Ricorso n.36 del 21 giugno 2016 (del Presidente del Consiglio dei Ministri)
Ricorso per questione di legittimita' costituzionale depositato in cancelleria 21 giugno 2016 (del Presidente del Consiglio dei ministri).
(GU n. 33 del 2016-08-17)
Ricorso del Presidente del Consiglio dei Ministri, rapp.to e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato presso cui e' domiciliato in Roma, via dei Portoghesi n. 12; contro Regione Autonoma del Friuli Venezia Giulia in persona del Presidente pro tempore della Giunta regionale;
per la dichiarazione di illegittimita' costituzionale della legge regionale 8 aprile 2016 n. 4, pubblicata nel Bollettino Ufficiale della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia del 12 aprile 2016 n. SO 18, limitatamente agli articoli 1, 3, 9, 15, 19, 72 comma 1,
Fatto
La legge regionale in epigrafe detta «Disposizioni per il riordino e la semplificazione della normativa afferente il settore terziario, per l'incentivazione dello stesso e per lo sviluppo economico».
Limitatamente agli articoli indicati in epigrafe, la legge regionale e' costituzionalmente illegittima e, giusta delibera del Consiglio dei ministri del 31 maggio 2016, viene impugnata per i seguenti
Motivi
1. L'art. 1 della legge impugnata dispone:
«1. L'art. 29 della legge regionale 5 dicembre 2005, n. 29 (Normativa organica in materia di attivita' commerciali e di somministrazione di alimenti e bevande. Modifica alla legge regionale 16 gennaio 2002, n. 2 «Disciplina organica del turismo»), e' sostituito dal seguente:
«Art. 29 (Giornate di chiusura degli esercizi) - 1. L'esercizio del commercio al dettaglio in sede fissa e' svolto senza limiti relativamente alle giornate di apertura e chiusura, a eccezione dell'obbligo di chiusura nelle seguenti giornate festive: 1° gennaio, Pasqua, lunedi' dell'Angelo, 25 aprile, l° maggio, 2 giugno, 15 agosto, 1° novembre, 25 e 26 dicembre.».
2. Le disposizioni di cui all'art. 29 della legge regionale 29/2005, come sostituito dal comma 1, hanno efficacia dal 1° ottobre 2016.»
L'art. 3 della legge impugnata dispone:
«1. All'art. 30 della legge regionale n. 29/2005 sono apportate le seguenti modifiche:
a) il comma 1 e' sostituito dal seguente:
«1. Nei comuni classificati come localita' a prevalente economia turistica, gli esercenti determinano liberamente le giornate di chiusura degli esercizi di commercio al dettaglio in sede fissa, in deroga a quanto disposto dall'art. 29»;
b) il comma 2 e' abrogato;
c) al comma 3 dopo le parole «Lignano Sabbiadoro.» sono
aggiunte le seguenti:
«Con deliberazione della Giunta regionale, su domanda del Comune interessato, possono essere individuate ulteriori localita' a prevalente economia turistica, sulla base delle rilevazioni periodiche rese da PromoTurismo FVG.»».
Come emerge chiaramente dalla lettura congiunta delle disposizioni introdotte dagli articoli l e 3, la liberalizzazione dei giorni di apertura degli esercizi di commercio al dettaglio e' totale per i soli esercizi situati nei comuni classificati come comuni a prevalente economia turistica in base alla legge regionale n. 29/2005, che enumera tali comuni nell'art. 30 e, con le modifiche introdotte nel comma 3 dall'art. 3 della legge oggi impugnata, rimette a deliberazione della Giunta regionale l'individuazione di ulteriori comuni cosi' classificati.
Per gli esercizi di vendita al dettaglio situati in tutti gli altri comuni della regione, invece, la liberalizzazione dei giorni di apertura non e' totale, perche' la legge continua a prescrivere il divieto di apertura nei giorni festivi 1° gennaio, Pasqua, lunedi' dell'Angelo, 25 aprile, 1° maggio, 2 giugno, 15 agosto, 1° novembre, 25 e 26 dicembre.
1.1. Questa complessiva normativa viola l'art. 117 comma 2 lett. e), che riserva alla competenza esclusiva dello Stato la legislazione in materia di disciplina della concorrenza, e gli artt. 4 e 6 della legge costituzionale n. 1/63, recante lo Statuto della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, giusta i quali la regione ha potesta' legislativa esclusiva in materia di commercio (art. 4 n. 6), ma deve esercitare tale competenza «in armonia con la Costituzione, con i principi generali dell'ordinamento giuridico della Repubblica, con le norme fondamentali delle riforme economico-sociali e con gli obblighi internazionali dello Stato» (art. 4, comma 1); e puo' adeguare con norme integrative la legislazione statale alle proprie esigenze soltanto in materia di «1) scuole materne; istruzione elementare;
media; classica; scientifica; magistrale; tecnica ed artistica; 2) lavoro, previdenza e assistenza sociale; 3) antichita' e belle arti tutela del paesaggio, della flora e della fauna» (art. 6); quindi, non in materia di commercio.
La disciplina uniforme degli orari e dei giorni di apertura degli esercizi commerciali attiene, infatti, alla materia «trasversale» della concorrenza, di competenza esclusiva dello Stato; sicche' l'autonomia normativa regionale, neppure speciale, non puo' esercitarsi in modo da incidere su tale disciplina.
E' pacifico nella giurisprudenza di codesta Corte (si veda da ultimo Corte costituzionale n. 104/2014) che la nozione di concorrenza «riflette quella operante in ambito comunitario e comprende:
a) sia gli interventi regolatori che a titolo principale incidono sulla concorrenza, quali le misure legislative di tutela in senso proprio, che contrastano gli atti ed i comportamenti delle imprese che incidono negativamente sull'assetto concorrenziale dei mercati e che ne disciplinano le modalita' di controllo, eventualmente anche di sanzione;
b) sia le misure legislative di promozione, che mirano ad aprire un mercato o a consolidarne l'apertura, eliminando barriere all'entrata, riducendo o eliminando vincoli al libero esplicarsi della capacita' imprenditoriale e della competizione tra imprese, rimuovendo cioe', in generale, i vincoli alle modalita' di esercizio delle attivita' economiche (ex multis: sentenze n. 270 e n. 45 del 2010, n. 160 del 2009, n. 430 e n. 401 del 2007)».
Inoltre, la Corte ha affermato che la materia «tutela della concorrenza», dato il suo carattere finalistico, non e' una materia di estensione certa o delimitata, ma e' configurabile come trasversale, «corrispondente ai mercati di riferimento delle attivita' economiche incise dall'intervento e in grado di influire anche su materie attribuite alla competenza legislativa, concorrente o residuale, delle regioni» (cosi, tra le piu' recenti, sentenza n. 38 del 2013; si veda, inoltre, la sentenza n. 299 del 2012).
Dalla natura trasversale della competenza esclusiva dello Stato in materia di «tutela della concorrenza» la Corte ha tratto la conclusione «che il titolo competenziale delle Regioni a statuto speciale in materia di commercio non e' idoneo ad impedire il pieno esercizio della suddetta competenza statale e che la disciplina statale della concorrenza costituisce un limite alla disciplina che le medesime Regioni possono adottare in altre materie di loro competenza» (sentenze n. 38 del 2013 e n. 299 del 2012).
Espressione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in questa rnateria e' stato ritenuto l'art. 31, comma 2, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l'equita' e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma l, della legge 22 dicembre 2011, n. 214. Tale disposizione detta una disciplina di liberalizzazione e di eliminazione di vincoli all'esplicarsi dell'attivita' imprenditoriale nel settore commerciale stabilendo che «costituisce principio generale dell'ordinamento nazionale la liberta' di apertura di nuovi esercizi commerciali sul territorio senza contingenti, limiti territoriali o altri vincoli di qualsiasi altra natura, esclusi quelli connessi alla tutela della salute, dei lavoratori, dell'ambiente, ivi incluso l'ambiente urbano, e dei beni culturali».
In particolare, il profilo degli orari e dei giorni di apertura e chiusura degli esercizi commerciali e' disciplinato dall'art. 3, comma 1, lettera d-bis) del decreto legislativo n. 223 del 2006, come modificato dall'art. 31 del decreto legislativo n. 201 del 2011 cit., il quale stabilisce che «al fine di garantire la liberta' di concorrenza [...] le attivita' commerciali, come individuate dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114», sono svolte senza il rispetto - tra l'altro - di orari di apertura e chiusura, dell'obbligo della chiusura domenicale e festiva, nonche' di quello della mezza giornata di chiusura infrasettimanale.
