Ricorso per questione di legittimita'  costituzionale  depositato  in

cancelleria il 23 febbraio 2012 (della Regione Veneto) .

 

 (GU n. 12 del 21.03.2012 ) 

 

 

 

     Ricorso proposto dalla Regione Veneto, (C.F…. - P.IVA …), in persona del Presidente della Giunta Regionale  dott. Luca Zaia (C.F….),  autorizzato  con  delibera  della Giunta regionale n. 150 del 31 gennaio 2012 (all. 1), rappresentato e difeso, per mandato a margine del  presente  atto,  tanto  unitamente quanto  disgiuntamente,  dagli  avv.ti  prof.   Bruno   Barel   (C.F.

…) del Foro di  Treviso,  prof.  Luca  Antonini  (C.F. …)   del   Foro   di   Milano,   Ezio   Zanon    (C.F. …)  coordinatore  dell'Avvocatura  regionale,  Daniela Palumbo (C.F….) della Direzione Affari Legislativi  e Luigi Manzi (C.F….) del Foro di Roma,  con  domicilio eletto presso lo studio di quest'ultimo in Roma, Via Confalonieri, n. 5 (per eventuali comunicazioni:  fax  …,  posta  elettronica certificata …);

    Contro il Presidente del  Consiglio  dei  ministri  pro  tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello  Stato,  presso la quale e' domiciliato ex lege in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

    Per  la  dichiarazione  di  illegittimita'  costituzionale  delle seguenti disposizioni del decreto-legge  6  dicembre  2011,  n.  201, cosi' come convertito in legge, con  modificazioni,  dalla  legge  di conversione 22 dicembre  2011,  n.  214,  pubblicata  nella  Gazzetta Ufficiale n. 300 del 27 dicembre 2011:

        dell'art. 5, per violazione degli articoli 3, 117, III  e  IV comma; 118, I e II comma; 119 della Costituzione e del  principio  di leale collaborazione tra Stato e Regioni di cui  all'art.  120  della Costituzione;

        dell'art. 23, comma 14, per violazione degli articoli 118,  I e II comma, della Costituzione;

        dell'art. 23, comma 15, per violazione degli articoli 3, 5  e 114 della Costituzione;

        dell'art. 23, comma 16, per violazione degli articoli  l,  5, 114, 138 della Costituzione;

        dell'art. 23, comma 17, per violazione degli articoli 3, 5  e 114 della Costituzione;

        dell'art. 23, comma 18, per violazione degli articoli 118,  I e II comma, e 120 della Costituzione;

        dell'art. 23, comma  19,  per  violazione  dell'articolo  119 della Costituzione;

        dell'art. 23, comma 20, per violazione degli articoli 1, 3, 5 e 114 della Costituzione;

        dell'art. 27, per violazione degli articoli 117,  118  e  119 della Costituzione;

        dell'art. 31, comma I, per  violazione  degli  articoli  114, 117, I e IV comma, 118 della Costituzione;

        dell'art. 35, per violazione degli articoli 3, 97,  I  comma,

113, I comma, della Costituzione, 117, VI comma, 118, I e  II  comma,

nonche' della legge costituzionale  18  ottobre  2001,  n.  3  e  del

principio  di  leale  collaborazione  di  cui  all'art.   120   della

Costituzione;

        dell'art. 44-bis, per violazione degli articoli 97, 117 e 118

della Costituzione e del principio di  leale  collaborazione  di  cui

all'art. 120 della Costituzione;

    Con istanza di sospensione dell'art. 23, commi  da  14  a  20,  e

dell'art. 31, comma 1.

Premessa.

    Il  decreto-legge  n.  201/2011,  cosi'  come   convertito,   con

modificazioni, dalla legge di conversione 22 dicembre 2011,  n.  214,

pubblicata nella G.U. n. 300 del 27 dicembre 2011, contiene  numerose

disposizioni che contrastano con il quadro complessivo dell'autonomia

territoriale   cosi'   come   risultante   dalla    Costituzione    e

conseguentemente ledono il sistema  costituzionale  delle  competenze

riconosciute alla Regione.

    In particolare, l'art.  5  del  decreto-legge  prevede:  «1.  Con

decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri,  su  proposta  del

Ministro del lavoro e delle politiche sociali,  di  concerto  con  il

Ministro dell'economia e delle finanze,  da  emanare,  previo  parere

delle Commissioni parlamentari competenti, entro il 31  maggio  2012,

sono rivisti le modalita' di determinazione e i campi di applicazione

dell'indicatore della situazione economica equivalente (ISEE) al fine

di: adottare una definizione di reddito disponibile  che  includa  la

percezione di somme, anche se esenti da imposizione  fiscale,  e  che

tenga conto delle quote  di  patrimonio  e  di  reddito  dei  diversi

componenti della famiglia nonche' dei pesi dei carichi familiari,  in

particolare dei figli successivi al secondo e di persone  disabili  a

carico;   migliorare   la   capacita'   selettiva    dell'indicatore,

valorizzando in misura maggiore la componente patrimoniale  sita  sia

in Italia sia all'estero, al netto del debito residuo per  l'acquisto

della stessa e tenuto conto delle imposte  relative;  permettere  una

differenziazione  dell'indicatore  per  le   diverse   tipologie   di

prestazioni. Con il medesimo decreto sono individuate le agevolazioni

fiscali e tariffarie nonche' le provvidenze di  natura  assistenziale

che, a decorrere  dal  1°  gennaio  2013,  non  possono  essere  piu'

riconosciute ai soggetti in possesso di un ISEE superiore alla soglia

individuata con il decreto  stesso.  Con  decreto  del  Ministro  del

lavoro e  delle  politiche  sociali,  di  concerto  con  il  Ministro

dell'economia e delle finanze, sono definite  le  modalita'  con  cui

viene rafforzato il sistema dei controlli dell'ISEE, anche attraverso

la   condivisione   degli   archivi   cui   accedono   la    pubblica

amministrazione e gli enti pubblici e prevedendo la  costituzione  di

una banca dati  delle  prestazioni  sociali  agevolate,  condizionate

all'ISEE, attraverso l'invio telematico all'INPS, da parte degli enti

erogatori, nel rispetto delle disposizioni del codice in  materia  di

protezione dei dati personali,  di  cui  al  decreto  legislativo  30

giugno 2003, n. 196,  delle  informazioni  sui  beneficiari  e  sulle

prestazioni  concesse.  Dall'attuazione  del  presente  articolo  non

devono derivare  nuovi  o  maggiori  oneri  a  carico  della  finanza

pubblica. I risparmi derivati dall'applicazione del presente articolo

a  favore  del  bilancio  dello  Stato  e  degli  enti  nazionali  di

previdenza e di assistenza  sono  versati  all'entrata  del  bilancio

dello Stato per essere riassegnati al Ministero del  lavoro  e  delle

politiche  sociali  per   l'attuazione   di   politiche   sociali   e

assistenziali. Con decreto del Ministro del lavoro e delle  politiche

sociali, di concerto con il Ministro dell'economia e  delle  finanze,

si  provvede  a  determinare   le   modalita'   attuative   di   tale

riassegnazione».

    In questi termini,  la  norma  prevede:  a)  l'emanazione  di  un

decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri,  su  proposta  del

Ministro del lavoro e delle politiche sociali,  di  concerto  con  il

Ministro dell'economia  e  delle  finanze,  per  la  revisione  delle

modalita'   di   determinazione   ed   i   campi   di    applicazione

dell'indicatore della situazione economica equivalente (Isee); b)  la

definizione, con decreto del Ministro del lavoro  e  delle  politiche

sociali, di concerto con il Ministro dell'economia e  delle  finanze,

delle modalita' con cui viene rafforzato  il  sistema  dei  controlli

dell'Isee; c) la determinazione, sempre con decreto del Ministro  del

lavoro e  delle  politiche  sociali,  di  concerto  con  il  Ministro

dell'economia e delle finanze, delle modalita' di  riassegnazione  al

Ministero  del  lavoro  e  delle  politiche  sociali  dei   risparmi,

derivanti   dall'attuazione   delle   nuove   norme,   da   destinare

all'attuazione di politiche sociali e assistenziali.

    Nel prevedere una revisione dell'Isee, nella disposizione non  si

fa nessun cenno ad un'intesa con  le  Regioni  o  con  la  Conferenza

unificata,  cosi  come  non  si  prevede  nulla  in  relazione   alla

possibilita' per gli enti  erogatori  di  modulare  diversamente  gli

indicatori.

    Si tratta di previsioni procedurali e sostanziali che erano state

previste dalla disciplina attualmente in  vigore  -  seppure  emanata

prima della  riforma  del  Titolo  V  della  Costituzione  -  che  ha

significativamente  aumentato  l'autonomia  regionale  nella  materia

della assistenza sociale. Gia' il  decreto  legislativo  n.  130  del

2000, infatti, nel modificare il decreto legislativo 31  marzo  1998,

n. 109, istitutivo dell'Isee, era stato emanato sentita la Conferenza

unificata. Oltre a queste gravi omissioni,  la  stessa  procedura  da

seguire appare alquanto  anomala,  dal  momento  che  assegna  ad  un

decreto del Presidente del Consiglio  dei  Ministri,  che  non  viene

nemmeno  qualificato  come  di  natura  regolamentare,  la  forza  di

modificare una disciplina stabilita da fonti primarie. La  previsione

che i risparmi derivanti  dall'attuazione  delle  nuove  norme  siano

determinati con decreto ministeriale e riassegnati al  Ministero  del

lavoro,  infine,  non  sembra  considerare  minimamente  la   stretta

interconnessione che esiste tra le  politiche  regionali  in  materia

sociale   e   socio   assistenziale   che   spesso   hanno   assunto,

volontariamente o perche' tenute a  farlo,  l'indicatore  in  oggetto

come parametro.

    L'art. 23 del decreto-legge in oggetto  ai  commi  15,  16  e  17

trasforma  la  Provincia  da  ente  politico  rappresentativo   della

popolazione inclusa nell'ambito territoriale di riferimento a ente di

secondo grado, i cui  organi  di  governo  sono  identificati  in  un

Consiglio provinciale composto da non piu' di dieci componenti eletti

dai Consigli  comunali  e  in  un  Presidente  eletto  dal  Consiglio

provinciale tra i suoi componenti. Per le modalita'  di  elezione  si

rinvia a una legge statale da emanare entro il 31 dicembre 2012.

    Per gli organi provinciali che  vanno  al  rinnovo  entro  il  31

dicembre 2012 il comma 20  dell'art.  23  del  decreto-legge  dispone

l'applicazione, sino al 31 marzo  2013,  dell'art.  141  del  decreto

legislativo n. 267/2000 relativo a «Scioglimento  e  sospensione  dei

consigli comunali e provinciali».

    In questo modo - con alcuni  commi  di  una  disposizione  di  un

decreto-legge, all'interno di un articolo alquanto  eterogeneo,  dove

si tratta ad esempio della riduzione  dei  componenti  del  Consiglio

Nazionale  della  Economia  e  del  Lavoro  e  di   altre   Autorita'

indipendenti   -   viene   disciplinato   un    tema    eminentemente

costituzionale: in proposito, basta considerare il  dibattito  svolto

dall'Assemblea costituente sulla  soppressione  delle  Province  come

enti autonomi in relazione alla nascita delle Regioni.

    E'  evidente  che  le  Province  sono   state   concepite   dalla

Costituzione come enti di governo locale, elettivi di primo grado,  e

che questa posizione e' stata confermata e rafforzata con la  riforma

del Titolo V, anzitutto nel nuovo art. 114 dove si  prevede  che  «la

Repubblica e' costituita dai Comuni,  dalle  Province,  dalle  Citta'

metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato».

    La tecnica normativa utilizzata  appare  poi  irragionevole  dove

disciplina il destino degli  organi  provinciali  che  devono  essere

rinnovati entro il 31 dicembre 2012: senza nemmeno porre  un'apposita

disciplina,  il  comma  20  dell'art.  23  del  decreto-legge  rinvia

all'art. 141 del T.u.e.l., che regolamenta ipotesi del tutto  diverse

da quella in oggetto.  Tale  disposizione,  infatti,  attiene  a  ben

precise  cause,  riguardanti  la   dinamica   patologica   che   puo'

verificarsi in un ente territoriale quando un  Consiglio  provinciale

compia  atti  contrari  alla  Costituzione  o  gravi  e   persistenti

violazioni di legge; quando non possa essere  assicurato  il  normale

funzionamento degli organi e dei servizi per: impedimento permanente,

rimozione, decadenza,  decesso  o  dimissioni  del  presidente  della

provincia;  nel  caso  di  cessazione  dalla  carica  per  dimissioni

contestuali,  ovvero   rese   anche   con   atti   separati   purche'

contemporaneamente presentati al protocollo  dell'ente,  della  meta'

piu' uno dei membri assegnati;  nel  caso  di  riduzione  dell'organo

assembleare per impossibilita' di surroga alla meta'  dei  componenti

del consiglio; quando non sia approvato nei termini il  bilancio.  In

questi casi i'  consigli  provinciali  vengono  sciolti  con  decreto

presidenziale, su  proposta  del  Ministro  dell'interno;  e  con  il

decreto di scioglimento si provvede alla nomina  di  un  commissario,

che esercita le attribuzioni conferitegli con il decreto  stesso.  E'

la dinamica patologica che si e' verificata nell'ente a  giustificare

il commissariamento, con  la  sospensione  del  potere  dei  soggetti

democraticamente eletti. Nulla a che fare, quindi, con una ipotesi di

scioglimento derivante dalla stessa previsione legislativa.

    La previsione del comma 14 dell'art.  23  del  decreto  impugnato

stabilisce  poi  che  «spettano  alla  Provincia  esclusivamente   le

funzioni di indirizzo e  coordinamento  delle  attivita'  dei  Comuni

nelle materie e nei limiti indicati con legge  statale  e  regionale,

secondo le rispettive competenze».

    In questo modo vengono svuotate le funzioni amministrative  delle

Province  e  ridotte  esclusivamente  a  funzioni  di   coordinamento

dell'attivita' dei Comuni.

    Tale disposizione, oltre a porsi in contrasto con  le  previsioni

degli art.117, II comma, lett. p), e 118, II comma, dove  si  afferma

che le Province sono titolari di funzioni amministrative fondamentali

e proprie, oltre a quelle conferite con legge  statale  o  regionale,

comprime indebitamente la competenza legislativa regionale che  nelle

materie di propria competenza, anche residuale, si trova  limitata  a

poter trasferire solo funzioni  di  indirizzo  e  coordinamento,  non

potendo piu' configurarsi come il soggetto  deputato  a  declinare  i

principi  di  sussidiarieta',  adeguatezza  e  differenziazione  come

invece  stabiliscono   i   primi   due   commi   dell'art.118   della

Costituzione.

    La  previsione  del  comma  18  dell'art.  23  del  decreto-legge

rafforza poi la lesione delle competenze regionali, la' dove  prevede

che: «Lo Stato e le Regioni, con propria legge, secondo le rispettive

competenze, provvedono a trasferire ai Comuni, entro il  31  dicembre

2012, le funzioni conferite dalla normativa  vigente  alle  Province,

salvo che, per assicurarne  l'esercizio  unitario,  le  stesse  siano

acquisite dalle Regioni, sulla base dei principi  di  sussidiarieta',

differenziazione ed adeguatezza. In  caso  di  mancato  trasferimento

delle funzioni da parte delle Regioni entro il 31 dicembre  2012,  si

provvede in via sostitutiva, ai sensi dell'articolo 8 della  legge  5

giugno 2003, n. 131, con legge dello  Stato».  Lo  svuotamento  delle

funzioni  fondamentali,   proprie   e   conferite,   previste   dalla

legislazione statale e regionale vigente,  ai  sensi  degli  articoli

117, II comma, lett. p) e 118, II comma, e' destinato ad  avvenire  -

secondo la logica della disposizione - con legge statale o regionale,

entro il 31 dicembre 2012, assegnando tali funzioni ai Comuni o  alle

Regioni. In  questo  modo,  pero',  la  disposizione  esclude  che  i

principi di sussidiarieta', adeguatezza e differenziazione si possano

riferire, al di fuori del mero coordinamento, alle Province e prevede

un  illegittimo  intervento  del  potere  sostitutivo   statale   nei

confronti della Regione, oltretutto attivato  dalla  scadenza  di  un

termine irragionevolmente breve.

    Il comma 19 dell'art. 23 del decreto impugnato, infine,  dispone:

«Lo Stato e le Regioni, secondo le rispettive competenze,  provvedono

altresi'  al  trasferimento  delle  risorse  umane,   finanziarie   e

strumentali per l'esercizio delle  funzioni  trasferite,  assicurando

nell'ambito  delle  medesime  risorse  il  necessario   supporto   di

segreteria per  l'operativita'  degli  organi  della  provincia».  In

sostanza, la disposizione prefigura uno scenario  dove  le  Province,

sostanzialmente  svuotate  dalle  attuali  funzioni   amministrative,

ricevono,  dallo  Stato  e  dalle  Regioni,  risorse  solo   per   lo

svolgimento del supporto di segreteria ai propri  organi.  In  questi

termini,  la  disposizione  appare  sostanzialmente   contraddittoria

rispetto al quadro dell'autonomia finanziaria  provinciale  disegnato

dall'art. 119 della Costituzione e altera, essendo configurabile come

norma statale di coordinamento  della  finanza  pubblica,  lo  stesso

rapporto dell'autonomia finanziaria regionale con quella  provinciale

e comunale. Tale rapporto viene infatti  prefigurato  in  termini  di

finanza  meramente  derivata:  alle  leggi  regionali  si  impone  di

trasferire risorse, non di configurare un'autonomia finanziaria.

    In sostanza, l'impianto normativo costituito dai commi da 14 a 20

dell'art. 23 del decreto impugnato appare da numerosi punti di  vista

in palese contrasto con la Costituzione  e  potenzialmente  idoneo  a

creare gravissime difficolta' applicative, nonche' aumenti  di  costi

maggiori dei risparmi che potrebbe produrre.

    La revisione o la razionalizzazione costituzionale dei livelli di

governo del sistema autonomistico italiano puo' senz'altro  ritenersi

opportuna,  ma  deve  essere  attuata  con  una  legge  di  revisione

costituzionale, dopo un approfondito esame della situazione  e  delle

diverse soluzioni possibili, e con un adeguato dibattito.

    Soluzioni    improvvisate,    tecnicamente    e    economicamente

discutibili, con aperti ed evidenti profili  di  incostituzionalita',

creano  guasti  gravi  ed  irreparabili  al  sistema  in  termini  di

gestibilita' e di costi aggiuntivi.

    L'articolo 27 del decreto-legge  contiene  una  nuova  disciplina

sulla valorizzazione, trasformazione,  gestione  ed  alienazione  del

patrimonio immobiliare pubblico, che  in  piu'  punti  appare  lesiva

delle competenze costituzionali della  Regione.  In  particolare,  il

comma I inserisce un nuovo articolo  (33-bis)  nel  decreto-legge  n.

98/2011, convertito con modificazioni dalla legge 15 luglio 2011,  n.

111, prevedendo la facolta' per l'Agenzia del Demanio  di  costituire

societa', consorzi e fondi  immobiliari  per  la  valorizzazione  del

patrimonio pubblico, anche se  appartenente  a  Regioni,  Province  e

Comuni. Dispone inoltre che «Qualora le iniziative di cui al presente

articolo prevedano forme societarie, ad esse partecipano  i  soggetti

apportanti e il Ministero dell'economia e delle finanze - Agenzia del

demanio, che aderisce anche nel caso in cui non vi siano inclusi beni

di proprieta' dello Stato in qualita' di finanziatore e di  struttura

tecnica di supporto», assegnando poi all'Agenzia del demanio un ruolo

determinante  nell'individuare,  «attraverso  procedure  di  evidenza

pubblica, gli eventuali soggetti privati partecipanti»  e  prevedendo

che la stessa Agenzia, «possa avvalersi di soggetti specializzati nel

settore, individuati tramite procedure  ad  evidenza  pubblica  o  di

altri soggetti pubblici». L'Agenzia del  demanio  in  questi  termini

viene ad assumere un ruolo determinante, in violazione degli articoli

118, I e II, comma e 119, ultimo comma, della Costituzione,  comma  7

del  nuovo  articolo  33-bis  poi,  modifica  i  commi  l  e  2   del

decreto-legge n. 112 del 2008, cosi' come convertito dalla  legge  n.

