratta bensi' di una disposizione rivolta a rivedere un criterio di
carattere strumentale alla definizione dei requisiti di accesso a una
pluralita' di prestazioni che ineriscono alla competenza regionale
anche residuale.
Ne consegue che deve ritenersi indebitamente violato, nel caso
dell'art. 5 del decreto impugnato, il principio di leale
collaborazione di cui all'art. 120 Cost. non essendo stata prevista
la previa intesa con le Regioni, con conseguente ulteriore vulnus
agli articoli 118, I e II comma (difettando anche i presupposti della
chiamata in sussidiarieta') e 119 della Costituzione, dal momento che
non si' considera come le Regioni abbiano assunto, volontariamente o
perche' tenute a farlo, l'indicatore in oggetto come parametro per le
loro politiche sociali e socio sanitarie.
La suddetta incostituzionalita', in relazione ai medesimi
parametri, si estende anche a quella parte dell'art. 5 del
decreto-legge impugnato dove si prevede che i risparmi a favore dello
Stato e degli enti nazionali di assistenza e di previdenza derivanti
dalla attuazione delle nuove norme siano, secondo i criteri stabiliti
da un decreto ministeriale e senza intesa con le Regioni, riassegnati
al Ministero del lavoro, dal momento che la disposizione - pur
riferendosi a risparmi «statali» - non sembra considerare minimamente
la stretta interconnessione che comunque esiste con le politiche
regionali in materia sociale e socio assistenziale. La rimodulazione
delle risorse che lo Stato impegna nel territorio regionale determina
infatti una ricaduta sulle politiche sociali e socio assistenziali
delle Regioni, che dovrebbero quindi essere comunque coinvolte,
tramite intesa. anche nel processo di riallocazione dei risparmi
ottenuti.
A questi si aggiunge un ulteriore distinto profilo di
illegittimita' costituzionale. L'art. 5, infatti, concretizza una
delegificazione «spuria» della materia contenuta nella attuale
disciplina legislativa dell'Isee. Non solo la norma dell'art. 5 non
stabilisce, tra i principi generali, la possibilita' per le Regioni,
come e' nella disciplina attuale, di integrare i criteri, ma attua un
sostanziale procedimento di delegificazione al di fuori della
previsione dell'art. 17, comma 2, della legge n. 400 del 1988
(ritenuto dalla dottrina quasi unanime come rispettoso del principio
di legalita', nella misura in cui e' alla legge di delegificazione
che deve essere imputato l'effetto abrogativo, mentre il regolamento
determina semplicemente il termine iniziale di questa abrogazione);
senza nemmeno indicare, inoltre, le disposizioni legislative da
abrogare, e con un atto che non viene qualificato come regolamentare.
Di fatto, nella struttura dell'art. 5 si realizza una
delegificazione spuria della normativa primaria oggi in vigore. Va
ricordato al riguardo che codesta ecc. ma Corte nella sentenza n. 301
del 2003 ha gia' dichiarato l'incostituzionalita' di una disposizione
legislativa che autorizzava una delegificazione in favore di un
regolamento ministeriale, non solo per la mancata indicazione delle
«norme generali regolatrici della materia», ma anche in riferimento
all'individuazione della fonte autorizzata.
Oltre che per violazione del principio di leale collaborazione, a
causa della mancata previsione dell'intesa, l'art. 5 del decreto
impugnato incorre quindi in un vizio di eccesso di potere
legislativo/irragionevolezza, censurabile dalla Regione ai sensi
dell'art. 3 della Costituzione dal momento che realizza una
surrettizia violazione dell'art. 117, III e IV comma, in forza della
incisione che questo processo di delegificazione opera sulle
competenze regionali concorrenti e residuali.
2. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 23, commi da 14 a 20,
per violazione: quanto al comma 14, degli articoli 118, I e II,
comma, della Costituzione; quanto al comma 15, degli articoli 3, 5 e
114 della Costituzione; quanto al comma 16, degli articoli 1, 5, 114,
138 della Costituzione; quanto al comma 17, degli articoli 3, 5 e 114
della Costituzione; quanto al comma 18, degli articoli 118, I e II
comma e 120 della Costituzione; quanto al comma 19, dell'articolo 119
della Costituzione; quanto al comma 20, degli articoli 1, 3, 5 e 114
della Costituzione.
L'art. 23 del decreto-legge n. 201/2011, cosi' come convertito,
con modificazioni, dalla legge di conversione 22 dicembre 2011 n.
214, con le disposizioni poste ai commi da 14 a 20 trasforma la
Provincia, da ente politico rappresentativo della popolazione inclusa
nell'ambito territoriale di riferimento, ad ente di secondo grado,
con un Consiglio provinciale composto da non piu' di dieci componenti
eletti dai Consigli comunali e con un Presidente eletto dal Consiglio
provinciale tra i suoi componenti. La Provincia viene poi spogliata
di ogni funzione amministrativa di tipo gestionale, potendo essere
titolare solo di una micro funzione di coordinamento dell'attivita'
dei Comuni.
Infine, viene sostanzialmente svuotata della propria autonomia
finanziaria, potendo disporre solo delle risorse relative al supporto
di segreteria dei propri organi.
La Provincia perde cosi' la propria autonomia politica, la
propria autonomia amministrativa e la propria autonomia finanziaria.
Il contrasto sostanziale con il disegno costituzionale - come si
vedra' analiticamente di seguito - e' macroscopico.
In questo modo, viene menomata la stessa autonomia regionale,
privata dalla norma statale di un interlocutore istituzionale
direttamente rappresentativo della popolazione, con una propria
autonomia e responsabilita' finanziaria, cui poter affidare la
gestione di funzioni amministrative, specialmente in Regioni come il
Veneto dove il tessuto territoriale e' costituito da Comuni di
piccole o piccolissime dimensioni (ad esempio, in Veneto il 54 dei
Comuni e' sotto i 5.000 abitanti).
In questi termini, e soprattutto in queste situazioni, la norma
statale tende a favorire la concentrazione delle funzioni
amministrative attive nella Regione - e quindi induce un centralismo
regionale - senza piu' permettere alla Regione stessa di sviluppare
un regionalismo pienamente attuativo del principio di sussidiarieta'.
Si viene cosi' a menomare la stessa autonomia statutaria (gia' lo
Statuto del Veneto del 1971 prevedeva che le funzioni amministrative
fossero normalmente esercitate delegandole non solo ai Comuni, ma
anche alle Province), che ben potrebbe configurare la Regione come
organo piu' di legislazione e di indirizzo che di amministrazione
diretta.
Non si mette in discussione, in questa sede, l'opportunita' di
una seria razionalizzazione dell'attuale assetto istituzionale del
sistema delle autonomie locali, in particolare delle Province, ma si
ritiene che quel processo meriti di essere progettato insieme con gli
Enti territoriali ed attuato con appropriati strumenti giuridici,
cosi che risulti veramente funzionale a realizzare un piu' efficiente
modello organizzativo e una migliore allocazione delle risorse, con
effettiva riduzione dei costi, anche politici. Si rileva e lamenta,
al contrario, la inidoneita' delle disposizioni censurate - nella
loro forza giuridica e nei loro contenuti - a realizzare
effettivamente l'obiettivo dichiarato.
Esse, alterando il quadro costituzionale, senza cogliere
l'obiettivo dell'auspicata semplificazione del sistema istituzionale,
ne determinano anzi una complessiva complicazione. Non ottengono in
realta' neppure il risultato di una riduzione della spesa e dei costi
degli apparati (cui fa riferimento il titolo dell'articolo in cui
sono inserite le disposizioni impugnate): e' significativo che la
relazione tecnica - estremamente sintetica - che accompagna il
provvedimento non abbia potuto quantificare la misura dei risparmi
complessivamente perseguibili alla fine di un processo di riordino
configurato in questi termini. Le norme che si censurano sono
destinate invece a produrre indebiti costi aggiuntivi diretti (si
pensi all'inquadramento del personale, che verra' trasferito al
livello regionale) e indiretti (si pensi alla difficilissima
gestibilita' di tutte quelle situazioni dove, a fronte di Province
che hanno una dimensione territoriale ben piu' ampia di quella di
alcune Regioni, contesto territoriale di riferimento e' costituto da
una pluralita' di Comuni «polvere» di piccole o piccolissime
dimensioni).
Mediante una legge ordinaria, quindi, si pretende di compiere una
vera e propria revisione costituzionale, incidendo radicalmente sul
complessivo impianto costituzionale e su specifiche disposizioni, e
di qui anche sull'autonomia costituzionalmente garantita alla
Regione.
La Regione del Veneto e' dunque legittimata a tutelare davanti a
codesta ecc.ma Corte le proprie prerogative costituzionali, che sono
lese anche direttamente e nell'attualita' dalle disposizioni
legislative statali censurate. Per di piu', codesta ecc.ma Corte in
piu' occasioni (sentenze n. 95 del 2007, n. 417 del 2005, n. 196 del
2004 e n. 533 del 2002) ha ritenuto che le Regioni siano legittimate
a denunciare la legge statale anche per la violazione di competenze
degli enti locali, perche' «la stretta connessione [...] tra le
attribuzioni regionali e quelle delle autonomie locali consente di
ritenere che la lesione delle competenze locali sia potenzialmente
idonea a determinare una vulnerazione delle competenze regionali».
Ad integrazione di queste considerazioni d'insieme sul
complessivo impianto dei commi censurati, si passa ora ad una
illustrazione analitica dei singoli profili di incostituzionalita',
comma per comma.
Si seguira' nell'esposizione un ordine espositivo diverso da
quello numerico, per prendere in considerazione in modo unitario
aspetti tra loro logicamente connessi.
2.1) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23, comma 16.
La disposizione dell'art. 23, comma 16, prevede il venir meno -
per volonta' di una fonte primaria e percio' senza utilizzare il
procedimento di revisione costituzionale di cui all'art. 138 Cost. -
della Provincia come ente esponenziale rappresentativo di una
comunita' territoriale che si organizza democraticamente, secondo
l'art. l Cost., con organi elettivi di diretta emanazione del corpo
elettorale.
E' evidente che le Province sono state previste - riconosciute -
dalla Costituzione come enti di governo locale elettivi e che questa
scelta e' stata confermata e soprattutto rafforzata dalla riforma del
Titolo V, che le ha configurate quali «enti autonomi con propri
statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla
Costituzione» (art. 114, II comma, Cost.), destinate a costituire
proprio in tale veste - assieme ai Comuni, alle Citta' metropolitane
e alle Regioni - la Repubblica (art. 114, I Comma).
Lo stesso principio autonomista di cui all'art. 5 della
Costituzione, prevedendo che «la Repubblica, una e indivisibile
riconosce e promuove le autonomie locali», impedisce al legislatore
ordinario di incidere in via definitiva sul carattere direttamente
democratico dell'ente, che rappresenta uno dei requisiti essenziali
dell'ordinamento repubblicano. Il principio autonomista implica il
principio democratico: e' quest'ultimo che richiede che il popolo
abbia una rappresentanza che emerga da elezioni generali, dirette,
libere, uguali e segrete e che la rappresentanza abbia una
consistenza tale da conseguire due risultati: in primo luogo,
l'espressione del pluralismo politico, compatibilmente con la
governabilita'; in secondo luogo, la capacita' di indirizzo e
controllo da parte della rappresentanza medesima sull'ente.
E' utile al riguardo rimarcare che codesta ecc.ma Corte nella
sentenza n. 165/2002 ha precisato: «si deve in proposito osservare
che il legame Parlamento-sovranita' popolare costituisce
inconfutabilmente un portato dei principi'
democratico-rappresentativi, ma non descrive i termini di una
relazione di identita', sicche' la tesi per la quale, secondo la
nostra Costituzione, nel Parlamento si risolverebbe, in sostanza, la
sovranita' popolare, senza che le autonomie territoriali concorrano a
plasmarne l'essenza, non puo' essere condivisa nella sua
assolutezza». E ancora: «Semmai potrebbe dirsi che il nucleo centrale
attorno al quale esse [le idee sulla democrazia, sulla sovranita'
popolare e sul principio autonomistico] ruotavano abbia trovato oggi
una positiva eco nella formulazione del nuovo art. 114 della
Costituzione, nel quale gli enti territoriali autonomi sono collocati
al fianco dello Stato come elementi costitutivi della Repubblica
quasi a svelarne, in una formulazione sintetica, la comune
derivazione dal principio democratico e dalla sovranita' popolare».
Ne' sembra possibile sostenere che la rappresentativita'
indiretta configurata dalla disposizione impugnata risponda, nel caso
delle Province, alla stessa caratura democratica derivante da una
elezione popolare. Si tratterebbe di un argomento non privo di
rilevanti conseguenze, dal momento che tutti gli enti elencati
dall'art. 5, Cost. sono posti dalla Costituzione sullo stesso piano,
quanto a garanzie di autonomia politica. Ad ammetterlo, ne
deriverebbe infatti la legittimita' di una legge statale che
stabilisse come principio fondamentale, ai sensi dell'art. 122 Cost.,
anche per i Consigli regionali un meccanismo del tipo di quello
previsto dalla disposizione impugnata. O che prevedesse che i
Consigli comunali siano composti da eletti tra i consigli di
quartiere, ad esempio.
La disposizione del comma 16 dell'art. 23 del decreto impugnato
viola pertanto gli articoli 1, 5, 114, 138 della Costituzione.
E' opportuno precisare che questi profili di incostituzionalita'
hanno una ricaduta diretta sulla sfera di competenza regionale.