Nell'interpretare la citata normativa, codesta Corte (si veda ancora la sent. 104/2014) ha sottolineato come «essa attui un principio di liberalizzazione, rimuovendo vincoli e limiti alle modalita' di esercizio delle attivita' economiche, e «L'eliminazione dei limiti agli orari e ai giorni di apertura al pubblico degli esercizi commerciali favorisce, a beneficio dei consumatori, la creazione di un mercato piu' dinamico e piu' aperto all'ingresso di nuovi operatori e amplia la possibilita' di scelta del consumatore. Si tratta, dunque, di misure coerenti con l'obiettivo di promuovere la concorrenza, risultando proporzionate allo scopo di garantire l'assetto concorrenziale del mercato di riferimento relativo alla distribuzione commerciale» (sentenza n. 299 del 2012 [...)» (sentenza n. 38 del 2013).
In sostanza, le uniche limitazioni che e' possibile porre allo svolgimento dell'attivita' di commercio su area pubblica sono quelle individuate dall'art. 28, comma 13, del decreto legislativo n. 114 del 1998, come modificato dal decreto legislativo n. 59 del 2010, riconducibili ad esigenze di sostenibilita' ambientale e sociale, a finalita' di tutela delle zone di pregio artistico, storico, architettonico e ambientale, nonche' quelle individuate dall'art. 31 del decreto legislativon. 201 del 2011 (cioe' delle zone, anche, di maggiore interesse turistico, nelle quali pero', contraddittoriamente, la legge impugnata prevede la liberalizzazione integrale e incondizionata dei giorni di apertura).
L'imposizione generalizzata del divieto di apertura nei giorni festivi indicati dalla legge impugnata, e la previsione che tale obbligo non sussista esclusivamente nei comuni a prevalente economia turistica, contrastano chiaramente con tale assetto, costituente disciplina della concorrenza e riforma economica fondamentale; sicche' la normativa in esame, da un lato, esula dalla mera materia «commercio» ed e' invasiva della competenza esclusiva statale; dall'altro, comunque, confligge con la normativa di grande riforma economica introdotta mediante la liberalizzazione totale del commercio di cui al decreto legislativo n. 223/2006 e al successivo decreto legislativo n. 201/2011 convertito in legge n. 248/2006.
1.2. Con specifico riferimento all'art. 3, della legge impugnata, che prevede la liberalizzazione totale dei giorni di apertura soltanto nei comuni a prevalente economia turistica, le violazioni qui denunciate si colgono poi anche sotto il profilo della disparita' di condizioni territoriali di esercizio del commercio che la disposizione comporta.
Nell'ambito del territorio regionale, soltanto in tali comuni sussiste la piena liberalizzazione dei giorni di' apertura; cio' che distorce le condizioni di distribuzione territoriale degli esercizi commerciali.
L'art. 3, comma 1, della legge n. 248/2006 sottolinea infatti la necessita' di «garantire la liberta' di concorrenza secondo condizioni di pari opportunita' e il corretto ed uniforme funzionamento del mercato, nonche' di assicurare ai consumatori finali un livello minimo e uniforme di condizioni di accessibilita' ai beni e servizi sul territorio nazionale».
In tal modo, il legislatore nazionale ha uniformato la disciplina in tutto il territorio dello Stato, al fine di costituire condizioni di pari opportunita' tra le aziende e, anche nell'interesse del consumatore, condizioni omogenee nelle prestazioni deli servizi.
Codesta Corte Costituzionale ha affermato, in piu' occasioni e con assoluta costanza, la necessita' di una disciplina uniforme sul territorio della disciplina degli orari e delle chiusure degli esercizi commerciali, per evitare che l'ordinamento sia frammentato in una molteplicita' di ordinamenti regionali ed anche locali differenti fra loro, il che costituisce un ostacolo alla realizzazione di un mercato unico che e' ad un tempo valore costituzionale e principio comunitario (Corte Costituzionale, sentenza n. 8/2013). La previsione di un regime differenziato si pone, quindi, in contrasto con l'art. 117, comma 2, lett. e), Cost. e con i principi di liberalizzazione, uniformita' del mercato, par condicio degli operatori nei singoli ordinamenti regionali e uniformita' della disciplina, ribaditi da codesta Corte Costituzionale fin dalla sentenza n. 430/2007.
2. L'art. 9 della legge regionale impugnata dispone:
«1. Prima del capo II del titolo VII della legge regionale n. 29/2005 e' inserito il seguente:
«Capo I-bis - Centri commerciali naturali.
Art. 85-bis (Centri commerciali naturali). - 1. Per centro commerciale naturale si intende un insieme di attivita' commerciali, artigianali e di servizi, localizzato in una zona determinata del territorio comunale in cui le funzioni distributive rivestono un ruolo significativo per tradizione, vocazione o potenzialita' di sviluppo, finalizzato al recupero, promozione e valorizzazione delle attivita' economiche, in particolare delle produzioni locali, al miglioramento della vivibilita' del territorio e dei servizi ai cittadini e ai non residenti.
2. I centri commerciali naturali sono costituiti in forma di societa' di capitali, societa' consortili e associazioni con finalita' commerciali e perseguono gli scopi di cui al comma 1 mediante iniziative di qualificazione e innovazione dell'offerta commerciale, di sviluppo della promozione commerciale, di acquisizione di servizi innovativi di supporto alle attivita' delle imprese aderenti ed eventi di animazione territoriale.
3. Ai centri commerciali naturali possono aderire, in qualita' di soggetti interessati, le associazioni di categoria, la Camera di commercio e il Comune competenti per territorio e altri enti e associazioni che si prefiggano lo scopo di valorizzare il territorio.
4. Al fine di sostenere le attivita' di cui al presente art., i centri commerciali naturali possono accedere ai contributi di cui all'art. 100.».».
L'art. 15 della legge regionale impugnata prevede:
«l. Al comma 1, dell'art. 2 della legge regionale n. 29/2005 sono apportate le seguenti modifiche:
a) alla lettera c) le parole «generi alimentari» sono sostituite dalle seguenti: «generi del settore alimentare»;
b) alla lettera d) le parole «generi non alimentari» sono sostituite dalle seguenti: «generi del settore non alimentare»;
c) alla lettera i) dopo la parola «1.500» sono aggiunte le seguenti: «questi si distinguono in:
1) esercizi di media struttura minore: con superficie di vendita superiore a metri quadrati 250 e fino a metri quadrati 400;
2) esercizi di media struttura maggiore: con superficie di vendita superiore a metri quadrati 400 e fino a metri quadrati 1.500;»;
d) alla fine della lettera m) le parole «effettuata in insediamenti commerciali a cio' appositamente destinati» sono soppresse;
e) alla lettera s) le parole «, con la quale l'operatore attesta in particolare di essere in possesso di tutti i requisiti richiesti dalla normativa vigente e di aver rispettato le norme igienico - sanitarie, urbanistiche e relative alla destinazione d'uso con riferimento all'attivita' che si intende esercitare, pena il divieto di prosecuzione dell'attivita' iniziata» sono soppresse.
f) dopo la lettera w) sono aggiunte le seguenti:
«w-bis) esercizio in proprio dell'attivita' di vendita o di somministrazione: qualsiasi attivita' di vendita di prodotti o di somministrazione di alimenti e bevande, anche se trattasi di attivita' che la legge esclude dal suo ambito di applicazione;
w-ter) sportello unico per le attivita' produttive (SUAP): lo sportello di cui all'art. 24 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni e agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59) e di cui alla legge regionale 12 febbraio 2001, n. 3 (Disposizioni in materia di sportello unico per le attivita' produttive e semplificazione di procedimenti amministrativi e del corpo legislativo regionale), e loro successive modifiche.».»
Prima della modifica apportata all'art. 2, comma 1 lett. i) della legge regionale n. 29/2005, il testo di questa disposizione prevedeva: «i) esercizi di vendita al dettaglio di media struttura: gli esercizi con superficie di vendita superiore a metri quadrati 250 e fino a metri quadrati 1.500».