133 del 2008, prevedendo per le Regioni che queste «entro  60  giorni

dalla data di entrata in vigore della presente disposizione»  debbano

disciplinare  «l'eventuale  equivalenza   della   deliberazione   del

consiglio comunale di  approvazione  quale  variante  allo  strumento

urbanistico generale,  ai  sensi  dell'articolo  25  della  legge  28

febbraio 1985, n. 47, anche disciplinando le  procedure  semplificate

per  la  relativa  approvazione».  Dispone  inoltre:   «Le   Regioni,

nell'ambito  della  predetta   normativa   approvano   procedure   di

copianificazione  per  l'eventuale  verifica  di   conformita'   agli

strumenti di pianificazione sovraordinata, al fine di  concludere  il

procedimento  entro  il  termine  perentorio  di  90   giorni   dalla

deliberazione comunale. Trascorsi i predetti 60 giorni, si applica il

comma 2 dell'articolo 25 della legge 28  febbraio  1985,  n.  47.  Le

varianti urbanistiche di cui al  presente  comma,  qualora  rientrino

nelle  previsioni  di  cui  al  paragrafo  3  dell'articolo  3  della

direttiva 2001/42/CE  e  al  comma  4  dell'articolo  7  del  decreto

legislativo 3 aprile 2006, n.  152  e  s.m.i.  non  sono  soggette  a

valutazione ambientale strategica».

    Tale previsione si pone in aperto  contrasto  con  la  competenza

costituzionalmente riconosciuta alla  Regione  nella  misura  in  cui

stabilisce un termine decisamente ridotto per le modifiche  normative

e prevede poi, una volta decorso  tale  termine,  l'applicazione  del

comma 2 dell'articolo 25 della legge 28 febbraio 1985, n. 47.

    Il comma 2 dell'art. 27 del decreto impugnato  inserisce  poi  un

nuovo  articolo  nel  decreto-legge  n.  351  del  2001,  cosi'  come

convertito dalla legge n. 410 del 2001, disciplinando il processo  di

valorizzazione degli immobili pubblici.  Prevede  che  il  Presidente

della Giunta regionale, ovvero l'Organo di governo preposto, promuova

«la sottoscrizione di un accordo di programma ai sensi  dell'articolo

34 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n.  267  nonche'  in  base

alla relativa legge regionale di regolamentazione della volonta'  dei

soggetti esponenziali del territorio di procedere alla variazione  di

detti strumenti di  pianificazione,  al  quale  partecipano  tutti  i

soggetti,  anche  in  qualita'  di  mandatari  da  parte  degli  enti

proprietari, che sono interessati all'attuazione  del  programma.  7.

Nell'ambito dell'accordo di programma di cui al comma 6, puo'  essere

attribuita agli enti locali interessati dal  procedimento  una  quota

compresa tra il 5 e il 15 del ricavato della vendita degli immobili

valorizzati  se  di  proprieta'  dello  Stato  da  corrispondersi   a

richiesta dell'ente locale interessato, in tutto o  in  parte,  anche

come quota parte dei beni oggetto  del  processo  di  valorizzazione.

Qualora tali immobili, ai fini  di  una  loro  valorizzazione,  siano

oggetto  di  concessione  o  locazione  onerosa,  all'Amministrazione

comunale e' riconosciuta  una  somma  non  inferiore  al  50  e  non

superiore al 100 del  contributo  di  costruzione  dovuto  ai  sensi

dell'articolo 16 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380  e  delle  relative

leggi  regionali  per  l'esecuzione  delle  opere   necessarie   alla

riqualificazione  e  riconversione,  che  il  concessionario   o   il

locatario corrisponde all'atto  del  rilascio  o  dell'efficacia  del

titolo abilitativo edilizio».

    Tale  norma,  nella  parte  in  cui  prevede  una  disciplina  di

dettaglio vincolante nella determinazione dei contenuti  dell'accordo

di programma, appare in contrasto con l'autonomia  costituzionalmente

riconosciuta alla Regione.

    L'articolo 31, comma 1, dispone: «1  .  In  materia  di  esercizi

commerciali,  all'articolo   3,   comma   l,   lettera   d-bis,   del

decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito,  con  modificazioni,

dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, sono soppresse le parole: "in  via

sperimentale" e dopo le parole  "dell'esercizio"  sono  soppresse  le

seguenti "ubicato nei comuni inclusi negli  elenchi  regionali  delle

localita' turistiche o citta' d'arte"».

    Modifica cosi' il dettato normativo dell'art. 3, comma 1, lettera

d-bis, del decreto-legge  4  luglio  2006,  n.  223,  convertito  con

modificazioni dalla legge 4 agosto 2006, n. 248  (correntemente  noto

come decreto  Bersani).  A  seguito  della  modifica  introdotta,  la

disposizione  al  punto  d-bis)  e'  stata  riformulata  nei  termini

seguenti: «d-bis) il rispetto degli orari di apertura e di  chiusura,

l'obbligo della chiusura domenicale e festiva, nonche'  quello  della

mezza giornata di chiusura infrasettimanale».

    In  questo  modo,  sono  stati  eliminati,  in  via  generale  ed

assoluta, i limiti e le prescrizioni relativi agli orari di  apertura

e  chiusura,  alla  chiusura  domenicale  e  festiva   e   (parziale)

infrasettimanale  degli  esercizi  commerciali,  inclusi  quelli   di

somministrazione di alimenti e bevande.

    La  disposizione  cosi'  riformulata,  nella  sua  assolutezza  e

inderogabilita', lede la competenza legislativa regionale in  materia

di commercio,  violando  gli  articoli  117,  I  e  IV  comma,  della

Costituzione, nonche' la potesta'  regionale  connessa  all'esercizio

delle funzioni amministrative di cui all'art.  118,  I  e  II  comma,

della Costituzione; appare altresi' incompatibile con il principio di

equiordinazione di cui all'art. 114 della Costituzione medesima.

    L'articolo 35, I comma, dispone: «I.  L'Autorita'  garante  della

concorrenza e del mercato legittimata ad agire in giudizio contro gli

atti amministrativi generali, i regolamenti  ed  i  provvedimenti  di

qualsiasi amministrazione pubblica che  violino  le  norme  a  tutela

della  concorrenza  e  del  mercato.  2.  L'Autorita'  garante  della

concorrenza  e   del   mercato,   se   ritiene   che   una   pubblica

amministrazione abbia emanato un atto in  violazione  delle  norme  a

tutela della  concorrenza  e  del  mercato,  emette,  entro  sessanta

giorni, un parere motivato, nel quale indica  gli  specifici  profili

delle violazioni riscontrate. Se la pubblica amministrazione  non  si

conforma  nei  sessanta  giorni  successivi  alla  comunicazione  del

parere,  l'Autorita'  puo'  presentare,  tramite  l'Avvocatura  dello

Stato, il ricorso, entro i successivi trenta giorni.  3.  Ai  giudizi

instaurati ai sensi del comma l si applica la disciplina  di  cui  al

Libro IV, Titolo V, del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104.».

    In questi termini.  la  norma  viene  a  conferire  all'Autorita'

garante della concorrenza e del mercato  il  potere  di  emettere  un

parere motivato  in  ordine  ad  ogni  provvedimento  proveniente  da

qualsivoglia   pubblica   amministrazione   che   contenga   presunte

violazioni delle  norme  poste  a  tutela  della  concorrenza  e  del

mercato. Contestualmente, la medesima norma attribuisce  alla  stessa

Autorita' la legittimazione attiva ad impugnare, per il tramite della

Avvocatura dello Stato, i provvedimenti interloquiti e  non  adeguati

nei termini imposti. La norma censurata, modificando la legge n.  287

del 1990, configura una surrettizia  introduzione  della  figura  del

Pubblico Ministero nel processo amministrativo, contrastante  con  la

sua  natura  strutturale  di  giurisdizione  soggettiva,  e   inoltre

introduce una nuova surrettizia modalita'  di  controllo  sugli  atti

delle Regioni, che si pone in contrasto con la  legge  costituzionale

n. 3/2001 abrogativa dei controlli sugli atti regionali a  suo  tempo

previsti dall'art. 125 della Costituzione.

    L'articolo 44-bis dispone: «I. Ai sensi  del  presente  articolo,

per «opera pubblica incompiuta» si intende l'opera che non  e'  stata

completata:

        a) per mancanza di fondi;

        b) per cause tecniche;

        c) per sopravvenute nuove norme tecniche  o  disposizioni  di

legge;

        d) per il fallimento dell'impresa appaltatrice;

        e) per il mancato interesse al  completamento  da  parte  del

gestore.

    2. Si considera in ogni caso opera pubblica  incompiuta  un'opera

non rispondente a tutti i requisiti previsti  dal  capitolato  e  dal

relativo  progetto  esecutivo  e  che  non  risulta  fruibile   dalla

collettivita'.

    3. Presso il Ministero delle infrastrutture e  dei  trasporti  e'

istituito   l'elenco-anagrafe   nazionale   delle   opere   pubbliche

incompiute.

    4. L'elenco-anagrafe di cui al comma 3 e'  articolato  a  livello

regionale  mediante  l'istituzione  di  elenchi-anagrafe  presso  gli

assessorati regionali competenti per le opere pubbliche.

    5. La  redazione  dell'elenco-anagrafe  di  cui  al  comma  3  e'

eseguita contestualmente alla  redazione  degli  elenchi-anagrafe  su

base regionale, all'interno dei quali le opere  pubbliche  incompiute

sono inserite sulla base  di  determinati  criteri  di  adattabilita'

delle opere stesse ai fini del loro riutilizzo,  nonche'  di  criteri

che indicano le ulteriori destinazioni a cui puo' essere adibita ogni

singola opera.

    6. Entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge  di

conversione del presente decreto, il Ministro delle infrastrutture  e

dei trasporti stabilisce, con proprio regolamento,  le  modalita'  di

redazione dell'elenco-anagrafe, nonche' le  modalita'  di  formazione

della graduatoria e dei criteri in base ai quali le  opere  pubbliche

incompiute sono iscritte nell'elenco-anagrafe,  tenendo  conto  dello

stato di avanzamento dei lavori ed evidenziando le opere prossime  al

completamento.

    7. Ai fini della fissazione dei criteri di cui  al  comma  5,  si

tiene conto delle diverse competenze in materia attribuite allo Stato

e alle regioni».

    Tale  disposizione  prevede  l'istituzione  presso  il  Ministero

competente, di un elenco-anagrafe  nazionale  delle  opere  pubbliche

incompiute, ma lo articola anche presso  l'Amministrazione  regionale

ai  fini  del  coordinamento  dei  dati.  Lo  fa  tuttavia  con   una

regolamentazione  di  dettaglio  che  appare  lesiva   dell'autonomia

organizzativa regionale, costituzionalmente tutelata.

 

                               Motivi

 

1. Illegittimita' costituzionale dell'art. 5,  per  violazione  degli

articoli 3, 117, III e IV  comma;  118,  I  e  II  comma;  119  della

Costituzione, nonche' del principio di leale collaborazione tra Stato

e Regioni di cui all'art. 120 della Costituzione.

    La disposizione dell'art. 5 del decreto-legge n. 201/2011,  cosi'

come convertito, con modificazioni, dalla  legge  di  conversione  22

dicembre 2011 n. 214, prevede al primo comma che con un  decreto  del

Presidente del Consiglio dei Ministri su proposta  del  Ministro  del

lavoro e  delle  politiche  sociali,  di  concerto  con  il  Ministro

dell'economia  e  delle  finanze,  siano  riviste  le  modalita'   di

determinazione ed  i  campi  di  applicazione  dell'indicatore  della

situazione economica equivalente (Isee).

    Al  riguardo,  va  rilevato   che   la   recente   giurisprudenza

amministrativa (Consiglio di Stato, n. 1607/2011) ha fatto  rientrare

l'Isee  nella  materia  dei  livelli  essenziali  delle  prestazioni,

richiamando la legge n. 328/2000 che all'art. 25  dispone:  «ai  fini

dell'accesso  ai  servizi  disciplinati  dalla  presente  legge,   la

verifica della condizione economica  del  richiedente  e'  effettuata

secondo le disposizioni previste dal  decreto  legislativo  31  marzo

1998, n. 109, come modificato dal decreto legislativo 3 maggio  2000,

n. 130.».

    Va pero' rilevato  come  la  disciplina  attuale  contenga  anche

previsioni  che  consentono  alle  Regioni  di  integrare  i  criteri

stabiliti (ad esempio, l'art. 3 del d.lgs. n. 130/2000  dispone  che:

«gli enti erogatori, ai quali compete la fissazione dei requisiti per

fruire  di  ciascuna  prestazione,  possono   prevedere,   ai   sensi

dell'articolo 59, comma 52, della legge 27  dicembre  1997,  n.  449,

accanto all'indicatore della situazione economica  equivalente,  come

calcolato ai sensi dell'articolo  2  del  presente  decreto,  criteri

ulteriori di selezione dei beneficiari»).

    Va anche considerato come la disciplina attuale,  in  particolare

lo stesso decreto legislativo n. 130  del  2000,  nel  modificare  il

decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 109, istitutivo dell'Isee,  sia

stato emanato, sebbene anteriore alla  riforma  del  Titolo  V  della

Costituzione, dopo che era stato acquisito il parere della Conferenza

unificata.

    Va infatti evidenziato che il criterio  dell'Isee  e'  utilizzato

nella legislazione regionale per  definire  l'accesso  a  prestazioni

come asili nido e  altri  servizi  educativi  per  l'infanzia,  mense

scolastiche,    servizi    socio-sanitari    domiciliari,     servizi

socio-sanitari  diurni,  residenziali,  ecc.  ed  altre   prestazioni

economiche assistenziali.

    Se da questo punto di vista la  materia  dell'Isee,  in  base  al

diritto vivente, tende ad essere inquadrata nella competenza  statale

sulla  determinazione  dei  livelli  essenziali   delle   prestazioni

concernenti i diritti sociali, va pero' richiamata la sentenza n.  88

del 2003 di codesta ecc.ma Corte, dove si precisa: «L'inserimento nel

secondo comma dell'art. 117 del nuovo Titolo  V  della  Costituzione,

fra  le  materie  di  legislazione  esclusiva  dello   Stato,   della

determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i

diritti civili e sociali che devono  essere  garantiti  su  tutto  il

territorio  nazionale   attribuisce   al   legislatore   statale   un

fondamentale strumento per garantire il mantenimento di una  adeguata

uniformita' di trattamento sul piano dei diritti di tutti i soggetti,

pur in un sistema caratterizzato da un livello di autonomia regionale

e locale decisamente  accresciuto.  La  conseguente  forte  incidenza

sull'esercizio delle funzioni nelle materie assegnate alle competenze

legislative ed amministrative delle Regioni e delle Province autonome

impone evidentemente che  queste  scelte,  almeno  nelle  loro  linee

generali, siano operate dallo Stato con  legge,  che  dovra'  inoltre

determinare adeguate procedure e precisi atti formali  per  procedere

alle  specificazioni  ed  articolazioni  ulteriori  che  si   rendano

necessarie nei vari settori». Si specifica  quindi:  «Anche  a  voler

prescindere dal  problema  relativo  alla  ulteriore  utilizzabilita'

dell'art. 118 del d.P.R. n. 309 del 1990 alla luce del nuovo Titolo V

della Costituzione ed in particolare del  terzo  e  del  sesto  comma

dell'art.  117  Cost.,  risulta  evidente  che  la  violazione  dello

specifico procedimento di consultazione della  Conferenza  permanente

per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e  le  Province  autonome  di

Trento e di Bolzano e quindi del principio di  leale  collaborazione,

rendono illegittima la compressione dei poteri delle Regioni e  delle

Province autonome (fra le molte, si vedano  le  sentenze  n.  39  del

1984, n. 206 del 1985, n. 116 del 1994)».

    Nel settore sanitario, ad esempio, per giungere alla  definizione

dei livelli essenziali di  assistenza  il  procedimento  di  adozione

prevede espressamente il coinvolgimento delle Regioni  attraverso  la

previa intesa con il Governo.

    Il rispetto del principio  di  leale  collaborazione  costituisce

quindi   uno   degli   aspetti   piu'   consolidati    del    cammino

giurisprudenziale sui livelli essenziali delle  prestazioni,  che  ha

sempre valorizzato  la  portata  di  tale  principio,  assumendolo  -

talvolta anche nell'accezione «forte» dell'intesa (ad  esempio  nella

sentenza di codesta ecc.ma Corte n. 134/2006) - quale uno dei fattori

di legittimazione costituzionale  dell'intervento  statale  che,  pur

fondato su un titolo di  competenza  proprio,  incide  su  ambiti  di

rilevanza legislativa regionale.

    Non va poi dimenticato che nel caso di specie non sussistono quei

particolari presupposti di necessita', ravvisati nella sentenza n. 10

del 2010, affinche'  il  diritto  costituzionale  all'assistenza  non

resti ineffettivo in un periodo di difficile congiuntura economica e,

di conseguenza, si garantiscano ai suoi titolari,  in  condizioni  di

uniformita' su tutto il territorio nazionale, i «mezzi  adeguati»  ad

un'esistenza dignitosa.

    Anzi, nel caso qui in esame e' opportuno richiamare piuttosto  la

precisa indicazione  data  da  codesta  ecc.ma  Corte  proprio  nella

sentenza n. 10 del 2010,  quando  ha  specificato:  «che,  una  volta

cessata la situazione congiunturale che ha imposto un  intervento  di

politica sociale esteso alla diretta  erogazione  della  provvidenza,

dagli strumenti di coinvolgimento  delle  regioni  e  delle  province

autonome non si possa prescindere, avendo  cura  cosi'  di  garantire

anche la piena attuazione  del  principio  di  leale  collaborazione,

nell'osservanza  del  riparto   delle   competenze   definito   dalla

Costituzione».

    Nel  caso  di  specie,  se  si  puo'  ritenere  sussistente   una

situazione di emergenza economica, l'oggetto e' profondamente diverso

da quello relativo alla sentenza n. 10 del 2010, dal momento che  non

si tratta piu' di una norma indirizzata  a  istituire  uno  strumento

diretto di intervento come la carta acquisti a favore  delle  persone

bisognose, la cui  caducazione  avrebbe  esposto  queste  ultime.  Si

tratta bensi' di una disposizione rivolta a rivedere un  criterio  di

carattere strumentale alla definizione dei requisiti di accesso a una

pluralita' di prestazioni che ineriscono  alla  competenza  regionale

anche residuale.

    Ne consegue che deve ritenersi indebitamente  violato,  nel  caso

dell'art.  5  del  decreto   impugnato,   il   principio   di   leale

collaborazione di cui all'art. 120 Cost. non essendo  stata  prevista

la previa intesa con le Regioni,  con  conseguente  ulteriore  vulnus

agli articoli 118, I e II comma (difettando anche i presupposti della

chiamata in sussidiarieta') e 119 della Costituzione, dal momento che

non si' considera come le Regioni abbiano assunto, volontariamente  o

perche' tenute a farlo, l'indicatore in oggetto come parametro per le

loro politiche sociali e socio sanitarie.

