RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 4 Marzo 2004 - 4 Marzo 2004 , n. 33
Ricorso per questione di legittimita' costituzionale della Regione
Emilia-Romagna, depositato in cancelleria il 4 marzo 2004.
(GU n. 18 del 5-5-2004)

Ricorso della Regione Emilia-Romagna, in persona del presidente
della giunta regionale pro tempore sig. Vasco Errani, autorizzato con
deliberazione della giunta regionale n. 289 del 16 febbraio 2004,
rappresentata e difesa, come da procura del 19 febbraio 2004,
n. 25772 di rep., rogata dal notaio Viapiana del collegio di Bologna,
dall'avv. prof. Giandomenico Falcon di Padova, dall'avv. prof. Franco
Mastragostino di Bologna e dall'avv. Luigi Manzi di Roma, con
domicilio eletto in Roma presso lo studio dell'avv. Manzi, Via
Confalonieri, n. 5;

Contro il Presidente del Consiglio dei ministri per la
dichiarazione di illegittimita' costituzionale della legge 24
dicembre 2003, n. 350, recante «Disposizioni per la formazione del
bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2004),
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 299 del 27 dicembre 2003,
Suppl. ordinario n. 196/L, con riferimento alle seguenti
disposizioni:
art. 2, commi 21, 38, 53 e 70;
art. 3, commi 17, 18, 20, 32, 43, 49, 53, 58, 60, 75, 76, 77,
82, 92, 101, da 108 a 115, 116, 117;
art. 4, commi da 1 a 6, 9 e 10, 18 e 19, 29 e 30, 61 e 63, 82
e 83, da 100 a 102, da 106 a 111, da 112 a 115, 157, 159, 204, da 209
a 211, da 215 a 217, 236;
per violazione degli artt. 3, 97, 117, 118, 119 Cost., e dei principi
costituzionali di legalita' sostanziale, uguaglianza, ragionevolezza
e leale collaborazione, nei modi e per i profili di seguito
illustrati.

F a t t o

La legge 24 dicembre 2003, n. 350 (finanziaria 2004) contiene
diverse disposizioni concernenti molte e differeriziate materie,
accomunate dal fatto di avere direttamente o indirettamente rilievo
finanziario.
Molte di queste disposizioni che riguardano materie di competenza
regionale, ed alcune di esse, qui impugnate, sono ad avviso della
ricorrente regione costituzionalmente illegittime.
Da qui la necessita' della proposizione del presente ricorso
attraverso cui si contesta l'illegittimita' costituzionale di tali
disposizioni, in relazione alle quali l'intervento del giudice
costituzionale puo' valere ad impedire che si consolidino situazioni
non corrispondenti al nuovo assetto conseguente alla riforma del
Titolo V e che si pregiudichino prerogative e competenze di sicura
spettanza regionale.
Le disposizioni impugnate risultano in particolare illegittime ed
invasive per le seguenti ragioni di

D i r i t t o

1. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 2, comma 21.
Il comma 21 dell'art. 2 dispone che «fino al 31 dicembre 2004
restano sospesi gli effetti degli aumenti delle addizionali e delle
maggiorazioni di cui alla lettera a) del comma 1 dell'articolo 3
della legge 27 dicembre 2002, n. 289, eventualmente deliberati; gli
effetti decorrono, in ogni caso, a decorrere dal periodo d'imposta
successivo alla predetta data».
La norma dunque proroga per l'esercizio 2004 la sospensione degli
aumenti delle addizionali all'IRPEF per i comuni e le regioni e della
maggiorazione dell'aliquota IRAP. Al contrario della precedente legge
finanziaria, la sospensione, pero', non e' disposta in via
transitoria, in attesa di un imminente accordo in sede di conferenza
unificata tra Stato, regioni ed enti locali sui meccanismi
strutturali del federalismo fiscale, ma vale comunque sino al 31
dicembre 2004.
Codesta ecc.ma. Corte costituzionale ha gia' avuto occasione di
affermare con la sentenza n. 37/2004 (facendo seguito alle sentt.
nn. 296 e 297 del 2003), che «oggi non si danno ancora, se non in
limiti ristrettissimi, tributi che possano definirsi a pieno titolo
"propri" delle regioni o degli enti locali», autonomamente
disciplinabili dalle leggi regionali, nel rispetto solo di principi
di coordinamento. «Anche i tributi di cui gia' oggi la legge dello
Stato destina il gettito, in tutto o in parte, agli enti autonomi, e
per i quali la stessa legge riconosce gia' spazi limitati di
autonomia agli enti quanto alla loro disciplina - e che percio' la
stessa legislazione definiva talora come "tributi propri" delle
regioni, nel senso invalso nella applicazione del previgente art. 119
della Costituzione - sono istituiti dalla legge statale e in essa
trovano la loro disciplina, salvo che per i soli aspetti
espressamente rimessi all'autonomia degli enti territoriali».
In base a queste premesse, la regione non puo' contestare il
potere dello Stato di dettare norme modificativee della disciplina
dei tributi locali esistenti, in attesa che sia il legislatore
statale a definire il rapporto tra legislazione statale e
legislazione regionale per quanto attiene alla disciplina di grado
primario dei tributi locali.
Tuttavia, come codesta Corte ha pure sottolineato nella stessa
sent. 37/2004, la situazione di transizione non consente affatto al
legislatore statale di sopprimere gli spazi di decisione autonoma che
la legislazione previgente consentiva alle regioni ed agli enti
locali. Se essi non possono per il momento decidere essi stessi
modifiche, il legislatore statale e' pero' vincolato, nel senso che
esso non puo' evidentemente legiferare in una direzione diversa da
quella imposta dall'art. 119 Cost.
In termini davvero minimi, questo vincolo si traduce in una
clausola stand still, ossia nel divieto di modificare in pejus il
livello di autonomia, gia' garantito dalla legislazione dello Stato.
Sottolinea infatti la gia' ricordata sentenza di codesta ecc.ma
Corte, che «in proposito vale ovviamente il limite discendente dal
divieto di procedere in senso inverso a quanto oggi prescritto
dall'art. 119 della Costituzione, e cosi' di sopprimere
semplicemente, senza sostituirli, gli spazi di autonomia gia'
riconosciuti dalle leggi statali in vigore alle regioni e agli enti
locali, o di procedere a configurare un sistema finanziario
complessivo che contraddica i principi del medesimo art. 119».
Il comma 21 invece sospende la potesta', riconosciuta alle
regioni ed agli enti locali dalla stessa disciplina statale, di
aumentare l'addizionale IRPEF loro spettante e quella riconosciuta
alle regioni di maggiorare l'aliquota lRAP rispetto a quella
stabilita dalla legge istitutiva.
La norma risulta dunque, per entrambi i profili, in contrasto con
la piu' ampia autonomia impositiva riconosciuta dalla nuova
formulazione dell'art. 119 della Costituzione.
Inoltre, poiche' come e' noto, il bilancio regionale deve
necessariamente chiudere in pareggio, la carenza di risorse
finanziarie che la disposta sospensione produce, dato il blocco di un
fondamentale canale di finanziamento delle competenze regionali, e'
destinata a determinare una contrazione delle politiche regionali che
si realizzano tramite l'allocazione delle risorse libere. Percio', la
disposizione viola anche il principio di «autosufficienza
finanziaria» sancito dall'art. 119, terzo comma, Cost., e non
consente l'ordinario esercizio delle competenze proprie della regione
di cui agli artt. 117 e 118 Cost.
2. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 2, comma 38.
Il comma 38 prevede che, «allo scopo di promuovere la diffusione
della cultura italiana e di sostenere lo sviluppo delle attivita' di
ricerca e studio e' autorizzata la spesa di 100.000 euro per l'anno
2004», specificando poi che «le disponibilita' di cui al presente
comma sono destinate prioritariamente all'erogazione di contributi,
anche in forma di crediti di imposta, a favore degli istituti di
cultura di cui alla legge 17 ottobre 1996, n. 534, per la costruzione
della propria sede principale», ed aggiungendo che «con decreto del
Presidente del Consiglio dei ministri, da emanare entro trenta giorni
dalla data di entrata in vigore della presente legge, sono adottate
le disposizioni attuative del presente comma».
Il comma 38, in pratica, prevede un contributo per la costruzione
della sede di determinati istituti di cultura di cultura di cui alla
egge n. 534/1996: i quali, giova ricordarlo, sono istituti che,
essendo in possesso di determinati requisiti (elencati nell'art. 2
della legge n. 534/1996), sono ammessi a godere di un contributo
statale mediante l'inserimento in una apposita tabella.
Tale sistema si giustificava nella vigenza dell'originario Titolo
V della Costituzione, quando la competenza legislativa in materia
spettava allo Stato. Dopo la legge costituzionale n. 3 del 2001,
invece, erogazioni di contributi quali quella prevista dalla norma
impugnata ad avviso della ricorrente regione non hanno piu'
fondamento costituzionale e non sono piu' legittime.
L'intervento puo' essere ricondotto alle materie della
«valorizzazione dei beni culturali» e della «ricerca scientifica». In
tali materie, entrambe di competenza concorrente, a termini
dell'art. 117 Cost. la potesta' legislativa spetta alle regioni,
salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, che spetta
allo Stato.
Lo stanziamento di somme per interventi statali diretti non
costituisce certo un principio fondamentale della materia, da attuare
mediante legislazione regionale. Ne' si puo' dire (e neppure viene
affermato) che vi siano esigenze che richiedano la diretta gestione
statale di tali interventi.
Ne', ancora, si puo' dire che si tratti di interventi volti a
sostenere la competitivita' del sistema economico (meno ancora, poi,
di «rilievo macroeconomico»), giustificabili nell'ambito della
funzione statale di tutela della concorrenza in base alla sentenza di
codesta ecc.ma Corte n. 14 del 2004.
Invero, lo strumento di intervento utilizzato dalla legge non e'
compatibile con il nuovo quadro costituzionale, nel quale allo Stato
non spetta di erogare speciali risorse per contributi a favore degli
istituti di cultura, spettando ad esso, invece, di finanziare
«integralmente» (art. 119, comma 4) le funzioni regionali,
nell'esercizio delle quali, poi le regioni dovranno disciplinare la
materia - ed in questa gli eventuali contributi agli istituti stessi
- nel quadro dei principi fondamentali eventualmente stabiliti dalla
legislazione dello Stato. Il comma 38, dunque, viola sia l'art. 117,
comma 3, che l'art. 119 Cost.
E' inoltre illegittima la previsione di un decreto del Presidente
del Consiglio dei ministri sostanzialmente regolamentare, in materie
di competenza concorrente, per violazione dell'art. 117, comma 6,
Cost. (sulla necessita' di utilizzare il criterio «sostanziale» per
determinare la natura dell'atto v. la sent. n. 88 del 2003).
3. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 2, comma 53.
Il comma sopra citato concerne l'aumento dei canoni per le
concessioni d'uso del demanio marittimo per finalita'
turistico-ricreative, e modifica le disposizioni del comma 22
dell'art. 32 del d.l. n. 269/2003, come convertito dalla legge
n. 326/2003, disposizioni che la regione Emilia-Romagna ha gia' fatto
oggetto di apposita impugnazione.
La disposizione della Legge Finanziaria ora impugnata ha
modificato il comma 22 stabilendo che l'aumento dei canoni di
concessione e' fissato con un decreto interministeriale, da emanarsi
entro il 30 giugno 2004, al quale e' indicato, come unico parametro o
indirizzo, l'obiettivo finanziario di assicurare «maggiori entrate
non inferiori a 140 milioni di euro a decorrere dal 1° gennaio 2004»:
decorso il termine per l'emanazione di tale decreto, scatta
automaticamente e retroattivamente la quadruplicazione del canone.
Come e' noto, tutte le funzioni amministrative inerenti allo
sfruttamento per finalita' turistico-ricreative del demanio marittimo
sono state conferite alle regioni a far tempo dal d.lgs. n. 112/1998.
In precedenza erano state delegate alle regioni gia' dall'art. 59 del
d.P.R. 616/1977, in considerazione della stretta attinenza
dell'esercizio delle funzioni concessorie con la materia turismo e
attivita' ricreative. In effetti, in molte regioni, e segnatamente
nell'Emilia-Romagna, il demanio marittimo rappresenta un fattore di
enorme importanza per la politica e l'economia del turismo.
Con la presente impugnazione la regione non contesta il diritto
dominicale dello Stato di fissare un canone per l'utilizzo dei suoi
beni demaniali. Essa contesta invece la legittimita' costituzionale
della misura, del metodo e della forma con cui l'aumento e' stato
deciso, in quanto tale illegittimita' costituzione comporta una
lesione delle competenze regionali nella materia del turismo.
Quanto alla misura, non puo' non essere rilevato che la
quadruplicazione del canone e' contemporaneamente: un intervento
dagli effetti assai gravi per la totalita' delle imprese balneari;
una misura discriminatoria rispetto agli altri canoni; non fondata su
specifiche considerazioni di fatto e sul livello dei precedenti
canoni.
Va rilevato che i canoni erano stati fissati con il d.m. 342 del
1998, per cui, dato l'andamento contenuto dell'inflazione, non
rappresentavano certo evidenti anacronismi rispetto alla attuale
realta' economico-finanziaria: tanto piu' che l'art. 4 del
decreto-legge n. 400/1993 prevede che «i canoni annui relativi alle
concessioni demaniali marittime sono aggiornati annualmente, con
decreto del Ministro della marina mercantile, sulla base della media
degli indici determinati dall'ISTAT». E' singolare che proprio su
questa unica categoria di canoni si sia percio' concentrata la rapace
attenzione del Tesoro, trascurando ben altri e piu' lucrosi settori
in cui i beni pubblici sono sfruttati per produrre reddito a favore
degli operatori privati; per lo stesso sfruttamento del demanio
marittimo il provvedimento crea un'ingiustificata discriminazione tra
gli imprenditori turistici e le altre categorie di imprenditori che
usano il demanio per finalita' non turistiche, Come detto, non si
contesta il potere del Governo di valutare per quali categorie di
beni pubblici sia conveniente e in che misura elevare i canoni
dell'utilizzazione privata; ma e' evidente che queste valutazioni non
possono prescindere dal rispetto dei consueti criteri di
ragionevolezza, congruita' e giustizia, nonche' dalla corretta
considerazione degli interessi della regione e delle loro
attribuzioni in materia turistica.
la forte incidenza del fattore fiscale sulla operativita' delle
imprese turistiche, infatti, compromette l'azione promozionale, di
programmazione e di sviluppo che la Regione Emilia-Romagna ha
esercitato in un settore fondamentale per il suo sviluppo economico.
Inoltre, un aumento cosi' esorbitante del canone di concessione
comprime le risorse degli imprenditori turistici impedendo loro di
intraprendere gli investimenti necessari per restare competitivi in
un settore che e' ormai diventato altamente concorrenziale, e
gravemente riduce la possibilita' per essi di proseguire in quelle
opere e iniziative che tradizionalmente sono state dirette ad
interessi pubblici quali la sicurezza degli utenti, la tutela
ambientale ecc.
Inoltre, per la stessa regione, di conseguenza, diventa
impossibile qualsiasi aggioniamento dei propri diritti di imposta,
attualmente prevista e disciplinata dalla legge regionale 31 maggio
2002, n. 9, attraverso i quali e' stato possibile finanziare
l'esercizio delle funzioni amministrative (di rilascio, rinnovo,
modifica delle concessioni demaniali marittime a finalita'
turistico-ricreative, di quelle inerenti ai porti di interesse
regionale e sub-regionale ed inerenti ad esercizio del commercio su
aree demaniali) in larga parte delegate agli enti locali. Risulta
evidente la sproporzione tra i diritti derivanti dalla mera e passiva
proprieta' dei beni demaniali e i diritti derivanti dall'attivo
esercizio di importanti funzioni amministrative, legate allo sviluppo
economico, alla sicurezza, alla tutela ambientale.
Quanto al metodo, va rilevato che il d.l. n. 400/1993, cosi' come
convertito dalla legge n. 494/1993, aveva correttamente considerato
lo stretto legame che deve sussistere tra la determinazione dei
diritti spettanti al proprietario e gli interessi dei soggetti
chiamati ad amministrare tali beni a fini turistici e a disciplinare
la materia: infatti, veniva previsto dall'art 3 del decreto-legge che
«i canoni annui per concessioni con finalita' turistico-ricreative di
aree, pertinenze demaniali marittime e specchi acquei per i quali si
applicano le disposizioni relative alle utilizzazioni del demanio
marittimo sono determinati, a decorrere dal 1° gennaio 1994, con
decreto del Ministro della marina mercantile, emanato sentita la
Conferenza permanente per i rapporti fra lo Stato, le regioni e le
province autonome di Trento e di Bolzano». Di questo indispensabile
passaggio procedurale si e' invece persa la traccia sia nei commi 21
e 22 del testo originale del decreto-legge, sia nella disposizione
fatta oggetto di impugnazione con il presente ricorso, nonostante
fosse stato esplicito l'invito formulato alla Camera dei deputati nel
corso dell'approvazione della legge di conversione (si veda l'o.d.g.
presentato dall'on. La Malfa il 19 novembre 2003).
La deliberata esclusione del parere della Conferenza
Stato-regione nel procedimento di adozione del decreto ministeriale
cui e' rinviata la fissazione del canone, si riverbera percio' nella
violazione del principio di leale collaborazione che, come la
costante giurisprudenza di questa Corte ha sottolineato, rappresenta
l'ineliminabile onere procedurale che deve essere assolto da tutti i
provvedimenti che incidono su «materie» in cui gli interessi dello
Stato convergono e devono armonizzarsi con quelli delle regioni.
Quanto alla forma, infine, la gia' scarsa coerenza tra i commi 21
e 22 del testo originale e' stata ulteriormente aggravata dalla
riforma introdotta dalla successiva legge finanziaria. Persino nei
lavori parlamentari (si veda ancora l'o.d.g. La Malfa) non risultava
affatto chiara la portata dei due commi, sembrando addirittura
possibile un'interpretazione per cui essi prevedessero due
provvedimenti diversi, il comma 21, ma non il 22, riguardando le
concessioni a finalita' turistico-ricreative. Ogni invito delle
Camere a riconsiderare la questione e a chiarire il testo legislativo
(si veda l'o.d.g 9/4447/1996 proposto dall'on. Cazzaro, approvato
dalla Camera dei deputati e accettato dal Governo) e' stato
disatteso, dato che la modifica introdotta dalla legge finanziaria
non chiarisce affatto i rapporti i due commi, ne' introduce il
doveroso obbligo dello autorita' ministeriali di sottoporre il
provvedimento al previo parere della Conferenza Stato-regioni.
Per tutti gli enunciati profili la disposizione impugnata risulta
lesiva delle attribuzioni regionali garantite dall'art. 117 Cost.,
del principio di leale collaborazione, del principio di eguaglianza
sancito dall'art. 3 Cost., del principio di certezza del diritto e
del generale canone di ragionevolezza delle leggi.
4. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 2, comma 70.