Quello delle autonomie territoriali configurato dalla Costituzione e'
un vero e proprio sistema (si' veda in questi termini gia' la
sentenza n. 343 del 1991 di codesta ecc.ma Corte), per cui
l'alterazione della struttura essenziale e costitutiva di uno di
questi enti si riflette inevitabilmente sugli altri, menomandone la
sfera di competenza. Nel caso di specie la Regione risulta, ad
esempio, menomata nell'esercizio del proprio potere di attuare
pienamente i principi di sussidiarieta', adeguatezza e
differenziazione nell'allocare le funzioni amministrative nelle
materie di propria competenza, ai sensi degli articoli 118, I e II
comma, della Costituzione. Assume, infatti, un rilievo politico e
istituzionale profondamente diverso allocare le funzioni
amministrative all'ente Provincia cosi' come configurato dal disegno
costituzionale prima ricordato, piuttosto che allocarle a un ente
privo di rappresentativita' diretta delle popolazioni interessate. Ad
esempio, in materia urbanistica, la Regione Veneto ha assegnato
(legge regionale n. 11 del 2004) alle Province competenza a
provvedere alla pianificazione territoriale per il governo del
territorio (artt. 22-24), nonche' la competenza ad approvare i piani
comunali di assetto del territorio (artt. 14 e 15). Tali assegnazioni
di competenze si fondano sulla struttura direttamente rappresentativa
della Provincia e sulla possibilita' del diretto controllo
democratico del cittadino elettore (che viene meno nella disposizione
impugnata).
2.2) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23, comma 20.
Per gli organi provinciali che vanno al rinnovo entro il 31
dicembre 2012, il comma 20 dell'art. 23 del decreto impugnato dispone
l'applicazione, sino al 31 marzo 2013, dell'art. 141 del decreto
legislativo n. 267/2000 relativo a «Scioglimento e sospensione dei
consigli comunali e provinciali».
La tecnica normativa utilizzata appare irragionevole laddove
disciplina il destino degli organi provinciali che devono essere
rinnovati entro il 31 dicembre 2012: senza nemmeno un'apposita
disciplina, si rinvia all'art. 141 del T.u.e.l. che regolamenta
ipotesi del tutto diverse da quella in oggetto. Tale disposizione,
infatti, attiene a ben precise cause che riguardano la dinamica
patologica che puo' verificarsi in un ente territoriale dove un
Consiglio Provinciale compia, ad esempio, atti contrari alla
Costituzione o gravi e persistenti violazioni di legge o quando non
sia approvato nei termini il bilancio. In questi casi i consigli
provinciali vengono sciolti con d.P.R., su proposta del Ministro
dell'interno e con il decreto di scioglimento si provvede alla nomina
di un commissario, che esercita le attribuzioni conferitegli con il
decreto stesso. E' evidente nella ratio della disciplina che a
giustificare il commissariamento e' la dinamica patologica che si e'
verificata nell'ente, con la sospensione del potere dei soggetti
democraticamente eletti. Nulla a che fare quindi con un'ipotesi di
scioglimento imputabile alla mera volonta' legislativa di riordino
dell'ente Provincia. E in questi termini si evidenzia quindi un
sintomo di irragionevolezza della disciplina.
La disposizione del comma 20 si pone quindi in contrasto l'art. 3
Cost. in termini di ragionevolezza, in quanto prevede il
commissariamento delle Province che dovrebbero andare al voto nel
2012 rinviando a una norma pensata per altre ipotesi di scioglimento
dei consigli e non applicabile in questo caso; inoltre, prevedendo il
commissariamento delle Province che dovrebbero andare al voto nel
2012, in vista della eliminazione dell'elezione diretta popolare, si
pone anch'essa in violazione degli articoli l, 5 e 114 della
Costituzione.
L'eliminazione dell'elezione diretta popolare e' prevista, alla
scadenza naturale, anche per quegli organi provinciali che sono
soggetti a rinnovo dopo il 31 dicembre 2012. La seconda e la terza
proposizione del medesimo comma 20 rinviano infatti ai commi 16 e 17
per la elezione dei nuovi organi provinciali. Anche per questa parte
si ravvisa percio' violazione degli articoli 1, 5 e 114 della
Costituzione.
Quanto alla legittimazione delle Regioni ad impugnare, essa
deriva da una menomazione delle competenze regionali per gli stessi
motivi indicati in relazione al comma 16 nel punto precedente (2.1).
2.3) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23, comma 15.
Il comma 15 dell'art. 23 - apparentemente ammissibile, in quanto
l'ordinamento degli enti locali rientra nelle competenze del
legislatore statale previste dall'art. 117, comma 2, lettera p) - in
realta' menoma la capacita' di azione e di esecuzione delle Province
ed e' palesemente in contrasto con l'assetto storico degli enti
locali territoriali che hanno avuto nella Giunta l'organo collegiale
di esecuzione delle deliberazioni consiliari. Ne' la disposizione
lascia intendere attraverso quali meccanismi lo stesso Presidente di
un ente, che rimane comunque titolare di funzioni di area vasta,
possa operare. Per di piu', configura una irragionevole alterazione
del sistema ordinamentale organicamente disegnato dal d.lgs. n.
267/2000, Testo unico degli enti locali, presidiato dalla clausola
(art. l, comma IV) di inderogabilita' «se non mediante espressa
modificazione delle sue disposizioni».
La disposizione al comma 15 viola pertanto l'art. 3 Cost., per
irragionevolezza, nonche' gli articoli 5 e 114 della Costituzione.
Anche in questo caso il profilo di incostituzionalita' ha, per i
motivi esplicitati nei punti precedenti, una ricaduta diretta sulla
sfera di competenza regionale, che ne risulta menomata.
2.4) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23, comma 17.
Il comma 17 dell'art. 23 del decreto impugnato, apparentemente
riconducibile alle competenze della legislazione statale, viola in
realta' gli stessi articoli indicati nel punto precedente (art.3
della Costituzione, per irragionevolezza, nonche' gli articoli 5 e
114 della Costituzione) per illegittimita' costituzionale derivata,
per le modalita' con cui e' costituito il Consiglio provinciale
chiamato a effettuare l'elezione. Anche in questo caso il profilo di
incostituzionalita' ha, per i motivi esplicitati nei punti
precedenti, una ricaduta diretta sulla sfera di competenza regionale,
che risulta menomata.
2.5) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23, comma 14.
l profili di incostituzionalita' diventano ancora piu' evidenti
nella previsione del comma 14 dell'art. 23 del decreto impugnato,
dove si stabilisce che «Spettano alla Provincia esclusivamente le
funzioni di indirizzo e coordinamento delle attivita' dei Comuni
nelle materie e nei limiti indicati con legge statale e regionale,
secondo le rispettive competenze». Tale disposizione, oltre a
comportare un'ingiustificata e inammissibile sovraordinazione delle
Province rispetto ai Comuni, si pone in contrasto con le previsioni
costituzionali che riconoscono le Province come titolari di
un'importante dimensione di funzioni amministrative (fondamentali e
proprie, oltre a quelle conferite con legge statale o regionale). In
base ad esse, le Province gestiscono oggi funzioni amministrative di
carattere materiale che intervengono in ambiti di particolare
significato. Una prima e provvisoria individuazione delle funzioni
fondamentali, sebbene ai soli fini dell'attuazione della delega, e'
peraltro avvenuta per effetto dell'art. 21, comma 4, della legge n.
42 del 2009 (istruzione pubblica; trasporti locali; gestione del
territorio; tutela ambientale; sviluppo economico; mercato del
lavoro).
Soprattutto, la disposizione del comma 14 dell'art. 23 del
decreto impugnato menoma indebitamente la competenza legislativa e in
genere la sfera di autonomia della Regione che, nelle materie di
propria competenza, si vede preclusa la possibilita' di trasferire o
delegare qualsiasi funzione alle Province, nonostante la specifica
caratterizzazione del proprio territorio e dei relativi assetti
istituzionali. Ad esempio, risulta preclusa all'autonomia legislativa
regionale la possibilita' di una scelta come quella effettuata nella
legge regionale n. 11 del 2001 (Conferimento di funzioni e compiti
amministrativi alle autonomie locali in attuazione del decreto
legislativo 31 marzo 1998, n_ 112), all'art. 5, di assegnare alle
Province, oltre che funzioni di coordinamento, anche «funzioni di
tipo gestionale in riferimento agli interessi relativi a vaste zone
intercomunali o all'intero territorio provinciale». Per converso,
potrebbe desumersi dalla disposizione del comma 14 addirittura un
obbligo di assegnazione esclusiva alle Province delle competenze ivi
indicate, con un'ulteriore compressione dell'autonomia regionale.
In tal modo, la Regione non puo' piu', come invece stabiliscono i
primi due commi dell'art.118 della Costituzione, configurarsi come il
soggetto titolare del potere di declinare con propria legge - e
quindi con una propria autonoma decisione in relazione alle precipue
caratteristiche del proprio ambito territoriale - nelle materie di
propria competenza, in modo pieno, i' principi di sussidiarieta',
adeguatezza e differenziazione in relazione alle funzioni
amministrative.
La disposizione al comma 14 e' percio' in palese contrasto con
l'art. 118, I e II comma, Cost.
2.6) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23, comma 18.
La previsione del comma 18 dell'art. 23 del decreto impugnato
rafforza la lesione delle competenze regionali, dove prevede che:
«Fatte salve le funzioni di cui al comma 14, lo Stato e le Regioni,
con propria legge, secondo le rispettive competenze, provvedono a
trasferire ai Comuni, entro il 31 dicembre 2012, le funzioni
conferite dalla normativa vigente alle Province, salvo che, per
assicurarne l'esercizio unitario, le stesse siano acquisite dalle
Regioni, sulla base dei principi di sussidiarieta', differenziazione
ed adeguatezza. In caso di mancato trasferimento delle funzioni da
parte delle Regioni entro il 31 dicembre 2012, si provvede in via
sostitutiva, ai sensi dell'articolo 8 della legge 5 giugno 2003, n.
131, con legge dello Stato».
In sostanza, la disposizione, ribadendo in termini operativi
quanto previsto dal comma 14, esclude che la Regione possa declinare,
nelle materie di propria competenza, i principi di sussidiarieta',
adeguatezza e differenziazione, al di fuori delle funzioni di mero
coordinamento, a favore delle Province, trovandosi indebitamente
limitata nella propria competenza ed autonomia. Cosi', se la Regione
volesse assumere un ruolo maggiormente incentrato sullo svolgimento
delle funzioni legislative e meno su quello della gestione delle
funzioni amministrative, in presenza di un contesto territoriale
caratterizzato da una prevalenza di Comuni di piccole o piccolissime
dimensioni, non potrebbe piu' valorizzare il ruolo delle Province
nello svolgimento delle funzioni amministrative, nonostante reputi
questo conforme ai principio di adeguatezza e di differenziazione.
Al fine di evidenziare ulteriormente il contrasto di questa
situazione - che favorisce quindi un forte centralismo regionale -
con il disegno costituzionale, appare utile ricordare quanto
affermava codesta ecc.ma Corte gia' nella sentenza n. 343 del 1991,
allorche' valorizzava l'intento - di assicurare un sempre maggiore
avvicinamento di queste funzioni alle realta' locali, sia allo scopo
di evitare il formarsi di una burocrazia a livello regionale,
ripetitiva di quella dell'amministrazione statale accentrata che,
appunto, con l'ordinamento regionale e con la sua ulteriore
articolazione a livello locale, la Costituzione tende a superare».
Inoltre, la disposizione impugnata prevede un illegittimo
intervento del potere sostitutivo statale nei confronti della
Regione, dal momento che non e' configurabile un'esigenza di tutelare
l'unita' giuridica o economica (che appaiono gli unici parametri, tra
quelli previsti dall'art. 120 Cost., che potrebbero essere riferiti
al caso di specie) in relazione a una previsione palesemente
incostituzionale; lo stesso rinvio all'articolo 8 della legge 5
giugno 2003, n. 131, appare configurato in termini irragionevoli, dal
momento che la procedura indicata nel comma 18 dell'art. 23 qui
impugnato e' diversa da quella ben piu' concertativa contenuta nel
suddetto art. 8.
Oltretutto, il potere sostitutivo statale consisterebbe, nella
specie, nel potere del Governo di intervenire, ove non fossero
emanate le leggi regionali imposte dalla prima parte del comma 18,
sostituendosi al consiglio regionale nella sua funzione di
legislatore, perfino nelle materie di competenza regionale esclusiva.
La disposizione si pone pertanto in contrasto con gli articoli
118, I e II comma, e 120 della Costituzione.
2.7) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23, comma 19.
Il comma 19 del decreto impugnato dispone: «Lo Stato e le
Regioni, secondo le rispettive competenze, provvedono altresi' al
trasferimento delle risorse umane, finanziarie e strumentali per
l'esercizio delle funzioni trasferite, assicurando nell'ambito delle
medesime risorse il necessario supporto di segreteria per
l'operativita' degli organi della provincia».
La disposizione e' di fatto collegata al precedente comma 18,
disciplinando la riallocazione delle risorse conseguente allo
svuotamento delle funzioni, e riflette percio' in via derivata la
ritenuta illegittimita' costituzionale del comma 18.
Inoltre, essa - costruita riproponendo la tecnica normativa a suo
tempo utilizzata riguardo al cd. decentramento amministrativo operato
con il d.lgs. n. 112 del 1998 e quindi anteriormente all'attuale art.