    La  suddetta  incostituzionalita',  in  relazione   ai   medesimi

parametri,  si  estende  anche  a  quella  parte  dell'art.   5   del

decreto-legge impugnato dove si prevede che i risparmi a favore dello

Stato e degli enti nazionali di assistenza e di previdenza  derivanti

dalla attuazione delle nuove norme siano, secondo i criteri stabiliti

da un decreto ministeriale e senza intesa con le Regioni, riassegnati

al Ministero del lavoro,  dal  momento  che  la  disposizione  -  pur

riferendosi a risparmi «statali» - non sembra considerare minimamente

la stretta interconnessione che  comunque  esiste  con  le  politiche

regionali in materia sociale e socio assistenziale. La  rimodulazione

delle risorse che lo Stato impegna nel territorio regionale determina

infatti una ricaduta sulle politiche sociali  e  socio  assistenziali

delle Regioni,  che  dovrebbero  quindi  essere  comunque  coinvolte,

tramite intesa. anche nel  processo  di  riallocazione  dei  risparmi

ottenuti.

    A  questi  si  aggiunge  un   ulteriore   distinto   profilo   di

illegittimita' costituzionale. L'art.  5,  infatti,  concretizza  una

delegificazione  «spuria»  della  materia  contenuta  nella   attuale

disciplina legislativa dell'Isee. Non solo la norma dell'art.  5  non

stabilisce, tra i principi generali, la possibilita' per le  Regioni,

come e' nella disciplina attuale, di integrare i criteri, ma attua un

sostanziale  procedimento  di  delegificazione  al  di  fuori   della

previsione dell'art. 17,  comma  2,  della  legge  n.  400  del  1988

(ritenuto dalla dottrina quasi unanime come rispettoso del  principio

di legalita', nella misura in cui e' alla  legge  di  delegificazione

che deve essere imputato l'effetto abrogativo, mentre il  regolamento

determina semplicemente il termine iniziale di  questa  abrogazione);

senza nemmeno  indicare,  inoltre,  le  disposizioni  legislative  da

abrogare, e con un atto che non viene qualificato come regolamentare.

    Di  fatto,  nella  struttura  dell'art.   5   si   realizza   una

delegificazione spuria della normativa primaria oggi  in  vigore.  Va

ricordato al riguardo che codesta ecc. ma Corte nella sentenza n. 301

del 2003 ha gia' dichiarato l'incostituzionalita' di una disposizione

legislativa che autorizzava  una  delegificazione  in  favore  di  un

regolamento ministeriale, non solo per la mancata  indicazione  delle

«norme generali regolatrici della materia», ma anche  in  riferimento

all'individuazione della fonte autorizzata.

    Oltre che per violazione del principio di leale collaborazione, a

causa della mancata previsione  dell'intesa,  l'art.  5  del  decreto

impugnato  incorre  quindi  in  un  vizio  di   eccesso   di   potere

legislativo/irragionevolezza,  censurabile  dalla  Regione  ai  sensi

dell'art.  3  della  Costituzione  dal  momento  che   realizza   una

surrettizia violazione dell'art. 117, III e IV comma, in forza  della

incisione  che  questo  processo  di  delegificazione   opera   sulle

competenze regionali concorrenti e residuali.

2. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 23, commi da  14  a  20,

per violazione: quanto al comma 14,  degli  articoli  118,  I  e  II,

comma, della Costituzione; quanto al comma 15, degli articoli 3, 5  e

114 della Costituzione; quanto al comma 16, degli articoli 1, 5, 114,

138 della Costituzione; quanto al comma 17, degli articoli 3, 5 e 114

della Costituzione; quanto al comma 18, degli articoli 118,  I  e  II

comma e 120 della Costituzione; quanto al comma 19, dell'articolo 119

della Costituzione; quanto al comma 20, degli articoli 1, 3, 5 e  114

della Costituzione.

    L'art. 23 del decreto-legge n. 201/2011, cosi'  come  convertito,

con modificazioni, dalla legge di conversione  22  dicembre  2011  n.

214, con le disposizioni poste ai commi  da  14  a  20  trasforma  la

Provincia, da ente politico rappresentativo della popolazione inclusa

nell'ambito territoriale di riferimento, ad ente  di  secondo  grado,

con un Consiglio provinciale composto da non piu' di dieci componenti

eletti dai Consigli comunali e con un Presidente eletto dal Consiglio

provinciale tra i suoi componenti. La Provincia viene  poi  spogliata

di ogni funzione amministrativa di tipo  gestionale,  potendo  essere

titolare solo di una micro funzione di  coordinamento  dell'attivita'

dei Comuni.

    Infine, viene sostanzialmente svuotata  della  propria  autonomia

finanziaria, potendo disporre solo delle risorse relative al supporto

di segreteria dei propri organi.

    La Provincia  perde  cosi'  la  propria  autonomia  politica,  la

propria autonomia amministrativa e la propria autonomia  finanziaria.

Il contrasto sostanziale con il  disegno  costituzionale  -  come  si

vedra' analiticamente di seguito - e' macroscopico.

    In questo modo, viene menomata  la  stessa  autonomia  regionale,

privata  dalla  norma  statale  di  un  interlocutore   istituzionale

direttamente  rappresentativo  della  popolazione,  con  una  propria

autonomia  e  responsabilita'  finanziaria,  cui  poter  affidare  la

gestione di funzioni amministrative, specialmente in Regioni come  il

Veneto dove il  tessuto  territoriale  e'  costituito  da  Comuni  di

piccole o piccolissime dimensioni (ad esempio, in Veneto il  54  dei

Comuni e' sotto i 5.000 abitanti).

    In questi termini, e soprattutto in queste situazioni,  la  norma

statale  tende  a   favorire   la   concentrazione   delle   funzioni

amministrative attive nella Regione - e quindi induce un  centralismo

regionale - senza piu' permettere alla Regione stessa  di  sviluppare

un regionalismo pienamente attuativo del principio di sussidiarieta'.

Si viene cosi' a menomare la stessa  autonomia  statutaria  (gia'  lo

Statuto del Veneto del 1971 prevedeva che le funzioni  amministrative

fossero normalmente esercitate delegandole non  solo  ai  Comuni,  ma

anche alle Province), che ben potrebbe configurare  la  Regione  come

organo piu' di legislazione e di  indirizzo  che  di  amministrazione

diretta.

    Non si mette in discussione, in questa  sede,  l'opportunita'  di

una seria razionalizzazione dell'attuale  assetto  istituzionale  del

sistema delle autonomie locali, in particolare delle Province, ma  si

ritiene che quel processo meriti di essere progettato insieme con gli

Enti territoriali ed attuato  con  appropriati  strumenti  giuridici,

cosi che risulti veramente funzionale a realizzare un piu' efficiente

modello organizzativo e una migliore allocazione delle  risorse,  con

effettiva riduzione dei costi, anche politici. Si rileva  e  lamenta,

al contrario, la inidoneita' delle  disposizioni  censurate  -  nella

loro  forza  giuridica  e  nei  loro   contenuti   -   a   realizzare

effettivamente l'obiettivo dichiarato.

    Esse,  alterando  il  quadro   costituzionale,   senza   cogliere

l'obiettivo dell'auspicata semplificazione del sistema istituzionale,

ne determinano anzi una complessiva complicazione. Non  ottengono  in

realta' neppure il risultato di una riduzione della spesa e dei costi

degli apparati (cui fa riferimento il  titolo  dell'articolo  in  cui

sono inserite le disposizioni impugnate):  e'  significativo  che  la

relazione tecnica  -  estremamente  sintetica  -  che  accompagna  il

provvedimento non abbia potuto quantificare la  misura  dei  risparmi

complessivamente perseguibili alla fine di un  processo  di  riordino

configurato in  questi  termini.  Le  norme  che  si  censurano  sono

destinate invece a produrre indebiti  costi  aggiuntivi  diretti  (si

pensi all'inquadramento  del  personale,  che  verra'  trasferito  al

livello  regionale)  e  indiretti  (si  pensi   alla   difficilissima

gestibilita' di tutte quelle situazioni dove, a  fronte  di  Province

che hanno una dimensione territoriale ben piu'  ampia  di  quella  di

alcune Regioni, contesto territoriale di riferimento e' costituto  da

una  pluralita'  di  Comuni  «polvere»  di  piccole  o   piccolissime

dimensioni).

    Mediante una legge ordinaria, quindi, si pretende di compiere una

vera e propria revisione costituzionale, incidendo  radicalmente  sul

complessivo impianto costituzionale e su specifiche  disposizioni,  e

di  qui  anche  sull'autonomia  costituzionalmente   garantita   alla

Regione.

    La Regione del Veneto e' dunque legittimata a tutelare davanti  a

codesta ecc.ma Corte le proprie prerogative costituzionali, che  sono

lese  anche  direttamente  e   nell'attualita'   dalle   disposizioni

legislative statali censurate. Per di piu', codesta ecc.ma  Corte  in

piu' occasioni (sentenze n. 95 del 2007, n. 417 del 2005, n. 196  del

2004 e n. 533 del 2002) ha ritenuto che le Regioni siano  legittimate

a denunciare la legge statale anche per la violazione  di  competenze

degli enti locali, perche'  «la  stretta  connessione  [...]  tra  le

attribuzioni regionali e quelle delle autonomie  locali  consente  di

ritenere che la lesione delle competenze  locali  sia  potenzialmente

idonea a determinare una vulnerazione delle competenze regionali».

    Ad  integrazione   di   queste   considerazioni   d'insieme   sul

complessivo impianto  dei  commi  censurati,  si  passa  ora  ad  una

illustrazione analitica dei singoli profili  di  incostituzionalita',

comma per comma.

    Si seguira' nell'esposizione  un  ordine  espositivo  diverso  da

quello numerico, per prendere  in  considerazione  in  modo  unitario

aspetti tra loro logicamente connessi.

    2.1) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23, comma 16.

    La disposizione dell'art. 23, comma 16, prevede il venir  meno  -

per volonta' di una fonte primaria  e  percio'  senza  utilizzare  il

procedimento di revisione costituzionale di cui all'art. 138 Cost.  -

della  Provincia  come  ente  esponenziale  rappresentativo  di   una

comunita' territoriale che  si  organizza  democraticamente,  secondo

l'art. l Cost., con organi elettivi di diretta emanazione  del  corpo

elettorale.

    E' evidente che le Province sono state previste - riconosciute  -

dalla Costituzione come enti di governo locale elettivi e che  questa

scelta e' stata confermata e soprattutto rafforzata dalla riforma del

Titolo V, che le ha  configurate  quali  «enti  autonomi  con  propri

statuti,  poteri  e  funzioni  secondo  i  principi   fissati   dalla

Costituzione» (art. 114, II comma,  Cost.),  destinate  a  costituire

proprio in tale veste - assieme ai Comuni, alle Citta'  metropolitane

e alle Regioni - la Repubblica (art. 114, I Comma).

    Lo  stesso  principio  autonomista  di  cui  all'art.   5   della

Costituzione, prevedendo  che  «la  Repubblica,  una  e  indivisibile

riconosce e promuove le autonomie locali», impedisce  al  legislatore

ordinario di incidere in via definitiva  sul  carattere  direttamente

democratico dell'ente, che rappresenta uno dei  requisiti  essenziali

dell'ordinamento repubblicano. Il principio  autonomista  implica  il

principio democratico: e' quest'ultimo che  richiede  che  il  popolo

abbia una rappresentanza che emerga da  elezioni  generali,  dirette,

libere,  uguali  e  segrete  e  che  la  rappresentanza   abbia   una

consistenza tale da conseguire due risultati: in primo luogo,

    l'espressione del pluralismo  politico,  compatibilmente  con  la

governabilita';  in  secondo  luogo,  la  capacita'  di  indirizzo  e

controllo da parte della rappresentanza medesima sull'ente.

    E' utile al riguardo rimarcare che  codesta  ecc.ma  Corte  nella

sentenza n. 165/2002 ha precisato: «si deve  in  proposito  osservare

che   il   legame    Parlamento-sovranita'    popolare    costituisce

inconfutabilmente       un        portato        dei        principi'

democratico-rappresentativi,  ma  non  descrive  i  termini  di   una

relazione di identita', sicche' la tesi  per  la  quale,  secondo  la

nostra Costituzione, nel Parlamento si risolverebbe, in sostanza,  la

sovranita' popolare, senza che le autonomie territoriali concorrano a

plasmarne  l'essenza,   non   puo'   essere   condivisa   nella   sua

assolutezza». E ancora: «Semmai potrebbe dirsi che il nucleo centrale

attorno al quale esse [le idee  sulla  democrazia,  sulla  sovranita'

popolare e sul principio autonomistico] ruotavano abbia trovato  oggi

una  positiva  eco  nella  formulazione  del  nuovo  art.  114  della

Costituzione, nel quale gli enti territoriali autonomi sono collocati

al fianco dello Stato  come  elementi  costitutivi  della  Repubblica

quasi  a  svelarne,  in  una  formulazione   sintetica,   la   comune

derivazione dal principio democratico e dalla sovranita' popolare».

    Ne'  sembra  possibile  sostenere   che   la   rappresentativita'

indiretta configurata dalla disposizione impugnata risponda, nel caso

delle Province, alla stessa caratura  democratica  derivante  da  una

elezione popolare. Si  tratterebbe  di  un  argomento  non  privo  di

rilevanti conseguenze,  dal  momento  che  tutti  gli  enti  elencati

dall'art. 5, Cost. sono posti dalla Costituzione sullo stesso  piano,

quanto  a  garanzie  di  autonomia  politica.   Ad   ammetterlo,   ne

deriverebbe  infatti  la  legittimita'  di  una  legge  statale   che

stabilisse come principio fondamentale, ai sensi dell'art. 122 Cost.,

anche per i Consigli regionali  un  meccanismo  del  tipo  di  quello

previsto  dalla  disposizione  impugnata.  O  che  prevedesse  che  i

Consigli  comunali  siano  composti  da  eletti  tra  i  consigli  di

quartiere, ad esempio.

    La disposizione del comma 16 dell'art. 23 del  decreto  impugnato

viola pertanto gli articoli 1, 5, 114, 138 della Costituzione.

    E' opportuno precisare che questi profili di  incostituzionalita'

hanno una ricaduta  diretta  sulla  sfera  di  competenza  regionale.

Quello delle autonomie territoriali configurato dalla Costituzione e'

un vero e proprio  sistema  (si'  veda  in  questi  termini  gia'  la

sentenza  n.  343  del  1991  di  codesta  ecc.ma  Corte),  per   cui

l'alterazione della struttura essenziale  e  costitutiva  di  uno  di

questi enti si riflette inevitabilmente sugli altri,  menomandone  la

sfera di competenza. Nel  caso  di  specie  la  Regione  risulta,  ad

esempio,  menomata  nell'esercizio  del  proprio  potere  di  attuare

pienamente   i   principi   di    sussidiarieta',    adeguatezza    e

differenziazione  nell'allocare  le  funzioni  amministrative   nelle

materie di propria competenza, ai sensi degli articoli 118,  I  e  II

comma, della Costituzione. Assume, infatti,  un  rilievo  politico  e

istituzionale   profondamente   diverso    allocare    le    funzioni

amministrative all'ente Provincia cosi' come configurato dal  disegno

costituzionale prima ricordato, piuttosto che  allocarle  a  un  ente

privo di rappresentativita' diretta delle popolazioni interessate. Ad

esempio, in materia  urbanistica,  la  Regione  Veneto  ha  assegnato

(legge  regionale  n.  11  del  2004)  alle  Province  competenza   a

provvedere  alla  pianificazione  territoriale  per  il  governo  del

territorio (artt. 22-24), nonche' la competenza ad approvare i  piani

comunali di assetto del territorio (artt. 14 e 15). Tali assegnazioni

di competenze si fondano sulla struttura direttamente rappresentativa

della  Provincia  e  sulla   possibilita'   del   diretto   controllo

democratico del cittadino elettore (che viene meno nella disposizione

impugnata).

    2.2) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23, comma 20.

    Per gli organi provinciali che  vanno  al  rinnovo  entro  il  31

dicembre 2012, il comma 20 dell'art. 23 del decreto impugnato dispone

l'applicazione, sino al 31 marzo  2013,  dell'art.  141  del  decreto

legislativo n. 267/2000 relativo a «Scioglimento  e  sospensione  dei

consigli comunali e provinciali».

    La tecnica  normativa  utilizzata  appare  irragionevole  laddove

disciplina il destino degli  organi  provinciali  che  devono  essere

rinnovati entro  il  31  dicembre  2012:  senza  nemmeno  un'apposita

disciplina, si rinvia  all'art.  141  del  T.u.e.l.  che  regolamenta

ipotesi del tutto diverse da quella in  oggetto.  Tale  disposizione,

infatti, attiene a ben  precise  cause  che  riguardano  la  dinamica

patologica che puo' verificarsi  in  un  ente  territoriale  dove  un

Consiglio  Provinciale  compia,  ad  esempio,  atti   contrari   alla

Costituzione o gravi e persistenti violazioni di legge o  quando  non

sia approvato nei termini il bilancio.  In  questi  casi  i  consigli

provinciali vengono sciolti con  d.P.R.,  su  proposta  del  Ministro

dell'interno e con il decreto di scioglimento si provvede alla nomina

di un commissario, che esercita le attribuzioni conferitegli  con  il

decreto stesso. E'  evidente  nella  ratio  della  disciplina  che  a

giustificare il commissariamento e' la dinamica patologica che si  e'

verificata nell'ente, con la  sospensione  del  potere  dei  soggetti

democraticamente eletti. Nulla a che fare quindi  con  un'ipotesi  di

scioglimento imputabile alla mera volonta'  legislativa  di  riordino

dell'ente Provincia. E in  questi  termini  si  evidenzia  quindi  un

sintomo di irragionevolezza della disciplina.

    La disposizione del comma 20 si pone quindi in contrasto l'art. 3

Cost.  in  termini  di   ragionevolezza,   in   quanto   prevede   il

commissariamento delle Province che dovrebbero  andare  al  voto  nel

2012 rinviando a una norma pensata per altre ipotesi di  scioglimento

dei consigli e non applicabile in questo caso; inoltre, prevedendo il

commissariamento delle Province che dovrebbero  andare  al  voto  nel

2012, in vista della eliminazione dell'elezione diretta popolare,  si

pone anch'essa  in  violazione  degli  articoli  l,  5  e  114  della

Costituzione.

    L'eliminazione dell'elezione diretta popolare e'  prevista,  alla

scadenza naturale, anche  per  quegli  organi  provinciali  che  sono

soggetti a rinnovo dopo il 31 dicembre 2012. La seconda  e  la  terza

proposizione del medesimo comma 20 rinviano infatti ai commi 16 e  17

per la elezione dei nuovi organi provinciali. Anche per questa  parte

si ravvisa percio'  violazione  degli  articoli  1,  5  e  114  della

Costituzione.

    Quanto alla  legittimazione  delle  Regioni  ad  impugnare,  essa

deriva da una menomazione delle competenze regionali per  gli  stessi

motivi indicati in relazione al comma 16 nel punto precedente (2.1).

    2.3) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23, comma 15.

    Il comma 15 dell'art. 23 - apparentemente ammissibile, in  quanto

l'ordinamento  degli  enti  locali  rientra  nelle   competenze   del

legislatore statale previste dall'art. 117, comma 2, lettera p) -  in

realta' menoma la capacita' di azione e di esecuzione delle  Province

ed e' palesemente in  contrasto  con  l'assetto  storico  degli  enti

locali territoriali che hanno avuto nella Giunta l'organo  collegiale

di esecuzione delle deliberazioni  consiliari.  Ne'  la  disposizione

lascia intendere attraverso quali meccanismi lo stesso Presidente  di

un ente, che rimane comunque titolare  di  funzioni  di  area  vasta,

possa operare. Per di piu', configura una  irragionevole  alterazione

del sistema  ordinamentale  organicamente  disegnato  dal  d.lgs.  n.

267/2000, Testo unico degli enti locali,  presidiato  dalla  clausola

(art. l, comma IV)  di  inderogabilita'  «se  non  mediante  espressa

modificazione delle sue disposizioni».

    La disposizione al comma 15 viola pertanto l'art.  3  Cost.,  per

irragionevolezza, nonche' gli articoli 5 e 114 della Costituzione.