I commi 6, 9, 11 e 24 dell'art 32 del d.l. n. 269/2003, come
convertito dalla legge n. 326/2003, prevedevano il reperimento e la
destinazione vincolata di risorse preordinate alla effettuazione di
interventi di riqualificazione di nuclei edilizi ed urbani
caratterizzati da abusivismo edilizio: si trattava di un timido
tentativo di giustificare in termini di «governo del territorio»
l'introduzione di un nuovo condono edilizio, motivato esclusivamente
dall'esigenza di reperire ulteriori risorse finanziarie, condono che
la Regione Emilia-Romagna ha gia' impugnato, con ricorso avverso
l'art. 32 del decreto-legge n. 269/2003, che risulta pendente avanti
a codesta Corte con il n. 83/2003, cui e' seguita l'impugnazione
della legge n. 326/2003, che ha convertito il d.l. lasciando nella
sostanza inalterate quasi tutte le disposizioni censurate.
Il comma 6, in particolare, destinava 10 milioni di euro per
l'anno 2004 e 20 milioni di euro per ciascuno degli anni 2005 e 2006
al fine di concorrere alla partecipazione ad interventi e politiche
di riqualificazione dei nuclei interessati da fenomeni di abusivismo,
attivati dalla regioni attraverso l'incremento della oblazione,
secondo quanto disposto dal comma 33. Parimenti, al comma 9 del
decreto-legge come convertito, erano previste risorse finanziarie per
attivare un programma nazionale di interventi di riqualificazione
delle aree per degrado economico-sociale (i cui ambiti di rilevanza
ed interesse nazionale erano da individuarsi con decreti del
Ministero per le infrastrutture, di concerto con i Ministri
dell'ambiente e d'intesa con la conferenza unificata) e, ai
successivi commi 11 e 24, rispettivamente per interventi di recupero
e riqualificazione paesaggistica, nonche' per la valorizzazione e il
miglioramento delle aree demaniali. Sennonche' tali risorse
finanziarie - gia' ritenute palesemente insufficienti dalle regioni -
sono state completamente espunte dal testo legislativo ad opera della
disposizione della legge finanziaria 2004, oggetto della presente
impugnazione. Il comma 70 dell'art. 2 ha abrogato seccamente i commi
6, 9, 11 e 24, del sopra citato art. 32 della legge n. 326/ 2003, con
cio' cancellando dal sistema di reimpiego di parte dei fondi
provenienti dal condono e dalla stessa ratio dell'art. 32,
qualsivoglia concreta possibilita' di attuazione degli interventi di
riqualificazione previsti, su un piano non certamente marginale,
dalle misure di condono edilizio.
Mentre tale misura rafforza la irragionevolezza e la scarsa
attendibilita' del meccanismo congegnato attraverso le varie
disposizioni di cui all'art. 32, per realizzare finalita' di reale e
credibile intento di riqualificazione del territorio - il che e'
stato rilevato nei ricorsi richiamati - essa appare a sua volta
lesiva delle attribuzioni regionali. Infatti, l'istituzione di un
finanziamento a destinazione vincolata, volto a coprire interventi di
competenza regionale, rientranti nelle funzioni proprie che le
regioni esercitano in materia di «governo del territorio», sarebbe
illegittimo, come codesta Corte ha piu' volte rilevato (cfr. sentt.
370/2003, 16/2004 e 49/2004) perche' lederebbe l'autonomia
finanziaria delle regioni stesse.
L'abolizione del finanziamento non puo' sottrarsi alle stesse
censure: la decisione unnilaterale dello Stato di estinguere una
linea di finanziamento diretta a sostenere compiti rientranti nelle
funzioni delle regioni e degli enti locali, se da un lato costituisce
un vulnus all'obiettivo che la costituzione assegna al legislatore
statale, attribuendogli la potesta' legislativa esclusiva per la
«tutela dell'ambiente o dell'ecosistema» - configurabile non come
«materia in senso tecnico», ma teleologicamente come «valore»
costituzionalmente protetto (sent. 407/2002) - dall'altro lascia
regioni e enti locali privi delle risorse necessarie per un corretto
recupero delle opere abusive condonate. Essendo fuori di dubbio che
il condono deciso dallo Stato produrra' la stabilizzazione e il
consolidamento di situazioni di grave degrado edilizio, urbanistico,
paesistico ed ambientale, viene meno una fonte di finanziamento che
la regione aveva giudicato insufficiente nella misura e illegittima
nelle modalita', ma la cui eliminazione non puo' che tradursi in una
lesione ancora piu' grave della loro autonomia finanziaria.
5. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 3, commi 17, 18 e
20.
La legge n. 350 del 2003 dedica alcune disposizioni alla
precisazione della regola posta dall'art. 119, sesto comma, secondo
il quale le regioni possono ricorrere all'indebitamento solo per
finanziare spese di investimento.
Ribadita al comma 16 tale regola, il comma 17 stabilisce quali
operazioni costituiscano indebitamento, e rientrino cosi' nel
divieto. Precisamente, esso dispone (primo periodo) che «per gli enti
di cui al comma 16 costituiscono indebitamento, agli effetti
dell'articolo 119, sesto comma, della Costituzione, l'assunzione di
mutui, l'emissione di prestiti obbligazionari, le cartolarizzazioni
di flussi futuri di entrata non collegati a un'attivita' patrimoniale
preesistente e le cartolarizzazioni con corrispettivo iniziale
inferiore all'85 per cento del prezzo di mercato dell'attivita'
oggetto di cartolarizzazione valutato da un'unita' indipendente e
specializzata». Aggiunge poi (secondo periodo) che «costituiscono,
inoltre, indebitamento le operazioni di cartolarizzazione
accompagnate da garanzie fornite da amministrazioni pubbliche e le
cartolarizzazioni e le cessioni di crediti vantati verso altre
amministrazioni pubbliche», mentre non costituiscono indebitamento
(terzo periodo) «le operazioni che non comportano risorse aggiuntive,
ma consentono di superare, entro il limite massimo stabilito dalla
normativa statale vigente, una momentanea carenza di liquidita' e di
effettuare spese per le quali e' gia' prevista idonea copertura di
bilancio».
L'ultimo periodo del comma 17 statuisce che «modifiche alle
predette tipologie di indebitamento sono disposte con decreto del
Ministro dell'economia e delle finanze, sentito l'ISTAT, sulla base
dei criteri definiti in sede europea».
A sua volta, il comma 18 stabilisce quali operazioni possano
rientrare nel concetto di «investimento» ai fini di cui all'articolo
119, sesto comma, della Costituzione.
Precisamente, secondo tale disposizione costituiscono
investimenti:
«a) l'acquisto, la costruzione, la ristrutturazione e la
manutenzione straordinaria di beni immobili, costituiti da fabbricati
sia residenziali che non residenziali; b) la costruzione, la
demolizione, la ristrutturazione, il recupero e la manutenzione
straordinaria di opere e impianti; c) l'acquisto di impianti.
macchinari, attrezzature tecnico-scientifiche, mezzi di trasporto e
altri beni mobili ad utilizzo pluriennale; d) gli oneri per beni
immateriali ad utilizzo pluriennale; e) l'acquisizione di aree,
espropri e servitu' onerose; f) le partecipazioni azionarie e i
conferimenti di capitale, nei limiti della facolta' di partecipazione
concessa ai singoli enti mutuatari dai rispettivi ordinamenti; g) i
trasferimenti in conto capitale destinati specificamente alla
realizzazione degli investimenti a cura di un altro ente od organismo
appartenente al settore delle pubbliche amministrazioni; h) i
trasferimenti in conto capitale in favore di soggetti concessionari
di lavori pubblici o di proprietari o gestori di impianti, di reti o
di dotazioni funzionali all'erogazione di servizi pubblici o di
soggetti che erogano servizi pubblici, le cui concessioni o contratti
di servizio prevedono la retrocesione degli investimenti agli enti
committenti alla loro scadenza, anche anticipata. In tale fattispecie
rientra l'intervento finanziario a favore del concessionario di cui
al comma 2 dell'articolo 19 della legge 11 febbraio 1994, n. 109; i)
gli interventi contenuti in programmi generali relativi a piani
urbanistici attuativi, esecutivi, dichiarati di preminente interesse
regionale aventi finalita' pubblica volti al recupero e alla
valorizzazione del territorio».
Il comma 20, poi, dispone che «le modifiche alle tipologie di cui
ai commi 17 e 18 sono disposte con decreto del Ministro dell'economia
e delle finanze, sentito l'ISTAT». Il riferimento al comma 17, si
notera', e' meramente ripetitivo dell'ultimo periodo dello stesso
comma, il quale, inoltre era piu' ampio, riferendosi per le modifiche
al parametro dei criteri definiti in sede europea.
Tali disposizioni restringono le possibilita' di azione delle
regioni rispetto alla regola costituzionale, e presentano diversi
elementi e profili di illegittimita'.
Nel contenuto, va premesso che la regola costituzionale del
divieto di indebitamento se non per investimenti e' direttamente
operativa, e non demanda alcun compito attuativo alla legge statale.
Anche se si ammettesse che questa possa dettare disposizioni
specificative ed attuative, e' pero' evidente che tali disposizioni
dovrebbero attenersi al concetto economico di investimenti, e non
potrebbero arbitrariamente restringerlo, estendendo il divieto
costituzionale ad ambiti che esso non era destinato a coprire.
In particolare, e' da sottolineare che il comma 18, lettera g) e
h), considera «investimenti» solo i trasferimenti in conto capitale
effettuati a favore di determinati soggetti, cosi' precludendo alle
regioni la possibilita' di ricorrere all'indebitamento per effettuare
trasferimenti in conto capitale di altro tipo, cioe', essenzialmente,
per concedere contributi ai privati per i loro investimenti.
In questo modo la norma statale restringe irragionevolmente un
consolidato concetto di investimento, escludendo dal suo ambito
alcuni trasferimenti in conto capitale in quanto effettuati a favore
di privati anziche' a favore di soggetti pubblici. E' invece chiaro
che la tipologia del soggetto destinatario non modifica la natura
economica della spesa e che i trasferimenti in conto capitale ai
privati non possono ragionevolmente essere esclusi dal concetto di
investimento (e, dunque, dalla possibilita' dell'indebitamento). Il
comma 18, dunque, incide sull'autonomia finanziaria regionale
restringendo irragionevolniente il concetto di investimenti, violando
l'art. 119 Cost. nonche', quanto al carattere discriminatorio della
restrizione, l'art. 3 Cost.
L'irragionevolezza della norma, gia' chiara in assoluto, emerge
anche all'interno della stessa legge n. 350 del 2003, se si pone
mente al fatto che l'art. 4, intitolato Finanziamento agli
investimenti, contempla sin dal primo comma contributi a privati (e
poi ne sono pervisti molti altri). Ora - anche tralasciando il fatto
che finanziare gli investimenti e' ovviamente esso stesso, dai punto
di vista dell'ente finanziatore, un investimento - in ogni caso
l'art. 119, sesto comma, espressamente consente l'indebitamento «per
finanziare spese di investimento». Del tutto illegittima pertando
l'esclusione da tale categoria, per le regioni, di una tipologia di
spesa che lo stesso legislatore statale qualifica come «finanziamento
agli investimenti».
Inoltre, la definizione contenuta nel comm 8, lettere g) e h),
non corrisponde alla disciplina dei «trasferimenti in conto capitale»
contenuta nel regolamento CE n. 2223/96 del 25 giugno 1996 (punto
D.9), relativo al Sistema europeo dei conti nazionali e regionali
nella Comunita'. Tale regolamento, fra l'altro, comprende,
nell'ambito dei trasferimenti in conto capitale, i «contributi agli
investimenti» (D.92) e fra questi sono espressamente menzionati
quelli alle imprese private o a soggetti privati diversi dalle
imprese. Dunque, le norme impugnate violano anche l'art. 117, comma
1, Cost., ed anche tale illegittimita' si traduce in lesione
dell'autonomia finanziaria regionale.
Infine, le norme in questione differenziano irragionevolmente le
possibilita' di indebitamento delle regioni da quelle dello Stato,
per il quale continua a valere la disciplina comunitaria: e anche
questa illegittimita' si traduce in lesione dell'autonomia
finanziaria regionale.
Illegittime risultano anche le norme che prevedono che gli
elenchi di cui agli artt. 17 e 18 possano essere modificati con
decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, sentito l'ISTAT.
In primo luogo e' da segnalare che, come gia' accennato, mentre
l'ultimo periodo del comma 17 autorizza il Ministro dell'economia e
delle finanze a modificare le tipologie di indebitamento, sentito
l'ISTAT, «sulla base dei criteri definiti in sede europea», il comma
20 prevede, per la modifica sia delle tipologie di indebitamento che
di quelle di investimento, un decreto del Ministro dell'economia e
delle finanze, sentito l'ISTAT, ma senza piu' richiamare i «criteri
definiti in sede europea». La differenza non e' irrilevante perche'
il comma 17 potrebbe essere inteso nel senso che il Ministro e'
autorizzato a apportare quelle modifiche rese necessarie da nuovi
criteri elaborati a livello comunitario, mentre il comma 20 sembra
prevedere un regolamento ministeriale «in deroga», discrezionalmente
adottabile dal Ministro.
Entrambe le norme, comunque, risultano illegittime. La materia in
questione e' il «coordinamento della finanza pubblica», che rientra
nella competenza concorrente di Stato e regioni. In tali materie,
l'attuazione delle fonti comunitarie non self-executing e' regolata,
tuttora, dall'art. 9 legge n. 86 del 1989 (come e' noto, la legge
n. 131 del 2003 non si e' occupata della materia, mentre una apposita
legge modificativa della legge. n. 86 del 1989 e' in corso di
discussione).
In attesa della legge regionale di recepimento, e' ammesso che
sia lo Stato ad attuare la direttiva, ma e' necessario che cio'
avvenga, perlomeno, con un regolamento governativo (v. art. 9, comma
4, legge n. 86 del 1989). Dunque, la previsione di un decreto del
Ministro (sostanzialmente regolamentare) per il recepimento dei
«criteri» europei in materia di competenza concorrente risulta lesiva
della sfera costituzionale di competenza regionale, dato che la
competenza dell'organo collegiale, prevista dalla legge n. 86 del
1989, deve ritenersi costituzionalmente necessaria in relazione al
rango costituzionale dell'autonomia regionale.
Quanto al comma 20, che non fa riferimento ai criteri europei,
esso e' ancor piu' chiaramente illegittimo in quanto prevede un
potere sostanzialmente regolamentare in materia di competenza
concorrente, in violazione dell'art. 117, comma 6, Cost.
Della natura sostanzialmente regolamentare del decreto
ministeriale previsto dalle norme di cui sopra non sembra potersi
dubitare. Ma, anche qualora si ritenesse che esse prevedano, invece,
una funzione amministrativa attribuita al Ministro in virtu' del
principio di sussidiarieta', non verrebbe meno l'illegittimita', dato
che, comunque, mancherebbe qualsiasi meccanismo di coinvolgimento
delle regioni, in contrasto con il principio di leale collaborazione
e secondo quanto richiesto dalla sent. n. 303 del 2003.
Infine, nella parte in cui si riferisce alle tipologie di cui al
comma 18, il comma 20 risulta illegittimo anche perche' conferisce al
Ministro un «nudo» potero discrezionale, senza formulare criteri
idonei a guidare l'esercizio del potere, in violazione del principio
di legalita' sostanziale; ne' tale mancanza puo' essere compensata
dal parere dell'ISTAT, la cui opinione non ha ne' la funzione ne' gli
effetti giuridici di criteri fissati nella legge. Poiche' al Ministro
e' affidato un potere del tutto discrezionale capace di incidere
notevolmente sull'autonomia regionale, la violazione del principio di
legalita' sostanziale (che si aggiunge a quella dell'art. 117,
comma 6, e del principio di leale collaborazione) si traduce in
lesione dell'autonomia stessa.
6. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 32.
La disposizione impugnata ribadisce ed amplia alcune delle misure
di «razionalizzazione» della spesa sanitaria introdotte dalla Legge
finanziaria 2003 (legge 27 dicembre 2002, art. 52, comma 4), gia'
oggetto del ricorso della Regione Emilia-Romagna; ma il meccanismo
cosi' rafforzato ulteriormente altera l'assetto dei rapporti tra
Stato e regioni consensualmente stabilito come metodo di
razionalizzazione della spesa sanitaria.
Sia consentito di riassumere la complessiva situazione:
in materia di servizi sanitari le regioni hanno piena
autonomia, salvi i principi fondamentali di «tutela della salute»
(art. 117, comma 3) e la definizione dei «livelli essenziali delle
prestazioni» (art. 117, comma 2, lettera m) da parte dello Stato;
la conseguente forte incidenza sull'esercizio delle funzioni
nelle materie assegnate alle competenze legislative ed amministrative
delle regioni e delle province autonome impone evidentemente che
queste scelte, almeno nelle loro linee generali, siano operate dallo
Stato con legge, che dovra' inoltre determinare adeguate procedure e
precisi atti formali per procedere alle specificazioni ed
articolazioni ulteriori che si rcndano necessarie nei vari settori»
(sent. 88/2003). Nel sistema introdotto dalla legge n. 405/2001, il
procedimento di adozione dei livelli essenziali di assistenza prevede
la definizione tramite decreto del Presidente del Consiglio dei
ministri, previa intesa tra regioni e Governo, da conseguire in sede
di Conferenza Stato-regioni;
questo sistema ha originato una serie di accordi tra Stato e
regioni che hanno determinato sia i «livelli essenziali», sia i
correlati rapporti finanziari. Siccome la spesa sanitaria costituisce
ampia parte del bilancio delle regioni, il problema di sottoporla a
controllo e' di comune interesse dello Stato e delle regioni e si
intreccia strettamente con la necessita' di assicurare che le
prestazioni che le regioni devono garantire siano integralmente
finanziate, ai sensi dell'art. 119, comma 4, Cost.;
l'Accordo dell'8 agosto 2001, tra Governo, regioni e le
Province autonome di Trento e Bolzano - richiamato dalla disposizione
impugnata - mirava appunto a «definire un quadro stabile di
evoluzione delle risorse pubbliche destinate al finanziamento del
Servizio sanitario nazionale, che, tenendo conto degli impegni
assunti con il patto di stabilita' e crescita, consente di
migliorarne l'efficienza razionalizzando i costi», a «rendere
realistica l'entita' dei finanziarnenti statali, eliminando gli
inconvenienti derivanti da sottostime delle esigenze finanziarie e
conferire stabilita' alla spesa in un arco almeno triennale», ed a
«dirimere definitivamente» le controversie relative alla congruita'
delle risorse finanziarie in materia sanitaria;
nell'ambito di questo Accordo, che si ricollega al successivo
Accordo del 22 novembre 2001 sui «livelli essenziali», venivano
individuati con precisione quali adempimenti le regioni si assumevano
di fronte all'impegno finanziario assunto dallo Stato, tra i quali
l'assunzione a proprio carico degli oneri relativi a sforamenti della
spesa sanitaria ad esse imputabili. Da parte sua lo Stato si
impegnava ad un finanziamento integrativo del S.S.N. dando certezza
per l'intero periodo finanziario;
sempre l'Accordo condizionava l'accesso al finanziamento al
rispetto di una serie di impegni assunti dalle regioni; adozione di
misure di anticipazione di verifica degli andamenti della spesa;
adesione alle convenzioni in tema di acquisti di beni e servizi;
adempimento agli obblighi informativi sul monitoraggio della spesa;
adeguamento alle prescrizioni del patto di stabilita' interno;
sottoscrizione dell'impegno a mantenere l'erogazione delle
prestazioni ricomprese nei livelli essenziali di assistenza;
mantenimento della stabilita' della gestione, applicando direttamente
misure di contenimento della spesa stessa, «che potranno riguardare
l'introduzione di strumenti di controllo della domanda, la riduzione
della spesa sanitaria o in altri settori, ovvero l'applicazione di
una addizionale regionale all'IRPEF o altri strumenti fiscali
previsti dalla normativa vigente, nella misura necessaria a coprire
l'incremento di spesa»; «l'attivazione di un tavolo di monitoraggio e
verifica ... tra Ministeri della salute e dell'economia e le regioni
e le province autonome, con il supporto dell'agenzia per i Servizi
sanitari regionali sui suddetti livelli effettivamente erogati e
sulla corrispondenza ai volumi di spesa stimati e previsti,
articolati per fattori produttivi e responsabilita' decisionali, al
fine di identificare i determinanti di tale andamento, a garanzia
dell'efficienza e dell'efficacia del Servizio sanitario nazionale».
