Ricorso n. 36 del 7 agosto 2007 (Presidente del Consiglio dei ministri)
RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 7 agosto 2007 , n. 36
Ricorso per questione di legittimita' costituzionale depositato in cancelleria il 7 agosto 2007 (del Presidente del Consiglio dei ministri)
(GU n. 38 del 3-10-2007)
Ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, presso la quale ha il proprio domicilio in via dei Portoghesi, 12 - Roma; Contro la Regione Autonoma della Sardegna, in persona del suo presidente per la dichiarazione della illegittimita' costituzionale della legge regionale 29 maggio 2007, n. 2, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione (legge finanziaria 2007) negli articoli 3, commi 1, 2 e 3 e dell'art. 5. Le norme che vengono impugnate sono tributarie ed in materia tributaria gli artt. 117 e 119 Cost. hanno introdotto innovazioni radicali, applicabili alle regioni a statuto speciale attraverso l'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001. Nella legge regionale non e' indicata la sua base costituzionale. Grava, pertanto, su chi ricorre l'onere di ricercarla, utilizzando i dati disponibili, salvo a ritornare sull'argomento quando la regione avra' precisato quelli che sono stati i suoi effettivi riferimenti costituzionali. Come codesta Corte ha avuto occasione di ribadire ripetutamente, e' dallo statuto regionale che si deve prendere le mosse. Una volta individuata la sfera della potesta' legislativa che lo statuto assegna alla regione, si dovra' passare a verificare se il nuovo Titolo V abbia ampliato le autonomie regionali, in vista dell'eventuale applicazione dell'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001. Per questo si premette una indagine rapida sulle potesta' che alla regione derivano dallo statuto e dal Titolo V della Costituzione in modo che se ne possa tenere conto, senza ripetizioni, in occasione dell'esame delle singole norme impugnate. L'art. 8, lett. h) dello statuto speciale per la Sardegna (legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3) consente alla regione di istituire "imposte e tasse sul turismo" ed "altri tributi propri... con legge in armonia con i principi del sistema tributario dello Stato" (le altre entrate delle regioni che vi sono elencate sono estranee al giudizio). La norma, cosi' disponendo, ha esteso la potesta' legislativa della regione desumibile dagli artt. 3 e 4 dello statuto. L'attribuzione della potesta' legislativa e', dunque, specifica per le imposte e tasse sul turismo, e generica per gli altri tributi, che, fermo il carattere di essere propri della regione, dovranno trovare la loro individuazione nelle leggi regionali apposite. Oltre alle imposte sono indicate le tasse sul turismo. La formulazione della norma porta a ritenere che il potere impositivo investa i servizi turistici, vale a dire le prestazioni al quale il turista ha accesso durante la sua permanenza nella regione, prestazioni in corrispondenza alle quali possono essere applicate tasse. Norme analoghe si trovano in altri statuti speciali per la stretta connessione che il turismo ha con il territorio. In conformita' all'art. 3 Cost., secondo le leggi attualmente in vigore alle imposte ed alle tasse sul turismo sono soggetti anche i residenti nella regione quando, passando le loro vacanze fuori del comune di residenza, assumono la veste di turisti. Come si vedra' in seguito, gran parte delle imposte, istituite con le norme che sono impugnate, con esclusione dell'art. 5, non possono essere definite imposte o tasse sul turismo. L'argomento non per questo e' esaurito perche' resta da vedere se possano rientrare negli altri tributi propri, richiamati nell'art. 8, lett. h) dello statuto, che la regione puo' istituire con legge, ma "in armonia con i principi del sistema tributario dello Stato". Norme analoghe si trovano in altri statuti speciali che codesta Corte ha interpretato nel senso che (consentono alla regione di deliberare "tipi" specifici di tributi "nell'ambito, certamente residuale... assegnato dalla vigenza delle leggi tributarie dello Stato, le quali sono applicabili nel territorio della regione stessa" (sent. n. 61/1987) e questo perche' nei "tributi propri" va vista "una figura distinta da quelle appartenenti al sistema tributario dello Stato (con i principi del quale... si deve "armonizzare")" (sent. n. 62/1987). Se poi l'indagine andasse compiuta alla stregua del nuovo Titolo V, la legge regionale, ai sensi (dell'art. 119 Cost., si dovrebbe attenere alle norme di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, materia che l'art. 117, terzo comma, Cost. ha assegnato alla legislazione concorrente delle regioni, da esercitarsi nell'ambito dei principi fondamentali determinati dalla legislazione dello Stato. Questi principi, malgrado quanto dispone l'art. 13 della legge n. 131 del 2003 in coerenza con quanto codesta Corte aveva chiarito da tempo, non possono essere desunti dalla legislazione vigente, il cui presupposto costituzionale era che la potesta' tributaria fosse solo dello Stato, anche quando il gettito delle imposte era assegnato alle regioni. Le "leggi statali vigenti" non possono, pertanto, essere utili per ricavarne i principi fondamentali di un sistema tributario del tutto nuovo. Codesta Corte, pronunciandosi sulla incidenza attuale dell'art. 119 Cost., ha