    Anche in questo caso il profilo di incostituzionalita' ha, per  i

motivi esplicitati nei punti precedenti, una ricaduta  diretta  sulla

sfera di competenza regionale, che ne risulta menomata.

    2.4) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23, comma 17.

    Il comma 17 dell'art. 23 del  decreto  impugnato,  apparentemente

riconducibile alle competenze della legislazione  statale,  viola  in

realta' gli stessi articoli  indicati  nel  punto  precedente  (art.3

della Costituzione, per irragionevolezza, nonche' gli  articoli  5  e

114 della Costituzione) per illegittimita'  costituzionale  derivata,

per le modalita' con  cui  e'  costituito  il  Consiglio  provinciale

chiamato a effettuare l'elezione. Anche in questo caso il profilo  di

incostituzionalita'  ha,  per  i   motivi   esplicitati   nei   punti

precedenti, una ricaduta diretta sulla sfera di competenza regionale,

che risulta menomata.

    2.5) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23, comma 14.

    l profili di incostituzionalita' diventano ancora  piu'  evidenti

nella previsione del comma 14 dell'art.  23  del  decreto  impugnato,

dove si stabilisce che «Spettano  alla  Provincia  esclusivamente  le

funzioni di indirizzo e  coordinamento  delle  attivita'  dei  Comuni

nelle materie e nei limiti indicati con legge  statale  e  regionale,

secondo  le  rispettive  competenze».  Tale  disposizione,  oltre   a

comportare un'ingiustificata e inammissibile  sovraordinazione  delle

Province rispetto ai Comuni, si pone in contrasto con  le  previsioni

costituzionali  che  riconoscono  le  Province   come   titolari   di

un'importante dimensione di funzioni amministrative  (fondamentali  e

proprie, oltre a quelle conferite con legge statale o regionale).  In

base ad esse, le Province gestiscono oggi funzioni amministrative  di

carattere  materiale  che  intervengono  in  ambiti  di   particolare

significato. Una prima e provvisoria  individuazione  delle  funzioni

fondamentali, sebbene ai soli fini dell'attuazione della  delega,  e'

peraltro avvenuta per effetto dell'art. 21, comma 4, della  legge  n.

42 del 2009 (istruzione  pubblica;  trasporti  locali;  gestione  del

territorio;  tutela  ambientale;  sviluppo  economico;  mercato   del

lavoro).

    Soprattutto, la  disposizione  del  comma  14  dell'art.  23  del

decreto impugnato menoma indebitamente la competenza legislativa e in

genere la sfera di autonomia della  Regione  che,  nelle  materie  di

propria competenza, si vede preclusa la possibilita' di trasferire  o

delegare qualsiasi funzione alle Province,  nonostante  la  specifica

caratterizzazione del  proprio  territorio  e  dei  relativi  assetti

istituzionali. Ad esempio, risulta preclusa all'autonomia legislativa

regionale la possibilita' di una scelta come quella effettuata  nella

legge regionale n. 11 del 2001 (Conferimento di  funzioni  e  compiti

amministrativi  alle  autonomie  locali  in  attuazione  del  decreto

legislativo 31 marzo 1998, n_ 112), all'art.  5,  di  assegnare  alle

Province, oltre che funzioni di  coordinamento,  anche  «funzioni  di

tipo gestionale in riferimento agli interessi relativi a  vaste  zone

intercomunali o all'intero  territorio  provinciale».  Per  converso,

potrebbe desumersi dalla disposizione del  comma  14  addirittura  un

obbligo di assegnazione esclusiva alle Province delle competenze  ivi

indicate, con un'ulteriore compressione dell'autonomia regionale.

    In tal modo, la Regione non puo' piu', come invece stabiliscono i

primi due commi dell'art.118 della Costituzione, configurarsi come il

soggetto titolare del potere di  declinare  con  propria  legge  -  e

quindi con una propria autonoma decisione in relazione alle  precipue

caratteristiche del proprio ambito territoriale -  nelle  materie  di

propria competenza, in modo pieno,  i'  principi  di  sussidiarieta',

adeguatezza   e   differenziazione   in   relazione   alle   funzioni

amministrative.

    La disposizione al comma 14 e' percio' in  palese  contrasto  con

l'art. 118, I e II comma, Cost.

    2.6) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23, comma 18.

    La previsione del comma 18 dell'art.  23  del  decreto  impugnato

rafforza la lesione delle competenze  regionali,  dove  prevede  che:

«Fatte salve le funzioni di cui al comma 14, lo Stato e  le  Regioni,

con propria legge, secondo le  rispettive  competenze,  provvedono  a

trasferire  ai  Comuni,  entro  il  31  dicembre  2012,  le  funzioni

conferite dalla normativa  vigente  alle  Province,  salvo  che,  per

assicurarne l'esercizio unitario, le  stesse  siano  acquisite  dalle

Regioni, sulla base dei principi di sussidiarieta',  differenziazione

ed adeguatezza. In caso di mancato trasferimento  delle  funzioni  da

parte delle Regioni entro il 31 dicembre 2012,  si  provvede  in  via

sostitutiva, ai sensi dell'articolo 8 della legge 5 giugno  2003,  n.

131, con legge dello Stato».

    In sostanza, la  disposizione,  ribadendo  in  termini  operativi

quanto previsto dal comma 14, esclude che la Regione possa declinare,

nelle materie di propria competenza, i  principi  di  sussidiarieta',

adeguatezza e differenziazione, al di fuori delle  funzioni  di  mero

coordinamento, a  favore  delle  Province,  trovandosi  indebitamente

limitata nella propria competenza ed autonomia. Cosi', se la  Regione

volesse assumere un ruolo maggiormente incentrato  sullo  svolgimento

delle funzioni legislative e meno  su  quello  della  gestione  delle

funzioni amministrative, in  presenza  di  un  contesto  territoriale

caratterizzato da una prevalenza di Comuni di piccole o  piccolissime

dimensioni, non potrebbe piu' valorizzare  il  ruolo  delle  Province

nello svolgimento delle funzioni  amministrative,  nonostante  reputi

questo conforme ai principio di adeguatezza e di differenziazione.

    Al fine di  evidenziare  ulteriormente  il  contrasto  di  questa

situazione - che favorisce quindi un forte  centralismo  regionale  -

con  il  disegno  costituzionale,  appare  utile   ricordare   quanto

affermava codesta ecc.ma Corte gia' nella sentenza n. 343  del  1991,

allorche' valorizzava l'intento - di assicurare  un  sempre  maggiore

avvicinamento di queste funzioni alle realta' locali, sia allo  scopo

di evitare  il  formarsi  di  una  burocrazia  a  livello  regionale,

ripetitiva di quella  dell'amministrazione  statale  accentrata  che,

appunto,  con  l'ordinamento  regionale  e  con  la   sua   ulteriore

articolazione a livello locale, la Costituzione tende a superare».

    Inoltre,  la  disposizione  impugnata  prevede   un   illegittimo

intervento  del  potere  sostitutivo  statale  nei  confronti   della

Regione, dal momento che non e' configurabile un'esigenza di tutelare

l'unita' giuridica o economica (che appaiono gli unici parametri, tra

quelli previsti dall'art. 120 Cost., che potrebbero  essere  riferiti

al  caso  di  specie)  in  relazione  a  una  previsione  palesemente

incostituzionale; lo stesso  rinvio  all'articolo  8  della  legge  5

giugno 2003, n. 131, appare configurato in termini irragionevoli, dal

momento che la procedura indicata  nel  comma  18  dell'art.  23  qui

impugnato e' diversa da quella ben piu'  concertativa  contenuta  nel

suddetto art. 8.

    Oltretutto, il potere sostitutivo  statale  consisterebbe,  nella

specie, nel potere  del  Governo  di  intervenire,  ove  non  fossero

emanate le leggi regionali imposte dalla prima parte  del  comma  18,

sostituendosi  al  consiglio  regionale   nella   sua   funzione   di

legislatore, perfino nelle materie di competenza regionale esclusiva.

    La disposizione si pone pertanto in contrasto  con  gli  articoli

118, I e II comma, e 120 della Costituzione.

    2.7) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23, comma 19.

    Il comma 19  del  decreto  impugnato  dispone:  «Lo  Stato  e  le

Regioni, secondo le rispettive  competenze,  provvedono  altresi'  al

trasferimento delle risorse  umane,  finanziarie  e  strumentali  per

l'esercizio delle funzioni trasferite, assicurando nell'ambito  delle

medesime  risorse  il   necessario   supporto   di   segreteria   per

l'operativita' degli organi della provincia».

    La disposizione e' di fatto collegata  al  precedente  comma  18,

disciplinando  la  riallocazione  delle  risorse   conseguente   allo

svuotamento delle funzioni, e riflette percio'  in  via  derivata  la

ritenuta illegittimita' costituzionale del comma 18.

    Inoltre, essa - costruita riproponendo la tecnica normativa a suo

tempo utilizzata riguardo al cd. decentramento amministrativo operato

con il d.lgs. n. 112 del 1998 e quindi anteriormente all'attuale art.

119 Cost.  -  si  pone  in  palese  violazione  dell'art.  119  della

Costituzione, dove invece si prevede che le Province, cosi' come  gli

altri Enti territoriali, abbiano «autonomia finanziaria di entrata  e

di spesa»; nonche' che  dispongano  di  «risorse  autonome»,  potendo

stabilire e applicare «tributi e entrate proprie in  armonia  con  la

Costituzione e con i principi di coordinamento della finanza pubblica

e del sistema tributario»; che dispongano  di  «compartecipazioni  al

gettito di tributi  erariali  riferibile  al  loro  territorio»;  che

esista un «fondo perequativo»; che tali fonti tributarie  «consentano

di finanziare integralmente le funzioni pubbliche  loro  attribuite»;

che solo per rimuovere particolari squilibri o per «scopi diversi dal

normale esercizio delle loro funzioni» lo Stato possa ritornare a una

finanza di trasferimento.

    Ogni riferimento  all'autonomia  finanziaria  delle  Province  e'

infatti scomparsa dal comma 19 dell'art. 23 del decreto impugnato.

    Questo dato va preso in considerazione anche  in  relazione  alla

normativa vigente, recentemente riordinata dal decreto legislativo n.

68 del 2011 (relativo alla  autonomia  finanziaria  delle  Regioni  e

delle Province): l'autonomia finanziaria  delle  Province  si  fonda,

infatti,  su  compartecipazioni   a   tributi   erariali   (come   la

compartecipazione all'irpef), su tributi propri derivati (ad  esempio

l'imposta sulle assicurazioni  contro  la  responsabilita'  civile  e

l'imposta provinciale di  trascrizione),  su  una  imposta  di  scopo

provinciale, e solo in parte residuale  su  trasferimenti  statali  o

regionali, anch'essi peraltro destinati ad  essere  sostituiti  -  in

base alle  disposizioni  del  d.lgs.  n.  68/2011  -,  entro  precisi

termini, con compartecipazioni a tributi  erariali  o  regionali,  in

modo da superare i difetti e i problemi della cd.  finanza  derivata,

che   ha   prodotto   nel    nostro    sistema    evidenti    effetti

deresponsabilizzanti.

    Tutto questo quadro, attuativo dell'art. 119 della  Costituzione,

e' ignorato dalla disposizione impugnata.

    D'altra  parte,   l'esiguita'   delle   funzioni   amministrative

assegnate  alle  Province  (mero  coordinamento,  senza  piu'  alcuna

attivita'  gestionale)  e  l'entita'   delle   risorse   riconosciute

(funzionali solo a garantire il necessario supporto di segreteria per

l'operativita'   degli   organi   della   provincia)   si    dimostra

difficilmente compatibile con il quadro finanziario  disegnato  dalla

Costituzione, a ulteriore riprova di una sostanziale incompatibilita'

del disegno dell'art. 23 del decreto impugnato (commi da 14 a 20) con

quello costituzionale.

    Non risulta neppure chiaro come il comma 19 del decreto impugnato

- e cio' appare anche un  chiaro  sintomo  di  irragionevolezza  -  a

fronte del fortissimo ridimensionamento delle  funzioni  provinciali,

possa gestire il passaggio sul piano del finanziamento,  dal  momento

che si tratta di passare da  un  finanziamento  che  supera  i  dieci

miliardi di euro (derivante dalle funzioni di amministrazione attiva,

come ad esempio quelle attinenti alle strade) a quello molto ben piu'

limitato  di  mere  «funzioni   di   supporto   di   segreteria   per

l'operativita' degli organi provinciali».

    Da questo punto di  vista,  per  quanto  riguarda  le  competenze

statali, il riferimento al mero «trasferimento delle risorse»  sembra

preludere - ma sara' chiaro, anche se i margini  per  una  differente

opzione non paiono  sussistere,  quando  verra'  approvata  la  legge

statale di trasferimento delle funzioni (di competenza statale)  alle

Regioni o ai Comuni - a un incremento della finanza derivata e  a  un

superamento dell'attuale sistema di finanza autonoma.

    In ogni caso, quello  che  qui  maggiormente  rileva  e'  che  la

disposizione, in relazione alla finanza regionale,  e'  configurabile

come un principio statale di coordinamento della finanza pubblica.  E

in questa veste impone, da subito, alle leggi regionali di riallocare

funzioni con la costituzione di un sistema di finanza  derivata,  sia

con riguardo alle funzioni residuali delle Province, sia con riguardo

a quelle allocate ai Comuni,  senza  nessun  rispetto  dell'autonomia

finanziaria regionale riconosciuta dall'art. 119 della Costituzione.

    Si' impone alla Regione, in  questi  termini,  il  ritorno  a  un

sistema di finanza di trasferimento, meramente derivata,  piu'  volte

censurato da codesta ecc. ma Corte (cfr. gia'  sentenza  n.  370  del

2003, dove si precisa «la permanenza o addirittura la istituzione  di

forme  di  finanziamento  delle   Regioni   o   degli   enti   locali

contraddittorie con l'art. 119 della Costituzione espone a rischi  di

cattiva funzionalita'  o  addirittura  di  blocco  di  interi  ambiti

settoriali», ma anche le piu' recenti  sulla  autonomia  finanziaria:

dalle n. 16 e n. 37 del 2004 alla n. 102 del 2008).  La  ricaduta  in

termini di lesione delle competenze regionali e' evidente,  non  solo

perche' menoma e trasfigura il potere  di  assegnazione  in  base  al

principio  di  sussidiarieta'  (un  conto   e'   assegnare   funzioni

amministrative a un ente dotato di autonomia finanziaria, un altro e'

assegnarle ad un ente che, in  violazione  dell'art.  119  Cost.,  e'

stato riportato a un sistema di finanza di trasferimento),  ma  anche

perche' la  disposizione  obbliga  la  Regione  a  piegarsi,  per  il

finanziamento delle funzioni amministrative (sia per quelle che  puo'

conservare in capo alle Province sia per quelle  che  trasferisce  ai

Comuni) a questa  logica  totalmente  contraddittoria  dell'art.  119

della Costituzione e della sua attuazione attraverso la  riforma  del

federalismo fiscale con legge n.  42  del  2009  e  relativi  decreti

legislativi, in particolare d.lgs. n. 68 del 2011.

    E' evidente, peraltro, che il ritorno a un sistema di finanza  di

trasferimento,  cioe'  totalmente  deresponsabilizzante   sul   piano

fiscale (lo Stato e la Regione trasferiscono e la  Provincia  spende)

e' in chiara e netta antitesi con l'obiettivo  di  razionalizzare  la

spesa, come dimostrano tutti i guasti prodotti nel nostro sistema dal

criterio della cd. spesa storica.

    La disposizione dell'art. 19 si pone quindi in  aperta  e  palese

violazione dell'intero art.  119  della  Costituzione,  menomando  le

competenze attribuite alla Regione, obbligata a istituire un  sistema

di finanza di trasferimento.

    In sostanza, l'impianto normativo prefigurato dai commi da  14  a

20 dell'art. 23 del decreto impugnato appare sotto questi profili  in

palese contrasto con la Costituzione e potenzialmente idoneo a creare

gravissime  difficolta'  applicative,  nonche'   aumenti   di   costi

superiori ai risparmi che potrebbe produrre. Come si e' in precedenza

evidenziato, la revisione o la razionalizzazione  costituzionale  dei

livelli di governo del sistema autonomistico italiano puo' senz'altro

ritenersi  opportuna,  ma  deve  essere  attuata  con  una  legge  di

revisione costituzionale, dopo un approfondito esame della situazione

e  delle  diverse  soluzioni   possibili.   Soluzioni   improvvisate,

tecnicamente e economicamente discutibili,  con  aperti  ed  evidenti

profili di incostituzionalita' possono creare guasti gravi al sistema

in termini di gestibilita' e di costi aggiuntivi. Per questi  motivi,

si ritiene opportuno richiedere l'istanza di  sospensione  di  queste

norme  impugnate,  al  fine  di  evitare  il  verificarsi  di  questa

situazione.

3) Illegittimita' costituzionale dell'art. 27, per  violazione  degli

articoli 117, 118 e 119 della Costituzione.

    L'articolo  27  del  decreto-legge  n.   201/2011,   cosi'   come

convertito, con modificazioni, dalla legge di conversione 22 dicembre

2011, n. 214, recante la rubrica «Dismissioni  immobili»,  detta  una

nuova disciplina della valorizzazione,  trasformazione,  gestione  ed

alienazione del patrimonio immobiliare pubblico, che  in  piu'  punti

appare  lesiva  delle   garanzie   costituzionali   dell'   autonomia

regionale.

    In particolare, il comma 1 inserisce un nuovo  articolo  (33-bis)

nel decreto-legge n.  98/2011,  convertito  con  modificazioni  dalla

legge  15  luglio  2011,  n.  111,  recante  la  rubrica   «Strumenti

sussidiari per la gestione degli immobili pubblici».

    Nel nuovo art. 33-bis si prevede, al comma 1, che  l'Agenzia  del

demanio promuova «per la valorizzazione, trasformazione, gestione  ed

alienazione del patrimonio immobiliare  pubblico  di  proprieta'  dei

Comuni, Province, Citta' metropolitane, Regioni, Stato e  dagli  Enti

vigilati dagli stessi, nonche' dei diritti  reali  relativi  ai  beni

immobili, anche demaniali» - la costituzione di societa', consorzi  o

fondi immobiliari. Tutto cio', beninteso,  «senza  nuovi  o  maggiori

oneri per la finanza pubblica». Al  comma  2,  poi,  si  prevede  che

«L'avvio della verifica di fattibilita' delle iniziative  di  cui  al

presente articolo e' promosso dall'Agenzia del  demanio...(omissis)».

Al comma 3, poi, si aggiunge che «qualora le  iniziative  di  cui  al

presente articolo prevedano forme societarie, ad esse  partecipano  i

soggetti apportanti e il Ministero dell'economia e  delle  finanze  -

Agenzia del demanio, che aderisce anche nel caso in cui non vi  siano

inclusi beni di proprieta' dello Stato in qualita' di finanziatore  e

di struttura tecnica di supporto. L'Agenzia  del  demanio  individua,

attraverso procedure di evidenza  pubblica,  gli  eventuali  soggetti

privati partecipanti.» e, ancora, che  «La  stessa  Agenzia,  per  lo

svolgimento delle  attivita'  relative  all'attuazione  del  presente

articolo, puo'  avvalersi  di  soggetti  specializzati  nel  settore,

individuati  tramite  procedure  ad  evidenza  pubblica  o  di  altri

soggetti pubblici».

    Con le disposizioni richiamate viene palesemente attribuito  allo

Stato, e per esso all'Agenzia del demanio, e  soltanto  ad  essa,  un

ruolo determinante per la valorizzazione, trasformazione, gestione  e

alienazione del patrimonio immobiliare pubblico di  proprieta'  delle

Regioni e degli altri enti territoriali e enti vigilati dai medesimi:

ruolo che si concretizza sia nella costituzione di societa', consorzi

o fondi immobiliari, sia nella  selezione  degli  eventuali  soggetti

privati partecipanti, sia nella selezione dei soggetti  specializzati

nel settore dei quali avvalersi.

