Ricorso per questione di legittimita'  costituzionale  depositato  in cancelleria  l'8  marzo  2019  (del  Presidente  del  Consiglio   dei ministri).

 

(GU n. 22 del 2019-05-29)

 

     Ricorso ex art. 127 Costituzione del  Presidente  del  Consiglio

dei ministri  (c.f.  80188230587)  rappresentato  e  difeso  ex  lege

dall'Avvocatura  generale   dello   Stato   c.f.   80224030587,   fax

06/96514000  e  PEC  roma@mailcert.avvocaturastato.it  presso  i  cui

uffici ex lege domicilia in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

    nei confronti della Regione Liguria  in  persona  del  presidente

della giunta  pro  tempore  per  la  declaratoria  di  illegittimita'

costituzionale degli articoli 2, commi 1, 2, 9,  10  e  11;  30;  35,

commi 1 e 2, e 36 della legge regionale Liguria n. 29 del 27 dicembre

2018 recante «Disposizioni collegate alla  legge  di  stabilita'  per

l'anno 2019», pubblicata nel BUR Liguria 31  dicembre  2018,  n.  20,

giusta delibera del Consiglio dei ministri in data 27 febbraio 2019.

    La legge Regione Liguria n. 29 del 27 dicembre  2018,  pubblicata

sul BUR n. 20 del 31 dicembre 2018, che consta  di  49  articoli,  ha

dettato le «Disposizioni  collegate  alla  legge  di  stabilita'  per

l'anno 2019».

    E' avviso del Governo che, con le norme denunciate  in  epigrafe,

gli articoli 2, commi 1, 2, 9, 10 e 11; 30; 35, commi 1  e  2,  e  36

della legge della Regione  Liguria  n.  29/2018  citata,  la  Regione

Liguria abbia ecceduto dalla propria competenza in  violazione  della

normativa costituzionale, come si confida di dimostrare  in  appresso

con l'illustrazione dei seguenti

 

                                            Motivi

 

1. L'art. 2, comma 1, della legge regionale Liguria 27 febbraio 2018,

n. 29 citata viola gli articoli 51, comma 1,  97,  comma  4,  e  117,

comma 2, lettera l), della Costituzione in relazione all'art. 70  del

decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e all'art.  6  del  decreto

del Presidente della Repubblica 9 maggio 1994, n. 487.

    L'art. 2, comma  1,  citato  sostituisce  l'art.  6  della  legge

regionale n. 15/1996 (Norme sull'assunzione agli impieghi regionali),

disponendo che «1. Il diario  delle  prove  e'  pubblicato  nel  sito

internet  istituzionale  dell'Ente,  con  valenza  di   notifica   ai

candidati a tutti gli effetti, non  meno  di  quindici  giorni  prima

dell'inizio delle prove scritte e non  meno  di  venti  giorni  prima

dell'inizio  della  prova  orale.  Qualora  il  ridotto  numero   dei

candidati lo consenta,  la  convocazione  alle  suddette  prove  puo'

essere effettuata con comunicazione scritta tramite posta elettronica

certificata o raccomandata con avviso di  ricevimento,  nel  rispetto

dei predetti termini di preavviso. La comunicazione del diario  delle

prove scritte puo' essere gia' contenuta nel bando di concorso. 2. Le

procedure concorsuali per il personale da inquadrare nelle  categorie

C e D prevedono lo svolgimento di almeno due fra le seguenti prove:

        a) prova scritta con contenuto teorico, predisposta anche  in

forma di test, quesiti o elaborazioni grafiche,  da  espletare  anche

mediante utilizzo di computer;

        b) prova pratico attitudinale;

        c) prova orale o colloquio.

    3. Le procedure concorsuali  possono  prevedere  anche  eventuali

forme  di  preselezione  che  possono  essere  predisposte  anche  da

soggetti specializzati in selezione del personale».