Come si vede, con l'art. 9 e con l'art. 15, quest'ultimo nella parte in cui modifica l'art. 2, comma 1, lett. i) della legge regionale n. 29/2005, il legislatore regionale ha introdotto due nuove tipologie di esercizi commerciali: i «centri commerciali naturali» (art. 9); e l'articolazione degli esercizi di vendita al dettaglio di media struttura, prima unitariamente definiti come quelli con superficie di vendita superiore a 250 mq e fino a 1500 metri quadrati, in esercizi di media struttura minore, compresi tra 250 e 400 metri quadrati, e in esercizi di media struttura maggiore, compresi tra piu' di 400 e 1500 metri quadrati.
In tal modo, il legislatore regionale ha introdotto tipologie di esercizi commerciali non presenti a livello nazionale. La classificazione nazionale degli esercizi di vendita al dettaglio e' infatti dettata dal decreto legislativo n. 114/98.
L'art. 4, comma 1, lett. d), e), g) del decreto legislativo stabilisce: «d) per esercizi di vicinato quelli aventi superficie di vendita non superiore a 150 mq. nei comuni con popolazione residente inferiore a 10.000 abitanti e a 250 mq. nei comuni con popolazione residente superiore a 10.000 abitanti e) per medie strutture di vendita gli esercizi aventi superficie superiore ai limiti di cui al punto d) e fino a 1.500 mq nei comuni con popolazione residente inferiore a 10.000 abitanti e a 2.500 mq. nei comuni con popolazione residente superiore a 10.000 abitanti;
...
g) per centro commerciale, una media o una grande struttura di vendita nella quale piu' esercizi commerciali sono inseriti in una struttura a destinazione specifica e usufruiscono di infrastrutture comuni e spazi di servizio gestiti unitariamente. Ai fini del presente decreto per superficie di vendita di un centro commerciale si intende quella risultante dalla somma delle superfici di vendita degli esercizi al dettaglio in esso presente.
La legge regionale n. 29/2005, prima delle modifiche apportatele con gli articoli 9 e 15 della legge regionale qui impugnata, si conformava a queste definizioni.
Da queste definizioni emerge chiaramente che nella classificazione dei centri commerciali e degli esercizi di vendita al dettaglio non esistono, rispettivamente, i «centri commerciali naturali» ora introdotti dall'art. 9 della legge regionale impugnata (si veda la lettera g) dell'art. 4 decreto legislativo n. 114/98 che definisce i centri commerciali), ne' la suddistinzione degli esercizi di media struttura in esercizi di media struttura minore e di media struttura maggiore.
Le nuove previsioni regionali differenziano le strutture attraverso le quali vengono erogati i servizi commerciali nel territorio della regione Friuli Venezia Giulia, rispetto alle tipologie di strutture operanti nelle restanti parti del territorio nazionale.
Questa differenziazione esula dalla materia «commercio», di competenza della regione autonoma, ed incide direttamente sulla disciplina della concorrenza.
2.1. E' infatti esigenza fondamentale di una efficace competizione sul mercato tra le imprese che prestano i servizi del commercio, che la disciplina delle relative strutture sia il piu' possibile uniforme nell'intero territorio nazionale, e non presenti, in particolari zone del territorio stesso, aspetti di eccessiva complessita' regolatoria privi di una stringente giustificazione di interesse generale, e comunque non proporzionati rispetto a tale asserito interesse.
In argomento, codesta Corte ha gia' statuito che «una regolazione delle attivita' economiche ingiustificatamente intrusiva - cioe' non necessaria e sproporzionata rispetto alla tutela dei beni costituzionalmente protetti- genera inutili ostacoli alle dinamiche economiche, a detrimento degli interessi degli operatori economici, dei consumatori e degli stessi lavoratori e, dunque in definitiva reca danno alla stessa utilita' sociale» (Corte Costituzionale, sentenza n. 299/2012). Nella stessa linea, ha poi dichiarato l'illegittimita' costituzionale delle disposizioni regionali che reintroducono limiti e vincoli nella disciplina delle attivita' economiche nella parte in cui introducono la definizione di «polo commerciale» non prevista nella classificazione degli esercizi di vendita operata dal decreto legislativo n. 114/1998 (sent. 15 maggio 2014 n. 125).
2.2. Nella specie, la suddistinzione degli esercizi di media struttura in esercizi di media struttura minore e di media struttura maggiore appare del tutto superflua, posto che alla suddistinzione stessa non fa seguito, nell'insieme della novellata legge regionale n. 29/2005, alcuna conseguenza pratica. Il regime amministrativo a cui sono sottoposti gli esercizi di media struttura rimane infatti immutato, rinvenendosi nell'art. 12 della citata legge regionale n. 29/2005, che non e' stato modificato in conseguenza dell'introduzione della nuova definizione da parte dell'impugnato art. 9 legge regionale n. 4/2016.
Alla stregua dell'art. 12 cit., la essenziale differenza di disciplina tra esercizi di media struttura fino a 400 metri quadrati di superficie, ed esercizi compresi tra piu' di 400 e 1500 metri quadrati, stava gia', e rimane, nella necessita', per iniziare o trasferire o ampliare l'attivita' dei primi, di presentare la sola «segnalazione certificata di inizio attivita'» (SCIA); e di ottenere, invece, l'autorizzazione del comune per iniziare o trasferire o ampliare l'attivita' dei secondi.
La sola differenza del regime amministrativo di accesso o di modifica dell'attivita' non giustifica la sostanziale creazione di due distinti tipi strutturali di esercizi di media struttura. Nella logica della semplificazione e della liberalizzazione dei servizi commerciali, infatti, il regime amministrativo, oltre a ridursi al minimo indispensabile, deve seguire la natura economica dell'impresa a cui si applica; e non puo', invece, determinare esso la sussistenza di uno piu' determinati tipi di impresa: nella specie, del tipo «impresa commerciale soggetta a SCIA», e del tipo «impresa commerciale soggetta ad autorizzazione». Anche perche' il medesimo regime amministrativo di inizio e modifica dell'attivita' puo' accomunare imprese commerciali di natura economica diversa.
Basti considerare che gli esercizi «di vicinato» sono soggetti a SCIA (art. 11 legge regionale n. 29/2005), come gli esercizi di media struttura fino a 400 metri quadrati; e che gli esercizi di grande struttura (art. 13 legge regionale cit.) sono soggetti ad autorizzazione, al pari degli esercizi di media struttura superiori a 400 metri quadrati.
La tipologia strutturale e', quindi, circostanza neutra rispetto al regime amministrativo, e dunque, come gia' rilevato, non puo' essere determinata da questo; pena un «eccesso di regolazione» lesivo della competenza esclusiva statale in materia di concorrenza, come chiarito dalla gia' citata sent. 299/2012 di codesta Corte.
2.3. Quanto ai «centri commerciali naturali», introdotti dall'art. 9 della legge regionale qui impugnata, si deve rilevare, in particolare, che essi comportano un eccesso di regolazione in quanto si basano su una alquanto affiggente definizione (insieme di attivita' commerciali, artigianali e di servizi, localizzato in una zona determinata del territorio comunale in cui le funzioni distributive rivestono un ruolo significativo per tradizione, vocazione o potenzialita' di sviluppo, finalizzato al recupero, promozione e valorizzazione delle attivita' economiche, in particolare delle produzioni locali, al miglioramento della vivibilita' del territorio e dei servizi ai cittadini e ai non residenti), che eccede largamente i limiti concessi all'intervento del legislatore nella dinamica economica.
Alle attivita' economiche non possono, in linea di principio, assegnarsi per legge finalita' lato sensu sociali o politiche, come il recupero, promozione, valorizzazione delle attivita' stesse, o il miglioramento della vivibilita' del territorio e dei servizi ai cittadini e ai non residenti; come invece fanno, in particolare, il comma 2 del nuovo art. 85-bis legge regionale n. 29/2005, introdotto dall'art. 9 della legge regionale qui impugnata, allorche' detta, richiamando le finalita' ora dette, l'oggetto sociale delle societa' o associazioni in cui i «centri naturali» debbono costituirsi, e prevede che l'attivita' dei «centri naturali» debba comprendere «iniziative di qualificazione e innovazione dell'offerta commerciale, di sviluppo della promozione commerciale, di acquisizione di servizi innovativi di supporto alle attivita' delle imprese aderenti ed eventi di animazione territoriale»; e il comma 3 allorche' consente che alle societa' e «associazioni con finalita' commerciali» in cui i «centri» debbono costituirsi partecipino anche soggetti che non perseguono direttamente ed esclusivamente finalita' commerciali, come «le associazioni di categoria, la Camera di commercio e il Comune competenti per territorio e altri enti e associazioni che si prefiggano lo scopo di valorizzare il territorio».