gia' risolto la questione nel senso che "l'attuazione del nuovo disegno costituzionale richiede pero' come necessaria premessa l'intervento del legislatore statale, il quale, al fine di coordinare l'insieme della finanza pubblica, dovra' non solo fissare i principi cui i legislatori regionali dovranno attenersi, ma anche determinare le grandi linee dell'intero sistema tributario e definire gli spazi e i limiti entro i quali potra' esplicarsi la potesta' impositiva, rispettivamente, di Stato, regioni ed enti locali (sent. n. 37/2004)". L'art. 119 Cost. non puo' costituire, pertanto, almeno per il momento, la base costituzionale per la legislazione regionale in materia tributaria, ma ha una valenza, per cosi' dire, negativa nel senso che, sempre secondo la giurisprudenza di codesta Corte, puo' determinare la illegittimita' delle norme che perseguissero obiettivi contrari a quelli dell'art. 119. Secondo l'art. 8, lett. g) dello statuto la potesta' legislativa della regione in materia tributaria deve essere esercitata in armonia con i principi del sistema tributario dello Stato. L'art. 119 Cost. pone come limite i principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Tra le due norme non c'e' coincidenza di effetti. L'art. 119 richiama il coordinamento del sistema tributario, vale a dire le condizioni di compatibilita' tra sistemi tributari, la cui articolazione interna puo' non restare condizionata. I principi del sistema tributario, richiamati dall'art. 8 dello statuto, sono, per cosi' dire, interni al sistema, nel senso che possono incidere sulla struttura delle singole imposte. Non sembra il caso di soffermarsi ulteriormente sull'argomento perche', secondo le enunciazioni di codesta Corte, gia' richiamate, l'art. 119 Cost. non puo', almeno per il momento, rappresentare la base costituzionale della legislazione TRIBUTARIA REGIONALE. Le norme impugnate vanno, pertanto, valutate alla stregua dell'art. 8, 1ett. h) dello statuto. Solo per completezza difensiva, quando ne sara' ravvisata l'opportunita', si terra' conto del nuovo Titolo V nella ipotesi che codesta Corte ne ritenesse la rilevanza. Per alcune delle norme impugnate saranno dedotte anche violazioni comunitarie. Tutte avranno una premessa comune, vale a dire che il mercato turistico sardo ha rilievo comunitario. Non sembra necessario richiamare la giurisprudenza comunitaria sull'argomento: e' ormai un principio non piu' discusso che anche un mercato che interessa un territorio limitato, inferiore a quello nazionale, puo' costituire una parte rilevante del mercato comunitario. Sul mercato turistico sardo, e' ormai notorio, confluisce una clientela non solo europea, ma anche transcontinentale. Se le norme impugnate saranno ritenute costituzionalmente illegittime e per questo espunte dall'ordinamento italiano, le questioni comunitarie resteranno superate per il venire meno della ragione di contrasto con l'ordinamento comunitario. In caso contrario, delle questioni comunitarie dovrebbe essere investita la Corte di giustizia ai sensi dell'art. 234 CE. Art. 3.1. Con questo comma e' stato sostituito l'art. 2 della legge regionale n. 4 del 2006 al quale, piuttosto che modifiche sostanziali, sono state apportate delle semplificazioni. Oggetto dell'imposta sono le plusvalenze realizzate dalla cessione a titolo oneroso delle unita' immobiliari adibite ad uso abitativo, diverse dall'abitazione principale (nella rubrica sono indicate come plusvalenze delle seconde case ad uso turistico). La rubrica, nella versione precedente dell'art. 2, le indicava come plusvalenze dei fabbricati adibiti a seconde case. Secondo la normativa statale (d.P.R. n. 917/1986, art. 81.1, lett. b) le plusvalenze immobiliari sono imponibili solo se realizzate mediante cessione a titolo oneroso di beni immobili acquistati o costruiti da non piu' di cinque anni. La ragione di questo limite temporale e' evidente. Solo se la cessione avviene in tempi brevi puo' vedersi nell'operazione l'intento speculativo. Ma anche in questo caso e' stata esclusa l'imponibilita' quando per la maggior parte del periodo intercorso tra l'acquisto, o la costruzione, e la cessione l'unita' immobiliare e' stata adibita ad abitazione del cedente o dei suoi familiari, utilizzazione sufficiente ad escludere che l'acquisto o la costruzione sia effettuata con intento speculativo. La norma regionale e' orientata nel senso esattamente opposto. Ha eliminato la esclusione, appena richiamata, che l'art. 2 della legge regionale n. 4 del 2006 prevedeva nella sua redazione originaria. Per le unita' immobiliari si richiede ora che siano "diverse dall'abitazione principale", definizione che non corrisponde a quella portata dalla normativa statale per la quale, come si e' gia' rilevato, per la maggior parte del tempo dovevano essere state adibite ad abitazione del cedente (non necessariamente principale), ma anche soltanto dei suoi familiari. Soprattutto, richiedendo che siano acquisite o costruite da piu' di cinque anni, sono state rese non tassabili le plusvalenze realizzate nell'arco di tempo in cui e' presumibile l'intento speculativo e tassabili quelle in cui quell'intento e' improbabile per il lungo lasso di tempo trascorso dal loro acquisto. In pratica, se qualcuno compra una seconda casa, fidando sull'aumento dei prezzi, e realizza la plusvalenza in breve tempo, non sconta