119 Cost. - si pone in palese violazione dell'art. 119 della
Costituzione, dove invece si prevede che le Province, cosi' come gli
altri Enti territoriali, abbiano «autonomia finanziaria di entrata e
di spesa»; nonche' che dispongano di «risorse autonome», potendo
stabilire e applicare «tributi e entrate proprie in armonia con la
Costituzione e con i principi di coordinamento della finanza pubblica
e del sistema tributario»; che dispongano di «compartecipazioni al
gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio»; che
esista un «fondo perequativo»; che tali fonti tributarie «consentano
di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite»;
che solo per rimuovere particolari squilibri o per «scopi diversi dal
normale esercizio delle loro funzioni» lo Stato possa ritornare a una
finanza di trasferimento.
Ogni riferimento all'autonomia finanziaria delle Province e'
infatti scomparsa dal comma 19 dell'art. 23 del decreto impugnato.
Questo dato va preso in considerazione anche in relazione alla
normativa vigente, recentemente riordinata dal decreto legislativo n.
68 del 2011 (relativo alla autonomia finanziaria delle Regioni e
delle Province): l'autonomia finanziaria delle Province si fonda,
infatti, su compartecipazioni a tributi erariali (come la
compartecipazione all'irpef), su tributi propri derivati (ad esempio
l'imposta sulle assicurazioni contro la responsabilita' civile e
l'imposta provinciale di trascrizione), su una imposta di scopo
provinciale, e solo in parte residuale su trasferimenti statali o
regionali, anch'essi peraltro destinati ad essere sostituiti - in
base alle disposizioni del d.lgs. n. 68/2011 -, entro precisi
termini, con compartecipazioni a tributi erariali o regionali, in
modo da superare i difetti e i problemi della cd. finanza derivata,
che ha prodotto nel nostro sistema evidenti effetti
deresponsabilizzanti.
Tutto questo quadro, attuativo dell'art. 119 della Costituzione,
e' ignorato dalla disposizione impugnata.
D'altra parte, l'esiguita' delle funzioni amministrative
assegnate alle Province (mero coordinamento, senza piu' alcuna
attivita' gestionale) e l'entita' delle risorse riconosciute
(funzionali solo a garantire il necessario supporto di segreteria per
l'operativita' degli organi della provincia) si dimostra
difficilmente compatibile con il quadro finanziario disegnato dalla
Costituzione, a ulteriore riprova di una sostanziale incompatibilita'
del disegno dell'art. 23 del decreto impugnato (commi da 14 a 20) con
quello costituzionale.
Non risulta neppure chiaro come il comma 19 del decreto impugnato
- e cio' appare anche un chiaro sintomo di irragionevolezza - a
fronte del fortissimo ridimensionamento delle funzioni provinciali,
possa gestire il passaggio sul piano del finanziamento, dal momento
che si tratta di passare da un finanziamento che supera i dieci
miliardi di euro (derivante dalle funzioni di amministrazione attiva,
come ad esempio quelle attinenti alle strade) a quello molto ben piu'
limitato di mere «funzioni di supporto di segreteria per
l'operativita' degli organi provinciali».
Da questo punto di vista, per quanto riguarda le competenze
statali, il riferimento al mero «trasferimento delle risorse» sembra
preludere - ma sara' chiaro, anche se i margini per una differente
opzione non paiono sussistere, quando verra' approvata la legge
statale di trasferimento delle funzioni (di competenza statale) alle
Regioni o ai Comuni - a un incremento della finanza derivata e a un
superamento dell'attuale sistema di finanza autonoma.
In ogni caso, quello che qui maggiormente rileva e' che la
disposizione, in relazione alla finanza regionale, e' configurabile
come un principio statale di coordinamento della finanza pubblica. E
in questa veste impone, da subito, alle leggi regionali di riallocare
funzioni con la costituzione di un sistema di finanza derivata, sia
con riguardo alle funzioni residuali delle Province, sia con riguardo
a quelle allocate ai Comuni, senza nessun rispetto dell'autonomia
finanziaria regionale riconosciuta dall'art. 119 della Costituzione.
Si' impone alla Regione, in questi termini, il ritorno a un
sistema di finanza di trasferimento, meramente derivata, piu' volte
censurato da codesta ecc. ma Corte (cfr. gia' sentenza n. 370 del
2003, dove si precisa «la permanenza o addirittura la istituzione di
forme di finanziamento delle Regioni o degli enti locali
contraddittorie con l'art. 119 della Costituzione espone a rischi di
cattiva funzionalita' o addirittura di blocco di interi ambiti
settoriali», ma anche le piu' recenti sulla autonomia finanziaria:
dalle n. 16 e n. 37 del 2004 alla n. 102 del 2008). La ricaduta in
termini di lesione delle competenze regionali e' evidente, non solo
perche' menoma e trasfigura il potere di assegnazione in base al
principio di sussidiarieta' (un conto e' assegnare funzioni
amministrative a un ente dotato di autonomia finanziaria, un altro e'
assegnarle ad un ente che, in violazione dell'art. 119 Cost., e'
stato riportato a un sistema di finanza di trasferimento), ma anche
perche' la disposizione obbliga la Regione a piegarsi, per il
finanziamento delle funzioni amministrative (sia per quelle che puo'
conservare in capo alle Province sia per quelle che trasferisce ai
Comuni) a questa logica totalmente contraddittoria dell'art. 119
della Costituzione e della sua attuazione attraverso la riforma del
federalismo fiscale con legge n. 42 del 2009 e relativi decreti
legislativi, in particolare d.lgs. n. 68 del 2011.
E' evidente, peraltro, che il ritorno a un sistema di finanza di
trasferimento, cioe' totalmente deresponsabilizzante sul piano
fiscale (lo Stato e la Regione trasferiscono e la Provincia spende)
e' in chiara e netta antitesi con l'obiettivo di razionalizzare la
spesa, come dimostrano tutti i guasti prodotti nel nostro sistema dal
criterio della cd. spesa storica.
La disposizione dell'art. 19 si pone quindi in aperta e palese
violazione dell'intero art. 119 della Costituzione, menomando le
competenze attribuite alla Regione, obbligata a istituire un sistema
di finanza di trasferimento.
In sostanza, l'impianto normativo prefigurato dai commi da 14 a
20 dell'art. 23 del decreto impugnato appare sotto questi profili in
palese contrasto con la Costituzione e potenzialmente idoneo a creare
gravissime difficolta' applicative, nonche' aumenti di costi
superiori ai risparmi che potrebbe produrre. Come si e' in precedenza
evidenziato, la revisione o la razionalizzazione costituzionale dei
livelli di governo del sistema autonomistico italiano puo' senz'altro
ritenersi opportuna, ma deve essere attuata con una legge di
revisione costituzionale, dopo un approfondito esame della situazione
e delle diverse soluzioni possibili. Soluzioni improvvisate,
tecnicamente e economicamente discutibili, con aperti ed evidenti
profili di incostituzionalita' possono creare guasti gravi al sistema
in termini di gestibilita' e di costi aggiuntivi. Per questi motivi,
si ritiene opportuno richiedere l'istanza di sospensione di queste
norme impugnate, al fine di evitare il verificarsi di questa
situazione.
3) Illegittimita' costituzionale dell'art. 27, per violazione degli
articoli 117, 118 e 119 della Costituzione.
L'articolo 27 del decreto-legge n. 201/2011, cosi' come
convertito, con modificazioni, dalla legge di conversione 22 dicembre
2011, n. 214, recante la rubrica «Dismissioni immobili», detta una
nuova disciplina della valorizzazione, trasformazione, gestione ed
alienazione del patrimonio immobiliare pubblico, che in piu' punti
appare lesiva delle garanzie costituzionali dell' autonomia
regionale.
In particolare, il comma 1 inserisce un nuovo articolo (33-bis)
nel decreto-legge n. 98/2011, convertito con modificazioni dalla
legge 15 luglio 2011, n. 111, recante la rubrica «Strumenti
sussidiari per la gestione degli immobili pubblici».
Nel nuovo art. 33-bis si prevede, al comma 1, che l'Agenzia del
demanio promuova «per la valorizzazione, trasformazione, gestione ed
alienazione del patrimonio immobiliare pubblico di proprieta' dei
Comuni, Province, Citta' metropolitane, Regioni, Stato e dagli Enti
vigilati dagli stessi, nonche' dei diritti reali relativi ai beni
immobili, anche demaniali» - la costituzione di societa', consorzi o
fondi immobiliari. Tutto cio', beninteso, «senza nuovi o maggiori
oneri per la finanza pubblica». Al comma 2, poi, si prevede che
«L'avvio della verifica di fattibilita' delle iniziative di cui al
presente articolo e' promosso dall'Agenzia del demanio...(omissis)».
Al comma 3, poi, si aggiunge che «qualora le iniziative di cui al
presente articolo prevedano forme societarie, ad esse partecipano i
soggetti apportanti e il Ministero dell'economia e delle finanze -
Agenzia del demanio, che aderisce anche nel caso in cui non vi siano
inclusi beni di proprieta' dello Stato in qualita' di finanziatore e
di struttura tecnica di supporto. L'Agenzia del demanio individua,
attraverso procedure di evidenza pubblica, gli eventuali soggetti
privati partecipanti.» e, ancora, che «La stessa Agenzia, per lo
svolgimento delle attivita' relative all'attuazione del presente
articolo, puo' avvalersi di soggetti specializzati nel settore,
individuati tramite procedure ad evidenza pubblica o di altri
soggetti pubblici».
Con le disposizioni richiamate viene palesemente attribuito allo
Stato, e per esso all'Agenzia del demanio, e soltanto ad essa, un
ruolo determinante per la valorizzazione, trasformazione, gestione e
alienazione del patrimonio immobiliare pubblico di proprieta' delle
Regioni e degli altri enti territoriali e enti vigilati dai medesimi:
ruolo che si concretizza sia nella costituzione di societa', consorzi
o fondi immobiliari, sia nella selezione degli eventuali soggetti
privati partecipanti, sia nella selezione dei soggetti specializzati
nel settore dei quali avvalersi.
Il riferimento normativo anche ai beni demaniali, che sono stati
trasferiti in larga parte alle Regioni col d.lgs. n. 85/2010 nel
quadro del c.d. federalismo demaniale, palesa ulteriormente come le
disposizioni statali censurate tendano a restituire allo Stato un
ruolo primario e condizionante nella valorizzazione, gestione e
alienazione dei beni immobili pubblici, inclusi quelli delle Regioni.
Inoltre, l'espressa previsione che l'Agenzia del demanio promuova
tutto cio' «senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica»
(comma 1), e al contempo che la medesima Agenzia partecipi alle
iniziative societarie anche quando non siano apportati beni statali,
«in qualita' di soggetto finanziatore», lascia trasparire l'obiettivo
di governare a livello statale il processo di valorizzazione anche
degli immobili pubblici regionali, peraltro con risorse finanziarie
messe a disposizione dalle regioni ed eventualmente dagli altri enti
territoriali.
Siffatte disposizioni si pongono pertanto in contrasto con gli
articoli 118 e 119 della Costituzione, ove si prevede che le Regioni
abbiano un proprio patrimonio e che quindi possano gestirne, nella
loro autonomia amministrativa organizzativa e finanziaria, la
valorizzazione.
Il comma 7 del nuovo articolo 33-bis introduce disposizioni
sostitutive dei commi l e 2 dell'art. 58 del decreto-legge n. 112 del
2008, cosi come convertito dalla legge n. 133 del 2008.
L'art. 58 cit. reca la rubrica «Ricognizione e valorizzazione del
patrimonio immobiliare di regioni, comuni ed altri enti locali» e
disciplina la procedura di dismissione, prevedendo la redazione di un
piano delle alienazioni e valorizzazioni immobiliari (comma 1), con
l'effetto di classificare i beni inclusi nell'elenco come patrimonio
disponibile, e, ancora, prevede l'assegnazione ai beni in dismissione
delle rispettive destinazioni d'uso urbanistiche con la deliberazione
di approvazione da parte del consiglio comunale (comma 2).
E' noto che il dettato originario del comma 2 e' stato dichiarato
costituzionalmente illegittimo, esclusa la prima proposizione, con
sentenza n. 340 del 2009, per violazione della potesta' legislativa
regionale in materia di governo del territorio: «Ancorche' nella
ratio dell'art. 58 siano ravvisabili anche profili attinenti al
coordinamento della finanza pubblica, in quanto finalizzato alle
alienazioni e valorizzazioni del patrimonio immobiliare degli enti,
non c'e' dubbio che, con riferimento al comma 2 qui censurato, assuma
carattere prevalente la materia del governo del territorio, anch'essa
rientrante nella competenza ripartita tra lo Stato e le Regioni,
avuto riguardo all'effetto di variante allo strumento urbanistico
generale, attribuito alla delibera che approva il piano di
alienazione e valorizzazione. Ai sensi dell'art. 117, terzo comma,
ultimo periodo, Cost., in tali materie lo Stato ha soltanto il potere
di fissare i principi fondamentali, spettando alle Regioni il potere
di emanare la normativa di dettaglio. La relazione tra normativa di
principio e normativa di dettaglio va intesa nel senso che alla prima
spetta prescrivere criteri ed obiettivi, essendo riservata alla
seconda l'individuazione degli strumenti concreti da utilizzare per
raggiungere detti obiettivi» (ex plurimis: sentenze nn. 237 e 200 del
2009).
La disposizione che ha sostituito il comma 2 dell'art. 58 incorre
tuttavia nel medesimo vizio di costituzionalita'.