Ne', in linea di principio, il legislatore puo' intervenire per condizionare direttamente la localizzazione, l'oggetto e la strutturazione delle attivita' economiche, come nel caso in esame, in cui la legge sembra voler mantenere immutate la localizzazione, l'oggetto, la strutturazione delle attivita' commerciali, artigianali e di servizi nelle zone in cui, a giudizio del legislatore stesso (che, peraltro, non prevede alcun procedimento di accertamento di tali situazioni), sia riconoscibile un ruolo significativo «per vocazione» di tali attivita'.
La nuova figura del «centro commerciale naturale» e' quindi atta ad incidere sul libero dispiegarsi dell'iniziativa economica in regime di concorrenza, nella misura in cui, da un lato, tende a fissare i suddetti limiti spaziali, oggettivi e strutturali alle attivita' commerciali «naturali», anziche' rimettere al dispiegamento del gioco concorrenziale il determinarsi dei luoghi, oggetti e strutture delle attivita' commerciali; e, dall'altro, altera la concorrenza all'interno del territorio regionale, e anche al di fuori di esso, perche' collega alla costituzione di un «centro commerciale naturale» l'accesso ai rilevanti finanziamenti pubblici previsti dall'art. 100 della legge regionale n. 29/2005 (cosi' dispone il 15 nuovo art. 85-bis ultimo comma della legge n. 29/2005, introdotto dal qui impugnato art. 9), in tal modo incentivando la costituzione di tali societa' o associazioni per ragioni non derivanti da effettive esigenze di rafforzamento strutturale delle attivita' economiche dei soci o associati, bensi' dalla ragione «artificiale» data dalla possibilita', in tal modo, di accedere ai suddetti finanziamenti.
In generale, codesta Corte nella gia' citata sent. 104/2014 ha rilevato, sempre a proposito di misure «dirigistiche» in materia di commercio adottata da una regione ad autonomia speciale, che invade la competenza statale in materia di concorrenza «un potere di indirizzo volto alla determinazione di obiettivi di equilibrio della rete distributiva in rapporto alle diverse categorie e alla dimensione degli esercizi. La previsione e la conformazione di tale potere e' tale da consentire alla Giunta di incidere e condizionare l'agire degli operatori sul mercato, incentivando o viceversa limitando l'apertura degli esercizi commerciali in relazione alle diverse tipologie merceologiche, alle loro dimensioni, ovvero al territorio. E' evidente, dunque, che la previsione in esame, autorizzando la Giunta «a definire indirizzi» per assicurare l'equilibrio della rete distributiva, consente alla Regione interventi che ben possono risolversi in limiti alle possibilita' di accesso sul mercato degli operatori economici. Ma come gia' rilevato da questa Corte - e' ancor prima la stessa attribuzione di un tale potere alla Giunta regionale in una materia devoluta alla competenza legislativa esclusiva dello Stato a determinare la lesione dell'art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. (sentenza n, 38 del 2013).».
Mutatis mutandis, questi concetti possono applicarsi al caso dei «centri commerciali naturali» qui in esame, la cui previsione appare quindi costituzionalmente illegittima per violazione dell'art. 117 c. 2 lett. e) Cost.
3. L'art. 19 della legge regionale qui impugnata prevede:
«l. All'art. 7 della legge regionale n. 29/2005 sono apportate le seguenti modifiche:
a) il comma 2 e' sostituito dal seguente:
«2. L'esercizio dell'attivita' commerciale in sede fissa o sulle aree pubbliche di prodotti alimentari, nonche' della somministrazione di alimenti e bevande, ancorche' svolto nei confronti di una cerchia limitata di persone in locali non aperti al pubblico, e' subordinato al possesso di uno dei requisiti di cui all'art. 71, commi 6 e 6-bis, del decreto legislativo n. 59/2010.»;
b) al comma 3 le parole «al comma 2, lettera c),» sono sostituite dalle seguenti: «all'art. 71, comma 6, lettera c), del decreto legislativo n. 59/2010»;
c) il comma 4 e' sostituito dal seguente:
«4. E' riconosciuta validita' ai requisiti professionali maturati o riconosciuti ai sensi dell'ordinamento delle altre Regioni.».»
Il testo precedente dell'art. 7, comma 2 della legge regionale n. 29/2005 disponeva invece:
«2. L'autorizzazione all'esercizio dell'attivita' commerciale in sede fissa o sulle aree pubbliche di prodotti alimentari, nonche' alla somministrazione di alimenti e bevande, sono subordinate al possesso di uno dei seguenti requisiti:
a) avere frequentato i corsi di cui all'art. 8 e aver superato positivamente l'esame di cui all'art. 9;
b) avere, per almeno due anni, anche non continuativi, nel quinquennio precedente, esercitato in proprio attivita' d'impresa nel settore alimentare o nel settore della somministrazione di alimenti e bevande o avere prestato la propria opera, presso tali imprese, in qualita' di dipendente qualificato, addetto alla vendita o all'amministrazione o alla preparazione degli alimenti, o in qualita' di socio lavoratore o in altre posizioni equivalenti o, se trattasi di coniuge, parente o affine, entro il terzo grado, dell'imprenditore, in qualita' di coadiutore familiare, comprovata dall'iscrizione all'Istituto nazionale della previdenza sociale;
c) essere in possesso di un diploma di scuola secondaria superiore o di laurea, anche triennale, o di altra scuola a indirizzo professionale, almeno triennale, nel cui corso di studi siano previste materie attinenti al commercio, alla preparazione o alla somministrazione degli alimenti.».»
L'art. 71 commi 6 e 6-bis decreto legislativo n. 59/2010 nel
testo in vigore dal 14 settembre 2012 dispone:
«6. L'esercizio, in qualsiasi forma e limitatamente all'alimentazione umana, di un'attivita' di commercio al dettaglio relativa al settore merceologico alimentare o di un'attivita' di somministrazione di alimenti e bevande e' consentito a chi e' in possesso di uno dei seguenti requisiti professionali:
a) avere frequentato con esito positivo un corso professionale per il commercio, la preparazione o la somministrazione degli alimenti, istituito o riconosciuto dalle regioni o dalle province autonome di Trento e di Bolzano;
b) avere, per almeno due anni, anche non continuativi, nel quinquennio precedente, esercitato in proprio attivita' d'impresa nel settore alimentare o nel settore della somministrazione di alimenti e bevande o avere prestato la propria opera, presso tali imprese, in qualita' di dipendente qualificato, addetto alla vendita o all'amministrazione o alla preparazione degli alimenti, o in qualita' di socio lavoratore o in altre posizioni equivalenti o, se trattasi di coniuge, parente o affine, entro il terzo grado, dell'imprenditore, in qualita' di coadiutore familiare, comprovata dalla iscrizione all'Istituto nazionale per la previdenza sociale;
c) essere in possesso di un diploma di scuola secondaria superiore o di laurea, anche triennale, o di altra scuola ad indirizzo professionale, almeno triennale, purche' nel corso di studi siano previste materie attinenti al commercio, alla preparazione o alla somministrazione degli alimenti.
6-bis. Sia per le imprese individuali che in caso di societa', associazioni od organismi collettivi, i requisiti professionali di cui al comma 6 devono essere posseduti dal titolare o rappresentante legale, ovvero, in alternativa, dall'eventuale persona preposta all'attivita' commerciale».
Nel testo in vigore fino al 13 settembre 2012, il comma 6 era invece del seguente tenore, sostanzialmente identico al testo che l'impugnato art. 19 della legge regionale n. 4/2016 introduce ora nell'art. 7 della legge regionale n. 29/2005; art. 7 che, invece, come si e' visto, nella formulazione anteriore era analogo al testo attuale dell'art. 71 del decreto legislativo n. 59/2010:
«6. L'esercizio, in qualsiasi forma, di un'attivita' di commercio relativa al settore merceologico alimentare e di un'attivita' di somministrazione di alimenti e bevande, anche se effettuate nei confronti di una cerchia determinata di persone, e' consentito a chi e' in possesso di uno dei seguenti requisiti professionali:...».
L'inciso «anche se effettuate nei confronti di una cerchia determinata di persone» venne soppresso nel testo della disposizione statale dall'art. 8, comma 1, lett. e), decreto legislativo 6 agosto 2012, n. 147, in vigore dal 14 settembre 2012.