    Il riferimento normativo anche ai beni demaniali, che sono  stati

trasferiti in larga parte alle Regioni  col  d.lgs.  n.  85/2010  nel

quadro del c.d. federalismo demaniale, palesa ulteriormente  come  le

disposizioni statali censurate tendano a  restituire  allo  Stato  un

ruolo primario  e  condizionante  nella  valorizzazione,  gestione  e

alienazione dei beni immobili pubblici, inclusi quelli delle Regioni.

    Inoltre, l'espressa previsione che l'Agenzia del demanio promuova

tutto cio' «senza nuovi o maggiori oneri  per  la  finanza  pubblica»

(comma 1), e al contempo  che  la  medesima  Agenzia  partecipi  alle

iniziative societarie anche quando non siano apportati beni  statali,

«in qualita' di soggetto finanziatore», lascia trasparire l'obiettivo

di governare a livello statale il processo  di  valorizzazione  anche

degli immobili pubblici regionali, peraltro con  risorse  finanziarie

messe a disposizione dalle regioni ed eventualmente dagli altri  enti

territoriali.

    Siffatte disposizioni si pongono pertanto in  contrasto  con  gli

articoli 118 e 119 della Costituzione, ove si prevede che le  Regioni

abbiano un proprio patrimonio e che quindi  possano  gestirne,  nella

loro  autonomia  amministrativa  organizzativa  e   finanziaria,   la

valorizzazione.

    Il comma 7  del  nuovo  articolo  33-bis  introduce  disposizioni

sostitutive dei commi l e 2 dell'art. 58 del decreto-legge n. 112 del

2008, cosi come convertito dalla legge n. 133 del 2008.

    L'art. 58 cit. reca la rubrica «Ricognizione e valorizzazione del

patrimonio immobiliare di regioni, comuni ed  altri  enti  locali»  e

disciplina la procedura di dismissione, prevedendo la redazione di un

piano delle alienazioni e valorizzazioni immobiliari (comma  1),  con

l'effetto di classificare i beni inclusi nell'elenco come  patrimonio

disponibile, e, ancora, prevede l'assegnazione ai beni in dismissione

delle rispettive destinazioni d'uso urbanistiche con la deliberazione

di approvazione da parte del consiglio comunale (comma 2).

    E' noto che il dettato originario del comma 2 e' stato dichiarato

costituzionalmente illegittimo, esclusa la  prima  proposizione,  con

sentenza n. 340 del 2009, per violazione della  potesta'  legislativa

regionale in materia di  governo  del  territorio:  «Ancorche'  nella

ratio dell'art. 58  siano  ravvisabili  anche  profili  attinenti  al

coordinamento della finanza  pubblica,  in  quanto  finalizzato  alle

alienazioni e valorizzazioni del patrimonio immobiliare  degli  enti,

non c'e' dubbio che, con riferimento al comma 2 qui censurato, assuma

carattere prevalente la materia del governo del territorio, anch'essa

rientrante nella competenza ripartita tra  lo  Stato  e  le  Regioni,

avuto riguardo all'effetto di  variante  allo  strumento  urbanistico

generale,  attribuito  alla  delibera  che  approva   il   piano   di

alienazione e valorizzazione. Ai sensi dell'art.  117,  terzo  comma,

ultimo periodo, Cost., in tali materie lo Stato ha soltanto il potere

di fissare i principi fondamentali, spettando alle Regioni il  potere

di emanare la normativa di dettaglio. La relazione tra  normativa  di

principio e normativa di dettaglio va intesa nel senso che alla prima

spetta prescrivere  criteri  ed  obiettivi,  essendo  riservata  alla

seconda l'individuazione degli strumenti concreti da  utilizzare  per

raggiungere detti obiettivi» (ex plurimis: sentenze nn. 237 e 200 del

2009).

    La disposizione che ha sostituito il comma 2 dell'art. 58 incorre

tuttavia nel medesimo vizio di costituzionalita'.

    Infatti, solo in apparenza si rimette alle Regioni la  disciplina

delle varianti urbanistiche eventualmente  necessarie  per  assegnare

destinazioni d'uso agli immobili pubblici in dismissione. Infatti, si

stabilisce ora che «Le Regioni, entro 60 giorni dalla data di entrata

in  vigore  della  presente  disposizione,  disciplinano  l'eventuale

equivalenza   della   deliberazione   del   consiglio   comunale   di

approvazione quale variante allo strumento urbanistico  generale,  ai

sensi dell'articolo 25 della legge 28 febbraio  1985,  n.  87,  anche

disciplinando   le   procedure   semplificate   per    la    relativa

applicazione». In questo modo, da un lato si impone alla  Regione  un

termine brevissimo entro il  quale  esercitare  la  propria  potesta'

legislativa  concorrente  in  materia  di  governo  del   territorio,

dall'altro  se  ne  prefigurano  addirittura  i  contenuti  in   modo

dettagliato. Inoltre, la novella prosegue col disporre - allo  stesso

modo gia' stigmatizzato - che «Le Regioni, nell'ambito della predetta

normativa approvano procedure  di  copianificazione  per  l'eventuale

verifica   di   conformita'   agli   strumenti   di    pianificazione

sovraordinata, al fine di concludere il procedimento entro il termine

perentorio di 90 giorni dalla  deliberazione  comunale».  Infine,  la

novella statale disvela la propria finalita': «Trascorsi  i  predetti

60 giorni, si applica il comma 2  dell'articolo  25  della  legge  28

febbraio 1985, n. 47».

    Essendo  certo  a  priori  che  quel  termine  non  puo'   essere

rispettato, stante la sua brevita' in  rapporto  all'esercizio  della

competenza  legislativa  regionale  secondo  le  vigenti   regole   e

procedure,  la  disposizione  statale  solo  in  apparenza   rispetta

l'autonomia regionale, come richiesto anche dalla sentenza n. 340 del

2009 di codesta Corte: in realta', si impone nuovamente alle  Regioni

una disciplina statale di dettaglio.

    Per di piu', si tratta di una disciplina inappropriata, in quanto

l'art. 25, comma 2, legge n. 47/1985,  nel  prevedere  l'approvazione

regionale per silenzio  assenso,  dopo  120  giorni,  fa  riferimento

quanto all'oggetto alle «norme di  cui  al  comma  precedente»  e  ai

«provvedimenti  di  cui  al  precedente  comma»  che  «si   intendono

approvati». Ma il  precedente  comma  fa  riferimento  esclusivamente

all'approvazione di strumenti attuativi in  variante  agli  strumenti

generali  (lett.  a),  all'armonizzazione  dei  regolamenti   edilizi

comunali (lett. b) e a procedure semplificate per  l'approvazione  di

varianti   agli   strumenti   urbanistici    generali    «finalizzate

all'adeguamento degli standards  urbanistici  posti  da  disposizioni

statali o regionali» (lett. c): nulla che  si  riferisca  al  diverso

tema delle varianti agli strumenti generali finalizzate ad attribuire

una destinazione d'uso a immobili pubblici in dismissione.

    Conclusivamente, risulta violata la competenza costituzionalmente

riconosciuta alla Regione in materia di  governo  del  territorio  ai

sensi dell'art.117, III comma, della Costituzione.

    Il comma 2 dell'art. 27 del decreto impugnato  inserisce  poi  un

nuovo articolo 3-ter nel decreto-legge n. 351  del  2001,  cosi  come

convertito dalla legge n. 410 del 2001, per disciplinare il «processo

di  valorizzazione  degli  immobili   pubblici».   Si   prevedono   e

disciplinano dei «programmi unitari di  valorizzazione  territoriale»

(commi  1-5)  e  degli  accordi  di  programma   (commi   6-10).   In

particolare, ai commi 6, 7 e 8, si prevede che  il  Presidente  della

Giunta regionale, ovvero l'Organo di governo preposto,  promuova  «la

sottoscrizione di un accordo di programma ai sensi  dell'articolo  34

del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, nonche' in base  alla

relativa legge  regionale  di  regolamentazione  della  volonta'  dei

soggetti esponenziali del territorio di procedere alla variazione  di

detti strumenti di  pianificazione,  al  quale  partecipano  tutti  i

soggetti,  anche  in  qualita'  di  mandatari  da  parte  degli  enti

proprietari, che sono interessati all'attuazione  del  programma.  7.

Nell'ambito dell'accordo di programma di cui al comma 6, puo'  essere

attribuita agli enti locali interessati dal  procedimento  una  quota

compresa tra il 5 e il 15 del ricavato della vendita degli immobili

valorizzati  se  di  proprieta'  dello  Stato  da  corrispondersi   a

richiesta dell'ente locale interessato, in tutto o  in  parte,  anche

come quota parte dei beni oggetto  del  processo  di  valorizzazione.

Qualora tali immobili, ai fini  di  una  loro  valorizzazione,  siano

oggetto  di  concessione  o  locazione  onerosa,  all'Amministrazione

comunale e' riconosciuta  una  somma  non  inferiore  al  50  e  non

superiore al 100 del  contributo  di  costruzione  dovuto  ai  sensi

dell'articolo 16 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380  e  delle  relative

leggi  regionali  per  l'esecuzione  delle  opere   necessarie   alla

riqualificazione  e  riconversione,  che  il  concessionario   o   il

locatario corrisponde all'atto  del  rilascio  o  dell'efficacia  del

titolo abilitativo edilizio». In particolare, al comma 8 si fissa  un

termine «perentorio» di 120 giorni per la conclusione dell'accordo di

programma, imponendo altrimenti al Presidente della Giunta  regionale

di attivare e concludere le procedure entro 60 giorni.

    L'insieme di questa - invero farraginosa - disciplina, che scende

nel dettaglio dei contenuti e delle procedure,  appare  incompatibile

con  l'autonomia  costituzionalmente  riconosciuta  alla  Regione  in

materia di governo del territorio e  di  valorizzazione  del  proprio

patrimonio,  sia  a  livello   legislativo   che   amministrativo   e

finanziario.

    Si pone anch'essa pertanto in violazione degli articoli 117,  III

comma, 118, I e II comma, e 119, ultimo comma, della Costituzione.

    4) Illegittimita'  costituzionale  dell'art.  31,  comma  1,  per

violazione  degli  articoli  114,  117,  I  e  IV  comma;  118  della

Costituzione.

    4.1. L'art. 31, comma l, del decreto-legge apporta  una  modifica

al dettato normativo  dell'art.  3,  comma  1,  lettera  d-bis),  del

decreto-legge 4 luglio 2006, n.  223,  convertito  con  modificazioni

dalla legge 4 agosto 2006, n. 248 (correntemente indicato anche  come

«decreto Bersani»).

    Il dettato normativo dell'art. 3, comma 1, del  decreto  Bersani,

cosi come gia' modificato dalla legge 4  agosto  2006,  n.  248,  era

formulato nei termini seguenti:

        «Regole  di  tutela  della  concorrenza  nel  settore   della

distribuzione commerciale.

    1. Ai sensi delle disposizioni  dell'ordinamento  comunitario  in

materia di tutela della concorrenza e libera circolazione delle merci

e dei servizi ed al fine di  garantire  la  liberta'  di  concorrenza

secondo condizioni di pari opportunita' ed il  corretto  ed  uniforme

funzionamento del  mercato,  nonche'  di  assicurare  ai  consumatori

finali un livello minimo ed uniforme di condizioni di  accessibilita'

all'acquisto di prodotti e servizi sul territorio nazionale, ai sensi

dell'articolo  117,  comma  secondo,  lettere   e)   ed   m),   della

Costituzione, le attivita' commerciali, come individuate dal  decreto

legislativo 31 marzo 1998, n. 114, e di somministrazione di  alimenti

e bevande sono svolte senza i seguenti limiti e prescrizioni:

        a) l'iscrizione a  registri  abilitanti  ovvero  possesso  di

requisiti  professionali  soggettivi  per  l'esercizio  di  attivita'

commerciali, fatti salvi quelli riguardanti il settore  alimentare  e

della somministrazione degli alimenti e delle bevande;

        b) il rispetto di distanze minime obbligatorie tra  attivita'

commerciali appartenenti alla medesima tipologia di esercizio;

        c) le limitazioni quantitative all'assortimento  merceologico

offerto negli esercizi commerciali, fatta salva  la  distinzione  tra

settore alimentare e non alimentare;

        d)  il  rispetto  di  limiti  riferiti  a  quote  di  mercato

predefinite  o  calcolate  sul  volume  delle   vendite   a   livello

territoriale sub regionale;

        d-bis), in via  sperimentale,  il  rispetto  degli  orari  di

apertura  e  di  chiusura,  l'obbligo  della  chiusura  domenicale  e

festiva,  nonche'   quello   della   mezza   giornata   di   chiusura

infrasettimanale dell'esercizio  ubicato  nei  comuni  inclusi  negli

elenchi regionali delle localita' turistiche o citta' d'arte;

        e)  la  fissazione   di   divieti   ad   effettuare   vendite

promozionali,  a  meno  che  non   siano   prescritti   dal   diritto

comunitario;

        f)  l'ottenimento   di   autorizzazioni   preventive   e   le

limitazioni di ordine temporale o quantitativo  allo  svolgimento  di

vendite  promozionali  di  prodotti,  effettuate  all'interno   degli

esercizi  commerciali  ,  tranne  che  nei   periodi   immediatamente

precedenti i saldi di fine stagione per i medesimi prodotti;

        f-bis)  il  divieto   o   l'ottenimento   di   autorizzazioni

preventive per il  consumo  immediato  dei  prodotti  di  gastronomia

presso l'esercizio di vicinato, utilizzando i  locali  e  gli  arredi

dell'azienda   con   l'esclusione   del   servizio    assistito    di

somministrazione    e    con    l'osservanza    delle    prescrizioni

igienico-sanitari.

    Distribuzione commerciale incompatibili con  le  disposizioni  di

cui al comma 1.

    4. Le regioni e gli enti locali adeguano le proprie  disposizioni

legislative e regolamentari ai principi e alle disposizioni di cui al

comma 1 entro il 1° gennaio 2007.».

    A seguito della modifica, la  disposizione  al  punto  d-bis)  e'

stata riformulata nei termini seguenti:

        «d-bis) il rispetto degli orari di apertura  e  di  chiusura,

l'obbligo della chiusura domenicale e festiva, nonche'  quello  della

mezza giornata di chiusura infrasettimanale».

    In questo modo, e' stato eliminato in via  generale  ed  assoluta

ogni possibile  limite  relativamente  agli  orari  e  ai  giorni  di

apertura e chiusura,  sia  per  le  attivita'  commerciali  in  senso

stretto che per  le  attivita'  di  somministrazione  di  alimenti  e

bevande  (che  d'ora  in  avanti  indicheremo   congiuntamente,   per

brevita', come «esercizi commerciali»).

    Viene  cosi'  abrogata   per   incompatibilita'   la   previgente

disciplina statale degli orari di vendita, posta dagli artt. 11 e  12

del decreto legislativo n. 14/1998 e applicata nella Regione  Veneto,

ove si stabiliva:

        Art. 11 «Orario di apertura e di chiusura.

    1. Gli orari di apertura e di chiusura al pubblico degli esercizi

di vendita al dettaglio sono rimessi alla libera determinazione degli

esercenti nel rispetto delle disposizioni del presente articolo e dei

criteri emanati dai comuni,  sentite  le  organizzazioni  locali  dei

consumatori, delle imprese del commercio e dei lavoratori dipendenti,

in esecuzione di quanto disposto dall'art. 36, comma 3, della legge 8

giugno 1990, n. 142.

    2.  Fatto  salvo  quanto  disposto  al  comma  4,  gli   esercizi

commerciali  di  vendita  al  dettaglio  possono  restare  aperti  al

pubblico in tutti i giorni della settimana dalle ore sette  alle  ore

ventidue. Nel rispetto di tali limiti  l'esercente  puo'  liberamente

determinare l'orario di apertura e di chiusura del proprio  esercizio

non superando comunque il limite delle tredici ore giornaliere.

    3. L'esercente e' tenuto a rendere noto al pubblico  l'orario  di

effettiva apertura e chiusura del proprio esercizio mediante cartelli

o altri mezzi idonei di informazione.

    4. Gli esercizi di vendita al  dettaglio  osservano  la  chiusura

domenicale e festiva dell'esercizio e, nei casi stabiliti dai comuni,

sentite le organizzazioni di cui al comma 1,  la  mezza  giornata  di

chiusura infrasettimanale.

    5. Il comune, sentite  le  organizzazioni  di  cui  al  comma  1,

individua i giorni e le zone del territorio nei quali  gli  esercenti

possono derogare all'obbligo di chiusura domenicale e festiva.  Detti

giorni comprendono comunque quelli  del  mese  di  dicembre,  nonche'

ulteriori otto domeniche o festivita'  nel  corso  degli  altri  mesi

dell'anno.».

        Art. 12 «Disposizioni speciali.

    1. Le disposizioni del presente  titolo  non  si  applicano  alle

seguenti tipologie di attivita': le rivendite di generi di monopolio;

gli esercizi di  vendita  interni  ai  campeggi,  ai  villaggi  e  ai

complessi turistici  e  alberghieri,.  gli  esercizi  di  vendita  al

dettaglio situati nelle aree di servizio lungo le  autostrade,  nelle

stazioni ferroviarie, marittime ed aeroportuali;  alle  rivendite  di

giornali;  le  gelaterie  e  gastronomie;   le   rosticcerie   e   le

pasticcerie; gli esercizi specializzati  nella  vendita  di  bevande,

fiori, piante e articoli  da  giardinaggio,  mobili,  libri,  dischi,

nastri magnetici, musicassette, videocassette, opere d'arte,  oggetti

d'antiquariato, stampe, cartoline, articoli da ricordo e  artigianato

locale, nonche' le stazioni  di  servizio  autostradali,  qualora  le

attivita' di vendita previste dal  presente  comma  siano  svolte  in

maniera esclusiva e prevalente, e le sale cinematografiche.

    2.  Gli  esercizi  del  settore   alimentare   devono   garantire

l'apertura al pubblico in caso di piu' di due festivita' consecutive.

Il sindaco definisce le modalita' per adempiere all'obbligo di cui al

presente comma.

    3.  I  comuni  possono  autorizzare,  in   base   alle   esigenze

dell'utenza  e  alle  peculiari   caratteristiche   del   territorio,

l'esercizio   dell'attivita'   di   vendita   in   orario    notturno

esclusivamente per un limitato numero di esercizi di vicinato.».

    La nuova disposizione statale travolge poi la legge regionale del

Veneto 21 settembre 2007, n. 29, recante la Disciplina dell'esercizio

dell'attivita' di somministrazione di alimenti e bevande, nella parte

in cui disciplina gli orari di vendita.

    L'introduzione di un divieto siffatto sarebbe giustificata,  come

si evince dal comma l dell'art. 3 del decreto Bersani  nel  quale  si

incardina   la   novella,   avuto   riguardo   a   «le   disposizioni

dell'ordinamento comunitario in materia di tutela della concorrenza e

libera circolazione  delle  merci  e  dei  servizi»  e  al  «fine  di

garantire la liberta'  di  concorrenza  secondo  condizioni  di  pari

opportunita' ed il corretto ed uniforme  funzionamento  del  mercato,

nonche' di assicurare ai consumatori  finali  un  livello  minimo  ed

uniforme di condizioni di accessibilita' all'acquisto di  prodotti  e

servizi sul territorio nazionale, ai sensi dell'articolo  117,  comma

secondo, lettere e) ed m), della Costituzione».

    4.2. Ritiene la Regione Veneto che la modifica apportata all'art.

3, comma l, del  decreto  Bersani  non  costituisca  ne'  adeguamento

dell'ordinamento interno al diritto dell'Unione europea ne' esercizio

di competenza legislativa esclusiva dello Stato  ai  sensi  dell'art.