Infatti, solo in apparenza si rimette alle Regioni la disciplina
delle varianti urbanistiche eventualmente necessarie per assegnare
destinazioni d'uso agli immobili pubblici in dismissione. Infatti, si
stabilisce ora che «Le Regioni, entro 60 giorni dalla data di entrata
in vigore della presente disposizione, disciplinano l'eventuale
equivalenza della deliberazione del consiglio comunale di
approvazione quale variante allo strumento urbanistico generale, ai
sensi dell'articolo 25 della legge 28 febbraio 1985, n. 87, anche
disciplinando le procedure semplificate per la relativa
applicazione». In questo modo, da un lato si impone alla Regione un
termine brevissimo entro il quale esercitare la propria potesta'
legislativa concorrente in materia di governo del territorio,
dall'altro se ne prefigurano addirittura i contenuti in modo
dettagliato. Inoltre, la novella prosegue col disporre - allo stesso
modo gia' stigmatizzato - che «Le Regioni, nell'ambito della predetta
normativa approvano procedure di copianificazione per l'eventuale
verifica di conformita' agli strumenti di pianificazione
sovraordinata, al fine di concludere il procedimento entro il termine
perentorio di 90 giorni dalla deliberazione comunale». Infine, la
novella statale disvela la propria finalita': «Trascorsi i predetti
60 giorni, si applica il comma 2 dell'articolo 25 della legge 28
febbraio 1985, n. 47».
Essendo certo a priori che quel termine non puo' essere
rispettato, stante la sua brevita' in rapporto all'esercizio della
competenza legislativa regionale secondo le vigenti regole e
procedure, la disposizione statale solo in apparenza rispetta
l'autonomia regionale, come richiesto anche dalla sentenza n. 340 del
2009 di codesta Corte: in realta', si impone nuovamente alle Regioni
una disciplina statale di dettaglio.
Per di piu', si tratta di una disciplina inappropriata, in quanto
l'art. 25, comma 2, legge n. 47/1985, nel prevedere l'approvazione
regionale per silenzio assenso, dopo 120 giorni, fa riferimento
quanto all'oggetto alle «norme di cui al comma precedente» e ai
«provvedimenti di cui al precedente comma» che «si intendono
approvati». Ma il precedente comma fa riferimento esclusivamente
all'approvazione di strumenti attuativi in variante agli strumenti
generali (lett. a), all'armonizzazione dei regolamenti edilizi
comunali (lett. b) e a procedure semplificate per l'approvazione di
varianti agli strumenti urbanistici generali «finalizzate
all'adeguamento degli standards urbanistici posti da disposizioni
statali o regionali» (lett. c): nulla che si riferisca al diverso
tema delle varianti agli strumenti generali finalizzate ad attribuire
una destinazione d'uso a immobili pubblici in dismissione.
Conclusivamente, risulta violata la competenza costituzionalmente
riconosciuta alla Regione in materia di governo del territorio ai
sensi dell'art.117, III comma, della Costituzione.
Il comma 2 dell'art. 27 del decreto impugnato inserisce poi un
nuovo articolo 3-ter nel decreto-legge n. 351 del 2001, cosi come
convertito dalla legge n. 410 del 2001, per disciplinare il «processo
di valorizzazione degli immobili pubblici». Si prevedono e
disciplinano dei «programmi unitari di valorizzazione territoriale»
(commi 1-5) e degli accordi di programma (commi 6-10). In
particolare, ai commi 6, 7 e 8, si prevede che il Presidente della
Giunta regionale, ovvero l'Organo di governo preposto, promuova «la
sottoscrizione di un accordo di programma ai sensi dell'articolo 34
del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, nonche' in base alla
relativa legge regionale di regolamentazione della volonta' dei
soggetti esponenziali del territorio di procedere alla variazione di
detti strumenti di pianificazione, al quale partecipano tutti i
soggetti, anche in qualita' di mandatari da parte degli enti
proprietari, che sono interessati all'attuazione del programma. 7.
Nell'ambito dell'accordo di programma di cui al comma 6, puo' essere
attribuita agli enti locali interessati dal procedimento una quota
compresa tra il 5 e il 15 del ricavato della vendita degli immobili
valorizzati se di proprieta' dello Stato da corrispondersi a
richiesta dell'ente locale interessato, in tutto o in parte, anche
come quota parte dei beni oggetto del processo di valorizzazione.
Qualora tali immobili, ai fini di una loro valorizzazione, siano
oggetto di concessione o locazione onerosa, all'Amministrazione
comunale e' riconosciuta una somma non inferiore al 50 e non
superiore al 100 del contributo di costruzione dovuto ai sensi
dell'articolo 16 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e delle relative
leggi regionali per l'esecuzione delle opere necessarie alla
riqualificazione e riconversione, che il concessionario o il
locatario corrisponde all'atto del rilascio o dell'efficacia del
titolo abilitativo edilizio». In particolare, al comma 8 si fissa un
termine «perentorio» di 120 giorni per la conclusione dell'accordo di
programma, imponendo altrimenti al Presidente della Giunta regionale
di attivare e concludere le procedure entro 60 giorni.
L'insieme di questa - invero farraginosa - disciplina, che scende
nel dettaglio dei contenuti e delle procedure, appare incompatibile
con l'autonomia costituzionalmente riconosciuta alla Regione in
materia di governo del territorio e di valorizzazione del proprio
patrimonio, sia a livello legislativo che amministrativo e
finanziario.
Si pone anch'essa pertanto in violazione degli articoli 117, III
comma, 118, I e II comma, e 119, ultimo comma, della Costituzione.
4) Illegittimita' costituzionale dell'art. 31, comma 1, per
violazione degli articoli 114, 117, I e IV comma; 118 della
Costituzione.
4.1. L'art. 31, comma l, del decreto-legge apporta una modifica
al dettato normativo dell'art. 3, comma 1, lettera d-bis), del
decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito con modificazioni
dalla legge 4 agosto 2006, n. 248 (correntemente indicato anche come
«decreto Bersani»).
Il dettato normativo dell'art. 3, comma 1, del decreto Bersani,
cosi come gia' modificato dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, era
formulato nei termini seguenti:
«Regole di tutela della concorrenza nel settore della
distribuzione commerciale.
1. Ai sensi delle disposizioni dell'ordinamento comunitario in
materia di tutela della concorrenza e libera circolazione delle merci
e dei servizi ed al fine di garantire la liberta' di concorrenza
secondo condizioni di pari opportunita' ed il corretto ed uniforme
funzionamento del mercato, nonche' di assicurare ai consumatori
finali un livello minimo ed uniforme di condizioni di accessibilita'
all'acquisto di prodotti e servizi sul territorio nazionale, ai sensi
dell'articolo 117, comma secondo, lettere e) ed m), della
Costituzione, le attivita' commerciali, come individuate dal decreto
legislativo 31 marzo 1998, n. 114, e di somministrazione di alimenti
e bevande sono svolte senza i seguenti limiti e prescrizioni:
a) l'iscrizione a registri abilitanti ovvero possesso di
requisiti professionali soggettivi per l'esercizio di attivita'
commerciali, fatti salvi quelli riguardanti il settore alimentare e
della somministrazione degli alimenti e delle bevande;
b) il rispetto di distanze minime obbligatorie tra attivita'
commerciali appartenenti alla medesima tipologia di esercizio;
c) le limitazioni quantitative all'assortimento merceologico
offerto negli esercizi commerciali, fatta salva la distinzione tra
settore alimentare e non alimentare;
d) il rispetto di limiti riferiti a quote di mercato
predefinite o calcolate sul volume delle vendite a livello
territoriale sub regionale;
d-bis), in via sperimentale, il rispetto degli orari di
apertura e di chiusura, l'obbligo della chiusura domenicale e
festiva, nonche' quello della mezza giornata di chiusura
infrasettimanale dell'esercizio ubicato nei comuni inclusi negli
elenchi regionali delle localita' turistiche o citta' d'arte;
e) la fissazione di divieti ad effettuare vendite
promozionali, a meno che non siano prescritti dal diritto
comunitario;
f) l'ottenimento di autorizzazioni preventive e le
limitazioni di ordine temporale o quantitativo allo svolgimento di
vendite promozionali di prodotti, effettuate all'interno degli
esercizi commerciali , tranne che nei periodi immediatamente
precedenti i saldi di fine stagione per i medesimi prodotti;
f-bis) il divieto o l'ottenimento di autorizzazioni
preventive per il consumo immediato dei prodotti di gastronomia
presso l'esercizio di vicinato, utilizzando i locali e gli arredi
dell'azienda con l'esclusione del servizio assistito di
somministrazione e con l'osservanza delle prescrizioni
igienico-sanitari.
Distribuzione commerciale incompatibili con le disposizioni di
cui al comma 1.
4. Le regioni e gli enti locali adeguano le proprie disposizioni
legislative e regolamentari ai principi e alle disposizioni di cui al
comma 1 entro il 1° gennaio 2007.».
A seguito della modifica, la disposizione al punto d-bis) e'
stata riformulata nei termini seguenti:
«d-bis) il rispetto degli orari di apertura e di chiusura,
l'obbligo della chiusura domenicale e festiva, nonche' quello della
mezza giornata di chiusura infrasettimanale».
In questo modo, e' stato eliminato in via generale ed assoluta
ogni possibile limite relativamente agli orari e ai giorni di
apertura e chiusura, sia per le attivita' commerciali in senso
stretto che per le attivita' di somministrazione di alimenti e
bevande (che d'ora in avanti indicheremo congiuntamente, per
brevita', come «esercizi commerciali»).
Viene cosi' abrogata per incompatibilita' la previgente
disciplina statale degli orari di vendita, posta dagli artt. 11 e 12
del decreto legislativo n. 14/1998 e applicata nella Regione Veneto,
ove si stabiliva:
Art. 11 «Orario di apertura e di chiusura.
1. Gli orari di apertura e di chiusura al pubblico degli esercizi
di vendita al dettaglio sono rimessi alla libera determinazione degli
esercenti nel rispetto delle disposizioni del presente articolo e dei
criteri emanati dai comuni, sentite le organizzazioni locali dei
consumatori, delle imprese del commercio e dei lavoratori dipendenti,
in esecuzione di quanto disposto dall'art. 36, comma 3, della legge 8
giugno 1990, n. 142.
2. Fatto salvo quanto disposto al comma 4, gli esercizi
commerciali di vendita al dettaglio possono restare aperti al
pubblico in tutti i giorni della settimana dalle ore sette alle ore
ventidue. Nel rispetto di tali limiti l'esercente puo' liberamente
determinare l'orario di apertura e di chiusura del proprio esercizio
non superando comunque il limite delle tredici ore giornaliere.
3. L'esercente e' tenuto a rendere noto al pubblico l'orario di
effettiva apertura e chiusura del proprio esercizio mediante cartelli
o altri mezzi idonei di informazione.
4. Gli esercizi di vendita al dettaglio osservano la chiusura
domenicale e festiva dell'esercizio e, nei casi stabiliti dai comuni,
sentite le organizzazioni di cui al comma 1, la mezza giornata di
chiusura infrasettimanale.
5. Il comune, sentite le organizzazioni di cui al comma 1,
individua i giorni e le zone del territorio nei quali gli esercenti
possono derogare all'obbligo di chiusura domenicale e festiva. Detti
giorni comprendono comunque quelli del mese di dicembre, nonche'
ulteriori otto domeniche o festivita' nel corso degli altri mesi
dell'anno.».
Art. 12 «Disposizioni speciali.
1. Le disposizioni del presente titolo non si applicano alle
seguenti tipologie di attivita': le rivendite di generi di monopolio;
gli esercizi di vendita interni ai campeggi, ai villaggi e ai
complessi turistici e alberghieri,. gli esercizi di vendita al
dettaglio situati nelle aree di servizio lungo le autostrade, nelle
stazioni ferroviarie, marittime ed aeroportuali; alle rivendite di
giornali; le gelaterie e gastronomie; le rosticcerie e le
pasticcerie; gli esercizi specializzati nella vendita di bevande,
fiori, piante e articoli da giardinaggio, mobili, libri, dischi,
nastri magnetici, musicassette, videocassette, opere d'arte, oggetti
d'antiquariato, stampe, cartoline, articoli da ricordo e artigianato
locale, nonche' le stazioni di servizio autostradali, qualora le
attivita' di vendita previste dal presente comma siano svolte in
maniera esclusiva e prevalente, e le sale cinematografiche.
2. Gli esercizi del settore alimentare devono garantire
l'apertura al pubblico in caso di piu' di due festivita' consecutive.
Il sindaco definisce le modalita' per adempiere all'obbligo di cui al
presente comma.
3. I comuni possono autorizzare, in base alle esigenze
dell'utenza e alle peculiari caratteristiche del territorio,
l'esercizio dell'attivita' di vendita in orario notturno
esclusivamente per un limitato numero di esercizi di vicinato.».
La nuova disposizione statale travolge poi la legge regionale del
Veneto 21 settembre 2007, n. 29, recante la Disciplina dell'esercizio
dell'attivita' di somministrazione di alimenti e bevande, nella parte
in cui disciplina gli orari di vendita.
L'introduzione di un divieto siffatto sarebbe giustificata, come
si evince dal comma l dell'art. 3 del decreto Bersani nel quale si
incardina la novella, avuto riguardo a «le disposizioni
dell'ordinamento comunitario in materia di tutela della concorrenza e
libera circolazione delle merci e dei servizi» e al «fine di
garantire la liberta' di concorrenza secondo condizioni di pari
opportunita' ed il corretto ed uniforme funzionamento del mercato,
nonche' di assicurare ai consumatori finali un livello minimo ed
uniforme di condizioni di accessibilita' all'acquisto di prodotti e
servizi sul territorio nazionale, ai sensi dell'articolo 117, comma
secondo, lettere e) ed m), della Costituzione».