    La norma contrasta con la normativa statale  di  cui  al  decreto

legislativo n. 165/2001 citato che, all'art. 70,  comma  13,  dispone

che  «In  materia  di  reclutamento,  le  pubbliche   amministrazioni

applicano la disciplina prevista dal  decreto  del  Presidente  della

Repubblica 9 maggio 1994,  n.  487,  e  successive  modificazioni  ed

integrazioni, per le parti  non  incompatibili  con  quanto  previsto

dagli articoli 35 e 36, salvo  che  la  materia  venga  regolata,  in

coerenza con i principi  ivi  previsti,  nell'ambito  dei  rispettivi

ordinamenti».

    L'art. 6, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica n.

487/1994 citato prevede, inoltre, che «Il diario delle prove  scritte

deve essere comunicato ai singoli candidati  almeno  quindici  giorni

prima dell'inizio  delle  prove  medesime.  Tale  comunicazione  puo'

essere sostituita dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale  della

Repubblica - 4ª Serie speciale «Concorsi ed esami».

    L'art. 2 della legge regionale n. 29/2018 citato,  in  violazione

delle  richiamate  disposizioni  della   legislazione   statale   con

riferimento  alle  prove  scritte,  contempla,  in  alternativa  alla

comunicazione personale, la pubblicazione del diario  delle  predette

prove  nella  Gazzetta  Ufficiale.  In  tema  di  pubblicita'   delle

procedure e', inoltre, consolidato orientamento della  giurisprudenza

amministrativa in base al quale le forme di pubblicita' previste  dal

decreto del Presidente della Repubblica n. 487 del 1994  citato,  che

rappresentano una diretta attuazione degli articoli  51  e  97  della

Costituzione, non risultano in alcun modo sostituite dalle  forme  di

«adeguata pubblicita'» della selezione  e  modalita'  di  svolgimento

previste dall'art. 35, comma 3, lettera a), del  decreto  legislativo

n. 165 del 2001 citato (Cons. Stato, sez. V, 8 giugno 2015, n.  2801;

Cons. Stato, sez. V, 25 gennaio 2016, n. 227; Cons. Stato, sez. V, 10

settembre 2018, n. 5298).

    Alla luce delle precedenti  considerazioni  l'art.  2,  comma  1,

citato viola la competenza dello Stato  in  materia  dell'ordinamento

civile  ai  sensi  dell'art.  117,  comma  2,   lettera   l),   della

Costituzione e degli articoli 51, comma  1,  e  97,  comma  4,  della

Costituzione.

2. L'art. 2, commi 2, 9, 10 e 11 della legge  regionale  27  dicembre

2018, n. 29 citata viola gli articoli 2, 3, 51, 97 e  117,  comma  2,

lettera l) della Costituzione in relazione all'art.  37  del  decreto

legislativo 30 marzo 2001, n. 165.

    2.1. L'art. 2 della legge regionale n. 29/2018 citato sostituisce

l'art. 16 della legge regionale n. 15  del  1996,  disciplinando  nel

dettaglio la selezione pubblica per assunzioni di personale  a  tempo

determinato.

    La  norma  come  novellata  presenta  profili  di  illegittimita'

costituzionale.  Sotto  un  primo  profilo,  il  comma  9  del  cosi'

novellato art.  16  prevede  come  facoltativo  l'accertamento  della

conoscenza da parte dei candidati dell'uso  delle  apparecchiature  e

delle applicazioni informatiche piu' diffuse.

    L'art. 37, comma 1, del  decreto  legislativo  n.  165  del  2001

citato dispone, invece, che, a decorrere dal 1° gennaio 2000, i bandi

di concorso per  l'accesso  alle  pubbliche  amministrazioni  di  cui

all'art. 1, comma 2, devono prevedere quali requisiti  di  ammissione

che i candidati abbiano conoscenza dell'uso delle  apparecchiature  e

delle applicazioni informatiche piu' diffuse e di almeno  una  lingua

straniera.

    La norma statale  e'  finalizzata  a  garantire  una  uniforme  e

adeguata selezione adeguata dei candidati.

    L'art. 2 citato, nel rendere meramente facoltativo l'accertamento

del requisito di  conoscenza  delle  apparecchiature  e  applicazioni

informatiche, discostandosi  dalle  chiare  e  univoche  prescrizioni

della legislazione statale richiamate viola gli articoli 3, 51, 97  e

117, comma 2, lettera l), della Costituzione.