117, lett. e) ed m), della Costituzione,  in  relazione  alla  tutela

della concorrenza e alla determinazione dei livelli essenziali  delle

prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono  essere

garantiti su tutto il territorio nazionale.

    4.3. Quanto all'ordinamento dell'Unione, non e'  dato  ravvisarvi

alcuna disposizione  incompatibile  con  una  normativa  interna  che

disciplini giorni ed orari di  apertura  e  chiusura  degli  esercizi

commerciali, alla luce dell'interpretazione data dalla giurisprudenza

della Corte di giustizia.

    4.3.1.  Con  specifico  riferimento  al   principio   di   libera

circolazione delle merci e al correlato divieto  (art.  34  TFUE)  di

misure equivalenti a restrizioni quantitative (intese secondo la nota

«formula Dassonville»), la giurisprudenza comunitaria ha ben chiarito

che non sono vietate quelle normative nazionali applicabili  a  tutti

gli operatori che svolgono attivita' commerciale nello  Stato  membro

considerato e che investono nella stessa maniera,  in  diritto  e  in

fatto, la commercializzazione  di  prodotti  nazionali  e  quella  di

prodotti importati.

    Particolarmente significative  in  questo  senso  sono  state  le

sentenze Keck e Mithouard  (24  novembre  1993,  causa  C-267-268/91,

punti 16-17) e Hunermund (15 dicembre  1993,  causa  C-292/92,  punto

21), ove la Corte non ha incluso fra le misure di effetto equivalente

vietate quelle misure che  attengono  alle  modalita'  dell'attivita'

commerciale e non al prodotto, non preordinate alla disciplina  degli

scambi e  non  collegate  in  alcun  modo  con  la  diversita'  delle

legislazioni  nazionali  sul  prodotto,  insuscettibili  percio'   di

rendere, direttamente o indirettamente, nella forma o nella sostanza,

meno facile  l'accesso  al  mercato  per  i  prodotti  importati.  Il

criterio  del  mutuo  riconoscimento   delle   differenti   normative

nazionali investe infatti le normative sul prodotto e non l'attivita'

di vendita, cosicche'  restano  estranee  al  campo  di  applicazione

dell'art. 34  TFUE  quelle  normative  nazionali  che  non  investono

affatto gli scambi o l'integrazione dei mercati.

    In particolare, la Corte di giustizia ha  fatto  applicazione  di

questi principi proprio in tema di disciplina nazionale dei giorni ed

orari di apertura degli esercizi commerciali  (sentenze  23  novembre

1989, causa C-145/88, B  &  Q;  28  febbraio  1991,  causa  C-312/89;

Conforama, e causa C-332/89, Marchandise;  16  dicembre  1992,  causa

C-169/91, B & Q; 2 giugno 1994, cause riunite C-69  e  258/93,  Punto

Casa  e  PPV,  punto  12;  22  giugno  1994,  causa   C   401-402/92,

Tankstation, punti 12-14; 20 giugno  1996,  cause  riunite  C-418/93,

C-419/93, C-420/93, C-421/93, C-460/93, C-461/93, C-462/93, C-464/93,

C-9/94, C- 10/94,  C-11/94,  C-14/94,  C-15/94,  C-23/94,  C-24/94  e

C-332/94, Semeraro, punto 28).

    La Corte di giustizia ha riconosciuto che una normativa nazionale

siffatta «persegue un  obiettivo  legittimo  alla  luce  del  diritto

comunitario»  in  quanto  «le  discipline  nazionali   che   limitano

l'apertura   domenicale   di   esercizi   commerciali   costituiscono

l'espressione di determinate scelte,  rispondenti  alle  peculiarita'

socio-culturali nazionali o regionali» e «spetta  agli  Stati  membri

effettuare queste scelte attenendosi alle  prescrizioni  del  diritto

comunitario» (cfr. in particolare  il  punto  11  della  sentenza  16

dicembre 1992, citato al punto 25 della sentenza 20 giugno 1996).

    Corrispondentemente, la Corte di cassazione (sentenza 4  novembre

1994, n. 9129, resa  a  sezioni  unite  in  sede  di  regolamento  di

giurisdizione) ha ribadito che la  legislazione  interna,  statale  e

regionale, che vieta l'apertura domenicale degli esercizi di  vendita

al dettaglio non contrasta con il principio comunitario della  libera

circolazione delle merci, in quanto l'obbligo di chiusura non rientra

nel suo campo di applicazione e non provoca discriminazioni,  neppure

dissimulate,   tra    prodotti    nazionali    e    non    nazionali.

Conseguentemente, la  Corte  ha  escluso  di  poter  disapplicare  il

diritto interno a favore del diritto dell'Unione.

    4.3.2. Anche  con  riferimento  all'altro  principio  comunitario

richiamato dal decreto  Bersani,  quello  di  libera  prestazione  di

Servizi, quand'anche inteso in  senso  ampio  cosi  da  includere  il

diritto di stabilimento, e' da ritenere che le disposizioni del  TFUE

che lo sanciscono (artt. 56 ss., 49 ss. TFUE) e cosi' pure la recente

normativa  europea  di  attuazione  (direttiva  2006/123/CE  del   12

dicembre 2006 relativa ai servizi nel mercato interno) non  siano  in

alcun modo incompatibili con normative nazionali sui giorni ed  orari

di apertura e chiusura degli esercizi commerciali.

    Il diritto di stabilimento nei Paesi membri e' riconosciuto  agli

operatori economici senza discriminazioni, ma pur sempre nel rispetto

delle specifiche  normative  nazionali;  infatti,  fra  gli  ostacoli

vietati o da monitorare secondo la direttiva  «Bolkestein»  non  sono

menzionate le regole interne sui giorni ed orari  di  apertura  degli

esercizi commerciali. Cio'  rende  superfluo  osservare  poi  che  la

stessa direttiva «Bolkestein»  ammette  delle  eccezioni  ai  divieti

posti, in presenza di motivi imperativi  di  interesse  generale,  di

talche' perfino nel suo ambito di applicazione permane uno spazio  di

operativita' per il diritto interno, e percio' in Italia anche per la

legislazione regionale.

    4.3.3. Neppure la disciplina della concorrenza posta dal  diritto

dell'Unione (artt. 101-109 TFUE) appare in alcun  modo  incompatibile

con disposizioni nazionali su  giorni  ed  orari  di  apertura  degli

esercizi commerciali che siano prive  di  effetti  discriminatori  ed

anticoncorrenziali e prive di collegamenti con  comportamenti  propri

delle imprese. Vero e', semmai, il  contrario:  misure  nazionali  di

totale  liberalizzazione  dei  giorni  ed  orari  di  apertura  degli

esercizi  commerciali  potrebbero   finire   proprio   coll'agevolare

comportamenti  anticoncorrenziali,  col  favorire  concentrazioni  di

imprese restrittive della concorrenza e lo  sfruttamento  abusivo  di

posizioni dominanti, a danno del consumatore e  del  suo  diritto  di

fruire di una struttura distributiva articolata, diffusa e  anche  di

prossimita' al tessuto urbano consolidato delle citta'  e  dei  paesi

ove si concentra la  residenza  (cfr.  in  questo  senso  la  recente

giurisprudenza amministrativa: p.es. TAR per il Veneto, sez. III,  28

luglio 2011, n 126; Id., n. 3819 del 2009).

    Lo stesso Parlamento europeo nella recente risoluzione  5  luglio

2011 (2010/2109(INI) su un commercio al  dettaglio  piu'  efficace  e

piu' equo  ha  sottolineato  «che  le  PMI  costituiscono  l'ossatura

dell'economia europea e rivestono un ruolo unico nella  creazione  di

posti di lavoro, in particolare nelle zone  rurali,  e  nel  favorire

l'innovazione e la crescita nel settore del  commercio  al  dettaglio

nelle comunita' locali in tutta l'UE» (punto  17);  ancora,  che  «la

pianificazione del commercio al  dettaglio  deve  fornire  un  quadro

strutturale che permetta alle imprese  di  competere,  rafforzare  la

liberta' di scelta dei consumatori e consentire l'accesso  a  beni  e

servizi, in particolare nelle regioni meno accessibili o  scarsamente

popolate oppure in caso di mobilita' ridotta dei consumatori»  (punto

16) e ha insistito «sul ruolo sociale, culturale e ambientale  svolto

dai negozi e mercati locali per il rilancio delle zone rurali  e  dei

centri urbani» (punto 16).

    4.3.4. Sul piano della  prassi  europea,  e'  significativo  che,

secondo una recente analisi di Eurocommerce  (all.  2),  in  tutti  i

Paesi membri dell'Unione giorni ed orari di apertura e chiusura degli

esercizi commerciali siano regolamentati,  con  fissazione  di  orari

massimi  di  apertura  nei  giorni  feriali,  variabili  secondo   le

condizioni climatiche e gli  usi  locali,  e  non  sia  mai  concessa

assoluta liberta' di apertura, in tutti i giorni dell'anno.

    E' parimenti significativo che non si  abbia  notizia  di  alcuna

iniziativa da parte  della  Commissione  UE  volta  a  contestare  le

normative nazionali per infrazione al diritto UE.

    4.4. Passando ora all'ordinamento interno italiano, la disciplina

degli orari e dei  giorni  di  apertura  e  chiusura  degli  esercizi

commerciali  non  e'   riconducibile   nell'area   della   competenza

legislativa esclusiva  dello  Stato  ai  sensi  dell'art.  117  della

Costituzione: non in  quella  della  tutela  della  concorrenza,  per

considerazioni analoghe a quelle svolte con  riferimento  al  diritto

dell'Unione data la consonanza di principi e di regole, e neppure  in

quella della determinazione dei livelli essenziali delle  prestazioni

concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su

tutto il territorio nazionale,  ai  sensi  dell'art.  117,  comma  2,

lettera m), della Costituzione.

    La possibilita' per il consumatore di acquistare merci e  servizi

in tutti i giorni festivi o in  orari  notturni  non  sembra  infatti

configurare  un  livello  essenziale  di  prestazioni  di  cui  debba

assolutamente fruire, tanto piu' che, ove cosi' fosse, si  renderebbe

necessario introdurre  semmai  prescrizioni  volte  ad  imporre  agli

operatori economici, quantomeno a  rotazione,  l'apertura  festiva  e

notturna, appunto a tutela dei consumatori;  mentre  la  disposizione

censurata e' chiaramente orientata ad attribuire  una  mera  facolta'

agli operatori economici. L'acquisto di beni o servizi in ogni giorno

ed ogni ora non e' d'altra parte riconducibile fra i diritti civili o

i  diritti  sociali,   nel   significato   attribuito   dalla   Carta

costituzionale a questi  termini,  ne'  dei  consumatori,  ne'  degli

esercenti.

    Che l'apertura domenicale indiscriminata  non  sia  configurabile

come diritto soggettivo degli esercenti e' stato sancito anche  dalla

giurisprudenza della Corte di cassazione (ss.uu., sentenza 4 novembre

1994, n. 9129).

    4.5. Che la disciplina dei giorni ed orari di apertura e chiusura

degli esercizi commerciali non ricada  nell'ambito  della  competenza

legislativa esclusiva dello Stato bensi' nella  competenza  esclusiva

regionale in materia di commercio, e' assunto ormai consolidato nella

giurisprudenza di codesta ecc.ma Corte (sentenza n. 1 del 2004;  ord.

11 maggio 2006, n. 199; sentenze 9 marzo 2007, n. 64; 11 maggio 2007,

n. 165; 12 dicembre 2007, n. 430; 24 ottobre 2008, n. 350;  5  luglio

2010, n. 247; 8 ottobre 2010, n. 288; 21 aprile 2011, n. 150).

    La tutela della concorrenza  non  rappresenta  dunque  un  limite

«esterno»,  atto  a  comprimere,  fino  a  svuotare,  la   competenza

regionale nella materia del commercio; costituisce semmai  un  limite

«interno» alla normativa regionale, nel senso che  quest'ultima  deve

conformarsi  ai  generali  obiettivi  di  non   discriminazione   fra

operatori economici, di apertura al  mercato  e  di  eliminazione  di

barriere e vincoli al libero esplicarsi dell'attivita' economica  (in

questo senso, da ultimo, Corte cost., sentenze n. 18 del  23  gennaio

2012, n. 150 del 2011).

    Resta fermo, poi, che l'applicazione delle regole di tutela della

concorrenza non puo' comunque  spingersi  fino  a  misconoscere  o  a

pregiudicare  altri  valori  che  configurino  motivi  imperativi  di

interesse generale ritenuti meritevoli di tutela dallo stesso diritto

dell'Unione, dalla  Costituzione  e  dal  diritto  primario  statale.

L'esigenza di un ragionevole contemperamento tra valori e'  al  fondo

di  quella  giurisprudenza  costituzionale  che,   di   recente,   ha

riconosciuto  la  legittimita'  di  leggi  regionali  in  materia  di

commercio  che   introducevano   differenziazioni   di   regime   con

riferimento  alle  dimensioni  dell'impresa,   in   quanto   ispirate

all'esigenza di interesse generale di riconoscimento e valorizzazione

del ruolo delle piccole e medie imprese gia' operanti sul  territorio

regionale (sentenze n. 64 del 2007, n. 288 del 2010).

    4.6.  Sulla  base  delle  considerazioni  fin  qui   svolte,   la

disposizione di legge qui censurata, cosi' come formulata, nella  sua

assolutezza e  inderogabilita',  non  trova  affatto  base  giuridica

legittimante ne' nel diritto dell'Unione ne' nell'art. 117, comma  2,

della Costituzione e  viola  la  competenza  esclusiva  regionale  in

materia  di  commercio  attribuita  dall'art.  117,  comma  4,  della

Costituzione.   Preclude   conseguentemente   alla   Regione    anche

l'esercizio della  propria  autonomia  amministrativa  nella  materia

considerata e la possibilita' di attribuire  funzioni  amministrative

ai Comuni.

    La novella legislativa ha un effetto opposto a quello perseguito.

Essa non e' adeguata e proporzionata rispetto all'obiettivo  e  priva

di qualsiasi tutela altri interessi pubblici specifici pur meritevoli

anch'essi di cura. In particolare, finisce col precludere  la  stessa

possibilita' di graduare il processo di liberalizzazione, in modo che

non travolga gli operatori economici  piu'  deboli,  il  mondo  delle

piccole e medie imprese commerciali che per  dimensioni  e  struttura

non sono immediatamente in grado di competere 24 ore su 24, in  tutti

i giorni festivi dell'anno,  cosi'  come  invece  le  grandi  imprese

distributive, col rischio di disarticolare  un  mercato  distributivo

caratterizzato fin qui da una pluralita' di  formule  e  di  offerte,

capace di garantire anche  servizi  di  prossimita',  essenziali  nei

piccoli paesi e nei centri storici sia  per  i  consumatori  che  per

l'ambiente urbano e sociale.

    4.7.   Nel   diritto   vivente,   segnatamente   nella    recente

giurisprudenza amministrativa, non mancano precisi  riferimenti  alla

pluralita' dei valori messi in gioco dalla disciplina dei  giorni  ed

orari di apertura e chiusura degli esercizi commerciali.

    Si e' affermato, fra  l'altro,  che  una  disciplina  locale  che

differenziava le aperture domenicali entro e fuori le  mura  storiche

di  una  citta'  «mira  ad   una   regolamentazione   finalizzata   a

contemperare  i  principi  e  i  valori  della  concorrenza  con   la

salvaguardia delle aree urbane, dei centri storici, della  pluralita'

tra diverse tipologie  di  strutture  commerciali  e  della  funzione

sociale svolta dai servizi commerciali di prossimita'»  e  che  «alla

luce di tale contemperamento vanno lette anche le norme sugli orari e

sulle giornate di apertura e di chiusura degli esercizi  commerciali»

(TAR Emilia-Romagna, sentenza n. 8002 del 2010).

    Analogamente si e' espresso il TAR per il Veneto:

        «la vigente disciplina in materia  di  commercio  (d.lgs.  n.

114/98 e d.l. n. 223/06, conv. in legge n. 248/06)  non  persegue  in

via esclusiva una finalita' liberalizzatrice, connessa al solo  scopo

di tutelare la liberta'  delle  imprese  e  la  concorrenza,  in  una

prospettiva di sostanziale deregolamentazione del  settore,  giacche'

questo obiettivo avrebbe quale esito  estremo  il  rafforzamento  sul

mercato (delle imprese) di maggiori dimensioni a discapito proprio di

un  mercato  concorrenziale,  ed  esaurirebbe   l'intera   disciplina

nell'ambito della competenza legislativa statale di cui all'art. 117,

secondo comma, lett. e) della Costituzione, giungendo  a  negare  una

propria autonomia al "commercio" inteso come «materia attribuita alla

competenza  legislativa  residuale  delle   regioni»   (pacificamente

riconosciuta invece dalla giurisprudenza della Corte  Costituzionale:

cfr. le sentenze 12 dicembre 2007, n. 430, punto 3.2.2.  in  diritto;

11 maggio 2007, n. 165; 9 marzo 2007, n. 64;  11  maggio  2006  ,  n.

199)»;

    «In ragione dei rilevanti  effetti  di  carattere  urbanistico  e

sociale che derivano dalla presenza o meno  di  esercizi  commerciali

sul territorio, la predetta disciplina mira  a  una  regolamentazione

finalizzata a contemperare i principi e i  valori  della  concorrenza

con la salvaguardia delle aree  urbane,  dei  centri  storici,  della

pluralita' tra diverse tipologie delle strutture commerciali e  della

funzione sociale svolta dai servizi commerciali di prossimita'... per

l'art. 1, comma 3, lett. b), d), ed e) del d.lgs. 31 marzo  1998,  n.

114, la disciplina sul commercio persegue anche  le  finalita'  della

tutela  del  consumatore,  con  particolare   riguardo   (...)   alla

possibilita' di approvvigionamento, al servizio di  prossimita',  del

pluralismo ed equilibrio tra le  diverse  tipologie  delle  strutture

distributive e le diverse forme di vendita, con particolare  riguardo

al riconoscimento e alla valorizzazione del  ruolo  delle  piccole  e

medie imprese, e della valorizzazione  e  salvaguardia  del  servizio

commerciale nelle aree urbane, rurali, montane, insulari»;

    «e'  pertanto  alla  luce   del   contemperamento   operato   dal

legislatore tra la pluralita' di questi interessi che  devono  essere

lette anche le norme sugli orari  e  sulle  giornate  di  apertura  e

chiusura degli esercizi commerciali, con la conseguente insussistenza

di una regola che preveda la totale liberalizzazione  dei  giorni  di

apertura.» (sentenza n. 135 del 2010);

    «L'art. 6 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 114  attua  tali  principi

prevedendo una programmazione della rete distributiva che:

        renda "compatibile l'impatto territoriale e ambientale  degli

insediamenti commerciali con particolare riguardo a fattori quali  la

mobilita', il traffico e l'inquinamento  e  valorizzare  la  funzione

commerciale al fine della riqualificazione  del  tessuto  urbano,  in

particolare per quanto riguarda i quartieri urbani degradati al  fine

di ricostituire un ambiente idoneo allo sviluppo del commercio" (art.

6, comma 1, lett. c);

        salvaguardi e riqualifichi "i centri storici anche attraverso

il mantenimento delle caratteristiche morfologiche degli insediamenti

e il  rispetto  dei  vincoli  relativi  alla  tutela  del  patrimonio

artistico ed ambientale" (art. 6, comma 1, lett. d);

        favorisca "gli insediamenti commerciali destinati al recupero

delle  piccole  e  medie  imprese  gia'   operanti   sul   territorio

interessato, anche al fine di salvaguardare i  livelli  occupazionali

reali  e  con  facolta'  di  prevedere   a   tale   fine   forme   di

incentivazione" (art. 6, comma 1, lett. f);

        individui "i limiti ai quali sono sottoposti gli insediamenti

commerciali in relazione alla tutela dei beni artistici, culturali  e

ambientali, nonche' dell'arredo urbano, ai quali sono  sottoposte  le

imprese  commerciali  nei  centri  storici  e  nelle   localita'   di

particolare interesse artistico e naturale" (art. 6, comma  2,  lett.

b);

        tenga conto dei "centri storici, al fine di  salvaguardare  e

qualificare la presenza delle attivita' commerciali e artigianali  in

grado di svolgere un servizio di vicinato, di tutelare  gli  esercizi

aventi  valore  storico  e  artistico  ed  evitare  il  processo   di

espulsione delle attivita' commerciali e artigianali" (art. 6,  comma

3, lett. c).