4.2. Ritiene la Regione Veneto che la modifica apportata all'art.
3, comma l, del decreto Bersani non costituisca ne' adeguamento
dell'ordinamento interno al diritto dell'Unione europea ne' esercizio
di competenza legislativa esclusiva dello Stato ai sensi dell'art.
117, lett. e) ed m), della Costituzione, in relazione alla tutela
della concorrenza e alla determinazione dei livelli essenziali delle
prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere
garantiti su tutto il territorio nazionale.
4.3. Quanto all'ordinamento dell'Unione, non e' dato ravvisarvi
alcuna disposizione incompatibile con una normativa interna che
disciplini giorni ed orari di apertura e chiusura degli esercizi
commerciali, alla luce dell'interpretazione data dalla giurisprudenza
della Corte di giustizia.
4.3.1. Con specifico riferimento al principio di libera
circolazione delle merci e al correlato divieto (art. 34 TFUE) di
misure equivalenti a restrizioni quantitative (intese secondo la nota
«formula Dassonville»), la giurisprudenza comunitaria ha ben chiarito
che non sono vietate quelle normative nazionali applicabili a tutti
gli operatori che svolgono attivita' commerciale nello Stato membro
considerato e che investono nella stessa maniera, in diritto e in
fatto, la commercializzazione di prodotti nazionali e quella di
prodotti importati.
Particolarmente significative in questo senso sono state le
sentenze Keck e Mithouard (24 novembre 1993, causa C-267-268/91,
punti 16-17) e Hunermund (15 dicembre 1993, causa C-292/92, punto
21), ove la Corte non ha incluso fra le misure di effetto equivalente
vietate quelle misure che attengono alle modalita' dell'attivita'
commerciale e non al prodotto, non preordinate alla disciplina degli
scambi e non collegate in alcun modo con la diversita' delle
legislazioni nazionali sul prodotto, insuscettibili percio' di
rendere, direttamente o indirettamente, nella forma o nella sostanza,
meno facile l'accesso al mercato per i prodotti importati. Il
criterio del mutuo riconoscimento delle differenti normative
nazionali investe infatti le normative sul prodotto e non l'attivita'
di vendita, cosicche' restano estranee al campo di applicazione
dell'art. 34 TFUE quelle normative nazionali che non investono
affatto gli scambi o l'integrazione dei mercati.
In particolare, la Corte di giustizia ha fatto applicazione di
questi principi proprio in tema di disciplina nazionale dei giorni ed
orari di apertura degli esercizi commerciali (sentenze 23 novembre
1989, causa C-145/88, B & Q; 28 febbraio 1991, causa C-312/89;
Conforama, e causa C-332/89, Marchandise; 16 dicembre 1992, causa
C-169/91, B & Q; 2 giugno 1994, cause riunite C-69 e 258/93, Punto
Casa e PPV, punto 12; 22 giugno 1994, causa C 401-402/92,
Tankstation, punti 12-14; 20 giugno 1996, cause riunite C-418/93,
C-419/93, C-420/93, C-421/93, C-460/93, C-461/93, C-462/93, C-464/93,
C-9/94, C- 10/94, C-11/94, C-14/94, C-15/94, C-23/94, C-24/94 e
C-332/94, Semeraro, punto 28).
La Corte di giustizia ha riconosciuto che una normativa nazionale
siffatta «persegue un obiettivo legittimo alla luce del diritto
comunitario» in quanto «le discipline nazionali che limitano
l'apertura domenicale di esercizi commerciali costituiscono
l'espressione di determinate scelte, rispondenti alle peculiarita'
socio-culturali nazionali o regionali» e «spetta agli Stati membri
effettuare queste scelte attenendosi alle prescrizioni del diritto
comunitario» (cfr. in particolare il punto 11 della sentenza 16
dicembre 1992, citato al punto 25 della sentenza 20 giugno 1996).
Corrispondentemente, la Corte di cassazione (sentenza 4 novembre
1994, n. 9129, resa a sezioni unite in sede di regolamento di
giurisdizione) ha ribadito che la legislazione interna, statale e
regionale, che vieta l'apertura domenicale degli esercizi di vendita
al dettaglio non contrasta con il principio comunitario della libera
circolazione delle merci, in quanto l'obbligo di chiusura non rientra
nel suo campo di applicazione e non provoca discriminazioni, neppure
dissimulate, tra prodotti nazionali e non nazionali.
Conseguentemente, la Corte ha escluso di poter disapplicare il
diritto interno a favore del diritto dell'Unione.
4.3.2. Anche con riferimento all'altro principio comunitario
richiamato dal decreto Bersani, quello di libera prestazione di
Servizi, quand'anche inteso in senso ampio cosi da includere il
diritto di stabilimento, e' da ritenere che le disposizioni del TFUE
che lo sanciscono (artt. 56 ss., 49 ss. TFUE) e cosi' pure la recente
normativa europea di attuazione (direttiva 2006/123/CE del 12
dicembre 2006 relativa ai servizi nel mercato interno) non siano in
alcun modo incompatibili con normative nazionali sui giorni ed orari
di apertura e chiusura degli esercizi commerciali.
Il diritto di stabilimento nei Paesi membri e' riconosciuto agli
operatori economici senza discriminazioni, ma pur sempre nel rispetto
delle specifiche normative nazionali; infatti, fra gli ostacoli
vietati o da monitorare secondo la direttiva «Bolkestein» non sono
menzionate le regole interne sui giorni ed orari di apertura degli
esercizi commerciali. Cio' rende superfluo osservare poi che la
stessa direttiva «Bolkestein» ammette delle eccezioni ai divieti
posti, in presenza di motivi imperativi di interesse generale, di
talche' perfino nel suo ambito di applicazione permane uno spazio di
operativita' per il diritto interno, e percio' in Italia anche per la
legislazione regionale.
4.3.3. Neppure la disciplina della concorrenza posta dal diritto
dell'Unione (artt. 101-109 TFUE) appare in alcun modo incompatibile
con disposizioni nazionali su giorni ed orari di apertura degli
esercizi commerciali che siano prive di effetti discriminatori ed
anticoncorrenziali e prive di collegamenti con comportamenti propri
delle imprese. Vero e', semmai, il contrario: misure nazionali di
totale liberalizzazione dei giorni ed orari di apertura degli
esercizi commerciali potrebbero finire proprio coll'agevolare
comportamenti anticoncorrenziali, col favorire concentrazioni di
imprese restrittive della concorrenza e lo sfruttamento abusivo di
posizioni dominanti, a danno del consumatore e del suo diritto di
fruire di una struttura distributiva articolata, diffusa e anche di
prossimita' al tessuto urbano consolidato delle citta' e dei paesi
ove si concentra la residenza (cfr. in questo senso la recente
giurisprudenza amministrativa: p.es. TAR per il Veneto, sez. III, 28
luglio 2011, n 126; Id., n. 3819 del 2009).
Lo stesso Parlamento europeo nella recente risoluzione 5 luglio
2011 (2010/2109(INI) su un commercio al dettaglio piu' efficace e
piu' equo ha sottolineato «che le PMI costituiscono l'ossatura
dell'economia europea e rivestono un ruolo unico nella creazione di
posti di lavoro, in particolare nelle zone rurali, e nel favorire
l'innovazione e la crescita nel settore del commercio al dettaglio
nelle comunita' locali in tutta l'UE» (punto 17); ancora, che «la
pianificazione del commercio al dettaglio deve fornire un quadro
strutturale che permetta alle imprese di competere, rafforzare la
liberta' di scelta dei consumatori e consentire l'accesso a beni e
servizi, in particolare nelle regioni meno accessibili o scarsamente
popolate oppure in caso di mobilita' ridotta dei consumatori» (punto
16) e ha insistito «sul ruolo sociale, culturale e ambientale svolto
dai negozi e mercati locali per il rilancio delle zone rurali e dei
centri urbani» (punto 16).
4.3.4. Sul piano della prassi europea, e' significativo che,
secondo una recente analisi di Eurocommerce (all. 2), in tutti i
Paesi membri dell'Unione giorni ed orari di apertura e chiusura degli
esercizi commerciali siano regolamentati, con fissazione di orari
massimi di apertura nei giorni feriali, variabili secondo le
condizioni climatiche e gli usi locali, e non sia mai concessa
assoluta liberta' di apertura, in tutti i giorni dell'anno.
E' parimenti significativo che non si abbia notizia di alcuna
iniziativa da parte della Commissione UE volta a contestare le
normative nazionali per infrazione al diritto UE.
4.4. Passando ora all'ordinamento interno italiano, la disciplina
degli orari e dei giorni di apertura e chiusura degli esercizi
commerciali non e' riconducibile nell'area della competenza
legislativa esclusiva dello Stato ai sensi dell'art. 117 della
Costituzione: non in quella della tutela della concorrenza, per
considerazioni analoghe a quelle svolte con riferimento al diritto
dell'Unione data la consonanza di principi e di regole, e neppure in
quella della determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni
concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su
tutto il territorio nazionale, ai sensi dell'art. 117, comma 2,
lettera m), della Costituzione.
La possibilita' per il consumatore di acquistare merci e servizi
in tutti i giorni festivi o in orari notturni non sembra infatti
configurare un livello essenziale di prestazioni di cui debba
assolutamente fruire, tanto piu' che, ove cosi' fosse, si renderebbe
necessario introdurre semmai prescrizioni volte ad imporre agli
operatori economici, quantomeno a rotazione, l'apertura festiva e
notturna, appunto a tutela dei consumatori; mentre la disposizione
censurata e' chiaramente orientata ad attribuire una mera facolta'
agli operatori economici. L'acquisto di beni o servizi in ogni giorno
ed ogni ora non e' d'altra parte riconducibile fra i diritti civili o
i diritti sociali, nel significato attribuito dalla Carta
costituzionale a questi termini, ne' dei consumatori, ne' degli
esercenti.
Che l'apertura domenicale indiscriminata non sia configurabile
come diritto soggettivo degli esercenti e' stato sancito anche dalla
giurisprudenza della Corte di cassazione (ss.uu., sentenza 4 novembre
1994, n. 9129).
4.5. Che la disciplina dei giorni ed orari di apertura e chiusura
degli esercizi commerciali non ricada nell'ambito della competenza
legislativa esclusiva dello Stato bensi' nella competenza esclusiva
regionale in materia di commercio, e' assunto ormai consolidato nella
giurisprudenza di codesta ecc.ma Corte (sentenza n. 1 del 2004; ord.
11 maggio 2006, n. 199; sentenze 9 marzo 2007, n. 64; 11 maggio 2007,
n. 165; 12 dicembre 2007, n. 430; 24 ottobre 2008, n. 350; 5 luglio
2010, n. 247; 8 ottobre 2010, n. 288; 21 aprile 2011, n. 150).
La tutela della concorrenza non rappresenta dunque un limite
«esterno», atto a comprimere, fino a svuotare, la competenza
regionale nella materia del commercio; costituisce semmai un limite
«interno» alla normativa regionale, nel senso che quest'ultima deve
conformarsi ai generali obiettivi di non discriminazione fra
operatori economici, di apertura al mercato e di eliminazione di
barriere e vincoli al libero esplicarsi dell'attivita' economica (in
questo senso, da ultimo, Corte cost., sentenze n. 18 del 23 gennaio
2012, n. 150 del 2011).
Resta fermo, poi, che l'applicazione delle regole di tutela della
concorrenza non puo' comunque spingersi fino a misconoscere o a
pregiudicare altri valori che configurino motivi imperativi di
interesse generale ritenuti meritevoli di tutela dallo stesso diritto
dell'Unione, dalla Costituzione e dal diritto primario statale.
L'esigenza di un ragionevole contemperamento tra valori e' al fondo
di quella giurisprudenza costituzionale che, di recente, ha
riconosciuto la legittimita' di leggi regionali in materia di
commercio che introducevano differenziazioni di regime con
riferimento alle dimensioni dell'impresa, in quanto ispirate
all'esigenza di interesse generale di riconoscimento e valorizzazione
del ruolo delle piccole e medie imprese gia' operanti sul territorio
regionale (sentenze n. 64 del 2007, n. 288 del 2010).
4.6. Sulla base delle considerazioni fin qui svolte, la
disposizione di legge qui censurata, cosi' come formulata, nella sua
assolutezza e inderogabilita', non trova affatto base giuridica
legittimante ne' nel diritto dell'Unione ne' nell'art. 117, comma 2,
della Costituzione e viola la competenza esclusiva regionale in
materia di commercio attribuita dall'art. 117, comma 4, della
Costituzione. Preclude conseguentemente alla Regione anche
l'esercizio della propria autonomia amministrativa nella materia
considerata e la possibilita' di attribuire funzioni amministrative
ai Comuni.
La novella legislativa ha un effetto opposto a quello perseguito.
Essa non e' adeguata e proporzionata rispetto all'obiettivo e priva
di qualsiasi tutela altri interessi pubblici specifici pur meritevoli
anch'essi di cura. In particolare, finisce col precludere la stessa
possibilita' di graduare il processo di liberalizzazione, in modo che
non travolga gli operatori economici piu' deboli, il mondo delle
piccole e medie imprese commerciali che per dimensioni e struttura
non sono immediatamente in grado di competere 24 ore su 24, in tutti
i giorni festivi dell'anno, cosi' come invece le grandi imprese
distributive, col rischio di disarticolare un mercato distributivo
caratterizzato fin qui da una pluralita' di formule e di offerte,
capace di garantire anche servizi di prossimita', essenziali nei
piccoli paesi e nei centri storici sia per i consumatori che per
l'ambiente urbano e sociale.