    2.2. Sotto un secondo profilo, il comma 10 del novellato art.  16

prevede che le assunzioni che avvengono per  chiamata  dei  candidati

nel rispetto dell'ordine di  avviamento  o  graduatoria  e  che,  per

l'ipotesi che sia necessario  assumere  piu'  dipendenti  con  uguale

decorrenza, ma per periodi di diversa  durata,  l'assunzione  per  il

periodo piu' lungo avviene  nei  confronti  dei  candidati  risultati

idonei seguendo l'ordine della graduatoria o dell'elenco.

    La legislazione statale prevede che, in base  all'art.  1,  comma

361, della legge n. 145 della 2018, «le graduatorie dei concorsi  per

il reclutamento del personale presso le amministrazioni pubbliche  di

cui all'art.  1,  comma  2  del  medesimo  decreto  legislativo  sono

utilizzate  esclusivamente  per  la  copertura  dei  posti  messi   a

concorso».

    La previsione della legge regionale  impugnata  nel  disciplinare

differentemente la  fattispecie  in  modo  difforme  dalla  normativa

statale  e'  costituzionalmente  illegittima  per  violazione   degli

articoli 3, 51, 97 e 117, comma 2, lettera l), della Costituzione.

    2.3. Sotto un terzo profilo, il comma 11 del  novellato  art.  16

stabilendo che «i candidati che si trovino nel periodo corrispondente

all'interdizione anticipata dal lavoro e all'astensione  obbligatoria

per maternita' hanno titolo a permanere in graduatoria  e  ad  essere

richiamati in caso di ulteriore utilizzo della graduatoria stessa  da

parte dell'Amministrazione al termine del  predetto  periodo»,  viola

gli articoli 2, 3, 31 e 51 della Costituzione.

    La norma impugnata, infatti,  nel  dettare  regole  peculiari  in

relazione  alla  fattispecie  del  personale   in   aspettativa   per

maternita', introduce una discriminazione in ragione dello  stato  di

gravidanza, espressamente vietata dall'art. 3 del decreto legislativo

n. 151 del 2001 citato, in violazione degli articoli 2, 3,  31  e  51

della Costituzione.

    La norma  regionale,  infatti,  consente  all'Amministrazione  di

derogare  per  le  candidate  in  astensione  per  maternita'   dalla

graduatoria/ordine  di  merito,  di  non  procedere  al  reclutamento

secondo l'ordine di merito, per il solo fatto che la candidata sia in

stato di gravidanza e di non utilizzare la  stessa  graduatoria,  una

volta trascorso il periodo di interdizione anticipata o di astensione

obbligatoria dal lavoro, sostanzialmente  negando  cosi'  il  diritto

alla assunzione in servizio.

    Nel dettare  tale  disciplina  particolare  per  i  candidati  in

astensione obbligatoria dal lavoro per maternita' la norma  regionale

impugnata introduce una palese discriminazione che viola gli articoli

2, 3, 51 della Costituzione.

3. L'art. 30 della legge regionale 27 dicembre 2018, n. 29 viola  gli

articoli 3 e 117, comma 2, lettera l), della Costituzione.

    L'art.  30  citato,  recante  «Disposizioni  di   interpretazione

autentica», prevede che l'art. 29, comma 2, lettera d),  della  legge

regionale n. 25 del 2006  («sino  alla  data  di  entrata  in  vigore

dell'apposito  accordo  collettivo  nazionale  quadro  relativo  alla

costituzione del profilo professionale  del  personale  addetto  alle

attivita'   di   informazione   e   comunicazione   delle   pubbliche

amministrazioni al personale dell'Ufficio stampa di cui  all'art.  15

si attribuiscono i profili professionali dei giornalisti previsti dal

vigente contratto collettivo  nazionale  di  lavoro  dei  giornalisti

nonche' per equivalente economico  previsto  dal  medesimo  contratto

collettivo  nazionale  di  lavoro  dei  giornalisti  per  i  relativi

profili»),  si  interpreta  «nel  senso  che   l'accordo   collettivo

nazionale quadro e quello definito a seguito  dell'apposita  sequenza

contrattuale di  cui  alla  dichiarazione  congiunta  n.  8  al  CCNL

funzioni  locali  del  21  maggio   2018.   Rimane   comunque   ferma

applicazione dei profili professionali dei giornalisti  previsti  dal

vigente contratto collettivo nazionale  di  lavoro  dei  giornalisti,

nonche' per equivalente economico  previsto  dal  medesimo  contratto

collettivo nazionale di lavoro dei giornalisti per i relativi profili

nei confronti del personale assunto con contralto a tempo determinato

anteriormente alla data del 21 maggio 2018.».