Questo ulteriore decreto delegato intervenne a correggere e integrare il decreto legislativo n. 59/2010, in forza dell'art. 1 comma 5 della legge delega n. 88/2009, giusta il quale «5. Entro ventiquattro mesi dalla data di entrata in vigore di ciascuno dei decreti legislativi di cui al comma 1, nel rispetto dei principi e criteri direttivi fissati dalla presente legge, il Governo puo' adottare, con la procedura indicata nei commi 2, 3 e 4, disposizioni integrative e correttive dei decreti legislativi etnanati ai sensi del citato comma 1, fatto salvo quanto previsto dal comma 6.»
L'art. 71, del decreto legislativo n. 59/2010, cosi' come l'intero decreto legislativo, infatti, venne adottato in attuazione della delega contenuta nell'art. 41 della legge n. 88/2009 (legge comunitaria 2009), che disciplino' l'attuazione della Direttiva 2006/123/CE in materia di libera prestazione dei servizi (la c.d. «Direttiva servizi»).
Tra i criteri di delega dettati dall'art. 41, legge n. 88/2009, interessa in particolare quello contenuto nel comma l, lettera g), il quale prescriveva al legislatore delegato di «di garantire che, laddove consentiti dalla normativa comunitaria, i regimi di autorizzazione ed i requisiti eventualmente previsti per l'accesso ad un'attivita' di servizi o per l'esercizio della medesima siano conformi ai principi di trasparenza, proporzionalita' e parita' di trattamento».
Interessa, poi, il comma 2, giusta il quale «2. Nel rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario ai sensi dell'art. 117, primo comma, della Costituzione, entro il 28 dicembre 2009, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano adeguano le proprie disposizioni normative al contenuto della direttiva nonche' ai principi e criteri di cui al comma 1.».
I principi dettati dalla citata disposizione della legge delega in materia di requisiti di accesso alle attivita', attengono all'attuazione dell'art. 15 della Direttiva servizi (testualmente ripreso dall'art. 12 decreto legislativo n. 59/2010), giusta il quale:
«Art. 15 (Requisiti da valutare). - 1. Gli Stati membri verificano se il loro ordinamento giuridico prevede i requisiti di cui al paragrafi) 2 e provvedono affinche' tali requisiti siano conformi alle condizioni di cui al paragrafo 3. Gli Stati membri adattano le loro disposizioni legislative, regolamentari o amministrative per renderle conformi a tali condizioni.
2. Gli Stati membri verificano se il loro ordinamento giuridico subordina l'accesso a un'attivita' di servizi o il suo esercizio al rispetto dei requisiti non discriminatori seguenti:
...
d) requisiti diversi da quelli relativi alle questioni disciplinate dalla direttiva 2005/36/CE o da quelli previsti in altre norme comunitarie, che riservano l'accesso alle attivita' di servizi in questione a prestatori particolari a motivo della natura specifica dell'attivita';
...
3. Gli Stati membri verificano che i requisiti di cui al paragrafo 2 soddisfino le condizioni seguenti:
a) non discriminazione: i requisiti non devono essere direttamente o indirettamente discriminatori in funzione della cittadinanza o, per quanto riguarda le societa', dell'ubicazione della sede legale;
b) necessita': i requisiti sono giustificati da un motivo imperativo di interesse generale;
c) proporzionalita': i requisiti devono essere tali da garantire la realizzazione dell'obiettivo perseguito; essi non devono andare al di la' di quanto e' necessario per raggiungere tale obiettivo; inoltre non deve essere possibile sostituire questi requisiti con altre misure meno restrittive che permettono di conseguire lo stesso risultato.»
Sintetizzando il senso della vicenda normativa appena illustrata, e' quindi evidente che, con il decreto delegato correttivo n. 147/2012 il legislatore intervenne sulla prima attuazione della Direttiva servizi operata con l'originario testo dell'art. 71 decreto legislativo n. 59/2010 in materia di requisiti soggettivi per l'esercizio del commercio o della somministrazione di alimenti. Tale intervento correttivo costitui' una forma di verifica della necessita', non discriminatorieta', proporzionalita' di tali requisiti soggettivi, effettuata alla stregua dell'art. 15 della Direttiva servizi (e del correlativo art. 12 decreto legislativo n. 59/2010), che prescrive appunto tale verifica da parte degli Stati membri.
Il legislatore statale con il decreto correttivo del 2012 ritenne che non fosse necessario o proporzionato richiedere il possesso di almeno uno dei requisiti soggettivi di cui alle lettere a), b), dell'art. 71 comma 6 anche nel caso in cui il commercio o la somministrazione di alimenti avvenissero non nei confronti del pubblico, bensi' nei confronti di una cerchia determinata di persone.
In sostanza, secondo la valutazione legislativa tesa a conformare la normativa interna ai principi di necessita' e proporzionalita', fissati dall'art. 15 della Direttiva e ribaditi dalla legge delega, degli eventuali requisiti soggettivi di accesso al servizio di commercio o somministrazione di alimenti, non e' necessario o proporzionato esigere quei requisiti quando il commercio o la somministrazione di alimenti siano rivolti ad un gruppo determinato di destinatari, e non alla generalita' del pubblico (fermo restando, ovviamente, che si discute dei soli requisiti soggettivi di accesso all'attivita', e non dell'obbligo di rispettare le regole igienico-sanitarie nello svolgimento concreto dell'attivita'; obbligo che e' fuori discussione anche nei casi di prestazione del servizio ad una cerchia determinata di persone).
I requisiti in questione intendono garantire la possibilita' per il pubblico generale, che non conosce e non ha scelto il prestatore dei servizi di commercio e somministrazione di alimenti, e lo «trova sul mercato», di riporre un ragionevole affidamento su una qualita' minima della prestazione dei servizi stessi: cio', attraverso il possesso da parte dell'operatore dei titoli di qualificazione professionale previsti (in via alternativa) dalle lettere a), b), c) dell'art. 71 comma 6 decreto legislativo n. 59/2010.
Questa restrizione all'accesso ai servizi in questione, giustificata e proporzionata se, appunto, i servizi sono rivolti alla generalita' degli utenti o acquirenti, che non hanno alcuna possibilita' di selezionare preventivamente il prestatore di essi, diviene eccessiva, nella valutazione legislativa, quando i servizi siano rivolti, invece, ad un gruppo ristretto e selezionato di utenti o acquirenti, separato dal pubblico generale (si pensi alla prestazione di tali servizi ai membri di formazioni associative, o ai dipendenti di imprese, e simili).
In quest'ultimo caso, si ritiene che il gruppo «ristretto» di acquirenti o utenti, proprio perche' tale, abbia la possibilita' di selezionare un prestatore che ritenga idoneo e adeguato alle proprie esigenze. Il che rende eccessivo imporre anche a tali gruppi l'osservanza dei requisiti restrittivi di accesso di cui sopra.
Per questo, la norma correttiva ha espunto dalla versione originaria dell'art. 71 comma 6 cit. l'inciso «anche se effettuate nei confronti di una cerchia determinata di persone». Nessuna regione, ne' in particolare la regione Friuli Venezia Giulia, ha impugnato questa modifica come, in tesi, invasiva della propria competenza in materia di commercio.
La legge regionale impugnata, invece, ha direttamente agito in controtendenza rispetto al processo fin qui descritto di attuazione della Direttiva servizi in questo particolare settore.
Come pure si e' visto, mentre il testo originario dell'art. 7 della legge regionale n. 29/2005 prevedeva che i requisiti ex art. 71 comma 6 fossero necessari soltanto per la prestazione su area pubblica o in sede fissa di servizi di commercio o somministrazione di alimenti, senza prevedere che cio' valesse anche nei casi di prestazione ad una cerchia determinata di persone, e con cio' anticipando la posizione assunta dalla legislazione statale con il provvedimento correttivo del 2012, il nuovo testo introdotto dall'art. 19 legge regionale n. 4/2016 qui impugnato inserisce ora precisamente la restrizione nel frattempo abolita dal legislatore
statale.