4.7. Nel diritto vivente, segnatamente nella recente
giurisprudenza amministrativa, non mancano precisi riferimenti alla
pluralita' dei valori messi in gioco dalla disciplina dei giorni ed
orari di apertura e chiusura degli esercizi commerciali.
Si e' affermato, fra l'altro, che una disciplina locale che
differenziava le aperture domenicali entro e fuori le mura storiche
di una citta' «mira ad una regolamentazione finalizzata a
contemperare i principi e i valori della concorrenza con la
salvaguardia delle aree urbane, dei centri storici, della pluralita'
tra diverse tipologie di strutture commerciali e della funzione
sociale svolta dai servizi commerciali di prossimita'» e che «alla
luce di tale contemperamento vanno lette anche le norme sugli orari e
sulle giornate di apertura e di chiusura degli esercizi commerciali»
(TAR Emilia-Romagna, sentenza n. 8002 del 2010).
Analogamente si e' espresso il TAR per il Veneto:
«la vigente disciplina in materia di commercio (d.lgs. n.
114/98 e d.l. n. 223/06, conv. in legge n. 248/06) non persegue in
via esclusiva una finalita' liberalizzatrice, connessa al solo scopo
di tutelare la liberta' delle imprese e la concorrenza, in una
prospettiva di sostanziale deregolamentazione del settore, giacche'
questo obiettivo avrebbe quale esito estremo il rafforzamento sul
mercato (delle imprese) di maggiori dimensioni a discapito proprio di
un mercato concorrenziale, ed esaurirebbe l'intera disciplina
nell'ambito della competenza legislativa statale di cui all'art. 117,
secondo comma, lett. e) della Costituzione, giungendo a negare una
propria autonomia al "commercio" inteso come «materia attribuita alla
competenza legislativa residuale delle regioni» (pacificamente
riconosciuta invece dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale:
cfr. le sentenze 12 dicembre 2007, n. 430, punto 3.2.2. in diritto;
11 maggio 2007, n. 165; 9 marzo 2007, n. 64; 11 maggio 2006 , n.
199)»;
«In ragione dei rilevanti effetti di carattere urbanistico e
sociale che derivano dalla presenza o meno di esercizi commerciali
sul territorio, la predetta disciplina mira a una regolamentazione
finalizzata a contemperare i principi e i valori della concorrenza
con la salvaguardia delle aree urbane, dei centri storici, della
pluralita' tra diverse tipologie delle strutture commerciali e della
funzione sociale svolta dai servizi commerciali di prossimita'... per
l'art. 1, comma 3, lett. b), d), ed e) del d.lgs. 31 marzo 1998, n.
114, la disciplina sul commercio persegue anche le finalita' della
tutela del consumatore, con particolare riguardo (...) alla
possibilita' di approvvigionamento, al servizio di prossimita', del
pluralismo ed equilibrio tra le diverse tipologie delle strutture
distributive e le diverse forme di vendita, con particolare riguardo
al riconoscimento e alla valorizzazione del ruolo delle piccole e
medie imprese, e della valorizzazione e salvaguardia del servizio
commerciale nelle aree urbane, rurali, montane, insulari»;
«e' pertanto alla luce del contemperamento operato dal
legislatore tra la pluralita' di questi interessi che devono essere
lette anche le norme sugli orari e sulle giornate di apertura e
chiusura degli esercizi commerciali, con la conseguente insussistenza
di una regola che preveda la totale liberalizzazione dei giorni di
apertura.» (sentenza n. 135 del 2010);
«L'art. 6 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 114 attua tali principi
prevedendo una programmazione della rete distributiva che:
renda "compatibile l'impatto territoriale e ambientale degli
insediamenti commerciali con particolare riguardo a fattori quali la
mobilita', il traffico e l'inquinamento e valorizzare la funzione
commerciale al fine della riqualificazione del tessuto urbano, in
particolare per quanto riguarda i quartieri urbani degradati al fine
di ricostituire un ambiente idoneo allo sviluppo del commercio" (art.
6, comma 1, lett. c);
salvaguardi e riqualifichi "i centri storici anche attraverso
il mantenimento delle caratteristiche morfologiche degli insediamenti
e il rispetto dei vincoli relativi alla tutela del patrimonio
artistico ed ambientale" (art. 6, comma 1, lett. d);
favorisca "gli insediamenti commerciali destinati al recupero
delle piccole e medie imprese gia' operanti sul territorio
interessato, anche al fine di salvaguardare i livelli occupazionali
reali e con facolta' di prevedere a tale fine forme di
incentivazione" (art. 6, comma 1, lett. f);
individui "i limiti ai quali sono sottoposti gli insediamenti
commerciali in relazione alla tutela dei beni artistici, culturali e
ambientali, nonche' dell'arredo urbano, ai quali sono sottoposte le
imprese commerciali nei centri storici e nelle localita' di
particolare interesse artistico e naturale" (art. 6, comma 2, lett.
b);
tenga conto dei "centri storici, al fine di salvaguardare e
qualificare la presenza delle attivita' commerciali e artigianali in
grado di svolgere un servizio di vicinato, di tutelare gli esercizi
aventi valore storico e artistico ed evitare il processo di
espulsione delle attivita' commerciali e artigianali" (art. 6, comma
3, lett. c).
E' pertanto alla luce del contemperamento operato dal legislatore
tra la pluralita' di questi interessi che devono essere lette anche
le norme sugli orari e sulle giornate di apertura e chiusura degli
esercizi commerciali.» (TAR Veneto, sez. III, 28 luglio 2011, n 126,
che richiama la propria sentenza n. 3819 del 2009; conf. TAR
Emilia-Romagna, sez. Bologna, n. 8002 del 2010; TAR Piemonte, n. 3585
del 2009; v. anche TAR Lombardia - Milano, n. 5658 del 2010).
4.8. Gli effetti negativi della liberalizzazione assoluta,
immediata e indifferenziata, dei giorni e degli orari di apertura
degli esercizi commerciali introdotta dalla disposizione statale
censurata si colgono con evidenza particolare a quegli esercizi che
somministrano alimenti e bevande.
Ora quei locali possono restare aperti ininterrottamente, anche
per tutta la notte, dovunque, inclusi i centri storici, le zone
prossime ai beni culturali, i luoghi densamente abitati. Gia' era
alta la tensione sociale provocata dalla difficolta' di contemperare
l'attivita' di quei locali, fin qui aperti fino alle 2 di notte, con
il diritto al riposo dei residenti nella zona circostante, con la
mancanza di un adeguato servizio minimo notturno di tutela
dell'ordine e sicurezza pubblici, dei beni culturali, dell'igiene
pubblica. E' noto che la pubblica amministrazione e la forza pubblica
non dispongono di risorse sufficienti ad assicurare neppure un
controllo minimo del territorio nelle ore notturne; l'allarme e'
elevato e gli stessi operatori economici sono disorientati e si
rivolgono all'amministrazione invocando una disciplina ragionevole ed
uniforme. Le stesse associazioni dei consumatori segnalano il
disorientamento dei clienti, che non dispongono piu' di informazioni
preventive e certe sull'apertura degli esercizi commerciali e
esprimono forte disagio di fronte ad una imprevedibilita' che nuoce
alle loro primarie esigenze di programmazione degli acquisti.
Il risultato realmente conseguito dalla misura statale si sta
rivelando controproducente ed incoerente con lo stesso obiettivo
dichiaratamente perseguito, di meglio tutelare i consumatori e di
rafforzare la concorrenza leale e trasparente.
5) Illegittimita' costituzionale dell'art. 35, per violazione degli
articoli 3, 97, I comma, 113, I comma della Costituzione, 117, VI
comma, 118, I e II comma, nonche' della legge costituzionale 18
ottobre 2001, n. 3 e del principio di leale collaborazione di cui
all'art.120 della Costituzione.
L'art. 35 del decreto-legge n. 201/2011, cosi' come convertito,
con modificazioni, dalla legge di conversione 22 dicembre 2011 n.
214, conferisce all'Autorita' garante della concorrenza e del mercato
il potere di intervenire con un parere motivato, entro sessanta
giorni, su tutti gli atti amministrativi generali, i regolamenti e i
provvedimenti di qualsiasi amministrazione pubblica, statale, locale
o regionale, che ritenga emanati in violazione delle norme a tutela
della concorrenza e del mercato. La disposizione prevede poi che se
la pubblica amministrazione non si conformi nei sessanta giorni
successivi, l'Autorita' possa presentare, per il tramite
dell'Avvocatura dello Stato, ricorso giurisdizionale entro i
successivi trenta giorni.
In questo modo, si finisce col sottoporre gli atti regolamentari
ed amministrativi regionali ad un nuovo e generalizzato controllo di
legittimita', su iniziativa di un'Autorita' statale, per certi
aspetti analogo a quella forma di controllo che era originariamente
prevista dal previgente primo comma dell'articolo 125 della
Costituzione ed e' stata poi abrogata con la legge costituzionale n.
3 del 2001. Si deborda pero' dai limiti ricavabili dalla sentenza n.
64 del 2005 di codesta ecc.ma Corte: «E' vero che, con il nuovo
titolo V della Costituzione, i controlli di legittimita' sugli atti
amministrativi degli enti locali debbono ritenersi espunti dal nostro
ordinamento, a seguito dell'abrogazione del primo comma dell'art. 125
e dell'art. 130 della Costituzione, ma questo non esclude la
persistente legittimita', da un lato, dei c.d. controlli interni
(cfr. art. 147 del d.lgs. n. 267 del 18 agosto 2000) e, dall'altro,
dell'attivita' di controllo esercitata dalla Corte dei conti,
legittimita' gia' riconosciuta da una molteplicita' di decisioni di
codesta Corte sulla base di norme costituzionali diverse da quelle
abrogate (cfr. sentenze nn. 470 del 1997; 335 e 29 del 1995)».
Sotto altro profilo, con l'attribuzione all'Autorita' di una
generale legittimazione processuale attiva ad impugnare gli atti
amministrativi generali, i regolamenti ed i provvedimenti di
qualsiasi amministrazione pubblica che a suo parere violino le norme
a tutela della concorrenza e del mercato, la disposizione,
modificando la legge n. 287 del 1990, configura, come e' gia' stato
osservato da una parte della dottrina, una surrettizia introduzione
della figura del Pubblico Ministero nel processo amministrativo,
contrastante con la sua natura strutturale di giurisdizione
soggettiva. Cio' contrasta con l'art. 113, I comma, della
Costituzione, dove si prevede che sia la titolarita' di una posizione
giuridica sostanziale, e la lesione della stessa ad opera del potere
amministrativo, la condizione generale per agire innanzi al giudice
amministrativo. Ne' e' ipotizzabile che l'Autorita' Garante della
concorrenza e del mercato, avendo essa il compito di tutelare
l'interesse pubblico o generale, possa godere di una legittimazione
straordinaria a tutela dell'interesse collettivo degli imprenditori o
dei consumatori.
Non mancano poi, nella disposizione, vari elementi sintomatici di
irragionevolezza e di lesione del principio di certezza del diritto.
Manca una disciplina del termine di decorrenza dei 60 giorni entro i
quali l'Autorita' puo' formulare il proprio parere motivato,
prodromico all'eventuale proposizione del ricorso giurisdizionale
entro i successivi 30 giorni. Siffatta incertezza sul dies a quo si
riflette sulla stabilita' degli atti regolamentari e provvedimentali
regionali, con ulteriore lesione - per difetto di ragionevolezza,
censurabile anche ai sensi dell'art.3 della Costituzione e ai sensi
dell'art.97 sul buon andamento della pubblica amministrazione - della
sfera di autonomia regionale costituzionalmente garantita.
Ancora, la legittimazione ad agire dell'Autorita' non appare
coordinata con la legittimazione propria delle parti private, di
talche' il ricorso dell'una potrebbe risolversi in un intervento di
supplenza o surrogazione in favore di parti private decadute dal
termine per proporre l'impugnativa ordinaria. Palese e' poi
l'incongruenza che si determina quando l'Autorita', tenuta ad
avvalersi del patrocinio dell'Avvocatura di Stato, impugni atti di
un'amministrazione statale, tenuta pur essa ad avvalersi
dell'Avvocatura di Stato.
Si ravvisa in tutto quanto esposto la violazione degli articoli
3, 97, I comma, 113, I comma della Costituzione, 117, VI comma, 118,
I e II comma, nonche' della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n.
3 e del principio di leale collaborazione. La violazione delle
suddette norme si risolve poi anche in una menomazione della potesta'
regolamentare e amministrativa costituzionalmente garantita alla
Regione ai sensi degli articoli 117, VI comma, e 118, I e II comma.
6) Illegittimita' costituzionale dell'art. 44-bis, per violazione
degli articoli 97, 117 e 118 della Costituzione e del principio di
leale collaborazione di cui all'art. 120 della Costituzione.
Preliminarmente all'esposizione delle argomentazioni avverso
l'articolo 44-bis, la difesa regionale reputa necessario analizzare
le circostanze e le condizioni dalle quali ha tratto origine la
disposizione. Particolarmente utile a tale scopo appare la lettura
del Dossier del Servizio Studi della Camera dei deputati, dal quale
si evince che l'articolo in argomento e' stato introdotto durante
l'esame in sede referente e che lo stesso riproduce sostanzialmente
il contenuto di due proposte di legge statali (C. 2727 e C 4161)
giacenti nelle commissioni della Camera dei deputati e di un disegno
di legge (S. 2596) pendente nelle commissioni del Senato.