Tuttavia, con una serie di provvedimenti legislativi, lo Stato
modificava gli adempimenti posti a carico delle regioni,
introducendo, in particolare, con l'art. 52, comma 4, della legge
n. 289/2002, l'obbligo di attuare, «senza maggiori oneri a carico del
bilancio dello Stato», iniziative dirette a favorire lo svolgimento,
presso gli ospedali pubblici, degli accertamenti diagnostici in
maniera continuativa, con l'obiettivo finale della copertura del
servizio nei sette giorni della settimana, e la previsione della
decadenza automatica dei direttori generali nell'ipotesi di mancato
raggiungimento dell'equilibrio economico delle aziende sanitarie e
ospedaliere, nonche' delle aziende ospedaliere autonome.
Contro quest'ultima disposizione la Regione Emilia-Romagna ha
promosso ricorso a questa ecc.ma Corte. In esso si muovevano rilievi
che devono essere qui ribaditi.
Il primo, piu' generale, riguarda lo squilibrio strutturale tra
risorse e obbligazioni di spesa derivante dall'obbligo di assicurare
prestazioni stabilite con atto dello Stato, la cui sola esistenza e'
in contrasto con i principi di autonomia finanziaria, ed in
particolare con l'art. 119, quarto comma, che prescrive che le
entrate proprie e le compartecipazioni debbono consentire alle
Regioni «di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro
attribuite». A tale squilibrio strutturale - come detto gia' di per
se costituzionalmente inammissibile - non si pone rimedio neppure nel
comma 52 di questo stesso articolo, il quale dispone un adeguamento
del finanziamento del Servizio sanitario nazionale per gli anni
2004-2006, ma a copertura dei soli maggiori oneri di personale.
In generale, invece, mentre i livelli essenziali delle
prestazioni, fissati in sede di Accordo tra Governo, Regioni e
Province autonome, sono rimasti immutati, le risorse regionali,
invece, si sono ridotte in misura rilevante, anche perche' (come
sopra esposto in relazione all'impugnazione dell'art. 2, comma 21) e'
stato paralizzata - pur se, come si ritiene, illegittimamente - la
capacita' regionale di incrementare le entrate fiscali.
Un ulteriore aggravio degli oneri accollati alle Regioni deriva
dalle particolari condizioni a cui l'accesso al finanziamento
integrativo e' subordinato. Si vuol dire cioe' che se le risorse sono
oggettivamente carenti in relazione alle funzioni obbligatorie,
l'adeguamento del finanziamento e' costituzionalmente dovuto, e non
puo' essere condizionato a prescrizioni illegittime: ed e'
illegittimo in particolare, tra gli adempimenti richiamati dal
comma 32, quello, introdotto dal comma 4 dell'art. 52 della legge
finanziaria 2003, a suo tempo impugnata, che subordina l'accesso
all'adeguamento finanziario all'adozione da parte delle Regioni di
«provvedimenti diretti a prevedere, ai sensi dell'art. 3, comma 2,
lettera c), del decreto-legge 18 settembre 2001, n. 347, convertito,
con modificazioni, dalla legge 16 novembre 2001, n. 405, la decadenza
automatica dei direttori generali nell'ipotesi di mancato
raggiungimento dell'equilibrio economico delle aziende sanitarie e
ospedaliere, nonche' delle aziende ospedaliere autonome». Tale
disposizione e' incostituzionale perche', in violazione dell'art. 97
Cost. (per non dire della stessa soggettiva privazione del lavoro
nell'amministrazione, in violazione dell'art. 4 e dell'art. 51),
prevede la rimozione sanzionatoria dalla carica per il puro
verificarsi di circostanze oggettive, in assenza di alcuna prova o
riscontro che il mancato raggiungimento dell'equilibrio economico
fosse in qualche modo evitabile da parte dello stesso direttore
generale.
Sembra evidente che tocca invece alla Regione, quale responsabile
generale del servizio sanitario e quale amministrazione nominante, la
valutazione del comportamento del direttore generale e del grado di
responsabilita' che ad esso possa imputarsi nel mancato conseguimento
dell'equilibrio economico: che puo' bene essere dovuto - in
condizione di carenza finanziaria strutturale - all'obbligo di
assicurare le prestazioni;
Una ulteriore specifica ragione di illegittimita' colpisce
l'adempimento di cui alla lett. c) dell'art. 52, comma 4, della legge
n. 289, richiamato e confermato dalla disposizione ora impugnata
ovvero lo svolgimento, per giunta «senza maggiori oneri a carico del
bilancio dello Stato», degli accertamenti diagnostici «in maniera
continuativa, con l'obiettivo finale della copertura del servizio nei
sette giorni della settimana». Si tratta infatti di misure puramente
organizzative, che limitano la relativa autonomia legislativa
regionale, anziche' limitarsi a fissare un principio in termini di
risultato, che le Regioni rimangono libere di raggiungere secondo le
proprie scelte organizzative.
Le misure citate ledono insieme l'autonomia finanziaria e
l'autonomia legislativa delle Regioni. Misure come l'obbligo di
introdurre norme che comportano la decadenza automatica dei direttori
generali non sono configurabili come «principi fondamentali della
materia»: come mostra il fatto stesso che si tratta non di norme
inderogabili ma di «condizioni» per l'accesso ad integrazioni
finanziarie (integrazioni senza le quali cessato di essere
«integralmente finanziate» le funzioni assegnate alle Regioni).
Per altro verso, l'imposizione alle Regioni di rafforzare i
servizi diagnostici «senza maggiori onori a carico del bilancio dello
Stato» non puo' prospettarsi come parte della definizione dei LEA,
proprio perche' non e' compatibile con il quadro costituzionale in
cui si inseriscono le garanzie dell'autonomia finanziaria che lo
Stato imponga alle Regioni funzioni senza finanziarle (ma anzi, al
contrario, impedendo ad essa di reperire le risorse finanziarie
attraverso gli strumenti impositivi).
In conclusione, emerge con chiarezza l'illegittimita' sia del
congelamento degli strumenti di autofinanziamento della Regione
mentre si aumentano le prestazioni che le Regioni devono erogare, sia
il condizionamento delle pur limitate integrazioni finanziarie
concordate ad adempimenti incongrui, che la legge statale non
potrebbe ad altro titolo costituzionale introdurre.
Avverso la interruzione dei procedimenti di collaborazione e
dell'applicazione degli accordi da parte del Govemo, e l'assunzione
di decisioni unilaterali cosi' gravemente pregiudizievoli per
l'autonomia finanziaria e per le attribuzioni costituzionali, alle
Regioni, che mai hanno fatto mancare la propria disponibilita' ad un
ragionevole accordo, non resta che il ricorso a codesta ecc.ma Corte
costituzionale.
7. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 43.
Il comma 43 prevede che il Ministro degli affari esteri, con
decreto da adottare entro novanta giorni dalla data di entrata in
vigore della presente legge, sentite le competenti Commissioni
parlamentari, emana disposizioni per razionalizzare i flussi di
erogazione finanziaria e per semplificare le procedure relative alla
gestione delle attivita' di cooperazione internazionale, con
particolare riferimento alle procedure amministrative relative alle
organizzazioni non governative».
Tale disposizione e' formulata in modo tale da comprendere,
potenzialmente, anche le attivita' di cooperazione internazionale
svolte dalle Regioni. Qualora fosse intesa in questo senso, essa
sarebbe chiaramente illegittima in quanto interverrebbe in una
materia di competenza concorrente («rapporti internazionali ... delle
Regioni») prevedendo un atto ministeriale sostanzialmente
regolamentare, in violazione dell'art. 117, comma 6, Cost.
Inoltre, quanto al contenuto, tale atto dovrebbe «razionalizzare
i flussi di erogazione finanziaria e ... semplificare le procedure
relative alla gestione delle attivita' di cooperazione
internazionale, con particolare riferimento alle procedure
amministrative relative alle organizzazioni non governative»: con
conseguente lesione dell'autonomia finanziaria e amministrativa
regionale. Naturalmente, qualora invece la disposizione del comma 43
dovesse intendersi come riferita esclusivamente alle attivita' di
cooperazione internazionale svolte dallo Stato ed alle relative
procedure finanziarie ed amministrative, le ragioni di doglianza
verrebbero meno.
8. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 49.
La disposizione del comma 49 dell'art. 3 ricorda quella contenuta
nell'art. 33, comma 4, legge n. 289 del 2002, gia' impugnata da
questa Regione.
Essa prevede che «per il personale dipendente da amministrazioni,
istituzioni ed enti pubblici diversi dall'amministrazione statale gli
oneri derivanti dai rinnovi contrattuali per il biennio 2004-2005,
nonche' quelli derivanti dalla corresponsione dei miglioramenti
economici al personale di cui all'art. 3, comma 2, del decreto
legislativo 30 marzo 2001, n. 165, sono posti a carico dei rispettivi
bilanci ai sensi dell'art. 48, comma 2, del medesimo decreto
legislativo», aggiungendo che «in sede di deliberazione degli atti di
indirizzo previsti dall'art. 47, comma 1, del decreto legislativo 30
marzo 2001, n. 165, i comitati di settore provvedono alla
quantificazione delle relative risorse e alla determinazione della
quota da destinare all'incentivazione della produttivita',
attenendosi quale tetto massimo di crescita delle retribuzioni, ai
criteri previsti dal comma 46 per il personale delle amministrazioni
dello Stato» (enfasi aggiunta).
Ad avviso della ricorrente Regione, tale vincolo risulta
illegittimo, e persino peggiorativo della situazione antecedente la
legge cost. n. 3 del 2001.
Infatti, in base all'art. 47, comma 1, del decreto legislativo
n. 165 del 2001, il comitato di settore del comparto Regioni -
Autonomie locali, costituito «nell'ambito della Conferenza dei
Presidenti delle regioni, per le amministrazioni regionali e per le
amministrazioni del Servizio sanitario nazionale, e dell'Associazione
nazionale dei comuni d'italia - ANCI e dell'Unione delle province
d'Italia - UPI e dell'Unioncamere, per gli enti locali
rispettivamente rappresentati» (art 41, comma 3, lett. a), determina
«gli indirizzi per la contrattazione collettiva nazionale» (mediante
i quali esso esercita «il potere di indirizzo nei confronti dell'ARAN
e le altre competenze relative alle proedure di contrattazione
collettiva nazionale»: art. 41, comma 1) «prima di ogni rinnovo
contrattuale e negli altri casi in cui e' richiesta una attivita'
negoziale dell'ARAN» senza alcun vincolo pregiudiziale. Solo
successivamente tali atti sono «sottoposti al Governo che, non oltre
dieci giorni, puo' esprimere le sue valutazioni per quanto attiene
agli aspetti riguardanti la compatibilita' con le linee di politica
economica e finanziaria nazionale». Dunque, in base al t.u. pubblico
impiego, precedente la legge cost. n. 3 del 2001, il potere di
indirizzo nei confronti dell'ARAN, per la contrattazione relativa al
personale regionale e degli enti locali, spettava in sostanza alle
Regioni ed agli enti locali, senza interferenze da parte statale
(salva la valutazione governativa sulla compatibilita' finanziaria).
La materia rientra ora nella potesta' regionale piena, per tutto
cio' che va oltre i livelli essenziali dei diritti dei lavoratori.
Eppure la norma qui' impugnata assoggetta gli atti di indirizzo del
comitato di settore «regionale», per quanto riguarda il «tetto
massimo di crescita delle retribuzioni», ai criteri previsti dal
comma 46 per il personale delle amministrazioni dello Stato (cioe',
pare di capire, allo 0,2 %, qualora il termine «incrementi» dl cui al
comma 46 venga riferito ad «oneri» e non alle «risorse» di cui
all'inciso immediatamente precedente quello contenente il limite
dello 0,2%).
Si noti che non e' possibile invocare, a fondamento della norma
impugnata, la competenza statale in materia di «coordinamento della
finanza pubblica».
Da una parte, intatti, nessun onere deriva al bilancio statale,
dal momento che lo stesso art. 3, comma 49, precisa che gli oneri
derivanti dai rinnovi contrattuali relativi al personale regionale
ricadono sulle stesse Regioni.
Quanto poi alla spesa regionale, i principi di coordinamento non
possono che ragionevolmente concepirsi come rivolti alle grandezze
complessive della spesa pubblica, in relazione alle entrate, e non
possono incidere sulle scelte di politica regionale nella allocazione
delle spese.
Va inoltre denunciata come ulteriormente e specificamente
illegittima l'assunzione di un parametro di incremento percentuale
sull'esistente, che penalizza le Regioni che gia' prima avevano
livelli retributivi inferiori.
Il limite rigido dello 0,2 % all'aumento delle retribuzioni nel
biennio 2004-2005 per il personale regionale non e' un principio in
materia di coordinamento della finanza pubblica, ma e' un vincolo
puntuale in una materia di competenza regionale residuale. Di qui la
lesione della potesta' legislativa regionale in materia di personale
regionale e degli enti locali, dell'autonomia finanziaria regionale
nonche' dell'autonomia amministrativa, in relazione ai vincoli posti
all'attivita' del comitato di settore regionale.
9. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 3, commi 53, 58 e
60.
Il comma 60, richiamato dal comma 58, estende alle Regioni e alle
autonomie locali il «blocco delle assunzioni» disposto dal comma 53,
riproponendo, pur con qualche modifica, le analoghe misure contenute
nella legge finanziaria 2003.
La disciplina che ne risulta e' la seguente. In generale,
Regioni, enti locali ed enti del Servizio sanitario nazionale
potranno procedere ad assunzioni di personale solo con i criteri e i
limiti fissati con decreti del Presidente del Consiglio dei ministri;
tali decreti dovrebbero essere adottati previo accordo tra Governo,
Regioni ed enti locali; fino all'emanazione di tali decreti trovano
applicazione le disposizioni del comma 53, cioe' il blocco pressoche'
generale delle assunzioni a tempo indeterminato; se tali decreti non
sono adottati entro il 30 giugno 2004 (a prescindere di chi sia
responsabile della mancanza adozione da parte del Governo),
troveranno applicazione le disposizioni dei decreti adottati in
attuazione della legge finanziaria 2003.
Il blocco delle assunzioni vale invece integralmente per le
province e i comuni sopra i 5.000 abitanti che non abbiano rispettato
le regole del patto di stabilita' interno per l'anno 2003 (salvo che
per le assunzioni connesse a trasferimenti di funzioni «coperte» da
provviste finanziarie apposite).
Si tratta di disposizioni di carattere ordinamentale ed
organizzatorio, come tali estranee al contenuto tipico della legge
finanziaria (cfr. l'art. 11 della legge n. 468/1978, come modificato
dalla legge n. 208/1999, che disciplina i contenuti ammissibili della
legge finanziaria); la loro inclusione nella legge finanziaria non
puo' certo di per se' costituire per lo Stato una legittima via di
sostituzione del necessario «titolo di competenza» della sua
legislazione. Si deve sottolineare, infatti, che una competenza
normativa generale in materia di organizzazione delle Amministrazioni
pubbliche non sussiste piu' in capo allo Stato a seguito della
riforma del Titolo V.
E' peraltro pacifico che l'art. 117, secondo comma Cost. riserva
alla potesta' esclusiva statale unicamente la materia della
organizzazione e dell'ordinamento amministrativo dello Stato e degli
enti pubblici nazionali ed e' quindi ad esso consentito di dettare
norme vincolanti unicamente per le amministrazioni ed enti statali.
Conseguentemente e' riservata alla potesta' legislativa residuale
delle Regioni, ai sensi dell'art. 117, quarto comma, l'organizzazione
amministrativa e l'ordinamento del personale regionale, sicche' in
tale materia la competenza regionale e' esclusiva ed esercitabile nel
rispetto della Costituzione e dei vincoli derivanti dall'ordinamento
comunitario e dagli obblighi internazionali.
D'altronde, l'ampia autonomia regionale in materia di ordinamento
degli uffici e dello stato giuridico del proprio personale e' stata
riconosciuta dalla stessa Corte costituzionale anche nella
sussistenza del regime previgente (sentt. nn. 10/1980, 277/1983,
278/1983, 772/1988, ordinanza n. 515/2002) e a maggior ragione tale
potesta' deve essere, dunque, affermata oggi.
Ne consegue la palese illegittimita' costituzionale dei vincoli e
dei limiti in ordine alla assunzione e reclutamento del personale
introdotti dalla disposizione in esame, che esulano completamente dal
necessario idoneo titolo di competenza legislativa statale e la cui
illegittimita' non appare mitigata neppure dalla prevista emanazione
dei futuri decreti di recepimento di accordi, stabiliti in sede di
conferenza unificata, atteso che essi non valgono a sostituire e a
compensare una potesta' legislativa costituzionalmente attribuita
alle Regioni, sono solo eventuali (laddove l'eventualita' dipende
anzitutto dalla volonta' unilaterale dello Stato di accettare le
proposte delle Regioni), e comunque sono precedute ed eventualmente
sostituite da misure rigide e unilaterali.
Oltre a cio' tali vincoli appaiono anche privi di ragionevolezza,
posto che dal punto di vista delle Regioni, chiamate a svolgere
ulteriori funzioni od a gestire tutte quelle trasferite, non appare
logico vincolare la dotazione oganica a quella in essere al 31
dicembre 2002, cosi' come non e' ragionevole in un'ottica di
nccessario completamento del processo di decentramento che sia
autoritativamente ed unilateralmente sancito il blocco delle
assunzioni, in attesa dei previsti decreti.
Cio' tanto piu' che la Regione Emilia-Romagna e' in grado di
provvedere autonomamente al contenimento della propria spesa per il
personale, coma ha dimostrato approvando, con la legge n. 4/2003
(«Disposizioni in materia di dotazioni organiche e di copertura di
posti vacanti per l'anno 2003») una disciplina rivolta «al fine di
concorrere al contenimento della spesa pubblica e all'ottimizzazione
dell'utilizzo del personale nelle pubbliche amministrazioni», e
quindi alla razionalizzazione della spesa inerente al personale e
alla salvaguardia delle politiche di copertura dei posti vacanti in
riferimento alle risorse professionali necessarie per il
raggiungimento delle finalita' dell'Ente. Nulla giustifica, in un
sistema di regionalismo maturo e responsabile, che lo Stato mantenga
un atteggiamento tutorio nei confronti delle Regioni, anche di quelle
che mostrano di saper gestire responsabilmento la propria
amministrazione.