l'imposta, alla quale sono soggetti coloro che, dopo aver acquistato la seconda casa, l'hanno utilizzata a lungo e la cedono soltanto perche' sono cambiate le loro esigenze familiari. La legge regionale, piuttosto che in armonia con i principi del sistema tributario dello Stato, come richiede l'art. 8, lett. h) dello statuto regionale, si e' orientata in senso opposto a quei principi. Che l'art. 81.1, lett. b) d.P.R. n. 917/1986 porti una norma di principio non dovrebbe essere posto in dubbio. Uno dei principi della normativa statale e' che nei confronti di una persona fisica, perche' una plusvalenza possa costituire reddito diverso (che l'art. 8.1, lett. a) tiene distinto dai redditi di impresa), e' necessario l'intento speculativo. Per questo nel terzo comma dell'art. 2 e' esclusa l'applicazione dell'imposta alle cessioni effettuate in regime di impresa nel cui reddito complessivo rientrano le plusvalenze. Un secondo principio e' che l'intento speculativo va escluso quando tra l'acquisto e la vendita sia intercorso un tempo tale da farlo ritenere quanto meno improbabile. L'intento speculativo non puo' avere una articolazione diversa regione per regione. Gli immobili per uso turistico in Sardegna sono inseriti nel mercato nazionale il cui andamento non e' condizionato da una eventuale sensibilita' differenziata locale. Lo conferma il fatto che soggetto all'imposta e' "l'alienante avente domicilio fiscale fuori dal territorio regionale", soggetto quindi di un mercato extraregionale. L'imposta e' dovuta se l'unita' immobiliare si trova entro tre chilometri dalla battigia marina (comma 3). La norma fa presumere che il mercato che si intende colpire e' quello del turismo marino; in caso contrario non avrebbe avuto senso porre un limite di distanza dal mare. Fissando una distanza di tre chilometri, senza alcuna deroga, si e' resa irrilevante l'orografia dei luoghi e quindi le diverse possibilita' di accesso al mare. Si sono rese tassabili anche le plusvalenze realizzate su immobili che, per la conformazione dei luoghi, possono essere utilizzate solo per turismo collinare e non marino, a causa della difficile accessibilita' al mare, o per la mancanza di una vera spiaggia o per la sua conformazione, che la rende inadatta alla balneazione, mentre non lo sono quelle realizzate su immobili che, pur a maggior distanza dal mare, si trovano in una posizione che ne consente la vista ed un accesso facile. Nel fissare una distanza, uguale per tutte le spiagge della regione, la norma e' irragionevole e quindi costituzionalmente illegittima. E' prevista una ulteriore esclusione (non esenzione) dall'imposta, questa volta di natura soggettiva: non sono imponibili le plusvalenze realizzate a chi ha il domicilio fiscale in Sardegna da piu' di ventiquattro mesi. Chi risiede in Sardegna e ci risiede oltre un certo periodo, puo', dunque, realizzare tranquillamente una plusvalenza perche' qualunque sia il tempo in cui la realizza, non e' soggetto ad imposta. Il senso della norma, in pratica, e' questo: lo sviluppo turistico ed urbanistico della regione, legato alle sue coste, e' motivo di speculazione; i residenti possono realizzarla senza oneri; chi risiede altrove deve pagare l'imposta. Come codesta Corte ha chiarito da tempo, l'art. 53 Cost. sulla capacita' contributiva e' l'articolazione in materia tributaria del principio di uguaglianza enunciato nell'art. 3 Cost. Nella norma impugnata non si trova alcun elemento per il quale la capacita' contributiva, espressa dalla realizzazione di plusvalenze con la cessione di immobili situati nella regione, sia diversa a seconda che il soggetto risieda in Sardegna o fuori. Questo effetto fa sorgere anche una questione comunitaria, determinando la illegittimita' costituzionale della norma anche ai sensi dell'art. 117, primo comma. L'art. 12 del Trattato CE vieta le discriminazioni fondate sulla nazionalita'. "Si deve rilevare... che, secondo la giurisprudenza della Corte, le norme relative alla parita' di trattamento vietano non soltanto le discriminazioni palesi in base alla cittadinanza, ma anche qualsiasi discriminazione dissimulata che, basandosi su altri criteri di distinzione, pervenga di fatto al medesimo risultato (sentenza 12 febbraio 1974, Sotgiu, punto 11 della motivazione, causa 152/73, Racc. p. 153)". Si e' trascritto dalla sentenza della Corte di giustizia 8 maggio 1990, Biehl, causa C-175/88, punto 13. Poiche' la norma assoggetta all'imposta tutti i non residenti, compresi i cittadini comunitari, si pone in contrasto con l'art. l2 del Trattato, cosi' violando anche l'art. 117, primo comma, Cost. La questione comunitaria resterebbe superata se la norma fosse dichiarata costituzionalmente (illegittima per contrasto con l'art. 8, lett. h) dello statuto regionale. Una imposta che colpisce le plusvalenze, realizzate attraverso la vendita di immobili, non puo' sicuramente essere rapportata al turismo, qualunque sia la nozione che se ne segua. La questione e', comunque, irrilevante perche', sia che si tratti di imposte e tasse sul turismo che di altri tributi, andavano osservati i principi del sistema tributario dello Stato, che invece sono stati violati. L'art. 119 Cost., come si e' gia' rilevato, non puo' costituire un parametro utile per giudicare della legittimita' costituzionale della norma fino a che non interverranno le