L'inserimento del testo di cui si tratta durante l'esame della legge
di conversione da parte della Commissione in sede referente, e' stato
evidentemente frutto di una frettolosa redazione dell'articolato che
appare stilato accorpando una pluralita' di disposizioni contenute
nelle proposte legislative summenzionate. Per un verso, quindi,
l'integrazione, che assume particolare rilevanza per le Regioni, non
e' stata concertata nelle sedi istituzionali deputate, in quanto e'
stata decisa soltanto per effetto dell'esame compiuto dalle
commissioni parlamentari; per altro verso, l'esigenza di evitare lo
spreco di risorse finanziarie derivante dalla persistente condizione
di incompletezza delle opere pubbliche per le quali comunque sovente
erano state gia' impiegate ingenti somme, ha conferito alla norma
quella connotazione straordinaria di necessita' e urgenza - propria
della decretazione di cui all'articolo 77 della Costituzione -
secondo un assunto autoreferenziale incompatibile con il parametro di
legittimita' invocato, atteso che proprio il protrarsi ingiustificato
dei lavori, in assenza di qualsiasi risultato utile, ha determinato -
per poter legittimare l'intervento di cui si tratta - una simile
qualificazione in ordine ad opere che originariamente non possedevano
tali caratteristiche, come testimoniano appunto le proposte
legislative di cui erano state fatte oggetto e che erano finalizzate,
per converso, all'emanazione di una mera legge ordinaria ai sensi
degli articoli 70 e ss. della Costituzione.
La norma de qua istituisce, dunque, un elenco-anagrafe statale
presso il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, articolato
a livello regionale, al fine del coordinamento dei dati relativi alle
opere pubbliche incompiute come definite ai commi 1 e 2 della
medesima disposizione. L'operativita' dell'elenco istituito ex lege
spetta al Ministero competente che, entro tre mesi dalla data di
entrata in vigore della legge di conversione, con proprio
regolamento, e' investito del compito di definire le modalita' di
redazione, di formazione della graduatoria nonche' i criteri in base
ai quali le opere sono iscritte nell'elenco, tenendo conto dello
stato di avanzamento dei lavori ed evidenziando le opere prossime al
completamento. Proprio la previsione di un potere regolamentare in
capo al Ministero, al riguardo, potrebbe fondare la supposizione che,
giusta il disposto del comma sesto dell'articolo 117 della
Costituzione, si vena in una materia di legislazione statale
esclusiva. E invero, se si considera l'oggetto sostanziale della
norma in esame, cioe' la creazione una banca dati telematica
finalizzata alla comunicazione di flussi informativi tra lo Stato e
le Regioni, si potrebbe ragionevolmente ricondurre la norma di cui si
tratta alla materia «coordinamento informativo statistico ed
informatico dei dati dell'amministrazione statale, regionale e
locale» di cui all'articolo 117, comma secondo, lettera r) della
Costituzione. Ma la disposizione, in realta', ad avviso dello
scrivente patrocinio, presenta contenuti applicativi che non possono
esaurirsi nell'individuazione di un ambito di sicura competenza
esclusiva statale ed esorbitano dall'anzidetto contesto per i motivi
di seguito specificati che legittimano l'impugnazione de qua.
Infatti, per effetto dell'inquadramento normativo proposto,
afferente l'ambito della disciplina statale, si rende comunque
necessario soffermare l'attenzione sulla tipologia dei dati che
devono essere inseriti nell'elenco-anagrafe citato; si tratta, cioe',
di informazioni correlate alle opere pubbliche incompiute come
definite ai commi l e 2 della medesima disposizione e la formulazione
del testo non permette di individuare con sicurezza se le stesse
siano solo quelle di competenza dello Stato o, per converso,
includano anche quelle di competenza regionale. E invero, che
nell'elenco in argomento siano da annoverarsi anche opere pubbliche
di ambito regionale, potrebbe indursi dalla previsione di una
sub-articolazione regionale, sempre che la stessa non sia invece da
intendersi quale articolazione organizzativa del Ministero indicato
quale titolare esclusivo della funzione di censimento e gestione dei
dati. Ma, sul punto, un elemento sicuramente corroborante l'ipotesi
che le opere pubbliche regionali siano anch'esse oggetto della norma,
al pari di quelle statali, e' rinvenibile nella previsione contenuta
al comma della disposizione, laddove, evocando competenze ed
attribuzioni diverse da quelle meramente statali, testualmente cosi'
recita: «Ai fini dei criteri di cui al comma 5 - cioe' i criteri di
adattabilita' delle opere ai fini del loro riutilizzo ed i criteri
che indicano le ulteriori destinazioni a cui puo' essere adibita ogni
singola opera - si tiene conto delle diverse competenze in materia
attribuite allo Stato e alle regioni.»
L'affermazione, nel contesto considerato, appare di difficile
inserimento se non addirittura apodittica, qualora si postuli la
sussistenza di un ambito esclusivo di competenza legislativa statale,
poiche' conduce inequivocabilmente a concludere che i dati
informativi dell'elenco di cui si tratta non siano solo quelli di
competenza esclusiva dello Stato, ma anche dichiaratamente quelli
regionali. In altri termini, risulta esercitata una potesta'
legislativa esclusiva in ambiti che, per esplicita ammissione del
legislatore, seppure indifferenziata, sono riferibili ad una
pluralita' di competenze che la Costituzione attribuisce sia allo
Stato che alle Regioni. Da cio' si deduce l'incontrovertibile
conclusione che le opere pubbliche incompiute possano riguardare
anche ambiti materiali di competenza concorrente o residuale
regionale.
Dato per assunto l'enunciato che precede, non resta che definire
l'ambito materiale afferente le opere pubbliche a cui si riferiscono
i dati informativi da inserire nell'elenco, al fine di delineare
compiutamente le diverse competenze ripartite tra lo Stato e le
Regioni. Al riguardo, codesta ecc.ma Corte, nella decisione n. 303
del 2003, aveva per la prima volta asserito che i lavori pubblici
«non sono inquadrabili in una materia ma si qualificano a seconda
dell'oggetto al quale afferiscono e pertanto possono essere ascritti
di volta in volta a potesta' legislative esclusive dello Stato ovvero
a potesta' legislative concorrenti». Ne consegue che le diverse
competenze statali o regionali non riguardano la «materia» in se'
considerata, ma e' l'oggetto del lavoro pubblico, cioe' la tipologia
dell'opera pubblica, l'elemento qualificante che puo' afferire a
settori riconducibili a materie di competenza esclusiva statale, di
competenza concorrente o di competenza residuale regionale. Pertanto,
se l'elenco de quo si riferisce a tutte le opere pubbliche esistenti
ed incompiute secondo le definizioni date, non puo' non includere
anche quelle riconducibili a settori esclusivi regionali.
Qualora, continuando nella linea argomentativa prospettata, e
accogliendo la ricostruzione ermeneutica appena delineata, la norma
si fosse limitata a disciplinare solo le modalita' di comunicazione
di flussi informativi, funzionali alla costituzione e manutenzione
dello strumento conoscitivo dato dalla banca dati, in effetti non
sarebbe ravvisabile alcun vulnus alle attribuzioni regionali
costituzionalmente garantite.
Conseguentemente, per quanto attiene tale specifico profilo, la
disposizione non puo' che essere interpretata in senso conforme a
Costituzione, nel senso che lo Stato deve limitarsi a dettare le
regole tecniche funzionati alla comunicazione dei sistemi. Si
richiama, al riguardo, la sentenza n. 133 del 2008, nella parte in
cui codesta ecc.ma Corte ha dichiarato non fondata la questione di
legittimita' costituzionale di disposizioni che, in quanto destinate
a favorire il riuso dei software elaborati su committenza del
Ministro per le riforme e le innovazioni nella pubblica
amministrazione avevano unicamente lo scopo di razionalizzare la
spesa e, nel contempo, favorire l'uniformita' degli standard. Tale
pronuncia, emessa in riferimento alla materia del «coordinamento
informatico», ha cosi' sancito l'applicabilita', anche nei confronti
delle Regioni e degli enti locali, di disposizioni - dettate per
creare strumenti omogenei destinati al contenimento dell'impiego di
risorse finanziarie - che si collocassero all'interno della linea di
confine assegnata alla competenza esclusiva statale, in quanto
recanti regole tecniche funzionali alla comunicabilita' dei sistemi
ed al loro sviluppo collaborativo.
Per converso, nel caso in cui vengano introdotte nel tessuto
ordinamentale norme che, apparentemente indirizzate agli scopi sopra
descritti, contengano in realta' l'attribuzione allo Stato del potere
di individuare criteri di adattabilita' delle opere finalizzati al
riutilizzo delle medesime, nonche' criteri funzionali
all'individuazione di ulteriori destinazioni dell'opera stessa, si
pone in essere un intervento legislativo fisiologicamente idoneo a
pregiudicare, sovvertendola drasticamente, l'autonomia di esercizio
delle competenze legislative ed amministrative regionali, come
garantite dagli articoli 117 e 118 della Costituzione, poiche'
strettamente correlate alle opere pubbliche direttamente imputabili
alla sfera giuridica regionale. Ed invero le determinazioni riferite
al riutilizzo o alla diversa destinazione dell'opera pubblica rimasta
incompiuta che sia, per quanto detto, riconducibile a settori di
esclusiva competenza regionale, devono necessariamente competere in
via assoluta alla Regione interessata.
In tale contesto non pare poter sussistere alcuna potesta'
statale generalizzata, atteso che, qualora si concepisse una
eventuale attrazione, attraverso l'esercizio delle funzioni
amministrative, di potesta' legislative diverse a quelle esclusive
statali, l'intervento normativo potrebbe essere legittimamente posto
in essere solo ed esclusivamente secondo le forme e le modalita'
della c.d. «sussidiarieta' verticale». Ma si tratta di modalita' e
forme del tutto insussistenti in tale fattispecie.
Singolarmente insufficiente, e per l'effetto significativamente
lesiva, risulta cosi' la mera previsione, contenuta al comma 7 della
norma impugnata, secondo cui il regolamento ministeriale, destinato a
definire i criteri di adattabilita' e delle ulteriori destinazioni
delle opere pubbliche regionali, dovrebbe semplicemente «tenere conto
delle diverse competenze». La disposizione, infatti, per come e'
stata strutturata, e' sicuramente contraria ai parametri di garanzia
costituzionale delineati proprio da codesta ecc.ma Corte
Costituzionale nella sentenza n. 303 del 2003, che afferma la
necessarieta' di imporre «ai principi di sussidiarieta' e adeguatezza
una valenza squisitamente procedimentale, poiche' l'esigenza di
esercizio unitario che consente di attrarre, insieme alla finzione
amministrativa, anche quella legislativa, puo' aspirare a superare il
vaglio di legittimita' costituzionale solo in presenza di una
disciplina che prefiguri un iter in cui assumano il dovuto
risalto le attivita' concertative e di coordinamento orizzontale,
ovverosia le intese, che devono essere condotte in base al principio
di lealta'.» Appare cosi di tutta evidenza come, al contrario, in
tale fattispecie sia stato omesso qualunque riferimento al dovuto
coinvolgimento regionale sul punto, da congegnare nella forma della
necessaria intesa, proprio come ribadito nella menzionata decisione
n. 303 del 2003.
Ne consegue che le modalita' di redazione e di formazione della
graduatoria, nonche' i criteri di cui al comma 5, tutti indubbiamente
riferibili all'attuazione dell'elenco anagrafe statale, laddove
fossero intesi riferiti anche ad opere pubbliche afferenti a materie
di competenza concorrente o di competenza esclusiva regionale,
dovrebbero necessariamente essere concordati mediante lo strumento
dell'intesa raggiunta in sede di Conferenza Stato-Regioni. L'omessa
previsione di un tale strumento concertativo risulta pertanto
contraria al principio di leale collaborazione nei rapporti tra Stato
e Regioni riconosciuto nell'articolo 120 della Costituzione.
Sul punto non pare potersi fondatamente obiettare che il
riferimento alla competenza esclusiva annessa a quel «coordinamento
informativo statistico ed informatico» di cui all'articolo 117, comma
secondo, lettera r), della Costituzione escluda il coinvolgimento
regionale nelle ipotesi in cui detta materia si intrecci con altre
competenze regionali. Si rammenta, al riguardo, come codesta ecc.ma
Corte, nella sentenza n. 31 del 2005, abbia dichiarato
l'illegittimita' del comma 3 dell'articolo 26 della legge n. 289 del
2003 in quanto la previsione ivi contenuta, nella parte in cui
contemplava il mero parere della Conferenza Unificata, non era stata
ritenuta dal giudice delle leggi misura adeguata a garantire il
rispetto del principio di leale collaborazione di cui si e' detto. Ed
invero in tale pronuncia e' stato chiarito il principio, qui
invocato, per il quale, per quanto la disposizione in esame sia
riconducibile alla materia «coordinamento informativo statistico ed
informatico» di spettanza esclusiva del legislatore statale, la
stessa presenta un contenuto precettivo idoneo a determinare una
forte incidenza sull'esercizio concreto delle funzioni propria della
materia «organizzazione amministrativa delle Regioni e degli enti
locali», con cio' rendendo indispensabile garantire un piu' incisivo
coinvolgimento nella fase di attuazione delle disposizioni attraverso
il corretto ricorso allo strumento dell'intesa.