Ne consegue un'evidente lesione di prerogative ed esigenze
costituzionalmente riservate alla competenza regionale e non
giustificabili neppure sul piano della riserva statale connessa al
«sistema tributario e contabile dello Stato» (art. 117, secondo
comma, lett. e) o alla «armonizzazione dei bilanci pubblici e
coordimamento della finanza pubblica e del sistema tributario»
(art. 11, terzo comma), se e' vero che le disposizioni dianzi citate
non rappresentano «norme tese a realizzare effetti finanziari con
decorrenza dal primo anno considerato nel bilancio pluriennale» come
dispone la legge che disciplina i contenuti dello strumento
finanziario dello Stato, ma si risolvono piuttosto in misure
tipicamente organizzatorie, impropriamente assurte a livello di
disposizioni di contenimento della spesa, senza alcun rispetto delle
regole costituzionalmente fissate in relazione ai rispettivi ambiti
di autonomia e competenza.
10. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 75.
Secondo il comma 75 dell'art. 3 «ai fini del contenimento della
spesa pubblica, al personale appartenente alle amministrazioni di cui
all'art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e
successive modificazioni, che si reca in missione o viaggio di
servizio presso le istituzioni dell'Unione uropea, ovvero che
partecipi, in Europa o in Paesi extra-europei, a riunioni,
commissioni o a gruppi di lavoro, comunque denominati, nell'ambito o
per conto del Consiglio o di altra istituzione dell'Unione europea,
ad eccezione dei dirigenti di prima fascia e qualifiche equiparabili,
spetta il pagamento delle spese di viaggio aereo nella classe
economica». Tale norma, dunque, addirittura limita la possibilita'
per le Regioni (oltre che per gli altri enti pubblici) di rimborsare
le spese di viaggi aereo dei propri dipendenti che abbiano compiuto
determinate missioni, prevedendo il rimborso per la sola classe
economica.
Pare chiaro che non si tratta affatto di un «principio
fondamentale» in materia di coordinamento della finanza pubblica, ma
di una minutissima norma di dettaglio, palesemente lesiva
dell'autonomia legislativa e finaziaria delle Regioni.
I principi di coordinamento della finanza pubblica potranno
stabile dei criteri generali, dei parametri da rispettare, ma non
possono conportare, ad avviso della ricorrente Regione, la
sostituzione della valutazione dello Stato a quella della competente
Regione nel determinare, in relazione alla propria struttura di
funzionariato, alla distribuzione delle responsabilita' ed alla
situazione di bilancio, a quali dipendenti rimborsare quale classe di
viaggio nei diversi mezzi di trasporto.
11. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 3, commi 76, 77 e
82.
Il comma 76 dell'art 3 autorizza il Ministro del lavoro, nel
limite di 47,063 milioni di euro, «a prorogare, limitatamente
all'esercizio 2004, le convenzioni stipulate, anche in deroga alla
normativa vigente relativa al lavori socialmente utili, direttamente
con i comuni, per lo svolgimento di attivita' socialmente utili (ASU)
e per l'attuazione, nel limite complessivo di 20,937 milioni di euro,
di misure di politica attiva del lavoro, riferite a lavoratori
impiegati in ASU nella disponibilita' degli stessi comuni da almeno
un triennio, nonche' ai soggetti provenienti dal medesimo bacino,
utilizzati attraverso convenzioni gia' stipulate in vigenza
dell'articolo 10, comma 3, del decreto legislativo 1° dicembre 1997,
n. 468, per un periodo che, eventualmente prorogato, non ecceda i
sessanta mesi complessivi, al fine di una definitiva stabilizzazione
occupazionale».
Il comma 77 e' collegato al comma 76, disponendo che, «in
presenza delle convenzioni di cui al comma 76, il termine di cui
all'articolo 78, comma 2, alinea, della legge 23 dicembre 2000,
n. 388, e' prorogato al 31 dicembre 2004»: la disposizione richiamata
rinvia, in realta', ad un termine previsto da un'altra disposizione,
cioe' dall'art. 8, comma 3, d.lgs. n. 81/2000 («le risorse del fondo
di cui al comma 1 [cioe' del Fondo per l'occupazione], qualora
impegnate per attivita' socialmente utili, sono destinate al
pagamento del 100 per cento degli assegni e dei sussidi per il
periodo dal 1° gennaio 2000 al 31 ottobre 2000 e per l'ammontare del
50 per cento degli assegni e dei sussidi per i periodi dal 1°
novembre 2000 al 30 aprile 2001»).
A sua volta, il comma 82 autorizza «il Ministero del lavoro e
delle politiche sociali ... a stipulare ... direttamente con i comuni
nuove convenzioni per lo svolgimento di attivita' socialmente utili e
per l'attuazione di misure di politica attiva del lavoro riferite a
lavoratori impegnati in attivita' socialmente utili, nella
disponibilita', da almeno un quinquiennio, di comuni con meno di
50.000 abitanti».
Tali norme si collocano nell'ambito di materia di potenza
concorrente («tutela del lavoro») e attribuiscono al Ministero del
lavoro una funzione amministrativa (la proroga o la stipulazione di
convenzioni con i comuni) senza che sussista alcuna esigenza unitaria
e senza intesa con le Regioni, in violazione dell'art. 117, comma 3,
dell'art. 118 Cost. e dei principi fissati dalla sent. n. 303 del
2003.
Si tratta, in definitiva, di una forma di direzione
dell'attivita' dei comuni, il cui svolgimento da parte statale e' del
tutto ingiustificato sul piano costituzionale.
E' palese inoltre che la normativa che prevede tale attivita'
amministrativa non ha affatto carattere di norma di principio da
attuare da parte del legislatore regionale, e dunque si tratta di
norma che eccede la potesta' legislativa riconosciuta allo Stato in
materia.
Puo' essere qui opportuno ricordare che gia' al d.lgs. n. 469 del
1997 aveva conferito alle Regioni e agli enti locali, in attuazione
della legge n. 59 del 1997, «funzioni e compiti relativi al
collocamento e alle politiche attive del lavoro». In particolare,
alle Regioni erano stati attribuiti i compiti di «indirizzo,
programmazione e verifica dei lavori socialmente utili ai sensi delle
normative in mateia» (art. 2, comma 1, lett. f). Come riconosciuto
anche dalla giurisprudenza costituzionale (nelle sentt. n. 74 del
2001 e 125 del 2003), la ratio ispiratrice della delega di cui alla
legge Bassanini risiedeva «nell'esigenza di superare la dissociazione
tra le funzioni relative al collocamento e alle politiche attive del
lavoro - di spettanza statale - e le funzioni in materia di
formazione del lavoro di competenza regionale» (sent. n. 125 del
2003, punto 2 del Diritto).
Dunque, in un contesto costituzionale in cui le Regioni avevano
competenza solo in materia di formazione professionale, si era
comunque arrivati in applicazione del principio dl sussidiarieta' a
concentrare nelle Regioni quasi tutte le funzioni amministrative in
materia di mercato del lavoro.
A maggior ragione, nel contesto del nuovo Titolo V, la legge
statale non doveva assumere contenuti diversi dalla statuizione dei
principi fondamentali, ne' attribuire al Ministro, in assenza di un
fondamento costituzionale, compiti attinenti alla tutela del lavoro.
La gestione della «politica attiva del lavoro» spetta alle
Regioni: lo Stato dovrebbe preoccuparsi di finanziare «integralmente»
le funzioni regionali (art. 119, comma 4,Cost.) invece di impegnare
direttamente risorse per esercitare compiti la cui spettanza allo
Stato non trova alcun fondamento costituzionale.
Nel caso di specie, lo Stato doveva fissare i principi
fondamentali in relazione alle attivita' socialmente utili, restando
riservata alle Regioni l'emanazione di norme di dettaglio e la
stipulazione delle convenzioni con i comuni. Comunque, se anche si
ritenesse giustificata l'allocazione al centro della funzione in
questione, la norma risulta ilegittima per mancata previsione
dell'intesa con le Regioni, come del resto di qualunque forma di
coordinamento. Le Regioni vi sono semplicemente ignorate, come se
neppure esistessero.
12. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 92.
Il comma 92 dell'art. 3 dispone che «per l'attuazione del piano
programmatico di cui all'articolo 1, comma 3, della legge 28 marzo
2003, n. 53, e' autorizzata, a decorrere dall'anno 2004, la spesa
complessiva di 90 milioni di euro per i seguenti interventi: a)
sviluppo delle tecnologie multimediali; b) interventi di orientamento
contro la dispersione scolastica e per assicurare il diritto-dovere
di istruzione e formazione; c) interventi per lo sviluppo
dell'istruzione e formazione tecnica superiore e per l'educazione
degli adulti; d) istituzione del Servizio nazionale di valutazione
del sistema di istruzione».
In questi termini, la disposizione impugnata integra e
parzialmente modifica l'art. 1, comma 3, della legge n. 53 del 2003,
con cui il Governo veniva delegato ad emanare «norme generali
sull'istruzione e (su)i livelli esenziali delle prestazioni in
materia di istruzione e formazione professionale». Con quelle norme
veniva previsto altresi' che il Ministro dell'istruzione,
dell'universita' e della ricerca predisponesse, entro novanta giorni
dalla data di entrata in vigore della legge medesima, un piano
programmatico di interventi finanziari, da sottoporre
all'approvazione del Consiglio dei ministri, previa intesa con la
Conferenza unificata di cui al citato decreto legislativo n. 281 del
1997. Di questo piano programmatico venivano inicati undici
obiettivi, rinviando la relativa provvista finanziaria alle leggi
finanziarie dgli anni successivi (art. 7, comma 6).
Il piano programmatico - benche' annunciato dal Governo con un
comunicato del 12 settembre 2003
(http://www.istruzione.it/prehome/comunicati/2003/l20903.shtml) che
pero' si riferiva solo ad una bozza tecnica, priva di concreta
previsione finanziaria - non e' stato mai approvato.
La disposizione del comma 92 qui impugnata, interviene ora
autorizzando la spesa per l'attuazione di un piano inesistente, ma in
pratica disponendo il finanziamento di specifici interventi, che
selezionano solo alcuni degli obiettivi fissati dalla legge di
delega, e sicuramente toccano le attribuzioni regionali (nelle quali
ricadono, per esempio, gli interventi di orientamento contro la
dipersione scolastica e per assicurare la realizzazione del diritto -
dovere di istruzione di formazione, lett. b), e gli interventi per lo
sviluppo dell'istruzione e formazione tecnica superiore e per
l'educazione degli adulti, lett. c), appare illegittima in quanto,
anziche' assegnare i relativi fondi alle Regioni nel quadro delle
regole di cui all'art. 119 Cost., finanzia interventi settoriali
diretti - ed oltretutto unilateralmente decisi - in materia di
competenza «concorrente», vietati dal nuovo Titolo V secondo la
giurisprudenza consolidata di codesta Corte (cfr. sentt. 370/2003;
16/2004; 49/2004).
13. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 101.
Il comma 101 prevede che «nei limiti delle risorse preordinate
allo scopo dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali
nell'ambito del Fondo nazionale per le politiche sociali di cui
all'articolo 59, comma 44, della legge 27 dcembre 1997, n. 449, e
successive modificazioni, e detratte una quota fino a 20 milioni di
euro per l'anno 2004 e fino a 40 milioni di euro per ciascuno degli
anni 2005 e 2006 da destinare all'ulteriore finanziamento delle
finalita' previste dall'articolo 2, comma 7, della legge 27 dicembre
2002, n. 289, nonche' una quota di 15 milioni di euro per ciascuno
degli anni 2004, 2005 e 2006 da destinare al potenziamento
dell'attivita' di ricerca scientifica e tecnologica, lo Stato
concorre al finanziamento delle regioni che istituiscono il reddito
di ultima istanza quale strumento di accompagnamento economico ai
programmi di reinserimento sociale, destinato ai nuclei familiari a
rischio di esclusione sociale ed i cui componenti non siano
beneficiari di ammortizzatori sociali destinati a soggetti privi di
lavoro».
La disposizione e' lesiva delle attribuzioni regionali per
diversi profili. In primo luogo la norma impugnata dispone
unilateralmente del Fondo nazionale per le politiche sociali. Le sue
caratteristiche sono descritte nello stesso sito del Ministero del
lavoro e politiche sociali (http://www.welfare.gov.it): «Il Fondo
nazionale per le politiche sociali e' il principale strumento di
finanziamento delle politiche sociali italiane. Con il Fondo Sociale
si supera la logica delle singole leggi di settore, per concepire gli
interventi di politica sociale come azioni integrate, in un quadro di
coerenza, con le politiche sanitarie e socio lavorative.» Esso
infatti serve «a finanziare un sitema articolato di Piani Sociali
Regionali e Piani Sociali di Zona, che descrivono, per ciascun
territorio, una rete integrata di servizi alla persona rivolti
all'inclusione dei soggetti in difficolta', o comunque
all'innalzamento del livello di qualita' della vita».
Il Fondo e' stato oggetto di una lunga trattativa tra Stato e
Regioni, sfociata nell'accordo del 15 aprile 2003, recepito con il
decreto interministeriale del 18 aprile 2003. Con la disposizione
impugnata si scorporano dal Fondo, che di conseguenza viene
corrispondentemente ridotto, alcuni cospicui stanziamenti destinati a
sostenere specifiche linee di intervento, genericamente riferibili
alle politiche sociali, disposte unilateralmente dal Governo. Palese
e' percio' la violazione dell'autonomia finanziaria regionale,
garantita dall'art. 119 Cost., e del principio di leale
collaborazione.
In secondo luogo, la disposizione distoglie dal Fondo nazionale
per le politiche sociali uno stanziamento cospicuo (20 milioni di
euro per il 2004, il doppio per ciascuno degli anni successivi) per
aumentare consistentemente lo stanziamento entro il quale possono
essere concessi contributi finalizzati alla riduzione degli oneri
effettivamente rimasti a carico per l'attivita' educativa di altri
componenti del medesimo nucleo familiare presso scuole paritarie
(attualmente lo stanziamento e' fissato in Euro 30.000.000). La norma
impugnata riduce percio' le risorse trasferite alle Regioni, per
sostenere viceversa interventi diretti dello Stato (come risulta dal
d.m. 28 agosto 2003, attuativo dell'art. 2, comma 7, legge n. 289 del
2002) - gia' contestati dalla Regione Emilia-Romagna - in materia che
e' in parte di competenza residuale delle Regioni («diritto allo
studio»), salva la definizione con legge dello Stato dei ªlivelli
essenziali», in parte di competenza concorrente («istruzione»).
Non varrebbe obiettare che la norma in questione risulti
confermativa, sotto il profilo della ripartizione di risorse e di
competenze, della norma contenuta nella legge finanziaria 2003. La
giurisprudenza consolidata di codesta Corte, infatti, ha chiarito che
le leggi, per propria natura, a differenza degli atti amministrativi,
sono sempre intrinsecaniente «nuove», e dunque sempre impugnabili (v.
ad es. sentt. nn. 30/1957, 44/1957, 47/1959, 63/1959, 3/1964,
19/1970, 171/1971, 49/1987, 381/1990, 224/1994, e l'ord.
n. 1035/1988), senza che si possa invocare il loro carattere
ripetitivo o confermativo (a parte il fatto che l'incremento del
finanziamento gestito dal centro sarebbe comunque elemento decisivo
per concretizzare la lesione dell'autonomia regionale).
Come detto sopra, nelle materie di competenza regionale lo Stato
non ha piu' da erogare ulteriori risorse per contributi relativi a
specifici ambiti, ma deve invece stabilire le regole per il
finanziamento «integrale» (art. 119, comma 4) delle funzioni
regionali, nell'esercizio delle quali, poi, le Regioni potranno
scegliere se ed in quale misura dare i contributi in questione, entro
i limiti di legislazione statale eventualmente previsti per la
specifica materia.
Ne deriva la lesione sia delle attribuzioni legislative e
amministrative delta Regione, sia della sua autonomia finanziaria:
l'ulteriore finanziamento di un fondo settoriale in materia
regionale, gestito dal centro, costituisce violazione dell'art. 117,
comma 4, 118 e 119 Cost.
Anche qualora poi inopinatamente si ravvisasse una qualche
esigenza unitaria a fondamento della eccezionale gestione centrale
dell'ulteriore finanziamento disposto dal comma 101, tale norma
sarebbe sempre illegittima per la mancata previsione di meccanismi di
coordinamento con le Regioni.
In terzo luogo la norma impugnata distoglie dallo stesso Fondo
nazionale per le politiche sociali 15 milioni di euro per ciascuno
degli esercizi del triennio 2004/2006 per interventi genericamente
destinati «al potenziamento dell'attivita' di ricerca scientifica e
tecnologica». Anche in questo caso si ricade in materia rientrante
nelle competenze «concorrenti», nelle quali non e' consentito allo
Stato di intervenire con misure unilaterali e per di piu' indefinite,
anziche' con norme di principio e con il pieno coinvolgimento delle
Regioni.
In quarto luogo, la disposizione in questione introduce il
«reddito di ultima istanza», destinato ai nuclei famigliari a rischio
di esclusione e privi di altri ammortizzatori sociali, sostituendo le
precedenti misure sperimentali, previste dal Fondo per le politiche
sociali, per il reddito minimo di inserimento.
La norma, dunque, interviene nella materia delle politiche
sociali. La stessa formulazione della disposizione riconosce la
competenza regionale - dato che il concorso statale e' collegato
all'eventuale decisione della Regione di istituire il «reddito di
ultima istanza» - e dimostra che la materia non puo' essere
ricondotta ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i
diritti sociali.
E' fuori questioni l'opportunita' di una politica di sostegno
delle famiglie che si trovano sotto il livello di poverta' in un
frangente cosi' grave di crisi economica e sociale, ma cio' non
impedisce di censurare la norma in questione sia per l'evidente
violazione del riparto di attribuzioni (poiche' lo Stato interviene
con disposizioni di dettaglio anziche' attraverso la fissazione dei
livelli essenziali delle prestazioni pubbliche) e del principio di
leale collaborazione (dato che le nuove misure, assunte
unilateralmente, sostituiscono quelle previste dall'intesa tra Stato
e regioni), sia - e soprattutto - per la patente violazione
dell'autonomia finanziaria regionale.
Lo Stato infatti prevede specifiche forme di intervento che le
Regioni dovrebbero attivare «nei limiti delle risorse preordinate dal
Ministro del lavoro e delle politiche sociali», sempre nell'ambito
del gia' decurtato Fondo nazionale per le politiche sociali (da cui -
come si e' visto - vengono distolti i finanziamenti per interventi
specifici). Come codesta Corte ha piu' volte affermato, l'attuale
art. 119 Cost. non consente allo Stato di disporre interventi
specifici in materie che non appartengono alla sua potesta'
esclusiva, ma riguardano ambiti di competenza regionale, solo con
risorse aggiuntive e per finalita' perequative (cfr. sentt. 370/2003;
16/2004; 49/2004). Non solo qui non vi e' previsione alcuna di
risorse aggiuntive, ma e' del tutto negato lo scopo perequativo.
Infatti, come da piu' parti e' stato subito evidenziato, il
meccanismo di «cofinanziamento» previsto dalla disposizione impugnata
fa si' che solo le Regioni piu' ricche saranno in grado di introdurre
il reddito di ultima istanza, mentre le Regioni con reddito minore
saranno penalizzate dalle loro basse capacita' impositive.