norme statali di attuazione. In loro mancanza, anche se si ritenesse applicabile l'art. 119, i principi fondamentali in materia di coordinamento del sistema tributario si dovrebbero far corrispondere, almeno invia transitoria, con i principi del sistema tributario dello Stato. Art. 3.2. La rubrica definisce l'imposta "sulle seconde case ad uso turistico". Nel primo comma del nuovo art. 3 della legge regionale n. 4 del 2006 l'imposta viene riferita alle "unita' immobiliari destinate ad uso abitativo, non adibite ad abitazione principale". Stando, pertanto, alla formulazione della norma, e non della sua rubrica, l'imposta e' dovuta qualunque sia l'uso dell'immobile, anche se non turistico, ma, ad esempio, per esigenze di lavoro. Gia' per questo va escluso che si tratti di imposta sul turismo. Presupposto dell'imposta, ai sensi del secondo comma del nuovo art. 3, e' il possesso delle unita' immobiliari di cui al comma 1, vale a dire delle unita' non adibite ad abitazione principale da parte del proprietario. Soggetti passivi dell'imposta sono i proprietari delle unita' immobiliari ovvero i titolari dei diritti reali di usufrutto, uso abitazione. Perche' la norma, sotto questo profilo, non incorra in irragionevolezza, si deve concludere che se il proprietario, o i titolari degli altri diritti reali, non sono nel possesso dell'immobile, l'imposta non e' dovuta, ne' da loro (per mancanza del possesso) ne' dai possessori non titolari di quei diritti, perche' non indicati tra i soggetti passivi. In proposito codesta Corte dovrebbe proporre l'interpretazione corretta, come e' possibile nei ricorsi diretti, se attraverso di essa si evita l'irragionevolezza della norma e la conseguente illegittimita' costituzionale. L'imposta e' dovuta se l'immobile si trova a meno di tre chilometri dalla linea di battigia marina. La fissazione di una distanza in via generale, senza distinzioni, si puo' giustificare in materia urbanistica, quando si deve tenere conto della concentrazione degli insediamenti sulle zone interessate. Non ha lo stesso rilievo quando si versa in materia di imposte, dove e' la capacita' contributiva dei soggetti ad avere rilievo, capacita' contributiva legata al valore dei beni, e non alla loro ubicazione o anche alla loro ubicazione, ma solo in quanto incida sul valore. Rientra nell'esperienza comune che una casa, situata in una zona piatta, ha un valore ridotto perche' non ha vista sul mare e perche' nel periodo estivo, nei giorni afosi, quando l'aria e' stagnante e senza ventilazione, la sensazione di caldo supera i normali valori di sopportabilita'. Una casa, anche se distanza maggiore dalla linea di battigia, situata su di una collina o, comunque, in zona rilevata, non solo non presenta inconvenienti del genere, ma viene ad avere un valore spesso superiore di quelle in prima fila verso il mare che sono piu' vicine al pubblico transito sulla spiaggia ed ai rumori conseguenti. Il criterio e', dunque, tale che di queste possibili differenze di valore, certo non trascurabili, non si tiene alcun conto. Prevedendo una maggiorazione del 20% per i fabbricati ubicati a distanze inferiore ai 300 metri dalla linea di battigia (comma 6 del nuovo art. 3), si sono poste le condizioni per applicare una imposta addirittura maggiore ad immobili che potrebbero avere un valore minore. Fondata come e' sul dato rigido della distanza dal mare e non sul valore di mercato, sembrerebbe che l'imposta sia commisurata alla visibilita' del mare, quindi su valori panoramici. La prima domanda da porsi e' se questi valori siano materia tassabile ai sensi dell'art. 53 Cost. La risposta non puo' essere che negativa. Ma anche se non lo fosse, la norma sarebbe irragionevole perche' strutturata in modo tale che l'imposta sarebbe dovuta anche da chi il mare non lo vede. Gia' da questo punto di vista la norma risulta costituzionalmente illegittima per contrasto con gli artt. 3 e 53 Cost. Anche i criteri per il calcolo dell'imposta sono irragionevoli. Solo per fare un esempio, precisando che lo stesso effetto si verifica per tutti gli scaglioni, per una unita' immobiliare di 60 mq. a 299 metri dalla linea di battigia, l'imposta risulta di 648 euro, che corrisponde all'imposta dovuta per una unita' di 77 mq. posta a 300 metri. L'irragionevolezza emerge anche da un punto di vista diverso. Passando da 60 a 100 mq., vale a dire per un aumento di 40 mq di superficie, l'imposta a mq. e' aumentata del 2,23% (da 9 ad 11 euro). Da 100 a 150 mq., per 50 mq., l'aumento e' del 2,72% (da 11 a 14 euro). Da 150 a 200, sempre per 50 mq., l'aumento e' dello 0,92% (da 14 a 15 euro). Da 200 metri in su (quindi senza limite superiore di superficie) l'aumento e' di 0,66% (da 15 a 16 euro) per ridursi progressivamente in corrispondenza all'aumento della superficie. Anche se la progressivita' dall'art. 53 Cost. e' richiesta per il sistema tributario e non per le singole imposte, non puo' ritenersi ragionevole una imposta che e' progressiva con l'aumentare delle superfici disponibili da 60 mq. a 150, ma che diventa fortemente regressiva da 150 mq. a 200 per diminuire ancora per le superfici maggiori. La irragionevolezza e' evidente e, di conseguenza, e' evidente la violazione dell'art. 3 Cost. Va rilevato che la illegittimita' costituzionale si desume esaminando l'imposta di per se', dando per presupposta la