3.1. E' evidente che in tal modo la legge regionale ha innanzitutto violato l'art. 117 comma 2 lett. e) Cost., e le norme statutarie sopra citate (che rinviano ai principi fondamentali della Costituzione e alle grandi riforme economiche) perche' ha introdotto una disciplina che incide direttamente sulla (non contestata) misura di liberalizzazione prevista dalla norma correttiva statale del 2012, rendendola imperante nel territorio della regione Friuli Venezia Giulia. Laddove, giusta i principi richiamati nei precedenti motivi, attiene alla materia «concorrenza», di esclusiva competenza statale, assicurare l'uniformita' su tutto il territorio nazionale delle condizioni liberalizzate di offerta dei beni e servizi sul mercato, rimuovendo vincoli non necessari; sicche' le regioni, anche ad autonomia speciale, non possono, nell'esercitare la propria competenza in materia di «commercio», provocare differenziazioni territoriali nelle condizioni di tale offerta, riducendo nel proprio territorio il grado di liberalizzazione fissato dal legislatore statale.
Si e' visto, del resto, che l'art. 41 comma 2 della legge delega n. 88/2009 prescrive l'obbligo delle regioni anche ad autonomia speciale di adeguare la propria legislazione a quella statale di attuazione della Direttiva servizi. Interventi regionali deliberatamente in contrasto eccedono quindi dalla competenza legislativa regionale nei sensi sopra chiariti.
3.2. Inoltre, come si e' evidenziato, la modifica normativa introdotta dal legislatore statale nel 2012 costituisce attuazione di un preciso vincolo di diritto UE, quale e' quello di sottoporre a verifica ex art. 15 Direttiva servizi la necessita' e proporzionalita' dei requisiti soggettivi di accesso alle attivita' di prestazione dei servizi ancora esistenti negli ordinamenti nazionali.
L'operato del legislatore regionale, che mira a vanificare tale attuazione e a mantenere in vigore requisiti non necessari o non proporzionati, contrasta quindi anche con l'art. 117 comma 1 Cost., che impone anche alle regioni di rispettare nella propria legislazione i vincoli derivanti dal diritto dell'Unione europea.
Il carattere non necessario e non proporzionato della misura regionale deriva dalla circostanza che i requisiti soggettivi generali ex art. 71 commi 6 e s bis decreto legislativo n. 59/2010 per l'accesso alla prestazione dei servizi di commercio e somministrazione di alimenti, servono, come gia' chiarito, a riequilibrare l'asimmetria informativa esistente tra il pubblico generale degli acquirenti e utenti dei beni e servizi in questione, da un lato, e gli operatori, dall'altro. Il pubblico generale non e' in grado di valutare preventivamente le capacita' del prestatore di tali servizi operante sul mercato e quindi, considerate le implicazioni con la tutela dell'igiene e della sanita' pubblica insite nel commercio e nella somministrazione di alimenti, appare necessario e proporzionato prevedere a priori che solo soggetti in possesso di una comprovata formazione o esperienza professionali possano accedere ai servizi stessi; cosi' tutelando l'affidamento del pubblico e, indirettamente, ponendo un presidio a protezione dell'igiene e della sanita' pubblica.
Queste esigenze manifestamente non ricorrono nel caso della «cerchia determinata» di acquirenti o utenti di alimenti o servizi di somministrazione di alimenti. Dovendosi presumere che tali soggetti siano in grado di selezionare in modo specifico i soggetti di cui desiderano avvalersi, la prescrizione vincolante di rivolgersi solo a soggetti in possesso di requisiti soggettivi preventivi, generali e astratti di formazione ed esperienza professionali non e' necessaria, o eccede il necessario, potendo essere supplita da mezzi meno restrittivi, quale, appunto, la scelta specifica del prestatore dei servizi da parte del gruppo ristretto di acquirenti o utenti a cui questi dovra' in via esclusiva fornire le proprie prestazioni. Ben potra' accadere che anche i «gruppi determinati» si rivolgano a soggetti qualificati ai sensi del comma 6 dell'art. 71 cit., ma cio' dovra' avvenire su base volontaria, e non per obbligo di legge, in tal obbligo appunto ravvisandosi la restrizione non necessaria e sproporzionata rispetto al fine di garantire una prestazione adeguata anche dal punto di vista igienico-sanitario.
3.3. Per le ragioni qui esposte, ad avviso del Presidente del Consiglio va superato il diverso orientamento manifestato da codesta Corte costituzionale nella sentenza n. 104/2014, che ha ritenuto costituzionalmente legittima una norma della regione autonoma Valle d'Aosta di tenore identico a quella qui impugnata.
In quel caso, infatti, la questione venne posta nel ricorso come una astratta questione di competenza, cioe' di confronto tra la competenza statale trasversale in materia di concorrenza e la competenza regionale concorrente in materia di tutela della salute. E, sotto questo angolo visuale, codesta Corte ritenne che non potesse negarsi l'implicazione con la tutela della salute, tale da escludere la preminenza del profilo concorrenziale.
Si legge infatti nella sentenza che «Questa conclusione avvalorata dalla considerazione che l'art. 3 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonche' interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dall'art. 1 della legge 4 agosto 2006, n. 248, stabilisce che, «al fine di garantire la liberta' di concorrenza secondo condizioni di pari opportunita' ed il corretto ed uniforme funzionamento del mercato, nonche' di assicurare ai consumatori finali un livello minimo ed uniforme di condizioni di accessibilita' all'acquisto di prodotti e servizi sul territorio nazionale», le attivita' commerciali sono svolte senza limiti e prescrizioni, tra cui il possesso di requisiti professionali soggettivi. Tuttavia, poi, fa espressamente «salvi quelli riguardanti il settore alimentare e della somministrazione degli alimenti e delle bevande» (art. 3, comma 1, lettera a). Cio' attesta che lo stesso legislatore statale ha ritenuto che i requisiti in esame non incidano sul profilo della liberalizzazione del mercato, apparendo necessari per soddisfare esigenze di sicurezza alimentare.»
Tuttavia, l'evoluzione normativa sopra illustrata, e posta a base del presente ricorso, dimostra appunto come il legislatore statale, partendo dalla innegabile presenza in materia di esigenze di tutela dell'interesse all'igiene e sanita' pubblica, abbia tuttavia incluso anche la considerazione di tali esigenze nel generale test di «giustificatezza» e proporzionalita' che la Direttiva servizi, e piu' in generale i principi di libero stabilimento e di libera prestazione dei servizi posti dai Trattati europei, richiedono per le condizioni di accesso ad ogni attivita' di prestazione di servizi, compresi quelli incidenti sull'igiene e sanita' pubblica. La tutela di questi beni costituisce, appunto, la giustificazione di interesse generale su cui puo' poggiare la previsione di una restrizione all'accesso; proprio con cio', tuttavia, introducendo, e non certo escludendo, la valutazione della proporzionalita' della restrizione, cioe' della limitazione della restrizione a quanto strettamente necessario allo scopo di interesse pubblico perseguito.
Una volta che, come illustrato, il legislatore abbia operato tale valutazione di proporzionalita' del requisito soggettivo di accesso, escludendola nella fattispecie dei servizi rivolti ad una «cerchia determinata di persone», e che tale valutazione non sia stata contestata dalle regioni avanti a codesta Corte, interventi legislativi regionali di segno contrario inevitabilmente:
a) esulano dalla competenza regionale in materia di commercio e di Sanita' pubblica perche' incidono esclusivamente sull'analisi del profilo strettamente concorrenziale del problema ormai fatta dalla legge statale nel senso di ritenere non proporzionata dal punto di vista concorrenziale una restrizione pur giustificata dal punto di vista della tutela della salute (violazione dell'art. 117 comma 2 lett. e) Cost.);
b) in ogni caso, nel merito, configurano una misura restrittiva che, per le ragioni esposte, eccede quanto necessario a garantire la sanita' pubblica, e quindi di per se', anche a prescindere dal rapporto con la competenza normativa statale, contrasta con l'obbligo del legislatore regionale di uniformarsi ai principi del diritto dell'Unione (violazione dell'art. 117 c. 1 Cost.).
4. L'art. 72 comma 1 della legge regionale in epigrafe prevede:
«1. Dopo l'art. 6-ter della legge regionale 12 maggio 1971, n. 19 (Norme per la protezione del patrimonio ittico e per l'esercizio della pesca nelle acque interne del Friuli - Venezia Giulia), e' inserito il seguente:
«Art. 6-quater (Immissioni a scopo di pesca sportiva). -. 1. L'Ente Tutela Pesca provvede a effettuare o autorizzare le immissioni di fauna ittica al fine di valorizzare la pesca sportiva compatibilmente con le esigenze di salvaguardia dell'ambiente e nell'ottica del possibile sviluppo della ricettivita' turistica connessa alla pesca sportiva.