L'aggiramento delle procedure di leale collaborazione, attraverso
decisioni centralistiche unilaterali, ha prodotto di conseguenza una
norma che, oltretutto, e' palesemente affetta da intrinseca
irragionevolezza.
Precisato cio', ne risulta che la norma prevede un finanziamento
«speciale» alle Regioni, condizionato ad una, loro iniziativa di
politica sociale, disciplinata dallo stesso comma 101. Dunque, in una
materia di competenza regionale, lo Stato prevede un finanziamento
vincolato ad una specifica destinazione a favore non di determinate
Regioni (come richiede l'art. 119, comma 5, Cost.) ma della
generalita' delle Regioni, violando la loro autonomia finanziaria
(come riconosciuto dalla sent. n. 370 del 2003). Si noti che il fatto
che il finanziamento statale sia rimesso all'iniziativa regionale non
fa venir meno la lesione: l'art. 119, comma 4, richiede che le
funzioni attribuite alle Regioni siano finanziate «integralmente» con
i meccanismi di cui ai commi 2 e 3 del medesimo art. 119, che non
consentono vincoli di destinazione apposti al trasferimento delle
risorse. Prevedendo un concorso statale all'iniziativa regionale, lo
Stato condiziona illegittimamente l'autonomia finanziaria regionale,
«indirizzando» le politiche di spesa al di fuori delle regole della
propria potesta' legislativa.
E' poi lesa anche l'autonomia legislativa regionale, dato che, in
materia rientrante nell'art. 117, comma 4, lo Stato interviene
attraverso la disciplina dell'attivita' che la Regione dovrebbe
compiere per usufruire del concorso statale alla spesa.
14. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 3, commi da 108 a
115.
Le disposizioni impugnate disciplinano interventi finanziari per
l'attuazione di programmi finalizzati alla costruzione e al ricupero
di unita' immobiliari nei comuni ad alta densita' abitativa,
destinate ad essere locate con contratti a canone speciale. La
materia dell'edilizia pubblica non e' di facile collocazione: il
decreto del Presidente della Repubblica n. 616/1977 la collocava nel
Capo IV del Titolo V (Assetto ed utilizzazione del territorio),
disponendo un ingente trasferimento di funzioni amministrative alle
Regioni, comprensive della «funzione relativa alla determinazione dei
requisiti e dei prezzi massimi delle abitazioni» (art. 94).
Il d.lgs. 112/1998 la colloca nella Sezione III (Edilizia
residenziale pubblica) del Capo II (Territorio e urbanistica) del
Titolo III (Territorio ambiente e infrastrutture). In particolare,
l'art. 59 indica, quali funzioni mantenute allo Stato, «i compiti
relativi:
a) alla determinazione dei principi e delle finalita' di
carattere generale e unitario in materia di edilizia residenziale
pubblica, anche nel quadro degli obiettivi generali delle politiche
sociali;
b) alla definizione dei livelli minimi del servizio
abitativo, nonche' degli standard di qualita' degli alloggi di
edilizia residenziale pubblica;
c) al concorso, unitamente alle regioni ed agli altri enti
locali interessati, all'elaborazione di programmi di edilizia
residenziale pubblica aventi interesse a livello nazionale;
d) alla acquisizione, raccolta, elaborazione, diffusione e
valutazione dei dati sulla condizione abitativa; a tali fini e'
istituito l'Osservatorio della condizione abitativa;
e) alla definizione dei criteri per favorire l'accesso al
mercato delle locazioni dei nuclei familiari meno abbienti e agli
interventi concernenti il sostegno finanziario al reddito.».
Come si vede, gia' prima della riforma costituzionale del
Titolo V la materia era integralmente attribuita alla competenza
regionale, mentre allo Stato residuavano essenzialmente compiti di
disciplina di principio, di concorso nella programmazione di settore
e di definizione dei «livelli minimi del servizio abitativo».
La legge cost. 3/2001 non menziona l'edilizia residenziale
pubblica tra le materie in cui lo Stato possa rivendicare potesta'
legislativa di tipo esclusivo o concorrente. Nella sent. 362/2003,
codesta Corte ha affermato che la materia edilizia, al pari
dell'urbanistica, rientra nel governo del territorio: ma questa
affermazione, che guarda alla disciplina generale del processo
edificatorio, probabilmente non rende interamente ragione del
carattere «sociale» che e' implicito nel «servizio abitativo».
Tuttavia, anche se si volesse ritenere che, in base al «criterio
di prevalenza» (sent. 370/2003), l'edilizia residenziale debba
imputarsi alla materia «governo del territorio», le disposizioni in
questione risultano ad avviso della ricorrente Regione illegittime
per almeno due ordini di motivazioni.
In primo luogo, la legge statale interviene, in una materia
assegnata alla competenza concorrente, con disposizioni di dettaglio
(vedi i commi 112-115, in cui si introducono disposizioni puntuali
sulla stipula di convenzioni tra il comune e le imprese di
costruzione, sui requisiti di reddito, sulla dimensione massima degli
alloggi - introducendo limiti in se' irragionevoli, dato che non
tengono conto della dimensione del nucleo abitativo -, sulla durata
dei contratti di locazione e i loro rinnovi), anziche' con la sola
«determinazione dei principi fondamentali» (art. 117, comma 3, Cost.)
o attraverso la ben diversa attivita' di determinazione dei «livelli
essenziali» delle prestazioni del servizio abitativo.
In secondo luogo, viene istituito un Fondo speciale, gestito
dagli organi dello Stato (senza neppure prevedere meccanismi di
collaborazione con le Regioni), in violazione dei principi di
autonomia finanziaria sanciti dall'art. 119 Cost. Come codesta Corte
ha gia' avuto modo di affermare e di ribadire, dopo la riforma
costituzionale del titolo V non puo' essere piu' ammesso che lo Stato
istituisca, in materie di competenza regionale, fondi speciali
gestiti da organi riferibili allo Stato stesso, anziche' trasferire i
finanziamenti, senza vincolo di destinazione, alle Regioni e agli
enti locali. Infatti, «il nuovo art. 119 della Costituzione, prevede
espressamente, al quarto comma, che le funzioni pubbliche regionali e
locali debbano essere "integralmente" finanziate tramite i proventi
delle entrate proprie e la compartecipazione al gettito dei tributi
erariali riferibili al territorio dell'ente interessato, di cui al
secondo comma, nonche' con quote del "fondo perequativo senza vincoli
di destinazione", di cui al terzo comma». «Pertanto, nel nuovo
sistema, per il finanziamento delle normali funzioni di Regioni ed
Enti locali, lo Stato puo' erogare solo fondi senza vincoli specifici
di destinazione, in particolare tramite il fondo perequativo di cui
all'art. 119, terzo comma, della Costituzione» (sent. 370/2003).
Dal momento che l'attivita' dello speciale servizio pubblico
costituito dall'edilizia abitativa rientra palesemente nella sfera
delle funzioni proprie delle Regioni, la configurazione (nei
commi 108-110) di un fondo settoriale di finanziamento gestito dal
Governo viola in modo palese l'autonomia finanziaria sia di entrata
che di spesa delle regioni.
Un altro profilo di illegittimita' riguarda il comma 111, che
attribuisce al Ministro delle infrastrutture poteri di tipo
regolamentare di elevata discrezionalita' e rilevanza politica per la
determinazione delle agevolazioni fiscali che possono essere concesse
a favore degli investimenti (lett. a), e della misura in cui i
redditi derivanti dalla locazione concorrono a determinare la base
imponibile dei percettori (lett. b). Tale disposizione potrebbe
restare indenne da censure di incostituzionalita', per violazione del
limite che l'art. 117, comma 6, Cost. pone alla potesta'
regolamentare dello Stato, solo se fosse precisato che i contenuti
dei decreti ministeriali devono essere limitati agli aspetti
strettamente attinenti al regime fiscale riferibile al sistema
tributario e contabile dello Stato, senza in alcun modo debordare
intromettendosi nella disciplina dell'edilizia abitativa o nel
sistema dei tributi regionali e locali (cfr. per esempio sent.
376/2003): il fatto pero' che i decreti debbano essere emanati dal
Ministro «competente per materia» (Ministro delle infrastrutture e
dei trasporti), sia pure in concerto con il Ministro dell'economia e
delle finanze, non sembra coerente con una lettura esclusivamente
«fiscale» dei contenuti dei decreti stessi.
Inoltre, il comma 111, quand'anche potesse essere assolto dalla
violazione della regola costituzionale sul potere regolamentare dello
Stato, non puo' superare la censura mossa per un altro profilo, cioe'
per la violazione del principio di leale collaborazione. Infatti il
costo delle misure unilateralmente decise dal Ministro, in base al
comma 111, va detratto dall'ammontare della dotazione finanziaria
prevista per il Fondo: l'ammontare del finanziamento delle funzioni
proprie delle Regioni e degli enti locali viene percio' determinato
«per sottrazione», per decisione unilaterale del Ministro, senza che
sia previsto alcun coinvolgimento delle Regioni e dei comuni, come e'
viceversa richiesto dal principio di leale collaborazione - principio
che, invece, da sempre caratterizzava fortemente la disciplina della
materia, nella quale le funzioni di programmazione erano incentrate
nel C.E.R., prima, e nella Conferenza Stato-Regioni e «unificata»,
poi.
15. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 3, commi 116 e 117.
Secondo il comma 116 dell'art. 3, «l'incremento della dotazione
del Fondo nazionale per le politiche sociali di cui all'art. 59,
comma 44, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, disposta per l'anno
2004 dall'art. 21, comma 6, del decreto-legge 30 settembre 2003,
n. 269, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003,
n. 326, come modificato dalla presente legge, deve essere utilizzato
nel medesimo anno 2004 per le seguenti finalita': a) politiche per la
famiglia e in particolare per anziani e disabili, per un importo pari
a 70 milioni di euro; b) abbattimento delle barriere architettoniche
di cui alla legge 9 gennaio 1989, n. 13, per un importo pari a 20
milioni di euro; c) servizi per l'integrazione scolastica degli
alunni portatori di handicap, per un importo pari a 40 milioni di
euro; d) servizi per la prima infanzia e scuole dell'infanzia, per un
importo pari a 67 milioni di euro».
Il comma 117 dispone inoltre che «gli interventi di cui alle
lettere c) e d) del comma 116, limitatamente alle scuole
dell'infanzia, devono essere adottati previo accordo tra i Ministeri
dell'istruzione, dell'universita' e della ricerca e del lavoro e
delle politiche sociali e le regioni».
La disposizione e' lesiva delle attribuzioni regionali perche'
anch'essa (come gia' il comma 101 dello stesso art. 3, censurato
sopra al punto 13+) dispone unilateralmente del Fondo nazionale per
le politiche sociali.
Con la disposizione impugnata si scorporano dal Fondo alcune
specifiche linee di finanziamento, vincolandone la destinazione ad
obiettivi scelti unilateralmente dal Governo. Palese e' percio' la
violazione dell'autonomia legislativa (non trattandosi di materia
concorrente, e in ogni caso non di un principio fondamentale di
materia) e finanziaria regionale, garantita dall'art. 119 Cost.,
nonche' del principio di leale collaborazione.
Infatti, come codesta Corte ha piu' volte affermato, negli ambiti
di competenza regionale, «nel nuovo sistema, per il finanziamento
delle normali funzioni di Regioni ed Enti locali, lo Stato puo'
erogare solo fondi senza vincoli specifici di destinazione, in
particolare tramite il fondo perequativo di cui all'art. 119, terzo
comma, della Costituzione.» (sent. 370/2003; cfr. anche sentt. 16 e
49/2004).
In conclusione, le disposizioni impugnate proseguono la
precedente - ma ora non piu' consentita - pratica di vincolo di fondi
destinati alle Regioni ai piu' dettagliati e precisi scopi
determinati dalla legge statale (su cui, cfr. sent. 16/2004) in
settori che rientrano nella competenza delle Regioni e in cui lo
Stato dovrebbe invece esercitare il suo potere-dovere di fissare,
esercitando la potesta' legislativa esclusiva - che gli e' assegnata
dalla lettera m) dell'art. 117, comma 2, Cost. - di fissare i livelli
essenziali delle prestazioni pubbliche; ma garantendo alle Regioni
l'integrale finanziamento delle loro funzioni pubbliche e senza
istituire fondi settoriali a destinazione vincolata (cfr. sent.
370/2003).
Il comma 117, poi, stabilendo che i servizi per l'integrazione
scolastica degli alunni portatori di handicap e per la scuola
d'infanzia «devono essere adottati previo accordo» tra ministeri
competenti e le Regioni, sembra voler imporre alle Regioni di
esercitare le proprie attribuzioni, non con la garanzia di una
definizione delle prestazioni essenziali da garantire compiuta dal
legislatore nazionale, ma attraverso il condizionamento da parte
degli organi politici o addirittura burocratici dello Stato,
mortificando l'autonomia legislativa ed amministrativa regionale che
gli articoli 117 e 118 della Costituzione non consentono.
16. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 4, commi da 1 a 6.
I commi dall'1 al 6 dell'art. 4 recano la previsione di
contributi agli utenti che acquistino o noleggino un apparecchio
«decoder» per fruire dei servizi televisivi in tecnica digitale
terrestre e per il collegamento «a banda larga» ad internet.
Anche se la rubrica dell'art. 4 - «Finanziamenti agli
investimenti» - potrebbe far pensare che le provvidenze previste
dalle disposizioni impugnate rientrino tra le misure di intervento
diretto sul mercato (misure che la sentenza n. 14 del 2004 di codesta
ecc.ma Corte ha riconosciuto che lo Stato puo' assumere nell'ambito
di una nozione dinamica di «concorrenza», in quanto «volte a ridurre
squilibri, a favorire le condizioni di un sufficiente sviluppo del
mercato o ad instaurare assetti concorrenziali»), in realta' si
tratta di misure rivolte ai soggetti comuni e non alle imprese, in
attuazione di una politica di favore per la diffusione di tecnologie
digitali. Non si tratta dunque di tutela della concorrenza, ma di
sostegno alla innovazione tecnologica. In tale ambito, spetta allo
Stato la legislazione di principio, ma spetta alle Regioni di
disporre in concreto la disciplina degli interventi e di provvedere
alla loro erogazione: tra l'altro, si tratta in concreto di una
miriade di «microinterventi», che non richiedono affatto una gestione
unitaria in sede nazionale.
Le stesse considerazioni varrebbero se si volessero ricondurre
gli interventi in questione alla materia «ordinamento della
comunicazione». Anche in questa infatti lo Stato dispone - come
codesta Corte ha gia' confermato con la sent. 324/2003 - di
competenza legislativa limitata alla legislazione di principio
preordinata alla cura di «esigenze unitarie».
Ricollocate quindi nel quadro della potesta' legislativa
concorrente, le disposizioni impugnate risultano illegittime per tre
diversi profili: perche' contengono disposizioni di dettaglio,
anziche' limitarsi alla disciplina di principio; perche' dispongono
finanziamenti diretti senza alcun coinvolgimento delle Regioni; ed
infine perche' attribuiscono, nel comma 4, al Ministro l'esercizio di
poteri regolamentari in ordine alla definizione dei criteri e delle
modalita' di attribuzione dei contributi, in violazione della regola
posta dall'art. 117, comma 6, Cost.
17. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 4, commi 9 e 10.
Il comma 9 dispone che «il Fondo di cui all'art. 27, comma 1,
della legge 27 dicembre 2002, n. 289» sia «destinato alla copertura
delle spese relative al progetto promosso dal Dipartimento per
l'innovazione e le tecnologie della Presidenza del Consiglio dei
ministri denominato "PC ai giovani", diretto ad incentivare
l'acquisizione e l'utilizzo degli strumenti informatici e digitali
tra i giovani che compiono 16 anni nel 2004, nonche' la loro
formazione», e che «le modalita' di attuazione del progetto, nonche'
di erogazione degli incentivi stessi», siano disciplinate «con
decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con
il Ministro per l'innovazione e le tecnologie, emanato ai sensi
dell'art. 27, comma 1, della legge 27 dicembre 2002, n. 289».
Il comma 10 dispone analogamente che il Fondo di cui al comma 9
sia «destinato anche, nel limite di 30 milioni di euro per l'anno
2004, all'istituzione di un fondo speciale, denominato "PC alle
famiglie", finalizzato alla copertura delle spese relative al
progetto promosso dal Dipartimento per l'innovazione e le tecnologie
della Presidenza del Consiglio dei ministri, diretto all'erogazione
di un contributo di 200 euro per l'acquisizione e l'utilizzo di un
personal computer con la dotazione necessaria per il collegamento ad
Internet, nel corso del 2004, da parte dei contribuenti persone
fisiche residenti in Italia con un reddito complessivo non superiore
a 15.000 euro, relativo all'anno d'imposta 2002». Secondo lo stesso
comma «con decreto di natura non regolamentare, adottato dal Ministro
per l'innovazione e le tecnologie, di concerto con il Ministro
dell'economia e delle finanze, entro trenta giorni dalla data di
entrata in vigore della presente legge, sono stabilite, entro i
limiti delle disponibilita' finanziarie di cui al primo periodo, le
modalita' di attuazione del progetto, di individuazione dei requisiti
reddituali e dei soggetti tenuti alla verifica dei predetti
requisiti, nonche' di erogazione degli incentivi stessi prevedendo
anche la possibilita' di avvalersi a tal fine della collaborazione di
organismi esterni alla pubblica amministrazione».
In pratica, il comma 9 estende ai giovani che compiono 16 anni
nel 2004 la disciplina prevista dall'art. 27, comma 1, legge n. 289
del 2002, gia' impugnato da questa Regione. Il comma 10, poi,
istituisce un altro «fondo speciale, denominato `PC alle famiglie»,
destinato ad erogare un contributo per l'acquisizione di un computer,
nel corso del 2004, da parte dei contribuenti il cui reddito non
superi una certa soglia.
Anche per il comma 10, le modalita' di attuazione sono rimesse ad
un decreto ministeriale «di natura non regolamentare».
Come gia' osservato nel ricorso n. 25/2003, l'intervento non
rientra in nessuna delle materie di cui all'art. 117, commi 2 e 3,
dato che il «sostegno all'innovazione» riguarda specificamente i
«settori produttivi» e l'«istruzione» (per quanto riguarda il
progetto PC ai giovani) potrebbe essere invocata solo se il progetto
venisse attuato in ambito scolastico, mentre i destinatari sono i
giovani in generale. Le disposizioni in questione, dunque, ricadono
nella competenza piena delle Regioni.
Ora, come gia' detto in altri punti, la gestione ministeriale di
un fondo settoriale in una materia regionale risulta lesiva
dell'autonomia finanziaria regionale. Risultano lese poi, di
conseguenza, le potesta' normative ed amministrative, in quanto le
norme impugnate disciplinano una materia regionale (anche in modo
dettagliato), conferiscono al Ministro poteri sostanzialmente
normativi ed al Dipartimento per l'innovazione poteri amministrativi
in materia regionale.
A conclusioni diverse non si arriverebbe qualora i commi 9 e 10
fossero ricondotti ad una materia di potesta' concorrente.