potesta' impositiva della regione, potesta' che, peraltro, va esclusa alla stregua sia dello statuto regionale che dell'art. 117, terzo comma, Cost., in relazione all'art. 119. L'imposta non puo' essere considerata sul turismo perche' il fine turistico non puo' essere ritenuto implicito nel fatto che l'unita' immobiliare non sia adibita ad abitazione principale. Anche riportandola tra gli altri tributi propri (lett. h) dell'art. 8 dello statuto), non sarebbe in armonia con i principi del sistema tributario dello Stato. E non e' una coincidenza che i principi del sistema tributario dello Stato, se osservati, avrebbero impedito di incorrere nelle irragionevolezze che sono state rilevate. L'imposta e' determinata in base alla superficie del fabbricato, senza tenere conto del valore reale, che non e' certo quello che si puo' desumere dai criteri di tassazione adottati. Dato per presupposto che la misura dell'imposta sia commisurata ad un valore che la regione ha presunto, il risultato sarebbe che il valore a mq. aumenterebbe fino a 150 mq. di superficie, riducendosi sensibilmente per superfici superiori, per diventare quasi irrilevante sopra i 300 metri. Non e' facile individuare su quale possibile criterio queste valutazioni sarebbero fondate. Una delle imposte alla quale richiamarsi per individuare i principi e' l'ICI, imposta statale, secondo quanto codesta Corte ha chiarito, anche se il gettito e' destinato ai comuni. Per questa, come per altre imposte di natura reale, i valori presi in considerazione sono quelli catastali, che sono valori medi, determinati con criteri obiettivi per zone omogenee, tenendo conto dei valori di mercato, quindi variabili in corrispondenza alle variazioni di questi ultimi. Questo criterio e' stato ritenuto costituzionalmente legittimo e consente di evitare la irragionevolezza di criteri diversi, di natura astratta per non essere riferiti ai valori effettivi. La tassazione in base ai valori degli immobili, anche se determinati per zone omogenee, va considerato una dei principi del sistema tributario. Questo principio non e' stato seguito dalla norma regionale. La sua base costituzionale non puo' essere desunta, quindi, dallo statuto regionale il cui art. 8, lett. h), che non e' stato osservato. Ma non la si puo' trovare nemmeno nell'art. 119, terzo comma, Cost. attraverso l'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001. Va rilevato che si e' al di fuori della sfera normativa dell'art. 117, terzo comma, Cost., che ha attribuito alla legislazione regionale concorrente il coordinamento del sistema tributario. In discussione e' in questa sede la legittimita' di una norma regionale istituiva di una singola imposta, senza obiettivi di coordinamento. Anche se andasse valutata alla stregua dell'art. 119 Cost., la norma sarebbe in contrasto con i principi di coordinamento delle finanza pubblica e del sistema tributario, quali individuabili in via transitoria in attesa delle norme statali di attuazione dell'art. 119 Cost. Per l'anno 2006, come dispone il comma 9, l'imposta e' dovuta nella misura piu' favorevole al contribuente mediante comparazione tra le misure previste dal presente articolo e quelle precedenti. La norma non fa, pertanto, venire meno la materia del contendere sul ricorso a suo tempo proposto contro l'art. 3 della legge n. 4/2006, che sarebbe comunque applicabile, se piu' favorevole al contribuente. Ma la situazione non cambierebbe in caso contrario. Se fosse dichiarata illegittima costituzionalmente la nuova norma, in ipotesi applicabile perche' piu' favorevole, resterebbe applicabile la precedente cosicche' la verifica della sua legittimita' costituzionale non perderebbe di interesse. Art. 3.3. Secondo la rubrica del nuovo art. 4 della legge regionale n. 4 del 2006, l'imposta regionale e' sullo scalo turistico degli aeromobili e delle unita' da diporto. Lo scopo turistico degli scali si trova solo in questa enunciazione perche' poi non ve ne e' traccia nella disciplina dell'imposta, che colpisce lo scalo di per se' indipendentemente dagli scopi, anche quando nel comma 2, lett. a) e' precisato che gli aeromobili debbono essere adibiti al trasporto privato di persone. Al contrario, dalla natura delle esenzioni, riportate sotto al lett. a) del comma 6, si dovrebbe ricavare che lo scopo turistico e' motivo di esenzione dall'imposta. Anche in questo caso si e' al di fuori dalle tasse sul turismo. L'imposta si applica alle persone fisiche o giuridiche aventi domicilio fiscale fuori dal territorio regionale. Perche' una imposta, cosi' concepita, sia costituzionalmente illegittima si e' gia' visto trattando dei commi precedenti. Per il terzo comma si aggiunge una ulteriore ragione di illegittimita' costituzionale. L'esercizio dell'aeromobile, assunto ai sensi dell'art. 874 c.n., e l'esercizio dell'unita' da diporto, ai sensi degli artt. 265 e ss. c.n., vengono effettuati nella maggiore parte dei casi in forma di impresa. Seppure nel comma 2, lett. a) del nuovo art. 4 il presupposto dell'imposta sia limitato al trasporto privato, i termini della questione non mutano perche' anche questo trasporto viene effettuato nella forma di impresa di servizi. Nei casi in cui i soggetti, proprietari od esercenti, non usufruiranno dell'aeromobile o della unita' di diporto per usi personali, ne restera' interessato il mercato del quale