    E' pertanto alla luce del contemperamento operato dal legislatore

tra la pluralita' di questi interessi che devono essere  lette  anche

le norme sugli orari e sulle giornate di apertura  e  chiusura  degli

esercizi commerciali.» (TAR Veneto, sez. III, 28 luglio 2011, n  126,

che richiama  la  propria  sentenza  n.  3819  del  2009;  conf.  TAR

Emilia-Romagna, sez. Bologna, n. 8002 del 2010; TAR Piemonte, n. 3585

del 2009; v. anche TAR Lombardia - Milano, n. 5658 del 2010).

    4.8.  Gli  effetti  negativi  della  liberalizzazione   assoluta,

immediata e indifferenziata, dei giorni e  degli  orari  di  apertura

degli esercizi  commerciali  introdotta  dalla  disposizione  statale

censurata si colgono con evidenza particolare a quegli  esercizi  che

somministrano alimenti e bevande.

    Ora quei locali possono restare aperti  ininterrottamente,  anche

per tutta la notte, dovunque,  inclusi  i  centri  storici,  le  zone

prossime ai beni culturali, i luoghi  densamente  abitati.  Gia'  era

alta la tensione sociale provocata dalla difficolta' di  contemperare

l'attivita' di quei locali, fin qui aperti fino alle 2 di notte,  con

il diritto al riposo dei residenti nella  zona  circostante,  con  la

mancanza  di  un  adeguato  servizio  minimo   notturno   di   tutela

dell'ordine e sicurezza pubblici,  dei  beni  culturali,  dell'igiene

pubblica. E' noto che la pubblica amministrazione e la forza pubblica

non dispongono  di  risorse  sufficienti  ad  assicurare  neppure  un

controllo minimo del territorio  nelle  ore  notturne;  l'allarme  e'

elevato e gli stessi  operatori  economici  sono  disorientati  e  si

rivolgono all'amministrazione invocando una disciplina ragionevole ed

uniforme.  Le  stesse  associazioni  dei  consumatori  segnalano   il

disorientamento dei clienti, che non dispongono piu' di  informazioni

preventive  e  certe  sull'apertura  degli  esercizi  commerciali   e

esprimono forte disagio di fronte ad una imprevedibilita'  che  nuoce

alle loro primarie esigenze di programmazione degli acquisti.

    Il risultato realmente conseguito dalla  misura  statale  si  sta

rivelando controproducente ed  incoerente  con  lo  stesso  obiettivo

dichiaratamente perseguito, di meglio tutelare  i  consumatori  e  di

rafforzare la concorrenza leale e trasparente.

5) Illegittimita' costituzionale dell'art. 35, per  violazione  degli

articoli 3, 97, I comma, 113, I comma  della  Costituzione,  117,  VI

comma, 118, I e II  comma,  nonche'  della  legge  costituzionale  18

ottobre 2001, n. 3 e del principio di  leale  collaborazione  di  cui

all'art.120 della Costituzione.

    L'art. 35 del decreto-legge n. 201/2011, cosi'  come  convertito,

con modificazioni, dalla legge di conversione  22  dicembre  2011  n.

214, conferisce all'Autorita' garante della concorrenza e del mercato

il potere di intervenire  con  un  parere  motivato,  entro  sessanta

giorni, su tutti gli atti amministrativi generali, i regolamenti e  i

provvedimenti di qualsiasi amministrazione pubblica, statale,  locale

o regionale, che ritenga emanati in violazione delle norme  a  tutela

della concorrenza e del mercato. La disposizione prevede poi  che  se

la pubblica amministrazione  non  si  conformi  nei  sessanta  giorni

successivi,   l'Autorita'   possa   presentare,   per   il    tramite

dell'Avvocatura  dello  Stato,  ricorso   giurisdizionale   entro   i

successivi trenta giorni.

    In questo modo, si finisce col sottoporre gli atti  regolamentari

ed amministrativi regionali ad un nuovo e generalizzato controllo  di

legittimita',  su  iniziativa  di  un'Autorita'  statale,  per  certi

aspetti analogo a quella forma di controllo che  era  originariamente

prevista  dal  previgente  primo  comma   dell'articolo   125   della

Costituzione ed e' stata poi abrogata con la legge costituzionale  n.

3 del 2001. Si deborda pero' dai limiti ricavabili dalla sentenza  n.

64 del 2005 di codesta ecc.ma Corte:  «E'  vero  che,  con  il  nuovo

titolo V della Costituzione, i controlli di legittimita'  sugli  atti

amministrativi degli enti locali debbono ritenersi espunti dal nostro

ordinamento, a seguito dell'abrogazione del primo comma dell'art. 125

e  dell'art.  130  della  Costituzione,  ma  questo  non  esclude  la

persistente legittimita', da un  lato,  dei  c.d.  controlli  interni

(cfr. art. 147 del d.lgs. n. 267 del 18 agosto 2000)  e,  dall'altro,

dell'attivita'  di  controllo  esercitata  dalla  Corte  dei   conti,

legittimita' gia' riconosciuta da una molteplicita' di  decisioni  di

codesta Corte sulla base di norme costituzionali  diverse  da  quelle

abrogate (cfr. sentenze nn. 470 del 1997; 335 e 29 del 1995)».

    Sotto altro profilo,  con  l'attribuzione  all'Autorita'  di  una

generale legittimazione processuale  attiva  ad  impugnare  gli  atti

amministrativi  generali,  i  regolamenti  ed  i   provvedimenti   di

qualsiasi amministrazione pubblica che a suo parere violino le  norme

a  tutela  della  concorrenza  e  del   mercato,   la   disposizione,

modificando la legge n. 287 del 1990, configura, come e'  gia'  stato

osservato da una parte della dottrina, una  surrettizia  introduzione

della figura del  Pubblico  Ministero  nel  processo  amministrativo,

contrastante  con  la  sua  natura   strutturale   di   giurisdizione

soggettiva.  Cio'  contrasta  con  l'art.   113,   I   comma,   della

Costituzione, dove si prevede che sia la titolarita' di una posizione

giuridica sostanziale, e la lesione della stessa ad opera del  potere

amministrativo, la condizione generale per agire innanzi  al  giudice

amministrativo. Ne' e' ipotizzabile  che  l'Autorita'  Garante  della

concorrenza e  del  mercato,  avendo  essa  il  compito  di  tutelare

l'interesse pubblico o generale, possa godere di  una  legittimazione

straordinaria a tutela dell'interesse collettivo degli imprenditori o

dei consumatori.

    Non mancano poi, nella disposizione, vari elementi sintomatici di

irragionevolezza e di lesione del principio di certezza del  diritto.

Manca una disciplina del termine di decorrenza dei 60 giorni entro  i

quali  l'Autorita'  puo'  formulare  il  proprio   parere   motivato,

prodromico all'eventuale  proposizione  del  ricorso  giurisdizionale

entro i successivi 30 giorni. Siffatta incertezza sul dies a  quo  si

riflette sulla stabilita' degli atti regolamentari e  provvedimentali

regionali, con ulteriore lesione -  per  difetto  di  ragionevolezza,

censurabile anche ai sensi dell'art.3 della Costituzione e  ai  sensi

dell'art.97 sul buon andamento della pubblica amministrazione - della

sfera di autonomia regionale costituzionalmente garantita.

    Ancora, la legittimazione  ad  agire  dell'Autorita'  non  appare

coordinata con la legittimazione  propria  delle  parti  private,  di

talche' il ricorso dell'una potrebbe risolversi in un  intervento  di

supplenza o surrogazione in favore  di  parti  private  decadute  dal

termine  per  proporre  l'impugnativa  ordinaria.   Palese   e'   poi

l'incongruenza  che  si  determina  quando  l'Autorita',  tenuta   ad

avvalersi del patrocinio dell'Avvocatura di Stato,  impugni  atti  di

un'amministrazione   statale,   tenuta   pur   essa   ad    avvalersi

dell'Avvocatura di Stato.

    Si ravvisa in tutto quanto esposto la violazione  degli  articoli

3, 97, I comma, 113, I comma della Costituzione, 117, VI comma,  118,

I e II comma, nonche' della legge costituzionale 18 ottobre 2001,  n.

3 e del  principio  di  leale  collaborazione.  La  violazione  delle

suddette norme si risolve poi anche in una menomazione della potesta'

regolamentare  e  amministrativa  costituzionalmente  garantita  alla

Regione ai sensi degli articoli 117, VI comma, e 118, I e II comma.

6) Illegittimita' costituzionale  dell'art.  44-bis,  per  violazione

degli articoli 97, 117 e 118 della Costituzione e  del  principio  di

leale collaborazione di cui all'art. 120 della Costituzione.

    Preliminarmente  all'esposizione  delle  argomentazioni   avverso

l'articolo 44-bis, la difesa regionale reputa  necessario  analizzare

le circostanze e le condizioni  dalle  quali  ha  tratto  origine  la

disposizione. Particolarmente utile a tale scopo  appare  la  lettura

del Dossier del Servizio Studi della Camera dei deputati,  dal  quale

si evince che l'articolo in argomento  e'  stato  introdotto  durante

l'esame in sede referente e che lo stesso  riproduce  sostanzialmente

il contenuto di due proposte di legge statali  (C.  2727  e  C  4161)

giacenti nelle commissioni della Camera dei deputati e di un  disegno

di  legge  (S.  2596)  pendente   nelle   commissioni   del   Senato.

L'inserimento del testo di cui si tratta durante l'esame della  legge

di conversione da parte della Commissione in sede referente, e' stato

evidentemente frutto di una frettolosa redazione dell'articolato  che

appare stilato accorpando una pluralita'  di  disposizioni  contenute

nelle proposte  legislative  summenzionate.  Per  un  verso,  quindi,

l'integrazione, che assume particolare rilevanza per le Regioni,  non

e' stata concertata nelle sedi istituzionali deputate, in  quanto  e'

stata  decisa  soltanto  per  effetto   dell'esame   compiuto   dalle

commissioni parlamentari; per altro verso, l'esigenza di  evitare  lo

spreco di risorse finanziarie derivante dalla persistente  condizione

di incompletezza delle opere pubbliche per le quali comunque  sovente

erano state gia' impiegate ingenti somme,  ha  conferito  alla  norma

quella connotazione straordinaria di necessita' e urgenza  -  propria

della decretazione  di  cui  all'articolo  77  della  Costituzione  -

secondo un assunto autoreferenziale incompatibile con il parametro di

legittimita' invocato, atteso che proprio il protrarsi ingiustificato

dei lavori, in assenza di qualsiasi risultato utile, ha determinato -

per poter legittimare l'intervento di cui  si  tratta  -  una  simile

qualificazione in ordine ad opere che originariamente non possedevano

tali  caratteristiche,  come   testimoniano   appunto   le   proposte

legislative di cui erano state fatte oggetto e che erano finalizzate,

per converso, all'emanazione di una mera  legge  ordinaria  ai  sensi

degli articoli 70 e ss. della Costituzione.

    La norma de qua istituisce, dunque,  un  elenco-anagrafe  statale

presso il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti,  articolato

a livello regionale, al fine del coordinamento dei dati relativi alle

opere pubbliche incompiute  come  definite  ai  commi  1  e  2  della

medesima disposizione. L'operativita' dell'elenco istituito  ex  lege

spetta al Ministero competente che, entro  tre  mesi  dalla  data  di

entrata  in  vigore  della  legge   di   conversione,   con   proprio

regolamento, e' investito del compito di  definire  le  modalita'  di

redazione, di formazione della graduatoria nonche' i criteri in  base

ai quali le opere sono  iscritte  nell'elenco,  tenendo  conto  dello

stato di avanzamento dei lavori ed evidenziando le opere prossime  al

completamento. Proprio la previsione di un  potere  regolamentare  in

capo al Ministero, al riguardo, potrebbe fondare la supposizione che,

giusta  il  disposto  del  comma  sesto   dell'articolo   117   della

Costituzione,  si  vena  in  una  materia  di  legislazione   statale

esclusiva. E invero, se  si  considera  l'oggetto  sostanziale  della

norma  in  esame,  cioe'  la  creazione  una  banca  dati  telematica

finalizzata alla comunicazione di flussi informativi tra lo  Stato  e

le Regioni, si potrebbe ragionevolmente ricondurre la norma di cui si

tratta  alla  materia  «coordinamento   informativo   statistico   ed

informatico  dei  dati  dell'amministrazione  statale,  regionale   e

locale» di cui all'articolo 117,  comma  secondo,  lettera  r)  della

Costituzione.  Ma  la  disposizione,  in  realta',  ad  avviso  dello

scrivente patrocinio, presenta contenuti applicativi che non  possono

esaurirsi nell'individuazione  di  un  ambito  di  sicura  competenza

esclusiva statale ed esorbitano dall'anzidetto contesto per i  motivi

di seguito specificati che legittimano l'impugnazione de qua.

    Infatti,  per  effetto  dell'inquadramento  normativo   proposto,

afferente  l'ambito  della  disciplina  statale,  si  rende  comunque

necessario soffermare  l'attenzione  sulla  tipologia  dei  dati  che

devono essere inseriti nell'elenco-anagrafe citato; si tratta, cioe',

di  informazioni  correlate  alle  opere  pubbliche  incompiute  come

definite ai commi l e 2 della medesima disposizione e la formulazione

del testo non permette di individuare  con  sicurezza  se  le  stesse

siano  solo  quelle  di  competenza  dello  Stato  o,  per  converso,

includano  anche  quelle  di  competenza  regionale.  E  invero,  che

nell'elenco in argomento siano da annoverarsi anche  opere  pubbliche

di  ambito  regionale,  potrebbe  indursi  dalla  previsione  di  una

sub-articolazione regionale, sempre che la stessa non sia  invece  da

intendersi quale articolazione organizzativa del  Ministero  indicato

quale titolare esclusivo della funzione di censimento e gestione  dei

dati. Ma, sul punto, un elemento sicuramente  corroborante  l'ipotesi

che le opere pubbliche regionali siano anch'esse oggetto della norma,

al pari di quelle statali, e' rinvenibile nella previsione  contenuta

al  comma  della  disposizione,  laddove,  evocando   competenze   ed

attribuzioni diverse da quelle meramente statali, testualmente  cosi'

recita: «Ai fini dei criteri di cui al comma 5 - cioe' i  criteri  di

adattabilita' delle opere ai fini del loro riutilizzo  ed  i  criteri

che indicano le ulteriori destinazioni a cui puo' essere adibita ogni

singola opera - si tiene conto delle diverse  competenze  in  materia

attribuite allo Stato e alle regioni.»

    L'affermazione, nel contesto  considerato,  appare  di  difficile

inserimento se non addirittura  apodittica,  qualora  si  postuli  la

sussistenza di un ambito esclusivo di competenza legislativa statale,

poiche'  conduce  inequivocabilmente  a   concludere   che   i   dati

informativi dell'elenco di cui si tratta non  siano  solo  quelli  di

competenza esclusiva dello Stato,  ma  anche  dichiaratamente  quelli

regionali.  In  altri  termini,  risulta  esercitata   una   potesta'

legislativa esclusiva in ambiti che,  per  esplicita  ammissione  del

legislatore,  seppure  indifferenziata,  sono   riferibili   ad   una

pluralita' di competenze che la  Costituzione  attribuisce  sia  allo

Stato  che  alle  Regioni.  Da  cio'  si  deduce  l'incontrovertibile

conclusione che le  opere  pubbliche  incompiute  possano  riguardare

anche  ambiti  materiali  di  competenza  concorrente   o   residuale

regionale.

    Dato per assunto l'enunciato che precede, non resta che  definire

l'ambito materiale afferente le opere pubbliche a cui si  riferiscono

i dati informativi da inserire  nell'elenco,  al  fine  di  delineare

compiutamente le diverse competenze  ripartite  tra  lo  Stato  e  le

Regioni. Al riguardo, codesta ecc.ma Corte, nella  decisione  n.  303

del 2003, aveva per la prima volta asserito  che  i  lavori  pubblici

«non sono inquadrabili in una materia ma  si  qualificano  a  seconda

dell'oggetto al quale afferiscono e pertanto possono essere  ascritti

di volta in volta a potesta' legislative esclusive dello Stato ovvero

a potesta' legislative  concorrenti».  Ne  consegue  che  le  diverse

competenze statali o regionali non riguardano  la  «materia»  in  se'

considerata, ma e' l'oggetto del lavoro pubblico, cioe' la  tipologia

dell'opera pubblica, l'elemento  qualificante  che  puo'  afferire  a

settori riconducibili a materie di competenza esclusiva  statale,  di

competenza concorrente o di competenza residuale regionale. Pertanto,

se l'elenco de quo si riferisce a tutte le opere pubbliche  esistenti

ed incompiute secondo le definizioni date,  non  puo'  non  includere

anche quelle riconducibili a settori esclusivi regionali.

    Qualora, continuando nella  linea  argomentativa  prospettata,  e

accogliendo la ricostruzione ermeneutica appena delineata,  la  norma

si fosse limitata a disciplinare solo le modalita'  di  comunicazione

di flussi informativi, funzionali alla  costituzione  e  manutenzione

dello strumento conoscitivo dato dalla banca  dati,  in  effetti  non

sarebbe  ravvisabile  alcun  vulnus   alle   attribuzioni   regionali

costituzionalmente garantite.

    Conseguentemente, per quanto attiene tale specifico  profilo,  la

disposizione non puo' che essere interpretata  in  senso  conforme  a

Costituzione, nel senso che lo Stato  deve  limitarsi  a  dettare  le

regole  tecniche  funzionati  alla  comunicazione  dei  sistemi.   Si

richiama, al riguardo, la sentenza n. 133 del 2008,  nella  parte  in

cui codesta ecc.ma Corte ha dichiarato non fondata  la  questione  di

legittimita' costituzionale di disposizioni che, in quanto  destinate

a favorire  il  riuso  dei  software  elaborati  su  committenza  del

Ministro  per  le   riforme   e   le   innovazioni   nella   pubblica

amministrazione avevano unicamente  lo  scopo  di  razionalizzare  la

spesa e, nel contempo, favorire l'uniformita'  degli  standard.  Tale

pronuncia, emessa in  riferimento  alla  materia  del  «coordinamento

informatico», ha cosi' sancito l'applicabilita', anche nei  confronti

delle Regioni e degli enti locali,  di  disposizioni  -  dettate  per

creare strumenti omogenei destinati al contenimento  dell'impiego  di

risorse finanziarie - che si collocassero all'interno della linea  di

confine  assegnata  alla  competenza  esclusiva  statale,  in  quanto

recanti regole tecniche funzionali alla comunicabilita'  dei  sistemi

ed al loro sviluppo collaborativo.

    Per converso, nel caso in  cui  vengano  introdotte  nel  tessuto

ordinamentale norme che, apparentemente indirizzate agli scopi  sopra

descritti, contengano in realta' l'attribuzione allo Stato del potere

di individuare criteri di adattabilita' delle  opere  finalizzati  al

riutilizzo    delle    medesime,    nonche'    criteri     funzionali

all'individuazione di ulteriori destinazioni  dell'opera  stessa,  si

pone in essere un intervento legislativo  fisiologicamente  idoneo  a

pregiudicare, sovvertendola drasticamente, l'autonomia  di  esercizio

delle  competenze  legislative  ed  amministrative  regionali,   come

garantite dagli  articoli  117  e  118  della  Costituzione,  poiche'

strettamente correlate alle opere pubbliche  direttamente  imputabili

alla sfera giuridica regionale. Ed invero le determinazioni  riferite

al riutilizzo o alla diversa destinazione dell'opera pubblica rimasta

incompiuta che sia, per quanto  detto,  riconducibile  a  settori  di

esclusiva competenza regionale, devono necessariamente  competere  in

via assoluta alla Regione interessata.