Ne' si puo' invocare il fatto che i commi 9 e 10 prevedano (il
comma 9 indirettamente, attraverso il richiamo dell'art. 27, comma 1,
legge n. 289 del 2002) decreti «di natura non regolamentare»: se per
le fonti primarie i criteri di identificazione sono prettamente
formali, per le fonti secondarie, come noto, si ricorre soprattutto a
criteri sostanziali, e la legge non puo' mutare la natura dell'atto
attribuendogli una certa denominazione, e meno ancora una
denominazione le cui stesse parole mostrano l'intento elusivo:
perche', se un atto contiene precetti generali e astratti, innovativi
dell'ordinamento, esso non puo' che essere sovraordinato (e cioe'
normativo) agli atti amministrativi esecutivi. E' evidente che a
nulla servirebbe l'art. 117, comma 6, se esso potesse essere aggirato
dalla legge statale che attribuisce poteri sostanzialmente normativi
al Governo o ai Ministri solo evitando il nomen di regolamento.
Al contrario, questo tentativo determina invece una doppia
illegittimita': per avere istituito poteri regolamentari, e per
averli qualificati, elusivamente, «non regolamentari».
In definitiva, i commi 9 e 10 risultano illegittimi nella parte
in cui prevedono un fondo settoriale in materia regionale,
attribuendo al Ministro e al Dipartimento per l'innovazione poteri
nominativi ed amministrativi relativi alla gestione del Fondo in
questione.
Se anche vi fossero eccezionali esigenze unitarie (che non vi
sono), essi sarebbero comunque illegittimi nella parte in cui non
prevedono che i poteri statali ivi previsti siano esercitati previa
intesa con la Conferenza Stato-Regioni.
18. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 4, commi 18 e 19.
In base al comma 18, «le risorse provenienti da iniziative di cui
all'art. 67, comma 1, della legge 28 dicembre 2001, n. 448, nonche'
quelle relative agli interventi di cui all'art. 11 del decreto-legge
8 luglio 2002, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge
8 agosto 2002 n. 178, accertate al 31 dicembre di ogni anno, sono
trasferite sullo stato di previsione del Ministero delle politiche
agricole e forestali, anche ai fini dell'attuazione dell'art. 66
della legge 27 dicembre 2002, n. 289». Dal comma 19 poi risulta che,
«nei limiti delle risorse rese disponibili di cui al comma 18, e in
base alle specifiche assegnazioni determinate annualmente ai sensi
dell'art. 11, comma 3, lettera f), della legge 5 agosto 1978, n. 468,
e successive modificazioni, il Ministro delle politiche agricole e
forestali sottopone all'approvazione del CIPE nuovi contratti di
programma nei settori agricolo e della pesca».
L'art. 67, comma 1, legge n. 448/2001, richiamato dal comma 18,
prevede che «i finanziamenti revocati dal Comitato interministeriale
per la programmazione economica (CIPE) ad iniziative di
programmazione negoziata nel settore agroalimentare e della pesca
sono assegnati al finanziamento di nuovi patti territoriali e
contratti di programma riguardanti il settore medesimo»; l'art. 11
d.l. n. 138/2002, anch'esso richiamato, disciplina Contributi per gli
investimenti in agricoltura.
L'art. 4, comma 19, dunque, prevede l'approvazione - da parte del
CIPE - di nuovi contratti di programma nei settori agricolo e della
pesca, cioe' in materie di competenza regionale (salve le
possibilita' di intervento statale derivanti dalle funzioni di cui
all'art. 117, comma 2). I contratti di programma cui fa riferimento
la norma impugnata trovano la loro definizione nell'art. 2, comma
203, lett. e), legge n. 662/1996.
Codesta Corte si e' gia' pronunciata sulla materia della
programmazione negoziata in agricoltura, con la sent. n. 14/2004,
dichiarando infondata la questione sollevata da alcune Regioni in
relazione all'art. 67 legge n. 448/2001. Questa disposizione, pero',
si distingue da quella impugnata proprio in relazione a quei tratti
che hanno costituito la ragione della sentenza di rigetto della
Corte. L'art. 67, oltre al comma 1 gia' citato, contiene il comma 2,
dal quale risulta che «con decreto del Ministro per le attivita'
produttive, di concerto con il Ministro delle politiche agricole e
forestali, sono predisposti contratti di programma ed emanati bandi
di gara per patti territoriali, attivabili e finanziabili su tutto il
territorio nazionale previa delibera del CIPE secondo gli
orientamenti comunitari in materia di aiuti di Stato per
l'agricoltura, nei limiti delle risorse rese disponibili attraverso
le revoche di cui al comma 1».
Codesta Corte ha osservato che: «la peculiarita' delle iniziative
promosse dallo Stato e' che i relativi contratti di programma e i
patti territoriali si riferiscono all'intero territorio nazionale,
nei limiti e nella misura in cui cio' sia reso possibile dalla
disciplina comunitaria», aggiungendo che «tali iniziative sono
infatti inserite nel quadro complessivo della programmazione
comunitaria degli aiuti con finalita' di coesione economico-sociale,
coinvolgono i rapporti dello Stato con l'Unione europea e richiedono
una visione degli assetti del mercato nazionale, del quale sono
intese a rafforzare l'efficienza»; percio' la disciplina di cui
all'art. 67 e' stata ascritta «alle funzioni legislative statali di
cui alla lettera e) dell'art. 117, secondo comma, Cost., e
segnatamente alla tutela della concorrenza, nel senso dinamico di cui
si e' detto, e alla perequazione delle risorse finanziarie».
Il rilievo decisivo della dimensione nazionale delle iniziative
di cui all'art. 67 e' confermato da un'ulteriore considerazione
svolta dalla Corte a sostegno della propria decisione. Essa ha
infatti precisato che «non rileva ai fini della presente decisione il
fatto che, successivamente, sotto la spinta di istanze
autonomistiche, i finanziamenti revocati dal CIPE debbano essere
utilizzati obbligatoriamente all'interno del territorio regionale e
non piu' sull'intero territorio nazionale (delibera CIPE 25 luglio
2003, n. 26/2003, adottata sulla base degli artt. 60 e 61 della legge
27 dicembre 2002, n. 289, e a seguito di accordo in sede di
Conferenza unificata del 15 aprile 2003 per il coordinamento della
regionalizzazione degli strumenti di sviluppo locale)», concludendo
«con tale nuova disciplina lo Stato ha scelto di non piu' esercitare
in questa materia quella funzione di riequilibrio generale di cui la
disposizione censurata era espressamente, senza che cio' comporti
l'illegittimita' della precedente opzione legislativa».
Per differenza, dunque, la sentenza ora ricordata ha affermato
che la disciplina di cui all'art. 67 non sarebbe stata legittima
nella prospettiva della regionalizzazione degli strumenti di
programmazione negoziata successivamente consolidatasi, ma che lo
stesso art. 67 andava giudicato di per se', a prescindere delle
vicende successive, e che esso era legittimo in quanto «i relativi
contratti di programma e i patti territoriali si riferiscono
all'intero territorio nazionale».
Ora, i commi 18 e 19 intervengono in questa complessa materia
sostituendo la competenza del Ministero delle politiche agricole a
quella del Ministero delle attivita' produttive e prevedendo che il
primo presenti al CIPE, per l'approvazione, nuovi contratti di
programma nei settori agricolo e della pesca. Nel nuovo contesto
della regionalizzazione degli strumenti di programmazione negoziata,
non si fa alcun cenno ad un essenziale «rilievo nazionale» delle
iniziative ma si continua a tener ferma la competenza degli organi
statali all'approvazione dei contratti di programma e all'erogazione
delle risorse finanziarie.
In assenza di quegli elementi «macroeconomici» che
caratterizzavano l'art. 67 legge n. 448/2001, la previsione di una
gestione centrale di risorse destinate al finanziamento di iniziative
nelle materie dell'agricoltura e della pesca risulta dunque
illegittima per violazione degli artt. 117, 118 e 119 Cost., in
quanto - come osservato per altre norme - in materie di competenza
regionale residuale spetta alla Regione decidere sulle politiche di
sostegno da adottare e allocare le relative funzioni amministrative,
sul presupposto del finanziamento integrale delle funzioni regionali
quale dovrebbe essere compiuto dalla Stato ex art. 119 Cost.
Ne' le norme impugnate si possono giustificare in virtu' del
principio di sussidiarieta', non ravvisandosi esigenze unitarie che
rendano necessaria la competenza statale in materia di approvazione e
finanziamento dei contratti di programma in materia di agricoltura e
pesca.
In subordine, qualora codesta Corte ritenesse applicabile il
principio di sussidiarieta', il comma 19 sarebbe pur sempre
illegittimo per la mancata previsione di un'intesa con le Regioni
interessate ai fini dell'approvazione dei contratti di programma.
19. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 4 commi 29 e 30.
Il comma 29 stabilisce che, «nelle more dell'adozione dei decreti
legislativi previsti dalle leggi 5 giugno 2003, n. 131, e 7 marzo
2003, n. 38, gli interventi in favore del settore ittico di cui alla
legge 17 febbraio 1982, n. 41, sono realizzati dallo Stato, dalle
regioni e dalle province autonome limitatamente alle rispettive
competenze previste dalla Parte IV del VI Piano nazionale della pesca
e dell'acquacoltura adottato con decreto del Ministero delle
politiche agricole e forestali 25 maggio 2000, pubblicato nel
supplemento ordinario nella Gazzetta Ufficiale n. 174 del 27 luglio
2000».
Il comma 30, del canto suo, prevede che, «entro il 28 febbraio
2004, in attuazione di quanto previsto al comma 29 e in deroga alle
disposizioni di cui agli artt. 1 e 2 della legge 17 febbraio 1982,
n. 41, e successive modificazioni, con decreto del Ministro delle
politiche agricole e forestali e' approvato il Piano nazionale della
pesca e dell'acquacoltura per l'anno 2004».
L'art. 1 legge n. 41/1982, Piano per la razionalizzazione e lo
sviluppo della pesca marittima, stabilisce, nel contesto del vecchio
Titolo V della Costituzione, che, «al fine di promuovere lo
sfruttamento razionale e la valorizzazione delle risorse biologiche
del mare attraverso uno sviluppo equilibrato della pesca marittima,
il Ministro della marina mercantile, tenuto conto dei programmi
statali e regionali anche in materie connesse, degli indirizzi
comunitari e degli impegni internazionali, adotta con proprio decreto
il piano nazionale degli interventi previsti dalla presente legge»,
aggiungendo che «tale piano, di durata triennale, e' elaborato dal
Comitato nazionale per la conservazione e la gestione delle risorse
biologiche del mare, istituito ai sensi del successivo art. 3, ed
approvato dal CIPE».
In attuazione di questa disposizione, con diversi decreti
ministeriali sono stati adottati vari triennali della pesca, fino al
d.m. 25 maggio 2000, Adozione del VI Piano nazionale triennale della
pesca e dell'acquacoltura 2000-2002. La parte IV di questo decreto
riguarda il Bilancio preventivo e contiene la «ripartizione delle
risorse finanziarie tra interventi gestiti dallo Stato ed interventi
gestiti dalle Regioni». Fra gli interventi gestiti dallo Stato
rientrano quelli concernenti: il Fondo centrale credito peschereccio,
i Contribuiti a fondo perduto per Osservatorio del lavoro, il
Contributo a fondo perduto per iniziative associazionismo, i
Contributi per incentivi alla cooperazione, la Ricerca applicata alla
pesca e acquicoltura, le Campagne di educazione alimentare, gli
Interventi sul sistema statistico, il Funzionamento degli organi
collegiali, le Missioni all'estero, le Iniziative a sostegno
dell'attivita' ittica, il Controllo attivita' di pesca da parte delle
Capitanerie di porto, il Fondo di solidarieta', gli Studi di mercato
(ISMEA), la Commissione per la sostenibilita' (INEA).
E' opportuno segnalare che l'art. 69, comma 14, legge n. 289/2002
ha prorogato il piano in questione fino al 31 dicembre 2003.
Dunque, l'art. 4, comma 29, recepisce (con un rinvio «fisso») la
ripartizione di competenze fra Stato e Regioni operata dal d.m. 25
maggio 2000 (scaduto, come detto, il 31 dicembre 2003) nel contesto
del vecchio Titolo V della Costituzione, che attribuiva alla
competenza regionale solo la «pesca nelle acque interne».
Inevitabilmente, dunque, il comma 29 non e' coerente con il nuovo
quadro costituzionale, nell'ambito del quale (salvi i titoli di
intervento di cui all'art. 117, comma 2) lo Stato puo' svolgere e
regolare funzioni amministrative nelle materie di competenza
regionale (come la pesca e anche la ricerca e l'educazione
alimentare) solo qualora cio' sia reso necessario dal principio di
sussidiarieta'. Ma, recependo in modo tralaticio la ripartizione
operata dal d.m. 25 maggio 2000, la legge n. 350/2003 non ha affatto
compiuto le valutazioni rese necessarie dagli artt. 117 e 118 Cost.,
attribuendo allo Stato competenze rientranti in materie regionali, in
assenza di esigenze unitarie. In particolare, ricadono - piu'
chiaramente degli altri - nelle materie di competenza regionale di
cui all'art. 1l7, comma 3 e 4 gli interventi riguardanti i Contributi
a fondo perduto per Osservatorio del lavoro, il Contributo a fondo
perduto per iniziative associazionismo, i Contributi per incentivi
alla cooperazione, la Ricerca applicata alla pesca e acquicoltura, le
Campagne di educazione alimentare, le Iniziative a sostegno
dell'attivita' ittica, il Controllo attivita' di pesca da parte delle
Capitanerie di porto, il Fondo di solidarieta', gli Studi di mercato
(ISMEA) e la Commissione per la sostenibilita' (INEA).
In subordine, qualora codesta Corte ravvisi esigenze unitarie,
permanenti o transitorie, a sostegno di queste competenze statali, il
comma 29 sarebbe comunque illegittimo per la mancata previsione
dell'intesa con le Regioni.
Quanto al comma 30, esso prevede una procedura speciale di
approvazione del Piano nazionale della pesca per il 2004: le
particolarita' sembrano consistere nella sufficienza del solo decreto
ministeriale e nella durata annuale del piano. Anche ammettendo che
per l'approvazione del Piano nazionale possa essere giustificata la
competenza statale, la norma risulta illegittima per la mancata
previsione dell'intesa con le Regioni interessate, ai sensi della
sent. n. 303/2003.
20. - Illegittimita' costituzionale dei commi 61 e 63
dell'art. 4.
Il comma 61 dell'art. 4 dispone che «e' istituito presso il
Ministero delle attivita' produttive un apposito fondo con dotazione
di 20 milioni di euro per il 2004, 30 milioni di euro per il 2005 e
20 milioni di euro a decorrere dal 2006, per la realizzazione di
azioni a sostegno di una campagna promozionale straordinaria a favore
del «made in Italy», anche attraverso la regolamentazione
dell'indicazione di origine o l'istituzione di un apposito marchio a
tutela delle merci integralmente prodotte sul territorio italiano o
assimilate ai sensi della normativa europea in materia di origine,
nonche' per il potenziamento delle attivita' di supporto formativo e
scientifico particolarmente rivolte alla diffusione del «made in
Italy» nei mercati mediterranei, dell'Europa continentale e
orientale, a cura di apposita sezione dell'ente di cui all'art. 8 del
decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 287, collocata presso due
delle sedi periferiche esistenti, con particolare attenzione alla
naturale vocazione geografica di ciascuna nell'ambito del territorio
nazionale».
La disposizione prosegue poi specificando che «a tale fine, e per
l'adeguamento delle relative dotazioni organiche, e' destinato
all'attuazione delle attivita' di supporto formativo e scientifico
indicate al periodo precedente un importo non superiore a 5 milioni
di euro annui».
Complessivamente, dunque, il comma 61 dispone interventi a
sostegno della commercializzazione dei prodotti italiani, ed in
particolare, esso istituisce presso il Ministero delle attivita'
produttive un Fondo destinato:
a) alla realizzazione da parte del Ministero stesso di
«azioni a sostegno di una campagna promozionale straordinaria a
favore del «made in Italy», anche attraverso la regolamentazione
dell'indicazione di origine o l'istituzione di un apposito marchio a
tutela delle merci integralmente prodotte sul territorio italiano o
assimilate ai sensi della normativa europea in materia di origine».
Questa previsione e' completata dal comma 63, a termini del quale «le
modalita' di regolamentazione delle indicazioni di origine e di
istituzione ed uso del marchio di cui al comma 61 sono definite con
regolamento emanato ai sensi dell'art. 17, comma 2, della legge
23 agosto 1988, n. 400, su proposta dal Ministro delle attivita'
produttive, di concerto con i Ministri dell'economia e delle finanze,
degli affari esteri, delle politiche agricole e forestali e per le
politiche comunitarie»;
b) al «potenziamento delle attivita' di supporto formativo e
scientifico particolarmente rivolte alla diffusione del «made in
Italy» nei mercati mediterranei, dell'Europa continentale e
orientale». Ma in pratica queste attivita' sono affidate alla Scuola
superiore dell'economia e delle finanze, che e' posta alle dirette
dipendenze del Ministro dell'economia e delle finanze. In essa deve
essere istituita un'apposita sezione collocata in due delle sedi
periferiche della scuola medesima, «con particolare attenzione alla
naturale vocazione geografica di ciascuna nell'ambito del territorio
nazionale». Un apposito finanziamento annuo di Euro 5 milioni e'
destinato alla Scuola per sostenere questa attivita'.
Si tratta dunque di due aspetti distinti: un'azione promozionale
e regolativa diretta del Ministero, e un finanziamento ad una
specifica istituzione statale di carattere formativo.
Quanto al primo aspetto (l'azione promozionale e regolativa
diretta del Ministero), la Regione Emilia-Romagna non contesta, su un
piano generale, ne' la legittimita' ne' l'opportunita' di iniziative
promosse dal Governo per il potenziamento delle attivita'
promozionali a favore dei prodotti nazionali, iniziative che ben
possono rientrare in quella «concezione dinamica» della competenza
statale in materia di «tutela della concorrenza» che giustifica, a
tenore della sent. 14/2004 di codesta Corte, l'impiego di «strumenti
di politica economica che attengono allo sviluppo dell'intero Paese»
ed interventi di rilevanza macroeconomica «finalizzati ad equilibrare
il volume di risorse finanziarie inserite nel circuito economico».
Tuttavia e' necessario considerare che gli interventi previsti
dalle disposizioni impugnate, per le loro stesse dimensioni
finanziarie, non si collocano in una dimensione macroeconomica, ne'
appaiono idonee «quanto ad accessibilita' a tutti gli operatori ad
impatto complessivo, ad incidere sull'equilibrio economico generale»
(cosi' ancora la sent. 14/2004). Si tratta piuttosto di interventi
che, impiegando il «criterio di prevalenza» indicato dalla sent.
370/2003, risultano ricadere piuttosto nella materia «commercio con
l'estero», attribuita dall'art. 117, comma 3, Cost. alla «potesta'
concorrente». Anche a riconoscere l'opportunita' che l'indicazione di
origine e l'istituzione di marchi che connotano i prodotti di
qualita' italiani siano regolati con criteri omogenei su tutto il
territorio nazionale, la disciplina contenuta nelle disposizioni
impugnate risulta tuttavia lesiva delle attribuzioni regionali sotto
almeno due profili.
In primo luogo, la previsione che le modalita' di
regolamentazione delle indicazioni di origine e di istituzione ed uso
del marchio made in Italy siano disciplinate con regolamento
governativo viola l'art. 117, comma 6, che circoscrive la potesta'
regolamentare dello Stato alle sole materie di cui all'art. 117,
comma 2, Cost. (cfr. le sentenze 303/2003 e 12/2004).