verra' pregiudicata la natura concorrenziale. La prestazione dei servizi di trasporto, anche se con destinazione nella Sardegna, interessa l'intero mercato nazionale nel cui ambito le imprese con sede in Sardegna eviteranno costi che graveranno, invece, su tutte le altre. Che la struttura dell'imposta incida sulla concorrenza, alterandola, e' di tutta evidenza e non richiede argomentazioni ulteriori. La norma viene ad essere costituzionalmente illegittima da un duplice punto di vista. Prima di tutto per violazione dell'art. 117, primo comma, Cost. La norma viola, infatti, l'art. 49 del Trattato CE, introducendo una restrizione alla libera prestazione dei servizi nel mercato sardo dei servizi nautici ed aerei, che costituisce una parte rilevante del mercato europeo, come tale soggetto alla disciplina comunitaria. Viola anche l'art. 8l del Trattato, coordinato con gli artt. 3, lett. g) e 10 del Trattato, perche' ha come effetto di falsare il gioco della concorrenza all'interno del mercato comune. Viola anche l'art. 87 perche' istituisce un aiuto alle imprese con sede in Sardegna. La norma e' costituzionalmente illegittima anche a considerarla rilevante solo per il mercato nazionale perche' investe la materia della concorrenza, riservata alla legislazione statale dall'art. 117, secondo comma, lett. e) Cost., incidendo, di conseguenza, sulla unita' economica della Repubblica, tutelata dall'art. 120 Cost. Prima ancora viola l'art. 3, la cui tutela nella iniziativa economica e' affidata alla normativa sulla concorrenza. La norma risulta costituzionalmente illegittima anche se per la sua irragionevolezza. In quanto imposta, come e' definita, il suo presupposto deve essere indice di capacita' contributiva ai sensi dell'art. 53 Cost. Per quanto riguarda il presupposto, le due componenti, riportate sotto le lett. a) e b) del comma 2, vanno esaminate separatamente. Il presupposto di quella riportata sotto la lettera a) e' costituito dallo scalo negli aerodromi nel territorio regionale nel periodo compreso dal 1° giugno al 30 settembre. Una attivita', esercitata nella stessa forma, non puo' essere considerata espressione di capacita' contributiva diversa a seconda del periodo in cui viene svolta. Se in periodi diversi possono realizzarsi utili maggiori o minori, questi incideranno sulla misura dell'imposta, ma non potranno farne venire meno il presupposto. Tra il 1° giugno ed il 30 settembre si puo' presumere che aumenti il numero degli scali e quindi l'impiego delle attrezzature aeroportuali. Per l'utilizzazione degli impianti aeroportuali sono gia' previsti i diritti aeroportuali, o diritti per l'uso degli aeroporti (legge n. 324/1976), dovuti a chi, in quanto gestore dell'aeroporto, ha a suo carico la gestione e la manutenzione degli impianti aeroportuali. Ogni scalo, pertanto, comporterebbe in Sardegna un duplice effetto: il pagamento di un diritto per l'uso dell'aeroporto in favore di chi fornisce i servizi e che, esercitando l'attivita' in regime di impresa, si procura anche un margine di profitto, dopo aver coperto i costi: il pagamento di un tributo che non puo' essere definito imposta, perche' colpisce i singoli atti di esercizio di un'impresa, e non il risultato utile complessivo, oggetto di una imposizione apposita, e che non puo' essere intesa nemmeno come tassa perche' riscossa da chi non ha nessun coinvolgimento nel servizio utilizzato. La situazione sarebbe veramente singolare: di un'attivita' di impresa sarebbe considerato indice di capacita' contributiva non il risultato utile complessivo, ma il singolo atto di esercizio anche se, preso isolatamente, portasse a risultati passivi. La struttura disarticolata dell'imposta trova una conferma anche nella sua misura. Il criterio e' fondato sul numero di passeggeri al cui trasporto l'aeromobile e' abilitato. Il fatto che sia preso in considerazione non il numero dei passeggeri trasportati effettivamente, ma l'abilitazione, sta ad indicare che la sedicente imposta non tiene conto dei servizi prestati ai passeggeri stessi (il cui corrispettivo si sarebbe potuto richiedere a questi ultimi direttamente), ma dei servizi di cui usufruisce l'aeromobile atterrando, che sono quelli gia' compensati con il pagamento dei diritti per l'uso dell'aeroporto. La duplicazione e' evidente, come ne e' evidente l'irragionevolezza. Anche questa imposta e' regressiva. Per quattro passeggeri l'importo e' di 150 euro. Quando i passeggeri sono dodici, quindi il triplo, l'imposta non aumenta in proporzione, ma si ferma a 400 euro. Dopo oltre dodici passeggeri l'imposta e' sempre di 1000 euro cosicche' piu' sono i passeggeri minore e' l'imposta che si paga, riferita a ciascuno di essi. Non e' facile cogliere i criteri per la ponderazione della capacita' contributiva nei vari casi anche perche' dalla norma non si ricavano elementi utili. Se il numero dei passeggeri effettivamente trasportati e' irrilevante, mentre lo sono le dimensioni dell'aereo (a questa conclusione porta il fatto che sia stata tenuta in considerazione la sola abilitazione al trasporto), diventa motivo di irragionevolezza il fatto che la tassa diminuisca proporzionalmente mano a mano che aumentano le dimensioni dell'aereo. Il presupposto dell'imposta prevista nella lettera b) e' lo scalo, nei luoghi che vi sono elencati, delle unita' utilizzate a scopo di diporto di