Per altro verso, la norma si presta a essere oggetto di censura
anche secondo un ulteriore ed autonomo taglio ermeneutico, desumibile
da eventuali finalita' di natura finanziaria, collegate allo spreco
delle risorse economiche impiegate per tali opere rimaste appunto
incompiute, e che come tale sarebbe riconducibile alla materia
concorrente del «coordinamento della finanza pubblica». Infatti,
anche a voler aderire a simile prospettazione interpretativa, in ogni
caso rimarrebbe del tutto impregiudicata ed inalterata la titolarita'
dell'opera che non potrebbe subire trasformazioni radicali al punto
da essere qualificata statale anche se di competenza regionale. Nello
specifico, codesta ecc.ma Corte, nella decisione n. 302 del 2003,
seppure intervenendo in un giudizio instaurato in epoca antecedente
la novella costituzionale del 2001, quando cioe' il riparto di
attribuzioni tra Stato e Regioni presentava contenuti del tutto
diversi dagli attuali, aveva tuttavia affermato che «si deve
escludere che il criterio del finanziamento prevalente sia
suscettibile di trasferire un'opera pubblica dalla sfera di
competenza regionale a quella statale.».
Si rammenta come, nella sentenza n. 79 del 2011, codesta ecc.ma
Corte abbia riconosciuto la sussistenza di una deroga alla competenza
regionale, per effetto dell'avvenuta classificazione dell'opera tra
quelle di valore strategico nazionale con conseguente provvista, da
parte dello Stato, dei mezzi finanziari per realizzarla. E tale
assunto non puo' non valere anche relativamente alla disposizione
impugnata, per quanto la stessa non esaurisca il proprio ambito
applicativo alle sole opere strategiche di cui alla legge 21 dicembre
2001, n. 443, come era invece previsto nella proposta di legge C. n.
4161 e nel disegno di legge S. n. 2596, con statuizione certamente
piu' omogenea e costituzionalmente orientata.
La specificazione, contenuta al comma 4, secondo il quale
«l'elenco-anagrafe di cui al comma 3 e' articolato a livello
regionale mediante l'istituzione di elenchi-anagrafe presso gli
assessorati regionali competenti per le opere pubbliche» si configura
come decisamente invasiva della sfera di titolarita' legislativa
concernente l'organizzazione regionale tutelata dal combinato
disposto degli articoli 97 e 117, quarto comma della Costituzione.
Altrimenti detto, il precetto di dettaglio contenuto nella norma
censurata laddove prevede che lo Stato, dopo aver istituito l'elenco
nazionale, certamente di propria spettanza, pervenga a declinare il
modello dell'articolazione, non puo' comprimere la potesta' regionale
cui compete la strutturazione dello schema organizzativo, nel quale
e' certamente ricompresa anche l'individuazione del soggetto
detentore dell'elenco di cui si tratta. L'attribuzione e la
ripartizione delle funzioni amministrative regionali, e quindi anche
la tenuta e gestione dell'elenco, compete espressamente ad un organo
regionale, ovvero alla Giunta regionale, ai sensi dell'ordinamento
regionale veneto vigente.
La sussistenza della competenza legislativa regionale anche
nell'ambito della materia «lavori pubblici», e' stata infatti
riconosciuta anche da Codesta ecc.ma Corte nella decisione n. 53 del
2011, per l'appunto in relazione ai profili meramente organizzativi,
in quanto attinenti all'organizzazione interna degli apparati
amministrativi e tecnici regionali.
La lesione prodotta dalla norma impugnata nell'odierno giudizio,
nella parte in cui ignora la potesta' organizzativa esistente in
materia come tutelata dalla Carta Fondamentale, e' aggravata dalla
mancata previsione di una clausola di cedevolezza che, limitando
l'efficacia del precetto statale, consentisse l'integrazione
normativa regionale con cio' riconoscendone le attribuzioni. Sul
punto, si richiama anche quanto asserito da codesta ecc.ma Corte
nella sentenza n. 401 del 2007, che ha dichiarato l'illegittimita'
della disposizione -riferita alla composizione della commissione
giudicatrice - contenuta nell'articolo 84 del decreto legislativo n.
163 del 2006, poiche' non prevedeva una clausola di cedevolezza
rispetto alla normativa regionale divergente, cosi' assumendo la
sussistenza della lamentata violazione della potesta' organizzativa
riconosciuta agli enti diversi dallo Stato.
Appare di tutta evidenza come il quadro giuridico e istituzionale
sopra delineato, afferente le potesta' legislative ed amministrative
correlate all'allocazione dei compiti nell'ambito del modello
organizzativo regionale, non possa subire consistenti alterazioni per
la ritenuta primazia di quelle esigenze di uniformita' nazionale
connesse al «coordinamento informativo statistico ed informatico dei
dati» certamente di competenza esclusiva statale. Ed invero in tale
fattispecie non si vede come, qualora la Regione legittimamente
indicasse la struttura regionale competente alla tenuta e gestione
dell'elenco, potesse risultare compromesso il mero coordinamento
informativo di dati che si realizzerebbe comunque per effetto della
connessione della banca dati. Per questo, la inderogabile
indicazione, come effettuata nella norma, del soggetto legittimato a
detenere i dati, individuato oltretutto in un rappresentante politico
e non in un organo tecnico, si configura ultronea e patentemente
lesiva della autonomia regionale. Il patrocinio regionale, al
riguardo, invoca fermamente il principio espresso da codesta ecc.ma
Corte nella decisione n. 376 del 2003, gia' richiamata, per il quale
solo il mero coordinamento informativo perseguito dallo Stato
nell'ambito della materia di competenza esclusiva, per se' solo non
puo' essere legittimato a ledere sfere di autonomia
costituzionalmente garantite. L'eccedenza dell'ambito di previsione,
ove non necessaria e proporzionata al conseguimento dell'obiettivo
statale, integra, correlativamente, un vulnus alle prerogative
regionali costituzionalmente garantite.
Sul punto specifico, inoltre, come codesta ecc.ma Corte ha avuto
modo di precisare nella decisione n. 271 del 2005 «questo esclusivo
potere legislativo statale concerne solo un coordinamento di tipo
tecnico che venga ritenuto opportuno dal legislatore statale e il cui
esercizio, comunque, non puo' escludere una competenza regionale
nella disciplina e gestione di una propria rete informativa». Se
dunque non si ravvisano assiomi ostativi a che una Regione possa gia'
aver introdotto nel proprio tessuto organizzativo una propria banca
dati delle opere pubbliche, nella piena titolarita' delle proprie
competenze, una disposizione statale che intervenisse al riguardo
potrebbe al piu' solamente affermare la necessarieta' del
coordinamento, da cui scaturirebbe la valutazione opzionale, per
l'Amministrazione regionale, di modellare la banca dati gia'
esistente, adeguandola, in ragione degli standard funzionali alla
gestione, oppure di crearne una nuova, dedicata all'assolvimento
degli obblighi di coordinamento statale di cui si e' detto, fatta
salva, in ogni caso, la concertazione circa la definizione dei
parametri e dei criteri di uniformita' che non possono essere
autoritativamente imposti per quanto supra argomentato.
La pretesa regionale all'espunzione della disposizione de qua non
appare affatto irragionevole ne' eccessiva, atteso che l'infelice
formulazione dell'articolo, come gia' ipotizzato, frutto di stesure
frettolose e non coordinate, appare ancora piu' stridente se
confrontata con leggi successive, concettualmente correlate alla
norma odiernamente impugnata, quali il d.lgs. 29 dicembre 2011, n.
229, «Attuazione dell'articolo 30, comma 9, lettere e), f), e g),
della legge 31 dicembre 2009, n.196, in materia di procedure di
monitoraggio sullo stato di attuazione delle opere pubbliche, di
verifica dell'utilizzo dei finanziamenti nei tempi previsti e
costituzione del Fondo opere e del Fondo progetti», pubblicato nella
G.U. n. 30 del 6 febbraio 2012 ed entrato in vigore il 21 febbraio
2012. Tale decreto, in concreto, nel disciplinare un sistema
gestionale informatizzato finalizzato al monitoraggio delle opere
pubbliche e interessante tutte le pubbliche amministrazioni, lungi
dal dettare precetti incidenti sull'assetto organizzativo delle
stesse, si limita correttamente a dettare regole specifiche
indispensabili alla funzionalita' del sistema in riferimento alle
caratteristiche ed alle finalita' dell'intervento normativo, per
molte ragioni non dissimile da quello oggetto del presente giudizio.
Istanza di sospensione
Ai sensi dell'art. 35 della legge n. 87/53, come sostituito
dall'art. 9 della legge n. 131/2003
La Regione del Veneto chiede che codesta ecc.ma Corte, nelle more
del giudizio di legittimita' costituzionale delle disposizioni di
legge statale qui censurate, sospenda l'esecuzione degli articoli 23,
commi da 14 a 20, e 31, comma 1, ai sensi dell'art. 35 della legge n.
87/53, come sostituito dall'art. 9 della legge n. 131/2003, che tanto
consente in presenza di un rischio di pregiudizio grave e
irreparabile all'interesse pubblico o per i diritti dei cittadini.
Quanto all'art. 23, commi da 14 a 20, ne deriva la immediata
preclusione delle elezioni per il rinnovo dei consigli provinciali
sciolti o in scadenza. Cio' determina, nel Veneto, l'effetto
immediato di impedire l'indizione per la prossima primavera 2012
delle elezioni per il rinnovo del consiglio provinciale di Belluno,
attualmente sciolto, e del consiglio provinciale di Vicenza, in
scadenza di mandato.
I cittadini di quelle province si vedono dunque negato
l'elettorato attivo e la rappresentanza democratica a livello
provinciale, e alla Regione del Veneto e' preclusa la possibilita' di
continuare ad avvalersi di quegli Enti per l'esercizio delle numerose
ed importanti funzioni loro attribuite.
A quest'ultimo proposito, poi, le disposizioni censurate
impongono alla Regione del Veneto di provvedere entro il 31 dicembre
2012 al trasferimento delle funzioni conferite dalla normativa
vigente alle Province, nonche' delle loro risorse umane, finanziarie
e strumentali, ai Comuni o alla Regione stessa per assicurarne
l'esercizio unitario, a pena di subire il potere sostitutivo statale.
Si tratta di adempimenti che richiedono interventi sia
legislativi che amministrativi complessi e onerosi anche sul piano
finanziario ed organizzativo, con riflessi anche su migliaia di
dipendenti.
Risponde all'interesse generale evitare l'avvio di un processo di
tali dimensioni - che avrebbe effetti irreversibili sulle
istituzioni, sui dipendenti, sulla vita dei cittadini - prima che ne
sia approfonditamente valutata la compatibilita' costituzionale.
Quanto all'art. 31, comma 1, l'improvvisa deregolamentazione sta
recando grave pregiudizio proprio alla concorrenza e trasparenza del
mercato, e alla certezza del diritto per tutte le parti coinvolte,
operatori economici e consumatori. La istantanea soppressione di ogni
limite agli orari e giorni di apertura e chiusura degli esercizi
commerciali, specie con riguardo alle attivita' di somministrazione
di alimenti e bevande, sta determinando nel Veneto un forte allarme
sociale, anzitutto con riguardo alla sicurezza pubblica nelle ore
notturne, e un grave disorientamento sia della clientela che degli
operatori e delle stesse amministrazioni comunali, incalzate dalla
popolazione a intervenire d'urgenza per dare indicazioni univoche e
criteri di comportamento uniformi. Gia' si profila un diffuso
contenzioso.
Risponde dunque all'interesse generale sospendere l'esecuzione
dell'art. 31, comma 1, nelle more del giudizio di legittimita'
costituzionale, per evitare pericoli per la sicurezza pubblica e il
rischio concreto di un'irreversibile alterazione del mercato, a danno
soprattutto delle piccole e medie imprese.
P.Q.M.
Chiede che l'ecc.ma Corte costituzionale sospenda l'esecuzione
degli articoli 23, commi da 14 a 20, e 31, comma 1, del decreto-legge
n. 201/2011, cosi' come convertito, con modificazioni, dalla legge di
conversione 22 dicembre 2011 n. 214, pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale n. 300 del 27 dicembre 2011;
dichiari la illegittimita' costituzionale degli articoli 5, 23
commi da 14 a 20, 27, 31 comma l, 35, 44-bis, del decreto-legge n.
201/2011, cosi' come convertito, con modificazioni, dalla legge di
conversione 22 dicembre 2011 n. 214, pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale n. 300 del 27 dicembre 2011, in relazione alle disposizioni
costituzionali indicate in epigrafe.
Si depositano:
1. delibera della Giunta Regionale n. n. 150 del 31 gennaio
2012, di autorizzazione a proporre ricorso e affidamento
dell'incarico di patrocinio per la difesa regionale;
2. documento di fonte Eurocommerce del 2010 sulla prassi
europea di regolamentazione dei giorni ed orari di apertura e
chiusura degli esercizi commerciali;
3. Dossier UPI «Una proposta per il riassetto delle
Province», a cura CERTeT Bocconi 6 dicembre 2011;
4. Dossier UPI «Le Province allo specchio. Le funzioni, I
bilanci. I costi», Roma, 20 gennaio 2012.
Treviso-Venezia-Roma, 14 febbraio 2012
avv. prof. Barel - avv. prof. Antonini - avv. Zanon - avv. Palumbo -
avv. Manzi