In secondo luogo, la previsione che la disciplina regolamentare
sia emanata con le forme proprie del regolamento governativo, su
proposta del Ministro delle attivita' produttive, di concerto con i
Ministri dell'economia e delle finanza, degli affari esteri, delle
politiche agricole e forestali e per le politiche comunitarie, senza
prevedere alcuna partecipazione delle Ragioni, lede il principio di
leale collaborazione che, per costante giurisprudenza di codesta
Corte (cfr. da ultimo le sentenze 303/2003 e 6/2004), comporta la
«necessaria previsione di idonee forme di intesa e collaborazione tra
il livello statale e i livelli regionali» ogniqualvolta lo Stato
agisca in materie non sue esclusive a tutela di esigenze unitarie.
Risulta inoltre lesiva delle attribuzioni regionali la previsione
del comma 61, laddove affida alla Scuola superiore dell'economia e
delle finanze «attivita' di supporto formativo e scientifico» rivolte
alla diffusione del «made in Italy».
Senza entrare nel merito delle competenza effettive di detta
Scuola a svolgere tali compiti, per i quali infatti e' previsto uno
stanziamento annuale aggiuntivo, non puo' trascurare che:
a) la formazione professionale rientra tra le materie di
competenza residuale delle Regioni, come chiaramente indicato dallo
stesso art. 117, comma 3, Cost., che espressamente la scorpora dalla
«istruzione»;
b) se l'attivita' formativa e di supporto scientifico in
questione deve ritenersi servente lo specifico oggetto della
disposizione, se ne deve dedurre che per essa si espande la
competenza concorrente in materia di «commercio con l'estero», con la
conseguenza che le Regioni non possono essere escluse da essa. Va
sottolineato, del resto, che gia' il decreto legislativo n. 112/1998,
all'art. 41, lett. g), ha trasferito alle Regioni l'organizzazione,
anche con l'ausilio dell'ICE, di corsi di formazione professionale,
tecnica e manageriale per gli operatori commerciali con l'estero;
c) la «ricerca scientifica e tecnologica» e il «sostegno
all'innovazione per i settori produttivi» e' anch'essa materia
concorrente.
Dunque, assegnare l'attivita' di formazione e di supporto
scientifico ad un soggetto posto alle dirette dipendenze del
Ministero, che dichiaratamente si pone quale «istituzione di alta
cultura, formazione e ricerca a vocazione generale che... agisce in
concorrenza con le altre istituzioni di formazione superiore» (in
questi termini la Scuola presenta se stessa nel proprio sito
www.ssef.it), costituisce una scelta che viola le attribuzioni
regionali in materia di commercio con l'estero o di
formazione professionale senza poter vantare alcun titolo
giustificativo costituzionale.
Si noti che la lesione delle competenze regionali non e'
attenuata, ma semmai resa piu' evidente, dalla prescrizione che la
Scuola svolga l'attivita' «presso due delle sedi periferiche
esistenti, con particolare attenzione alla naturale vocazione
geografica di ciascuna nell'ambito del territorio nazionale», quasi
che l'articolazione territoriale della Scuola possa soddisfare alle
esigenze di collegamento con il territorio, escludendo e surrogando
le Regioni.
21. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 4, commi 82 e 83.
Il comma 82 provede che «le disponibilita' del fondo di cui
all'art. 37 della legge 25 luglio 1952, n. 949, e successive
modificazioni, sono incrementate di 10 milioni di euro per l'anno
2004 per agevolare i processi di internazionalizzazione ed i
programmi di penetrazione commerciale promossi dalle imprese
artigiane e dai consorzi di esportazione a queste collegati». In base
al comma 83, «le modalita', le condizioni e le forme tecniche delle
attivita' di cui al comma 82 sono definite con decreto del Ministro
delle attivita' produttive di concerto con il Ministro dell'economia
e delle finanze, ai sensi dell'art. 21, comma 7, della legge 5 marzo
2001, n. 57.
L'art. 37 legge n. 949/1952 ha istituito un fondo per il concorso
nel pagamento degli interessi sulle operazioni di credito a favore
delle imprese artigiane. Benche' l'art. 21, comma 7, legge n. 57/2001
sia richiamato dal comma 83 e non dal comma 82, l'utilizzo del fondo
in questione per le finalita' indicate dal comma 82 era in realta'
gia' previsto, appunto, dall'art. 21, comma 7, legge n. 57/2001. Il
comma 82, dunque, non fa che perpetuare un intervento statale
previsto nella vigenza del vecchio Titolo V della Costituzione,
disponendo un intervento statale diretto a sostegno dei «processi di
internazionalizzazione» e dei «programmi di penetrazione commerciale»
promossi dalle imprese artigiane e dai consorzi di esportazione a
queste collegati.
L'artigianato, come noto, ricade nella potesta' piena delle
Regioni e gia' nel vigore del vecchio Titolo V le Regioni ricoprivano
un ruolo preminente nella materia in questione. Proprio in relazione
ai contributi a favore delle imprese artigiane, l'art. 12 d.lgs.
n. 112/1998 prevedeva che «le funzioni amministrative relative alla
materia "artigianato", cosi' come definita dall'art. 63 del decreto
del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616, comprendono
anche tutte le funzioni amministrative relative alla erogazione di
agevolazioni, contributi, sovvenzioni, incentivi e benefici di
qualsiasi genere, comunque denominati, alle imprese artigiane, con
particolare riguardo alle imprese artistiche». L'art. 13, poi,
conservava allo Stato solo «le funzioni attualmente previste
concernenti: a) la tutela delle produzioni ceramiche, in particolare
di quella artistica e di qualita', di cui alla legge 9 luglio 1990,
n. 188; b) eventuali cofinanziamenti, nell'interesse nazionale, di
programmi regionali di sviluppo e sostegno dell'artigianato, secondo
criteri e modalita' definiti con decreto del Ministro dell'industria,
del commercio e dell'artigianato, d'intesa con la conferenza
unificata». L'art. 14 precisava che «sono conferite alle regioni
tutte le funzioni amministrative statali concernenti la materia
dell'artigianato, come definita nell'art. 12, non riservate allo
Stato ai sensi dell'art. 13», e l'art. 15 ribadiva che «le regioni
provvedono all'incentivazione delle imprese artigiane, secondo quanto
previsto con legge regionale».
Il fatto che i contributi previsti dal comma 82 siano finalizzati
a sostenere i programmi di «internazionalizzazione» delle imprese
artigiane non implica affatto la competenza statale alla gestione e
alla regolazione del fondo. Il finanziamento statale non attiene allo
sviluppo «dell'intero Paese» (per usare un'espressione della sent.
n. 14/2004), riguardando i programmi elaborati da singole imprese
artigiane al fine di una loro maggiore «internazionalizzazione». E'
bene precisare che il rilievo «macroeconomico» di un intervento di
sostegno del mercato non sussiste solo per il fatto che l'intervento
afferisce ai rapporti internazionali, tanto e' vero che la materia
del «commercio con l'estero» e' attribuita alla competenza
concorrente di Stato e Regioni. L'intervento di sostegno, dunque,
puo' essere attratto alla competenza statale solo in presenza di
chiare caratteristiche «macroeconomiche», che nel caso di specie sono
assenti.
Sotto altro profilo, se la competenza statale ad un intervento si
giustificasse solo in virtu' del fatto che esso non ha una
delimitazione territoriale regionale, ne deriverebbe una
straordinaria confusione di ruoli, perche' le Regioni e lo Stato
farebbero le stesse cose, con duplicazioni e distorsioni delle
politiche. E' chiaro invece che gli interventi dello Stato devono
contrassegnarsi per caratteristiche tali che richiedano
necessariamente la dimensione statale.
Ne risulta che i commi 82 e 83, dunque, contemplano la gestione e
la regolazione statale di un finanziamento finalizzato al sostegno
delle imprese in materia regionale, in violazione degli articoli 117,
118 e 119 Cost. Si tratta di politiche di sostegno che possono e
devono essere decise e gestite a livello regionale, mancando (oltre
al carattere macroeconomico) qualsiasi esigenza unitaria. In
particolare, e' illegittima la previsione - da parte del comma 83 -
di un atto sostanzialmente regolamentare in materia di competenza
regionale piena (artigianato) o, al massimo, concorrente (commercio
con l'estero).
In subordine, qualora codesta Corte ritenesse che l'intervento
previsto dal comma 82 ha carattere macroeconomico, i commi 82 e 83
sarebbero comunque illegittimi per la mancata previsione di
meccanismi di coordinamento con le Regioni, perche', se anche risulta
invocabile la competenza statale in materia di «tutela della
concorrenza», cio' non toglie che le norme impugnate incidono su una
materia regionale e cio' rende necessario che le funzioni statali di
gestione e regolazione da esse previste siano svolte in modo da tener
conto del punto di vista della Regione e da coordinarsi con l'azione
che la Regione stessa svolge. A maggior ragione, naturalmente, cio'
varrebbe qualora si ritenesse insussistente il carattere
macroeconomico ma esistente una ipotetica esigenza unitaria, tale da
giustificare la gestione centrale del finanziamento (ma, comunque,
non la previsione del decreto sostanzialmente regolamentare).
22. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 4, commi 100, 101,
102.
Il comma 99 dell'art. 4 stabilisce che «in conformita' con il
principio di cui all'art. 34, terzo comma, della Costituzione, agli
studenti capaci e meritevoli, iscritti ai corsi di cui all'art. 3 del
regolamento di cui al decreto del Ministro dell'universita' e della
ricerca scientifica e tecnologica 3 novembre 1999, n. 509, possono
essere concessi prestiti fiduciari per il finanziamento degli studi».
Si tratta di una disposizione di per se' priva di contenuto
normativo, trattandosi di uno strumento di diritto comune in ogni
caso a disposizione delle politiche di assistenza agli studi
universitari.
Il vero contenuto normativo appare invece al successivo
comma 100, secondo il quale «e' istituito un Fondo finalizzato alla
costituzione di garanzie sul rimborso dei prestiti fiduciari concessi
dalle banche e dagli altri intermediari finanziari», il quale «puo'
essere utilizzato anche per la corresponsione agli studenti, privi di
mezzi, e agli studenti nelle medesime condizioni residenti nelle aree
sottoutilizzate di cui all'art. 61 della legge 27 dicembre 2002,
n. 289, di contributi in conto interessi per il rimborso dei predetti
prestiti fiduciari».
Il comma 101 dispone che tale Fondo sia «gestito da Sviluppo
Italia S.p.a. sulla base di criteri ed indirizzi stabiliti dal
Ministero dell'istruzione, dell'universita' e della ricerca, di
concerto con il Ministero dell'economia e delle finanze, sentita la
Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni o le
province autonome di Trento e di Bolzano». Il comma 103 stabilisce la
dotazione del Fondo in misura «pari a 10 milioni di euro per l'anno
2004», aggiungendo che «il Fondo puo' essere incrementato anche con i
contributi di regioni, fondazioni e altri soggetti pubblici e
privati».
Le disposizioni impugnate intervengono in materia di diritto allo
studio universitario, modificando la disciplina dei c.d. prestiti
d'onore gia' introdotta dalla legge 390/1991. Le funzioni
amministrative in materia di assistenza scolastica a favore degli
studenti universitari sono state conferite alle Regioni sin dal
d.P.R. 616/1977, il cui art. 44 ha disposto il trasferimento ad esse
delle funzioni gia' esercitate dalle Opere universitarie.
Oggi, dopo la riforma del titolo V, la materia e' di sicura
competenza «residuale» delle Regioni salvo, ovviamente, il potere -
dovere del legislatore statale di fissare i «livelli essenziali»
delle prestazioni pubbliche.
Ora, se pure si volesse affermare che la disciplina dei prestiti
d'onore sia configurabile come componente della definizione delle
prestazioni pubbliche che devono essere erogate senza
differenziazione territoriali agli studenti universitari che ne hanno
titolo, cio' non potrebbe comunque consentire che organi o organismi
statali si sostituiscano alle Regioni e alle loro strutture
nell'erogazione delle prestazioni; ne' potrebbe portare ad ammettere
che lo Stato istituisca, in materie di competenza regionale, fondi
speciali gestiti da organismi riferibili allo Stato stesso, anziche'
trasferire i finanziamenti, senza vincolo di destinazione, alle
Regioni.
Come codesta Corte ha gia' avuto modo di ribadire piu' volte, «il
nuovo art. 119 della Costituzione, prevede espressamente, al quarto
comma, che le funzioni pubbliche regionali e locali debbano essere
«integralmente» finanziate tramite i proventi delle entrate proprie e
la compartecipazione al gettito dei tributi erariali riferibili al
territorio dell'ente interessato, di cui al secondo comma, nonche'
con quote del `fondo perequativo senza vincoli di destinazione', di
cui al terzo comma». «Pertanto, nel nuovo sistema, per il
finanziamento delle normali funzioni di Regioni ed Enti locali, lo
Stato puo' erogare solo fondi senza vincoli, specifici di
destinazione, in particolare tramite il fondo perequativo di cui
all'art. 119, terzo comma, della Costituzione» (sent. 370/2003).
Dal momento che l'attivita' dello speciale servizio pubblico
costituito dall'assistenza scolastica agli studenti universitari
rientra palesemente nella sfera delle funzioni proprie delle Regioni,
la configurazione (nei commi 100-102) di un fondo settoriale di
finanziamento gestito da organismi dipendenti dallo Stato viola in
modo palese l'autonomia finanziaria sia di entrata che di spesa delle
regioni.
Inoltre, la previsione che il fondo sia gestito «sulla base di
criteri e indirizzi stabiliti dal MIUR, sentita la Conferenza
permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province
autonome di Trento e di Bolzano» (comma 101) risulta anch'essa
illegittima, per difetto di fondamento costituzionale di un potere di
indirizzo. In via interpretativa della Costituzione, l'art. 8,
comma 6, della legge n. 131 del 2003 ha stabilito che nelle materie
di potesta' legislativa regionale «non possono essere adottati gli
atti di indirizzo e di coordinamento».
Se pure potesse costituzionalmente esistere un simile potere, la
disciplina che ad esso viene data sarebbe in ogni modo illegittima,
sia perche' rinvia ad un atto ministeriale, anziche' ad un atto
collegiale del Governo, sia per il difetto di legalita' sostanziale
(essendo la fattispecie legislativa estremamente indeterminata), sia
per la mancata previsione dell'intesa con le Regioni (gia' a suo
tempo prescritta per gli atti di indirizzo e coordinamento dal d.lgs.
n. 281/1997).
Le stesse considerazioni varrebbero anche se la funzione di cui
si tratta venisse limitata alla determinazione dei «livelli
essenziali», in relazione ai quali, come la sent. n. 88/2003 di
codesta Corte ha affermato, si richiede «che queste scelte, almeno
nelle loro linee generali, siano operate dallo Stato con legge», ed
inoltre che essa debba «determinare adeguate procedure e precisi atti
formali per procedere alle specificazioni ed articolazioni ulteriori
che si rendano necessarie nei vari settori», nel rispetto del
principio di leale collaborazione, senza di cui sarebbe illegittima
«la compressione dei poteri delle Regioni e delle Province autonome».
E' palese inoltre che creazione di un fondo separato e la sua
gestione centrale, distinta dalla gestione delle politiche di
assistenza agli studi universitari viene a creare una distinta
politica di assistenza, che interferisce irragionevolmente con quella
delle Regioni e degli enti regionali o locali istituzionalmente
competente, creando sovrapposizioni e impedendo una gestione che
tenga conto di tutti gli aspetti dell'assistenza universitaria.
23. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 4, commi 106-111.
I commi dal 106 al 111 istituiscono e disciplinano un Fondo
rotativo nazionale per effettuare interventi temporanei di
potenziamento del capitale di imprese medio-grandi che presentino
nuovi programmi di sviluppo, anche attraverso la sottoscrizione di
quote di minoranze di fondi immobiliari chiusi che investono in esse.
Nonostante il riferimento alle imprese medio-grandi, la relativa
modestia delle risorse allocate per l'esercizio in corso e i vincoli
comunitari agli aiuti di Stato preludono ad un intervento di modesto
rilievo, tale da escludere, ad avviso della ricorrente Regione, che
esso possa essere classificato tra gli «strumenti di politica
economica che attengono allo sviluppo dell'intero Paese»,
«finalizzati ad equilibrare il volume di risorse finanziarie inserite
nel circuito economico» e giustificati per la loro «rilevanza
macroeconomia»: e solo in tale quadro - come ha affermato codesta
ecc.ma Corte nella sent. n. 14/2004 - «e' mantenuta allo Stato la
facolta' di adottare sia specifiche misure di rilevante entita', sia
regimi di aiuto ammessi dall'ordinamento comunitario (fra i quali gli
aiuti de minimis), purche' siano in ogni caso idonei, quanto ad
accessibilita' a tutti gli operatori ed impatto complessivo, ad
incidere sull'equilibrio economico generale».
Tuttavia, anche se la previsione di interventi siffatti si
potesse giustificare in nome della concezione «dinamica» delle
competenze statali in ordine alla «tutela della concorrenza», le
modalita' di gestione delle misure previste rimarrebbero censurabili
per lo spiccato carattere centralistico che esse presentano, in
quanto pretermettono totalmente le Regioni (esse sono citate
dall'art. 106 solo per concedere priorita' agli interventi da esse
cofinanziati).
Da un lato infatti, quanto alla programmazione degli interventi,
risulta lesiva del principio di leale collaborazione l'aver
attribuito al CIPE il compito di fissare, senza alcun concorso delle
Regioni, i criteri generali di valutazione e la durata massima di
essi (comma 110). Si noti che il fatto che allo Stato si (in ipotesi)
consentito di intervenire in base al titolo «trasversale» della
tutela della concorrenza non toglie minimamente che l'intervento si
riferisca ad ambiti materiali che fanno parte delle responsabilita'
proprie delle Regioni: di qui un «incrocio» di responsabilita' al
quale devono necessariamente corrispondere strumenti di concertazione
e di leale collaborazione tra lo Stato e le Regioni.
Tali strumenti erano presenti nella fattispecie esaminata dalla
sentenza n. 14 del 2004, e solo percio', ritiene la ricorrente
Regione, la sentenza stessa non ha avuto occasione di rilevarne la
necessita'.
Dall'altro lato, quello della gestione degli interventi, la
eventuale giustificazione dell'intervento statale, basata su un
titolo di competenza tratto dall'interpretazione estensiva dell'art
117, non esclude certo qualsiasi valutazione in termini di
ragionevolezza, congruita' e proporzionalita'. La stessa sentenza
n. 14/2004, all'opposto, richiede che le scelte dello Stato possano
essere sottoposte «ad un controllo di costituzionalita' diretto a
verificare che i loro presupposti non siano manifestamente
irrazionali e che gli strumenti di intervento siano disposti in una
relazione ragionevole e proporzionata rispetto agli obiettivi
attesi», poiche' «(q)uando venga in considerazione il titolo di
competenza funzionale di cui all'art. 117, secondo comma, lettera e),
Cost., che non definisce ambiti oggettivamente delimitabili, ma
interferisce con molteplici attribuzioni delle Regioni, e' la stessa
conformita' dell'intervento statale al riparto costituzionale delle
competenze a dipendere strettamente dalla ragionevolezza della
previsione legislativa».