lunghezza superiore ai 14 metri nel periodo compreso dal 1° giugno al 30 settembre. Della limitazione temporale si e' gia' trattato a proposito degli aeromobili. Si richiamano ugualmente, senza ripeterli, gli argomenti gia' svolti a sostegno della illegittimita' costituzionale fondata sulla violazione del diritto comunitario e degli artt. 3, 117 e 120 Cost. Il fatto che al di sotto dei 14 metri l'imposta non sia applicabile sta ad indicare che si e' ritenuto rilevante l'ingombro del natante, ingombro che costituisce anche il criterio per la determinazione dell'importo dovuto. Per i primi due metri di ingombro oltre il minimo di 14 (da 14 e 15,99 metri, lett. d) sono dovuti 1000 euro, in ragione di 500 euro a ml. Se i metri sono sei (da 14 a 19,99 metri, lett. e) sono dovuti 2000 euro, in ragione di 333,33 (periodico) a ml. Per dieci metri (da 14 a 23,99, lett. f) sono dovuti 3000 euro, in ragione di 300 a ml. Gli euro sono 5000 per 16 ml. (lett. g), in ragione di euro 313 a ml. Gli euro dovuti sono 10.000 per una lunghezza fino a m. 60 (lett. h), in ragione di 217 euro a ml. Sono dovuti 15.000 per lunghezze superiori a 60 metri, senza limiti superiori, con l'effetto che mano a mano che l'ingombro aumenta l'imposta diminuisce. Per ogni scaglione si e' presa in considerazione la dimensione massima per abbreviare l'esposizione e perche' e' guardando ai massimi che la irragionevolezza della disciplina risulta piu' evidente. Anche questa imposta e' decisamente regressiva, carattere che la rende irragionevole e quidi illegittima costituzionalmente ai sensi dell'art. 3 Cost. da qualunque punto di vista la si esamini. Se ci si riferisce alla dimensione non si capisce perche' piu' questa aumenta minore debba essere l'imposta quando, per la struttura dei porti turistici, piu' aumentano gli ingombri, maggiori sono le difficolta' di ormeggio. Ma, soprattutto, maggiori sono le dimensioni, maggiori sono i prezzi di acquisto e quindi la capacita' contributiva degli interessati. Per fare un esempio: una nave (correttamente l'ha cosi' definita la norma) sopra ai sessanta metri ha un prezzo nemmeno comparabile con una barca di 16 metri. L'imposta e' dovuta se lo scalo avviene non solo nei luoghi "ubicati nel territorio regionale" ma anche nei campi di ormeggio attrezzati, ubicati nel mare territoriale. E' un dato pacifico, almeno a quanto risulta sino ad oggi, che ogni potesta' legislativa regionale non puo' produrre effetti al di la' del territorio regionale. La regione Sardegna ne e' consapevole tanto e' vero che nella prima parte della lett. b) del comma 2 ha limitato l'applicazione dell'imposta allo scalo "nei punti di ormeggio ubicati nel territorio regionale". Nella seconda parte l'ha estesa ai campi di ormeggio situati nel mare territoriale. Il mare territoriale non fa parte del territorio delle regioni. La norma e', pertanto, costituzionalmente illegittima per violazione degli artt. 1, 3 ed 8 dello statuto. L'art. 1 individua il territorio della regione nelle "sue isole". Le sue leggi, emanate ai sensi dell'art. 3, non possono produrre effetti all'esterno del suo territorio e, di conseguenza, anche la sua potesta' legislativa in materia tributaria (art. 8, lett. h) non puo' essere esercitata al di la' degli stessi limiti. I presupposti per le sue imposte non possono, pertanto, essere individuati fuori del suo territorio. Viola questi principi la norma in esame che ha posto come presupposto dell'imposta un rapporto tra i natanti ed il mare territoriale, che non costituisce territorio regionale. In ogni caso, e per gli stessi, motivi sarebbero violati gli artt. 117, terzo comma, e 119 Cost. se in essi dovesse vedersi la fonte della potesta' legislativa esercitata dalla regione. L'imposta e' dovuta annualmente (comma 4). Questo significa che, una volta pagata, vale per tutto l'anno. Ma significa anche che e' dovuta gia' a seguito del primo scalo se rimane il solo nell'anno. Lo conferma il fatto che si debba provvedere al pagamento "entro le 24 ore dall'arrivo delle unita' da diporto" (comma 7, lett. b). Anche questa imposta ha carattere regressivo. Piu' scali si fanno, meno sara' in proporzione l'onere tributario, per annullarsi addirittura se l'unita' sosta per tutto l'anno nelle strutture portuali regionali (comma 6, 1ett. b). Il fatto che le due imposte abbiano carattere regressivo sta ad indicare che non intendono colpire un indice di capacita' contributiva, ma hanno presumibilmente come obiettivo di favorire coloro che si trattengono nella regione piu' a lungo, contribuendo in misura maggiore all'arricchimento della economia regionale, obiettivo che certo non ha rapporti con la capacita' contributiva. Anche questa imposta e' dovuta dalla persona fisica o giuridica "avente domicilio fiscale fuori del territorio regionale". Per evitare ripetizioni inutili si richiama quando e' stato gia' detto circa le violazione costituzionali e comunitarie conseguenti a proposito della componente riportata sotto la lettera a). Art. 5. Vi e' istituita l'imposta di soggiorno. Ne costituisce il presupposto il soggiorno nel periodo tra il 15 giugno e il 15 settembre nelle strutture recettive, indicate nel comma 2. Sono soggetti solo coloro "che non risultano iscritti nell'anagrafe della popolazione residente nei comuni della Sardegna" (comma 7). L'imposta e' comunale ed comuni possono