2. Le immissioni a scopo di pesca sportiva sono effettuate esclusivamente con individui di taglia pari o superiore a quella minima ammessa per la loro cattura.
3. L'immissione di esemplari ittici autoctoni e' ammessa in qualsiasi corso d'acqua.
4. L'immissione degli esemplari alloctoni e' ammessa nei corpi idrici artificiali la cui eventuale connessione con corsi d'acqua naturali non consenta l'emigrazione dei pesci immessi.
5. Le immissioni di trota iridea Oncorhynchus mykiss sono realizzate anche in acque differenti da quelle di cui al comma 4, purche' con individui incapaci di riprodursi in natura, ovvero sterili o esclusivamente di sesso femminile e possono riguardare zone di possibile compresenza di trota marmorata, al fine di alleggerire la pressione di pesca a carico di questa specie.
6. Le immissioni di trota fario Salmo frutta sono ammesse in qualsiasi corso d'acqua in cui non vi siano segnalazioni storiche di trota marmorata o nelle acque attualmente popolate da specie
introdotte ma che originariamente erano prive di fauna ittica.
7. Non sono consentite le immissioni di cui ai commi 4, 5 e 6
nelle seguenti acque:
a) acque naturali e artificiali comprese entro le zone individuate ai sensi della direttiva 92/43/CEE «Habitat»;
b) corpi idrici o parte di essi designati come zone di divieto di pesca per ripopolamento;
c) siti di frega o nursery di specie ittiche autoctone incluse nell'allegato II della Direttiva 92/43/CEE o di specie oggetto di particolari misure di salvaguardia da parte dell'Ente Tutela Pesca;
d) corsi o specchi d'acqua privi di fauna ittica;
e) laghi alpini oltre quota 1500 metri sul livello del mare;
f) corpi idrici dove l'immissione determini lo scadimento dello stato ecologico di cui al decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale).».»
La regione ha adottato tale disposizione nell'esercizio della propria competenza esclusiva in materia di pesca (art. 4 n. 3) Statuto), ma ha ecceduto dai limiti di tale competenza, invadendo la competenza statale esclusiva in materia di tutela dell'ambiente e dell'ecosistema (art. 117 comma 2 lett. s) Cost.), e ha violato l'art. 117 comma 1 Cost. in quanto ha posto una disciplina che, nel merito, contrasta con i principi ricavabili dall'ordinamento dell'Unione europea, e in particolare dagli artt. 22 Direttiva n. 92/43/CEE (Direttiva Habitat) e 4 e 6 par. 1 regolamento CE 708/2007.
In sintesi, particolannente con i commi 3, 4, 5, 6 del nuovo art. 6-della legge regionale n. 19/71, la regione, allegando la finalita' di favorire la pesca sportiva, 1) consente l'immissione indiscriminata nei corpi idrici della regione di specie ittiche autoctone; 2) consente l'immissione di specie alloctone alla sola, generica e difficilmente verificabile, condizione che tale immissione avvenga in corpi idrici artificiali che, per quanto connessi con corpi idrici naturali, non consentano la migrazione delle specie alloctone nei colpi idrici naturali (si pensi al caso dell'immissione in un lago artificiale comunicante con il corso d'acqua naturale immissario ed emissario); 3.1) consente l'immissione anche nei corpi idrici naturali della specie alloctona rappresentata dalla trota iridea, alla condizione, anch'essa generica e difficilmente verificabile, che siano immessi individui incapaci di riprodursi tratti di colpi idrici, e 3.2) consente che tale immissione avvenga anche nei colpi idrici abitati dalla trota marmorata (specie autoctona) per alleggerire la pressione di pesca su quest'ultima; 4) consente l'immissione della specie alloctona trota fario in qualsiasi corpo idrico, alla condizione generica e difficilmente verificabile che si tratti di corpi idrici non abitati dalla trota marmorata (specie autoctona), o di corpi idrici originariamente privi di fauna ittica e attualmente popolati da specie introdotte (e' ancora il caso dei laghi artificiali).
4.1. E' evidente, in primo luogo, che questa disciplina crea per lo meno il pericolo, con le disposizioni sub 1) e 2), che l'equilibrio naturale delle specie ittiche autoctone sia alterato, nella misura in cui si consente senza limiti l'immissione artificiale di specie autoctone, che vanno quindi ad aggiungersi, creando il pericolo del sovrappopolamento, agli individui gia' presenti per natura nei corpi idrici regionali, senza neppure prevedere che si tratti di specie a rischio di estinzione; e si consente che specie alloctone vengano introdotte artificialmente, garantendo in modo meramente apparente che non si mescoleranno alle specie autoctone, e cosi' non altereranno l'equilibrio biologico degli ambienti abitati dalle specie autoctone, con la sola condizione, gia' indicata come generica e difficilmente verificabile in concreto, che l'immissione avvenga in corpi idrici artificiali che, pur connessi con corpi naturali, non consentano la migrazione delle specie alloctone dai corpi artificiali a quelli naturali.
Il pericolo di alterazione dell'equilibrio biologico delle specie ittiche autoctone diviene poi certezza con le previsioni sub 3 e 4, con le quali, a vario titolo, si consente l'immissione nei corpi idrici naturali di specie alloctone di trota particolarmente invasive (e per questo ricercate dai pescatori sportivi), quali la trota iridea e la trota fario, ponendole in competizione biologica con la specie autoctona rappresentata dalla trota marmorata. Anche in questi casi, infatti, le condizioni limitative previste dalla normativa impugnata (immissione di individui incapaci di riprodursi; pressione di pesca sulla trota marmorata; assenza di trota marmorata) sono apparenti, considerata la loro genericita' e la difficolta' di accertarne la sussistenza.
E' quindi evidente che la normativa regionale impinge direttamente sulla tutela dell'ambiente, di cui predispone rilevanti mutazioni negli ambiti fisici e biologici sopra illustrati, e va quindi molto oltre i limiti della competenza regionale in materia di pesca, poiche' modifica non solo le condizioni di svolgimento dell'attivita' di pesca sportiva, ma ben prima modifica l'ambiente ittico considerato in se'.
Per questo la normativa impugnata contrasta con l'art. 117 comma 2 lett. s) Cost., che riserva alla competenza statale esclusiva la tutela dell'ambiente, e che vincola anche le regioni ad autonomia speciale, compreso il Friuli, non essendo la tutela dell'ambiente compresa tra le materie di competenza legislativa di tali regioni contemplate dagli statuti di autonomia.
4.2. L'invasione della competenza statale esclusiva, oltre che sotto i profili sopra illustrati, emergenti dal contenuto specifico delle disposizioni regionali impugnate, si coglie esaminando il quadro normativo nazionale ed europeo.
E' da richiamare, innanzitutto, la direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione di habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche, che ai sensi dell'art. 22, paragrafo 1:
alla lettera a) demanda agli Stati membri la valutazione in ordine alla opportunita' di reintrodurre specie autoctone, qualora questa misura possa contribuire alla loro conservazione, sempre che da una indagine conoscitiva condotta sulla scorta delle esperienze acquisite in altri Stati membri o altrove, risulti che tale reintroduzione contribuisce in modo efficace a ristabilire tali specie in uno stato di conservazione soddisfacente e purche' tale reintroduzione sia preceduta da un'adeguata consultazione delle parti interessate;
alla lettera b) impegna gli Stati membri a regolamentare ed eventualmente vietare le introduzioni di specie alloctone che possano arrecare pregiudizio alla conservazione degli habitat o delle specie autoctone.
Lo Stato italiano ha esercitato la sua competenza con il decreto del Presidente della Repubblica n. 357 del 1997 (come modificato dal decreto del Presidente della Repubblica n. 120 del 2003), consentendo (art. 12, comma 2) la reintroduzione delle specie autoctone sulla base di linee guida da emanarsi dal Ministero dell'Ambiente, previa acquisizione, tra gli altri, del parere dell'Istituto nazionale per la fauna selvatica (ora ISPRA), e (art. 12, comma 3) vietando espressamente (ed in via generale) la reintroduzione, l'introduzione ed il ripopolamento in natura di specie e popolazioni non autoctone.