Sotto questo profilo, risulta ingiustificata e lesiva delle
attribuzioni riconosciute alla Regione dall'art. 117 Cost. la
concentrazione della gestione degli interventi in Sviluppo Italia
S.p.a., che e' un'Agenzia nazionale per lo sviluppo che ha tra le sue
finalita' la «co-gestione» di funzioni pubbliche ed agisce tramite
una rete di Societa' regionali presenti in quasi tutte le regioni
(ma, tra l'altro, non in Emilia-Romagna). Sia il riparto delle
competenze che il principio di sussidiarieta' richiedono invece che
le funzioni di gestione ed attuazione degli interventi siano affidate
alla Regione, che vi provvedera' attraverso i propri strumenti di
intervento, tra i quali l'Ervet S.p.a.
24. - lllegittimita' costituzionale dell'art. 4, commi da 112 a
115.
Con le disposizioni impugnate, viene istituito un Fondo speciale
per l'incentivazione della partecipazione dei lavoratori nelle
imprese, che dovrebbe sostenere programmi finalizzati alla
partecipazione dei lavoratori ai risultati o alle scelte gestionali
delle imprese medesime. La gestione del Fondo e' affidata ad un
Comitato composto da esperti nominati in parte dal Ministero e in
parte dalle associazioni sindacali.
La materia nel cui ambito, usando «un criterio dl prevalenza»
(come suggerisce la sent. n. 370/2003), sembrano ricadere gli
interventi in questione e' la «tutela e sicurezza del lavoro», che
l'art. 117, comma 3, Cost. assegna alla potesta' concorrente.
In materie non «esclusive» dello Stato, anche qualora potessero
essere configurate esigenze unitarie che giustifichino l'intervento
legislativo dello Stato, il nuovo Titolo V vieta che lo Stato
istituisca fondi speciali, anziche' destinare le risorse alla finanza
regionale secondo i principi dell'art. 119 Cost.
Ancor piu' illegittimo appare che il fondo settoriale sia
affidato alla gestione statale, violandosi cosi sia la potesta'
legislativa regionale - che non avrebbe ovviamente modo alcuno di
esplicarsi - sia la propria potenziale titolarita' delle funzioni
amministrative.
Se pure una eccezionale gestione unitaria fosse giustificata - in
denegata ipotesi - da interessi indivisibili (che peraltro non sono
neppure affermati), la normativa risulterebbe comunque illegittima
per il mancato coinvolgimento delle Regioni secondo le modalita'
richieste dal principio di leale collaborazione (cfr. sent. n. 16 e
n. 49/2004).
Da qui deriva la violazione delle attribuzoni regionali,
garantite dall'art. 117, comma 3, Cost., nonche' del principio di
leale collaborazione.
25. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 4, comma 157.
Il comma 157 dell'art. 4 prevede tra l'altro che «per il
conseguimento dei risultati di maggiore efficienza e produttivita'
dei servizi di trasporto pubblico locale, e' istituito un apposito
fondo presso il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti» e che
«con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, sentita la
Conferenza unificata di cui all'art. 8 del decreto legislativo 28
agosto 1997, n. 281, sono stabilite le modalita' di riparto delle
risorse di cui al presente comma».
La disposizione e' censurabile in quanto istituisce un Fondo
ministeriale separato e con destinazione vincolata in materia di
competenza residuale delle Regioni.
Come codesta Corte ha ripetutamente affermato, nel nuovo sistema
della finanza regionale, tratteggiato dall'art. 119 Cost., per il
finanziamento delle normali funzioni di Regioni ed enti locali, lo
Stato non puo' proseguire nella pratica di trasferimento diretto di
risorse... per scopi determinati dalla legge statale, in base a
criteri stabiliti, nell'ambito della stessa legge,
dall'amministrazione dello Stato»; al contrario, «lo Stato puo' e
deve agire in conformita' al nuovo riparto di competenze e alle nuove
regole, disponendo i trasferimenti senza vincoli di destinazione
specifica, o, se del caso, passando attraverso il filtro dei
programmi regionali, coinvolgendo dunque le Regioni interessate nei
processi decisionali concernenti il riparto e la destinazione dei
fondi» (sent. n. 16/2004; negli stessi termini, cfr. sent. nn.
370/2003 e 49/2004).
Oltretutto, la previsione per cui le modalita' di riparto delle
risorse sono decise con decreto del Presidente del Consiglio dei
Ministri, «sentita la Conferenza unificata», non corrisponde alle ben
piu' intense modalita' di leale collaborazione («passando attraverso
il filtro dei programmi regionali, coinvolgendo dunque le Regioni
interessate nei processi decisionali concernenti il riparto e la
destinazione del fondi»: ancora sent. n. 16/2004) che devono essere
rispettate quando i trasferimenti non possono essere disposti senza
vincoli di destinazione specifica.
L'impugnazione non coinvolge i contributi disposti dal terzo
periodo del comma impugnato, in quanto essi costituiscono rimborso di
contributi non dovuti.
26. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 4, comma 159.
La disposizione impugnata prevede l'erogazione di contributi in
conto capitale per «il sostegno e l'ulteriore potenziamento
dell'attivita' di ricerca scientifica e tecnologica», rinviando la
determinazione delle misure dei contributi, della tipologia degli
interventi ammessi e dei destinatari ad un decreto del Presidente del
Consiglio dei Ministri.
Essa viola l'autonomia finanziaria che l'art. 119 Cost.
garantisce alla Regione, in quanto, in una materia - «ricerca
scientifica e tecnologica e sostegno all'innovazione per i settori
produttivi» - che l'art. 117, terzo comma, Cost. assegna alla
potesta' concorrente, vengono disposti interventi diretti che, secndo
la giurisprudenza consolidata di codesta Corte (cfr. sentt. nn.
370/2003; 16/2004; 49/2004), sono ammessi soltanto nelle materie di
competenza «esclusiva» dello Stato.
Se anche si dovesse ritenere che questi interventi, dei quali
nessun contorno e' in realta' definito nella previsione legislativa,
siano riconducibili a quelle forme di intervento economico diretto
alla politica di sviluppo che la sent. n. 14/2004 di codesta Corte ha
ritenuto di poter ricondurre agli interventi a «tutela della
concorrenza», rientranti nella potesta' esclusiva dello Stato,
evidente apparirebbe un diverso profilo di illegittimita': essendo la
fattispecie legislativa del tutto priva di elementi di
identificazione degli interventi finanziabili, la disposizione si
sottrae a quel controllo di ragionevolezza, congruita' e
proporzionalita' a cui, come sottolinea la citata sent. n. 14/2004,
gli interventi statali, che interferiscono con molteplici
attribuzioni delle Regioni, non possono sottrarsi.
L'indeterminatezza della legge si riflette percio' in
inammissibile pregiudizio per la garanzia costituzionale delle
attribuzioni regionali, senza neppure che a cio' si cerchi di porre
rimedio coinvolgendo le Regioni stesse nella individuazione delle
tipologie di intervento.
La copertura finanziaria di questi interventi, che l'art. 3,
comma 101, individua in stanziamenti distratti dal Fondo nazionale
per le politiche sociali, e' stata fatta oggetto di apposita
impugnativa (v. sopra, punto +).
27) Illegittimita' costituzionale dell'art. 4, comma 204.
Il comma 204 dell'art. 4 dispone che per «consentire lo
svolgimento dei propri compiti istituzionali, nonche' per il
finanziamento e il potenziamento dei programmi relativi allo sport
sociale, agli enti di promozione sportiva e' destinata la somma di un
milione di euro per l'anno 2004».
La promozione ed il sostegno dello sport costituiscono materia di
competenza regionale sia dal trasferimento compiuto dal d.P.R.
n. 616/1977. Nel vigente ordinamento costituzionale lo Stato ha
potesta' concorrente in materia di ordinamento sportivo ex art. 117,
comma 3, nei consueti limiti della normazione dei principi
fondamentali che sono propri della potesta' concorrente statale.
Pertanto e' illegittima la norma che dispone un finanziamento
diretto, da parte dello Stato, a favore degli enti di promozione
sportiva e per il potenziamento dei programmi relativi allo sport
sociale (entrambe materie di sicura competenza residuale regionale)
in quanto, come codesta Corte ha piu' volte affermato (cfr. sent. nn.
370/2003; 16/2004; 49/2004), gli interventi finanziari diretti in
materia di competenza non «esclusiva» dello Stato ledono l'autonomia
finanziaria della Regione.
Si tratta invece di risorse che vanno assegnate al sistema
regionale e locale secondo i principi dell'art. 119, Cost.
In ogni caso, costituirebbe ulteriore illegittimita' il difetto
di meccanismi di cooperazione e la mancata previsione dell'intesa con
le Regioni.
28. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 4, commi da 209 a
211.
Il comma 209 stanzia, «per gli interventi di cui all'art. 3 della
legge 16 marzo 2001, n. 88,.... la somma annuale di 10 milioni di
euro per ciascuno degli anni 2004, 2005 e 2006», e, «per gli
interventi di cui all'art. 2 della legge 28 dicembre 1999, n. 522,...
la somma annuale di 2 milioni di euro per ciascuno degli anni 2004,
2005 e 2006». L'art. 3 legge n. 88/2001 prevede che il Ministero dei
trasporti possa concedere un contributo «alle imprese armatoriali
aventi i requisiti di cui all'art. 143 del codice della navigazione
che effettuano gli investimenti di cui all'art. 1 della presente
legge». Gli investimenti in questione sono quelli rivolti al rinnovo
e all'ammodernamento della flotta.
Il comma 210 adegua, tenuto conto del comma 209, il termine
fissato nell'art. 1, comma 3, legge n. 88/2001 mentre il comma 211
dispone che con regolamento ministeriale «sono emanate disposizioni
attuative,... in particolare per determinare le condizioni ed i
criteri per la concessione dei contributi».
Dunque, siamo nuovamente in presenza di un intervento diretto
statale in materia di competenza regionale (residuale o, al massimo,
concorrente, qualora l'intervento in questione fosse ricondotto al
«sostegno all'innovazione per i settori produttivi»). Il legislatore
del 2003 reitera previsioni di interventi finanziari contenute in
leggi precedenti la legge cost. n. 3/2001 e che non sono piu'
compatibili con il nuovo quadro costituzionale.
Ne' sembra possibile invocare il carattere «macroeconomico»
dell'intervento statale, dato che si tratta di contributi concessi a
singoli armatori, «con l'obiettivo di assicurare lo sviluppo del
trasporto marittimo, in particolare del trasporto di merci e di
quello a breve e medio raggio, e la tutela degli interessi
occupazionali del settore». Dunque, le norme impugnate non hanno lo
scopo di accrescere la «competitivita' complessiva del sistema» ma
quello di incentivare una modalita' di trasporto rispetto alle altre
e dl sostenere l'occupazione nel settore. Si tratta, pero', di scelte
che, dopo il 2001, dovrebbero essere compiute dalle Regioni, o almeno
sviluppate dalle Regioni sulla base di principi fondamentali
stabiliti dalla legislazione statale.
Dunque, la previsione di un intervento finanziario a sostegno di
privati in materia regionale, gestito e regolato a livello
ministeriale, risulta in contrasto con gli articoli 117, 118 e 119
Cost., dovendo lo Stato finanziare «integralmente» le funzioni
regionali e spettando alle Regioni elaborare le proprie politiche di
sostegno e svolgere le relative funzioni.
Qualora, poi, in denegata ipotesi, si ravvisasse un'esigenza
unitaria a sostegno delle norme impugnate, esse sarebbero comunque
illegittime sia per la mancata previsione di un'intesa con le
Regioni, per lo svolgimento della funzione amministrativa (comma
209), sia per la previsione di un regolamento ministeriale (comma
211), escluso dall'art. 117, comma 6, Cost.
Si noti che perfino se si trattasse - come la ricorrente Regione
non ritiene - di interventi a tutela della concorrenza e della
competitivita' del sistema, rimarrebbe comunque che essi si collegano
con ambiti di materia di competenza regionale: dunque sarebbe
comunque necessario un rapporto di leale cooperazione, che dovrebbe
tradursi in strumenti di concertazione e di intesa, come accadeva
nella fattispecie che ha dato origine alla sentenza n. 14 del 2004.
29. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 4, commi da 215 a
217.
Secondo il comma 215 dell'art. 4, «al fine di sostenere le
attivita' dei distretti industriali della nautica da diporto e'
istituito nello stato di previsione del Ministero dell'economia e
delle finanze un apposito fondo con dotazione di un milione di euro
per l'anno 2004, un milione di euro per l'anno 2005 e un milione di
euro per l'anno 2006». Il comma 216, precisa che «il fondo di cui al
comma 215 e' destinato all'assegnazione di contributi, per
l'abbattimento degli oneri concessori, a favore delle imprese o dei
consorzi di imprese operanti nei distretti industriali dedicati alla
nautica da diporto, che insistono in aree del demanio fluviale o che
ospitano in approdo meno cinquecento posti barca», mentre il comma
217 precisa che «con decreto del Ministro dell'economia e delle
finanze, da adottare entro trenta giorni dalla data di entrata in
vigore della presente legge, sono individuate le aree di cui al comma
216 e sono definite le modalita' di assegnazione dei contributi».
Nonostante l'intervento finanziario finalizzato al sostegno delle
«attivita' dei distretti industriali della nautica da diporto» sia
presentato con un involucro che puo' far pensare ad un'azione
significativa sul mercato, tale da potersi giustificare, secondo le
indicazioni fornite dalla sent. 14/2004, secondo «quell'accezione
dinamica» delle «tutela della concorrenza», «che giustifica misure
pubbliche volte a ridurre squilibri, a favorire le condizioni di un
sufficiente sviluppo del mercato o ad instaurare assetti
concorrenziali», la reale consistenza, i contenuti e le modalita'
dell'intervento lo collocano in una prospettiva ben diversa.
Qui, infatti, non si tratta affatto di «unificare in capo allo
Stato strumenti di politica economica che attengono allo sviluppo
dell'intero Paese; strumenti che, in definitiva, esprimono un
carattere unitario e, interpretati gli uni per mezzo degli altri,
risultano tutti finalizzati ad equilibrare il volume di risorse
finanziarie inserite nel circuito economico»; ne' l'intervento
statale si giustifica «per la sua rilevanza macroeconomica», secondo
le indicazioni della citata sentenza.
L'esiguita' dello stanziamento disposto a carico dei bilanci
2004-2006 (un milione di euro per esercizio) e la limitazione
dell'intervento ai soli «distretti industriali» dedicati alla nautica
da diporto che corrispondano a due requisiti molto selettivi, cioe'
insistere «in aree di demanio fluviale» (con l'esclusione dunque di
gran parte degli insediamenti connessi alla nautica da diporto che
insistono sul demanio marittimo), ed ospitare in approdo almeno
cinquecento posti barca (e quindi con esclusione degli insediamenti
medio-piccoli), mostrano con chiarezza che l'intervento non rientra
affatto in quelle «specifiche misure di rilevante entita»,
accessibili «a tutti gli operatori» e di «impatto complessivo», atto
«ad incidere sull'equilibrio economico generale», secondo i criteri
enunciati dalla menzionata sentenza di codesta Corte.
Al contrario, i benefici diretti ad abbattere gli oneri di
concessione costituiscono interventi mirati, che costituiscono
null'altro che un privilegio per pochi operatori economici, la cui
identificazione e' riservata al Ministro dell'economia e delle
finanze: dunque, semmai una alterazione della concorrenza, e non
certo una sua tutela.
Del resto se, come e' stato autorevolmente sostenuto, la
concorrenza opera «come limite non solo della competenza legislativa
regionale.., ma anche della potesta' legislativa statale: nel senso
che il Parlamento dovra' trattare la concorrenza non come un fatto da
regolare (magari in modo restrittivo della sua portata), ma come un
valore o un bene o un fine da promuovere astenendosi dalle politiche
che indebitamente escludono o limitano la concorrenza» (G. Corso, La
tutela della concorrenza come limite della potesta' legislativa
(delle regioni e dello Stato), in Dir. pubbl. 2002, 3, 981 ss.),
allora la «tutela della concorrenza» non solo non puo' essere
invocata per giustificare interventi di settore cosi' specifici e
quasi «fotografati», ma e' anzi un parametro rispetto al quale la
disposizione impugnata si dimostra in grave difetto. Poiche' gli
interventi dello Stato nello sviluppo economico sono comunque
sottoposti a controllo di costituzionalita' diretto a verificare che
i loro presupposti non siano manifestamente irrazionali e che gli
strumenti di intervento siano disposti in una relazione ragionevole e
proporzionata rispetto agli obiettivi attesi», in questo caso pare
evidente che i benefici disposti costituiscono un'interferenza
illegittima in materie di competenza regionale (l'industria e il
turismo), perche' manca la «congruita' dello strumento utilizzato
rispetto al fine di rendere attivi i fattori determinanti
dell'equilibrio economico generale.».
A cio' si aggiunga che, se davvero l'intervento dello Stato a
favore di quegli indeterminati «distretti industriali» dovesse essere
giudicato conforme ai canoni di ragionevolezza prescritti da codesta
Corte, resterebbe pero' da rilevare che interventi finanziari
«speciali» dello Stato in materie di competenza regionale, sia
residuale che, eventualmente, concorrente, non possono attuarsi
direttamente, senza un coinvolgimento «forte» delle Regioni stesse,
come e' stato piu' volte ribadito dalle recenti decisioni di codesta
Corte (cfr. sent. n. 370/2003, sent. n. 16/2004 e n. 49/2004),
essendo evidente l'interferenza di questa specifica azione rispetto
alla politica di sostegno al turismo di cui sono responsabili le
Regioni.
30. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 4, comma 236.
Il comma 236 autorizza «le fondazioni IRCCS e gli IRCCS non
trasformati in fondazioni.., a procedere all'alienazione di beni
immobili del proprio patrimonio al fine di ripianare eventuali debiti
pregressi maturati fino al 31 ottobre 2003», stabilendo che «le
modalita' di attuazione sono autorizzate con decreto del Ministro
della salute, di concerto con il Ministro dell'economia e delle
finanze, nel rispetto della normativa generale sull'alienazione dei
beni immobili pubblici».
Gli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico operano
in ambiti di compenza regionale, soggetta a legisazione concorrente
statale per quanto riguarda i principi fondamentali. Si tratta di
enti che rientrano ormai nell'orbita regionale, e che del resto sono
da sempre collegati al sistema sanitario.
Ogni decisione sull'alienazione del patrimonio spetta dunque alle
Regioni. Il consentirlo o il vietarlo non costituisce certo principio
fondamentale della materia, trattandosi invece di una pura scelta di
gestione economica, suscettibile di influire sullo svolgimento del
servizio pubblico.
Ulteriormente illegittima e' la previsione che affida al Ministro
un potere regolamentare in materia.
Risultano dunque violati gli articoli 117, comma 3 e 6, nonche'
118, Cost.


P. Q. M.
La Regione Emilia-Romagna, come sopra rappresentata e difesa,
chiede voglia codesta ecc.ma Corte costituzionale accogliere il
ricorso, dichiarando l'illegittimita' delle disposizioni sopra
indicate, nei termini sopra esposti.
Padova-Bologna-Roma, addi' 23 febbraio 2004
Prof. avv. Giandomenico Falcon - Prof. avv. Franco Mastragostino -
Avv. Luigi Manzi


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