applicarla a decorrere dal 2008. La legge regionale ha, dunque, stabilito oltre che il presupposto ed i soggetti, anche la misura, disponendo che e' giornaliera e fissandone l'importo (comma 8); il sostituto tenuto al pagamento ed i tempi del pagamento (comma 10); le modalita' di recupero, la disciplina integrale dell'accertamento, le sanzioni (commi 11 e ss.). Ai comuni resta una sola scelta: se istituirla o non, mentre non hanno nessun potere sulla conformazione dell'imposta. Poteva la regione istituirla? L'art. 119 Cost. - lo si e' gia' rilevato - non puo' costituire la base costituzionale per la legislazione tributaria regionale. Non puo' essere utile nemmeno lo statuto regionale che nell'art. 8 disciplina le entrate della regione e, quindi, nella lett. h) le sole imposte regionali e non quelle comunali, che non poteva prendere in considerazione per il tempo in cui e' stato approvato. D'altro canto, il fatto che la regione abbia istituito una imposta comunale fa presuppone che abbia voluto esercitare la potesta' legislativa desumibile dall'art. 119 Cost. Nella eventualita' che la regione ripieghi sull'art. 8, lett. h) dello statuto, la verifica viene effettuata con riferimento ad esso, salvo a ritornare sull'argomento quando la regione stessa avra' precisato la sua posizione. Codesta Corte ha rilevato che, anche nella situazione costituzionale attuale, la legislazione tributaria, sia statale che regionale, non puo' essere esercitata in contrasto con i principi dell'art. 119, pur se non ancora attuato attraverso la legislazione statale necessaria (tra le altre, sent. n. 16/04 e n. 37/04). Se nella potesta' di istituire proprie imposte e tasse, attribuita dallo statuto, la regione volesse far rientrare anche le imposte comunali, dovrebbe attenersi ai principi del sistema tributario dello Stato. Tra di essi andrebbero riportati i principi desumibili dall'art. 119 Cost. che, secondo codesta Corte, non possono essere contraddetti dalla legislazione tributaria. L'autonomia tributaria e' attribuita non solo alle regioni, ma anche ai comuni (primo comma dell'art. 119), nell'esercizio della quale essi stabiliscono ed applicano tributi ed entrate proprie. Stabilire non puo' essere ridotto alla sola scelta tra adottare o non adottare un' imposta, integralmente disciplinata dalla legge regionale. L'imposta va stabilita dal comune nell'esercizio della sua autonomia finanziaria "secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario". La norma impugnata non puo' essere definita come norma di coordinamento del sistema tributario. Con essa e' stata stabilita un imposta comunale, senza lasciare ai comuni nessun margine di autonomia. La norma andrebbe, pertanto, dichiarata costituzionalmente illegittima per violazione dei principi desumibili dall'art. 119 Cost. La illegittimita' costituzionale risulterebbe ancora piu' evidente se l'art. 119 fosse ritenuto direttamente applicabile attraverso l'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, per il quale le disposizione del nuovo Titolo V si estendono anche alle regioni a statuto speciale "per le parti in cui prevedono forme di autonomia piu' ampie rispetto a quelle gia' attribuite". Queste forme di autonomia piu' ampie non debbono essere riferite solo alle regioni, ma a tutti gli enti ai quali sono state conferite dalle nuove norme costituzionali. La norma impugnata, invece, istituisce direttamente un'imposta comunale lasciando al comune la sola alternativa di adottarla o non. L'imposta non colpisce coloro che non risultano iscritti all'anagrafe della popolazione residente nei comuni della Sardegna; grava, dunque, solo sui non residenti. Dalla legge non si desume quale sia la giustificazione di questa diversita' di trattamento. Se il presupposto e' il soggiorno in un certo periodo nelle strutture recettive indicate, dalla conformazione dell'imposta non si ricava il perche' i residenti in Sardegna non vi siano soggetti. In certe strutture recettive si soggiorna quando si e' fuori del proprio comune di residenza. E questo vale anche per i residenti in Sardegna. Se, pertanto, tutti indistintamente usufruiscono degli stessi servizi e gravano allo stesso modo sul territorio di soggiorno, sia i residenti nella regione che i non residenti non dovrebbero avere un trattamento tributario differenziato poiche' la loro posizione e' identica se rapportata al presupposto dell'imposta. La differenziazione, in quanto non ragionevole, viola l'art. 3 Cost. Di conseguenza la norma che la prevede viene ad essere costituzionalmente illegittima ai sensi dell'art. 117, primo comma, Cost. La violazione e' duplice per il contrasto anche con l'art. 49 del Trattato CE. Secondo quanto la Corte di giustizia ha chiarito da tempo, la liberta' di prestazione dei servizi all'interno della comunita' e' violata anche quando vengono frapposti ostacoli al godimento di servizi da parte di cittadini dei Paesi membri. E non c'e' dubbio che i cittadini dell'Unione subiscano una discriminazione, rispetto i residenti nella regione, in contrasto anche con il principio enunciato nell'art. 12 del Trattato.
P. Q. M. Si conclude perche' sia dichiarata la illegittimita' costituzionale dei commi 1, 2 e 3 dell'art. 3 e dell'art. 5 della legge regionale della Sardegna n. 2 del 2007. Roma, addi' 27 luglio 2007 Il Vice Avvocato generale dello Stato: Glauco Nori