    Nella dichiarazione congiunta  n.  8  al  CCNL  funzioni  locali,

richiamata dalla disposizione regionale  impugnata,  si  legge:  «Con

riferimento all'art. 18-bis [Istituzione  di  nuovi  profili  per  le

attivita' di comunicazione e informazioni],  le  parti  del  presente

contratto, con l'intervento della FNSI ai  fini  di  quanto  previsto

dall'art. 9, comma 5, della legge 7 giugno 2000,  n.  150  convengono

sull'opportunita' di definire, in un'apposita sequenza  contrattuale,

una specifica regolazione di raccordo, anche  ai  sensi  dell'art  2,

comma 3 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, che provveda a

disciplinare l'applicazione della  citata  disposizione  contrattuale

nei confronti del personale al quale, in forza di specifiche, vigenti

norme di legge regionale in materia, sia stata applicata una  diversa

disciplina contrattuale nazionale, seppure  in  via  transitoria.  In

tale  sede,   saranno   affrontate   le   questioni   relative   alla

flessibilita' dell'orario  di  lavoro,  all'autonomia  professionale,

alla previdenza complementare, all'adesione alle casse  previdenziali

e  di  assistenza  dei  giornalisti.  Le  parti  si   danno   inoltre

reciprocamente atto che, in sede di Commissione di cui all'art. 11, i

profili  di  cui  all'art.  18-bis  saranno  oggetto   di   ulteriore

approfondimento   finalizzato   ad   una   eventuale   revisione    o

specificazione del loro contenuto professionale».

    Nonostante il rinvio  alla  sequenza  contrattuale  prevista  dal

CCNL,  l'art.  30,  nel  precisare   che   «rimane   comunque   ferma

l'applicazione dei profili professionali dei giornalisti previsti dal

vigente contratto collettivo nazionale  di  lavoro  dei  giornalisti,

nonche'  l'equivalente  economico  previsto  dal  medesimo  contratto

collettivo nazionale  di  lavoro  dei  giornalisti,  per  i  relativi

profili nei confronti del personale assunto  con  contratto  a  tempo

determinato anteriormente alla data del 21  maggio  2018»,  non  solo

sembra innovare (e non gia' interpretare autenticamente) il contenuto

del sopra menzionato  art.  29,  comma  2,  lettera  d,  della  legge

regionale n. 25 del 2006, ma finisce finanche per  cristallizzate  il

trattamento economico e giuridico applicabile al personale assunto in

data anteriore al 21 maggio 2018.

    A tale riguardo si ricorda che ai sensi  dell'art.  9,  comma  5,

della  legge  regionale  n.  150  del  2000  «negli   uffici   stampa

l'individuazione e la regolamentazione dei profili professionali sono

affidate alla contrattazione collettiva nell'ambito di  una  speciale

area  di  contrattazione,  con  l'intervento   delle   organizzazioni

rappresentative della categoria dei giornalisti. Dall'attuazione  del

presente comma non devono derivare nuovi o maggiori  oneri  a  carico

della finanza pubblica».

    La giurisprudenza costituzionale ha costantemente  affermato  che

«il rapporto di impiego alle dipendenze di regioni  ed  enti  locali,

essendo stato privatizzato» in virtu' dell'art. 2 della legge n.  421

del 1992, dell'art. 11, comma 4, della legge  15  marzo  1997,  n  59

(Delega al Governo per il conferimento di  funzioni  e  compiti  alle

regioni ed enti locali, per la riforma della pubblica amministrazione

e per la semplificazione amministrativa), e dei  decreti  legislativi

emanati  in  attuazione  di  quelle  leggi  delega,  e'  retto  dalla

disciplina generale  dei  rapporti  di  lavoro  tra  privati  ed  e',

percio', soggetto alle regole che garantiscono l'uniformita' di  tale

tipo di rapporti (sentenza n. 95 del 2007).