Il regolamento (CE) 708/2007 dell'11 giugno 2007 «relativo all'impiego in acquacoltura di specie esotiche e di specie localmente assenti», che si applica a tutti gli organismi esotici e localmente assenti allevati (ad eccezione di alcune specie elencate in AllegatoIV tra le quali figura la trota iridea ma non la trota fario) e alla pratica dell'acquacoltura a prescindere dal mezzo acquatico utilizzato, afferma all'art. 4 che «gli Stati membri provvedono affinche' siano adottate tutte le misure atte ad evitare effetti negativi sulla biodiversita', in particolare per quanto riguarda le specie, gli habitat e le funzioni dell'ecosistema, che potrebbero insorgere a seguito dell'introduzione o della traslocazione di organismi acquatici e di specie non bersaglio in acquacoltura e della diffusione di tali specie nell'ambiente naturale».
All'art. 6, paragrafo 1, si prevede, inoltre, che un operatore di acquacoltura che intenda effettuare l'introduzione di una specie esotica o la traslocazione di una specie localmente assente non contemplata nell'Allegato IV, deve chiedere un'autorizzazione all'autorita' competente dello Stato membro destinatario.
Al riguardo, codesta Corte costituzionale ha chiarito, nella sentenza n. 30 del 2009 (che ha accolto il ricorso per conflitto di attribuzione proposto dal Presidente del Consiglio avverso delibera della Regione Veneto, autorizzativa di piani di immissione, in acque di sua. competenza, di specie non autoctone, tra cui proprio la trota iridea), che «le disposizioni relative alla introduzione, reintroduzione e ripopolamento di specie animali, in quanto «regole di tutela dell'ambiente e dell'ecosistema e non solo di disciplina d'uso della risorsa ambientale faunistica» rientrano nella competenza esclusiva statale di cui, appunto, all'art. 117, secondo comma, lettera s), cost.» (recentemente Corte cost. sentenza n. 288/2012).
Nella sentenza n. 151/2011, con riferimento ad una legge della provincia autonoma di Bolzano, che introduceva deroghe ai divieti che tutelano le specie, animali e vegetali, codesta Corte ha statuito in termini generali che, «non e' consentito alle Regioni ed alle Province autonome di legiferare, puramente e semplicemente, in campi riservati dalla Costituzione alla competenza esclusiva dello Stato, ma soltanto di elevare i livelli di tutela degli interessi costituzionalmente protetti, purche' nell'esercizio di proprie competenze legislative, quando queste ultime siano connesse a quelle di cui all'art. 117, secondo comma, Cost. (ex plurimis, sentenza n. 378 del 2007) [...].Nel disciplinare in generale la tutela di specie animali, indipendentemente dall'esercizio della caccia e dalla disciplina dei parchi naturali, invade la sfera di competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela dell'ambiente dell'ecosistema, di cui all'art. 117, secondo comma, lettera s), Cast., che trova applicazione anche nei confronti delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome, in quanto tale materia non e' compresa tra le previsioni statutarie riguardanti le competenze legislative, primarie o concorrenti, regionali o provinciali. [...]. Risalta in tal modo con chiarezza che la disciplina in questione esula, per sua stessa affermazione, dalla materia della caccia e della pesca, attribuita dallo statuto speciale alle Province autonome, e ricade quindi nell'ambito generale della «tutela dell'ambiente», di competenza esclusiva statale. Pertanto, la competenza generale del Ministero dell'ambiente a concedere le deroghe di cui sopra - stabilita dall'art. 11 del decreto del Presidente della Repubblica 8 settembre 1997, n. 357 (Regolamento recante attuazione della direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonche' della flora e della fauna selvatiche) - si estende a tutto il territorio nazionale, senza che per la Provincia di Bolzano possa essere invocato un titolo di competenza speciale. Questa Corte ha peraltro precisato che la disciplina delle deroghe ai divieti imposti per la salvaguardia delle specie protette rientra tra gli standard uniformi e intangibili di tutela dell'ambiente e dell'ecosistema, di esclusiva competenza statale (sentenza n, 387 del 2008). L'uniformita' degli standard implica logicamente l'uniformita' della loro applicazione, allo scopo di impedire che prassi amministrative diverse possano pregiudicare l'obiettivo della conservazione della fauna in modo equilibrato in tutto il territorio della Repubblica.».
L'invasione della competenza statale deriva quindi, in definitiva, dalla circostanza che la legge regionale impugnata autorizza direttamente le immissioni di specie autoctone e alloctone sopra illustrate, superando l'intero sistema di verifiche preventive e di autorizzazioni, e soprattutto il divieto assoluto di introduzione di specie alloctone, previsti dalla normativa statale di settore, attuativa di precise prescrizioni di diritto europeo e comunque fondante standard uniformi di tutela dell'ambiente, non differenziabili tra regione e regione.
La connessione con la competenza legislativa regionale in materia di pesca potrebbe consentire alla regione soltanto di elevare gli standard di tutela ambientale (p. es., secondo i casi, aggravando o rimuovendo i divieti di pesca in funzione di riequilibrio ambientale); ma non di sostituirsi allo Stato nel regolare la tutela dell'equilibrio biologico, in particolare sotto il delicato profilo delle immissioni artificiali di specie animali nell'ambiente.
4.3. Infine, come gia' rilevato, la normativa regionale viola l'art. 117, comma 1 Cost., perche' si pone nel merito in palese contrasto con le previsioni di precauzione poste dalle fonti di diritto europeo sopra citate.
In particolare, con riferimento all'art. 22 della Direttiva Habitat, la normativa impugnata prevede in modo indiscriminato l'introduzione di specie autoctone, laddove la Direttiva la consente agli Stati membri solo previa verifica della effettiva necessita' e sostenibilita' ambientale di tale iniziativa, e prescrivendo che il solo fine perseguibile con l'introduzione artificiale delle specie autoctone sia il ristabilimento del loro soddisfacente stato di conservazione. La normativa impugnata contrasta poi con la Direttiva Habitat allorche' consente agli Stati membri, in funzione di conservazione dell'equilibrio ambientale, di vietare l'introduzione di specie alloctone, come ha fatto il legislatore italiano senza incontrare censura ne' in sede europea ne' da parte delle regioni. La possibilita' in pratica indiscriminata o quasi, atteso il carattere generico o praticamente impossibile delle condizioni ad essa apposte, di introdurre specie alloctone nei corpi idrici naturali; e la larga possibilita' di introdurre specie alloctone di trote in tali corpi, direttamente prevista dalla normativa regionaleimpugnata, pregiudicano il sistema di precauzione voluto dalla Direttiva, che in questa materia rimette ogni valutazione agli Stati membri, sulla base di una valutazione globale dell'equilibrio ambientale, che non puo' essere operata a livello regionale; cio' in considerazione della inelirninabile interrelazione tra l'ambiente riferibile ad un singolo territorio regionale e l'ambiente coincidente con il territorio di tutte le altre regioni.
Inoltre, in materia di specie alloctone nell'acquacoltura, si visto che il regolamento CE 708/2007 subordina ad autorizzazione ogni immissione o trasferimento di tali specie se non comprese nell'allegato IV (come, per esempio, la trota fario); e, per quanto riguarda le specie comprese nell'allegato IV, obbliga gli Stati ad adottare tutte le misure atte a tutelare la biodiversita', e quindi a prevenire l'alterazione dell'ambiente ittico originario.
Il legislatore italiano ha adottato un principio di precauzione consistente nel gia' menzionato divieto assoluto di introduzione di specie alloctone. La normativa regionale impugnata, vanificando tale divieto e non ponendo in opera adeguate misure di tutela della conservazione dell'ambiente originario rispetto all'immissione delle specie in. questione, vanifica invece il principio di tutela posto dal regolarnento n. 708/2007.
Anche nel merito, quindi, complessivamente evidente la contrarieta' della normativa impugnata rispetto ai pertinenti principi derivanti dal diritto dell'Unione europea.
P.Q.M.
Tutto cio' premesso, il presidente del Consiglio come sopra rappresentato e difeso ricorre a codesta ecc.ma Corte costituzionale affinche' voglia dichiarare l'illegittimita' costituzionale articoli 1, 3, 9, 15, 19, 72 comma 1 della legge regionale del Friuli Venezia Giulia 8 aprile 2016 n. 4.
Si produce in estratto conforme la delibera del Consiglio dei ministri del 31 maggio 2016.
Roma, 13 giugno 2016
L'Avvocato dello Stato: Gentili