    In tale  contesto  non  pare  poter  sussistere  alcuna  potesta'

statale  generalizzata,  atteso  che,  qualora  si   concepisse   una

eventuale   attrazione,   attraverso   l'esercizio   delle   funzioni

amministrative, di potesta' legislative diverse  a  quelle  esclusive

statali, l'intervento normativo potrebbe essere legittimamente  posto

in essere solo ed esclusivamente secondo  le  forme  e  le  modalita'

della c.d. «sussidiarieta' verticale». Ma si tratta  di  modalita'  e

forme del tutto insussistenti in tale fattispecie.

    Singolarmente insufficiente, e per  l'effetto  significativamente

lesiva, risulta cosi' la mera previsione, contenuta al comma 7  della

norma impugnata, secondo cui il regolamento ministeriale, destinato a

definire i criteri di adattabilita' e  delle  ulteriori  destinazioni

delle opere pubbliche regionali, dovrebbe semplicemente «tenere conto

delle diverse competenze». La  disposizione,  infatti,  per  come  e'

stata strutturata, e' sicuramente contraria ai parametri di  garanzia

costituzionale   delineati   proprio   da   codesta   ecc.ma    Corte

Costituzionale nella  sentenza  n.  303  del  2003,  che  afferma  la

necessarieta' di imporre «ai principi di sussidiarieta' e adeguatezza

una  valenza  squisitamente  procedimentale,  poiche'  l'esigenza  di

esercizio unitario che consente di attrarre,  insieme  alla  finzione

amministrativa, anche quella legislativa, puo' aspirare a superare il

vaglio di legittimita' costituzionale solo in presenza di una

    disciplina che prefiguri  un  iter  in  cui  assumano  il  dovuto

risalto le attivita' concertative  e  di  coordinamento  orizzontale,

ovverosia le intese, che devono essere condotte in base al  principio

di lealta'.» Appare cosi di tutta evidenza  come,  al  contrario,  in

tale fattispecie sia stato omesso  qualunque  riferimento  al  dovuto

coinvolgimento regionale sul punto, da congegnare nella  forma  della

necessaria intesa, proprio come ribadito nella  menzionata  decisione

n. 303 del 2003.

    Ne consegue che le modalita' di redazione e di  formazione  della

graduatoria, nonche' i criteri di cui al comma 5, tutti indubbiamente

riferibili  all'attuazione  dell'elenco  anagrafe  statale,   laddove

fossero intesi riferiti anche ad opere pubbliche afferenti a  materie

di  competenza  concorrente  o  di  competenza  esclusiva  regionale,

dovrebbero necessariamente essere concordati  mediante  lo  strumento

dell'intesa raggiunta in sede di Conferenza  Stato-Regioni.  L'omessa

previsione  di  un  tale  strumento  concertativo  risulta   pertanto

contraria al principio di leale collaborazione nei rapporti tra Stato

e Regioni riconosciuto nell'articolo 120 della Costituzione.

    Sul  punto  non  pare  potersi  fondatamente  obiettare  che   il

riferimento alla competenza esclusiva annessa a  quel  «coordinamento

informativo statistico ed informatico» di cui all'articolo 117, comma

secondo, lettera r), della  Costituzione  escluda  il  coinvolgimento

regionale nelle ipotesi in cui detta materia si  intrecci  con  altre

competenze regionali. Si rammenta, al riguardo, come  codesta  ecc.ma

Corte,  nella   sentenza   n.   31   del   2005,   abbia   dichiarato

l'illegittimita' del comma 3 dell'articolo 26 della legge n. 289  del

2003 in quanto la  previsione  ivi  contenuta,  nella  parte  in  cui

contemplava il mero parere della Conferenza Unificata, non era  stata

ritenuta dal giudice delle  leggi  misura  adeguata  a  garantire  il

rispetto del principio di leale collaborazione di cui si e' detto. Ed

invero  in  tale  pronuncia  e'  stato  chiarito  il  principio,  qui

invocato, per il quale, per  quanto  la  disposizione  in  esame  sia

riconducibile alla materia «coordinamento informativo  statistico  ed

informatico» di  spettanza  esclusiva  del  legislatore  statale,  la

stessa presenta un contenuto  precettivo  idoneo  a  determinare  una

forte incidenza sull'esercizio concreto delle funzioni propria  della

materia «organizzazione amministrativa delle  Regioni  e  degli  enti

locali», con cio' rendendo indispensabile garantire un piu'  incisivo

coinvolgimento nella fase di attuazione delle disposizioni attraverso

il corretto ricorso allo strumento dell'intesa.

    Per altro verso, la norma si presta a essere oggetto  di  censura

anche secondo un ulteriore ed autonomo taglio ermeneutico, desumibile

da eventuali finalita' di natura finanziaria, collegate  allo  spreco

delle risorse economiche impiegate per  tali  opere  rimaste  appunto

incompiute, e  che  come  tale  sarebbe  riconducibile  alla  materia

concorrente del  «coordinamento  della  finanza  pubblica».  Infatti,

anche a voler aderire a simile prospettazione interpretativa, in ogni

caso rimarrebbe del tutto impregiudicata ed inalterata la titolarita'

dell'opera che non potrebbe subire trasformazioni radicali  al  punto

da essere qualificata statale anche se di competenza regionale. Nello

specifico, codesta ecc.ma Corte, nella decisione  n.  302  del  2003,

seppure intervenendo in un giudizio instaurato in  epoca  antecedente

la novella costituzionale  del  2001,  quando  cioe'  il  riparto  di

attribuzioni tra Stato  e  Regioni  presentava  contenuti  del  tutto

diversi  dagli  attuali,  aveva  tuttavia  affermato  che  «si   deve

escludere  che  il  criterio   del   finanziamento   prevalente   sia

suscettibile  di  trasferire  un'opera  pubblica   dalla   sfera   di

competenza regionale a quella statale.».

    Si rammenta come, nella sentenza n. 79 del 2011,  codesta  ecc.ma

Corte abbia riconosciuto la sussistenza di una deroga alla competenza

regionale, per effetto dell'avvenuta classificazione  dell'opera  tra

quelle di valore strategico nazionale con conseguente  provvista,  da

parte dello Stato, dei  mezzi  finanziari  per  realizzarla.  E  tale

assunto non puo' non valere  anche  relativamente  alla  disposizione

impugnata, per quanto la  stessa  non  esaurisca  il  proprio  ambito

applicativo alle sole opere strategiche di cui alla legge 21 dicembre

2001, n. 443, come era invece previsto nella proposta di legge C.  n.

4161 e nel disegno di legge S. n. 2596,  con  statuizione  certamente

piu' omogenea e costituzionalmente orientata.

    La  specificazione,  contenuta  al  comma  4,  secondo  il  quale

«l'elenco-anagrafe  di  cui  al  comma  3  e'  articolato  a  livello

regionale  mediante  l'istituzione  di  elenchi-anagrafe  presso  gli

assessorati regionali competenti per le opere pubbliche» si configura

come decisamente invasiva  della  sfera  di  titolarita'  legislativa

concernente  l'organizzazione  regionale   tutelata   dal   combinato

disposto degli articoli 97 e 117, quarto comma della Costituzione.

    Altrimenti detto, il precetto di dettaglio contenuto nella  norma

censurata laddove prevede che lo Stato, dopo aver istituito  l'elenco

nazionale, certamente di propria spettanza, pervenga a  declinare  il

modello dell'articolazione, non puo' comprimere la potesta' regionale

cui compete la strutturazione dello schema organizzativo,  nel  quale

e'  certamente  ricompresa  anche   l'individuazione   del   soggetto

detentore  dell'elenco  di  cui  si  tratta.  L'attribuzione   e   la

ripartizione delle funzioni amministrative regionali, e quindi  anche

la tenuta e gestione dell'elenco, compete espressamente ad un  organo

regionale, ovvero alla Giunta regionale,  ai  sensi  dell'ordinamento

regionale veneto vigente.

    La  sussistenza  della  competenza  legislativa  regionale  anche

nell'ambito  della  materia  «lavori  pubblici»,  e'  stata   infatti

riconosciuta anche da Codesta ecc.ma Corte nella decisione n. 53  del

2011, per l'appunto in relazione ai profili meramente  organizzativi,

in  quanto  attinenti  all'organizzazione  interna   degli   apparati

amministrativi e tecnici regionali.

    La lesione prodotta dalla norma impugnata nell'odierno  giudizio,

nella parte in cui ignora  la  potesta'  organizzativa  esistente  in

materia come tutelata dalla Carta Fondamentale,  e'  aggravata  dalla

mancata previsione di una  clausola  di  cedevolezza  che,  limitando

l'efficacia  del   precetto   statale,   consentisse   l'integrazione

normativa regionale con  cio'  riconoscendone  le  attribuzioni.  Sul

punto, si richiama anche quanto  asserito  da  codesta  ecc.ma  Corte

nella sentenza n. 401 del 2007, che  ha  dichiarato  l'illegittimita'

della disposizione  -riferita  alla  composizione  della  commissione

giudicatrice - contenuta nell'articolo 84 del decreto legislativo  n.

163 del 2006, poiche'  non  prevedeva  una  clausola  di  cedevolezza

rispetto alla normativa  regionale  divergente,  cosi'  assumendo  la

sussistenza della lamentata violazione della  potesta'  organizzativa

riconosciuta agli enti diversi dallo Stato.

    Appare di tutta evidenza come il quadro giuridico e istituzionale

sopra delineato, afferente le potesta' legislative ed  amministrative

correlate  all'allocazione  dei  compiti  nell'ambito   del   modello

organizzativo regionale, non possa subire consistenti alterazioni per

la ritenuta primazia di  quelle  esigenze  di  uniformita'  nazionale

connesse al «coordinamento informativo statistico ed informatico  dei

dati» certamente di competenza esclusiva statale. Ed invero  in  tale

fattispecie non si  vede  come,  qualora  la  Regione  legittimamente

indicasse la struttura regionale competente alla  tenuta  e  gestione

dell'elenco, potesse  risultare  compromesso  il  mero  coordinamento

informativo di dati che si realizzerebbe comunque per  effetto  della

connessione  della  banca   dati.   Per   questo,   la   inderogabile

indicazione, come effettuata nella norma, del soggetto legittimato  a

detenere i dati, individuato oltretutto in un rappresentante politico

e non in un organo tecnico,  si  configura  ultronea  e  patentemente

lesiva  della  autonomia  regionale.  Il  patrocinio  regionale,   al

riguardo, invoca fermamente il principio espresso da  codesta  ecc.ma

Corte nella decisione n. 376 del 2003, gia' richiamata, per il  quale

solo  il  mero  coordinamento  informativo  perseguito  dallo   Stato

nell'ambito della materia di competenza esclusiva, per se'  solo  non

puo'   essere   legittimato   a    ledere    sfere    di    autonomia

costituzionalmente garantite. L'eccedenza dell'ambito di  previsione,

ove non necessaria e proporzionata  al  conseguimento  dell'obiettivo

statale,  integra,  correlativamente,  un  vulnus  alle   prerogative

regionali costituzionalmente garantite.

    Sul punto specifico, inoltre, come codesta ecc.ma Corte ha  avuto

modo di precisare nella decisione n. 271 del 2005  «questo  esclusivo

potere legislativo statale concerne solo  un  coordinamento  di  tipo

tecnico che venga ritenuto opportuno dal legislatore statale e il cui

esercizio, comunque, non  puo'  escludere  una  competenza  regionale

nella disciplina e gestione di  una  propria  rete  informativa».  Se

dunque non si ravvisano assiomi ostativi a che una Regione possa gia'

aver introdotto nel proprio tessuto organizzativo una  propria  banca

dati delle opere pubbliche, nella  piena  titolarita'  delle  proprie

competenze, una disposizione statale  che  intervenisse  al  riguardo

potrebbe  al  piu'   solamente   affermare   la   necessarieta'   del

coordinamento, da cui  scaturirebbe  la  valutazione  opzionale,  per

l'Amministrazione  regionale,  di  modellare  la  banca   dati   gia'

esistente, adeguandola, in ragione  degli  standard  funzionali  alla

gestione, oppure di  crearne  una  nuova,  dedicata  all'assolvimento

degli obblighi di coordinamento statale di cui  si  e'  detto,  fatta

salva, in ogni  caso,  la  concertazione  circa  la  definizione  dei

parametri e  dei  criteri  di  uniformita'  che  non  possono  essere

autoritativamente imposti per quanto supra argomentato.

    La pretesa regionale all'espunzione della disposizione de qua non

appare affatto irragionevole ne'  eccessiva,  atteso  che  l'infelice

formulazione dell'articolo, come gia' ipotizzato, frutto  di  stesure

frettolose  e  non  coordinate,  appare  ancora  piu'  stridente   se

confrontata con  leggi  successive,  concettualmente  correlate  alla

norma odiernamente impugnata, quali il d.lgs. 29  dicembre  2011,  n.

229, «Attuazione dell'articolo 30, comma 9, lettere  e),  f),  e  g),

della legge 31 dicembre 2009,  n.196,  in  materia  di  procedure  di

monitoraggio sullo stato di  attuazione  delle  opere  pubbliche,  di

verifica  dell'utilizzo  dei  finanziamenti  nei  tempi  previsti   e

costituzione del Fondo opere e del Fondo progetti», pubblicato  nella

G.U. n. 30 del 6 febbraio 2012 ed entrato in vigore  il  21  febbraio

2012.  Tale  decreto,  in  concreto,  nel  disciplinare  un   sistema

gestionale informatizzato finalizzato  al  monitoraggio  delle  opere

pubbliche e interessante tutte le  pubbliche  amministrazioni,  lungi

dal  dettare  precetti  incidenti  sull'assetto  organizzativo  delle

stesse,  si  limita  correttamente  a   dettare   regole   specifiche

indispensabili alla funzionalita' del  sistema  in  riferimento  alle

caratteristiche ed  alle  finalita'  dell'intervento  normativo,  per

molte ragioni non dissimile da quello oggetto del presente giudizio.

 

                       Istanza di sospensione

 

    Ai sensi dell'art. 35  della  legge  n.  87/53,  come  sostituito

dall'art. 9 della legge n. 131/2003

    La Regione del Veneto chiede che codesta ecc.ma Corte, nelle more

del giudizio di legittimita'  costituzionale  delle  disposizioni  di

legge statale qui censurate, sospenda l'esecuzione degli articoli 23,

commi da 14 a 20, e 31, comma 1, ai sensi dell'art. 35 della legge n.

87/53, come sostituito dall'art. 9 della legge n. 131/2003, che tanto

consente  in  presenza  di  un  rischio  di   pregiudizio   grave   e

irreparabile all'interesse pubblico o per i diritti dei cittadini.

    Quanto all'art. 23, commi da 14 a  20,  ne  deriva  la  immediata

preclusione delle elezioni per il rinnovo  dei  consigli  provinciali

sciolti  o  in  scadenza.  Cio'  determina,  nel  Veneto,   l'effetto

immediato di impedire l'indizione  per  la  prossima  primavera  2012

delle elezioni per il rinnovo del consiglio provinciale  di  Belluno,

attualmente sciolto, e  del  consiglio  provinciale  di  Vicenza,  in

scadenza di mandato.

    I  cittadini  di  quelle  province  si   vedono   dunque   negato

l'elettorato  attivo  e  la  rappresentanza  democratica  a   livello

provinciale, e alla Regione del Veneto e' preclusa la possibilita' di

continuare ad avvalersi di quegli Enti per l'esercizio delle numerose

ed importanti funzioni loro attribuite.

    A  quest'ultimo  proposito,  poi,   le   disposizioni   censurate

impongono alla Regione del Veneto di provvedere entro il 31  dicembre

2012  al  trasferimento  delle  funzioni  conferite  dalla  normativa

vigente alle Province, nonche' delle loro risorse umane,  finanziarie

e strumentali, ai  Comuni  o  alla  Regione  stessa  per  assicurarne

l'esercizio unitario, a pena di subire il potere sostitutivo statale.

    Si  tratta  di  adempimenti   che   richiedono   interventi   sia

legislativi che amministrativi complessi e onerosi  anche  sul  piano

finanziario ed organizzativo,  con  riflessi  anche  su  migliaia  di

dipendenti.

    Risponde all'interesse generale evitare l'avvio di un processo di

tali  dimensioni  -   che   avrebbe   effetti   irreversibili   sulle

istituzioni, sui dipendenti, sulla vita dei cittadini - prima che  ne

sia approfonditamente valutata la compatibilita' costituzionale.

    Quanto all'art. 31, comma 1, l'improvvisa deregolamentazione  sta

recando grave pregiudizio proprio alla concorrenza e trasparenza  del

mercato, e alla certezza del diritto per tutte  le  parti  coinvolte,

operatori economici e consumatori. La istantanea soppressione di ogni

limite agli orari e giorni di  apertura  e  chiusura  degli  esercizi

commerciali, specie con riguardo alle attivita'  di  somministrazione

di alimenti e bevande, sta determinando nel Veneto un  forte  allarme

sociale, anzitutto con riguardo alla  sicurezza  pubblica  nelle  ore

notturne, e un grave disorientamento sia della  clientela  che  degli

operatori e delle stesse amministrazioni  comunali,  incalzate  dalla

popolazione a intervenire d'urgenza per dare indicazioni  univoche  e

criteri  di  comportamento  uniformi.  Gia'  si  profila  un  diffuso

contenzioso.

    Risponde dunque all'interesse  generale  sospendere  l'esecuzione

dell'art. 31, comma  1,  nelle  more  del  giudizio  di  legittimita'

costituzionale, per evitare pericoli per la sicurezza pubblica  e  il

rischio concreto di un'irreversibile alterazione del mercato, a danno

soprattutto delle piccole e medie imprese.

 

 

                               P.Q.M.

 

    Chiede che l'ecc.ma Corte  costituzionale  sospenda  l'esecuzione

degli articoli 23, commi da 14 a 20, e 31, comma 1, del decreto-legge

n. 201/2011, cosi' come convertito, con modificazioni, dalla legge di

conversione 22  dicembre  2011  n.  214,  pubblicata  nella  Gazzetta

Ufficiale n. 300 del 27 dicembre 2011;

    dichiari la illegittimita' costituzionale degli  articoli  5,  23

commi da 14 a 20, 27, 31 comma l, 35, 44-bis,  del  decreto-legge  n.

201/2011, cosi' come convertito, con modificazioni,  dalla  legge  di

conversione 22  dicembre  2011  n.  214,  pubblicata  nella  Gazzetta

Ufficiale n. 300 del 27 dicembre 2011, in relazione alle disposizioni

costituzionali indicate in epigrafe.

    Si depositano:

        1. delibera della Giunta Regionale n. n. 150 del  31  gennaio

2012,  di   autorizzazione   a   proporre   ricorso   e   affidamento

dell'incarico di patrocinio per la difesa regionale;

        2. documento di fonte  Eurocommerce  del  2010  sulla  prassi

europea di  regolamentazione  dei  giorni  ed  orari  di  apertura  e

chiusura degli esercizi commerciali;

        3.  Dossier  UPI  «Una  proposta  per  il   riassetto   delle

Province», a cura CERTeT Bocconi 6 dicembre 2011;

        4. Dossier UPI «Le Province allo  specchio.  Le  funzioni,  I

bilanci. I costi», Roma, 20 gennaio 2012.

          Treviso-Venezia-Roma, 14 febbraio 2012

 

avv. prof. Barel - avv. prof. Antonini - avv. Zanon - avv. Palumbo  -

                             avv. Manzi

 

Menu

Contenuti