    Conseguentemente, i  principi  fissati  dalla  legge  statale  in

materia  sono  limiti  di  diritto  privato,  fondati  sull'esigenza,

connessa al precetto  costituzionale  di  eguaglianza,  di  garantire

l'uniformita' nel territorio nazionale delle regole  fondamentali  di

diritto che disciplinano i rapporti fra  privati  e,  come  tali,  si

impongono anche alle regioni a statuto speciale (sentenze n. 234 e n.

106 del 2005; n. 282 del 2004).

    In particolare, poi, dalla legge n. 421 del 1992 puo'  trarsi  il

principio (confermato anche dagli articoli 2, comma 3, terzo e quarto

periodo, e 45 del decreto legislativo n. 165 del 2001  citato)  della

regolazione mediante contratti collettivi del  trattamento  economico

dei dipendenti pubblici (sentenze n. 308 del 2006 e n. 314 del  2003)

che, per le ragioni sopra esposte, si pone quale limite  anche  della

potesta' legislativa esclusiva  che  l'art.  14,  lettera  o),  dello

statuto di autonomia speciale attribuisce  alla  Regione  Sicilia  in

materia di «regime degli enti locali» (sentenza 14  giugno  2007,  n.

189).

    Ne deriva che la  disposizione  regionale  impugnata  risulta  in

contrasto con gli articoli 3  e  117,  comma  2,  lettera  l),  della

Costituzione, dal momento che,  relativamente  al  personale  assunto

entro il 21 maggio 2018, non si limita a rinviare alla contrattazione

collettiva, ma specifica il trattamento economico che gli deve essere

riconosciuto (e, quindi, per il personale in questione, la disciplina

di questi fondamentali aspetti del rapporto di impiego e' il  frutto,

non del libero esplicarsi dell'autonomia negoziale collettiva, bensi'

dell'intervento del legislatore); piu' in generale non dispone che il

rapporto di lavoro di detto personale  debba  essere  regolato  dalla

contrattazione collettiva, bensi' individua  il  trattamento  che  si

deve  applicare  a  quel  personale  (appunto,  quello  previsto  dal

contratto collettivo del  lavoro  giornalistico),  «onde  gli  agenti

negoziali  rappresentativi  delle  categorie  delle   amministrazioni

datrici  di  lavoro  e  dei  dipendenti   interessati   non   possono

contrattare alcunche' in proposito» (sentenza n. 189/2007 citata).

4. L'art. 35, commi 1 e  2,  della  legge  regionale  n.  29  del  27

dicembre 2018 viola gli articoli 117, commi 1 e 2, lettera s),  della

Costituzione, in relazione al decreto del Presidente della Repubblica

8 settembre 1997, n. 357, al decreto legislativo  n.  230/2017  e  ai

Regolamenti comunitari n. 708/2007 e 92/43/CEE.

    L'art. 35, recante «Modifiche  alla  legge  regionale  1°  aprile

2014, n. 8, contenente la "Disciplina della pesca nelle acque interne

e norme per la tutela della relativa fauna ittica  e  dell'ecosistema

acquatico"» dispone che «1. Il  comma  1  dell'art.  16  della  legge

regionale n. 8/2014 e successive  modificazioni  e  integrazioni,  e'

sostituito dal  seguente:  "1.  E'  vietata  l'immissione  di  specie

ittiche non autoctone". 2. Dopo il comma 1 dell'art. 16  della  legge

regionale n. 8/2014 e successive  modificazioni  e  integrazioni,  e'

inserito  il  seguente:  "1-bis.  Ai  fini  dell'applicazione   della

presente legge, costituisce immissione di specie ittiche il  rilascio

in natura di  esemplari  attualmente  o  potenzialmente  interfecondi

idonei   a   costituire   popolazioni   naturali    in    grado    di

autoriprodursi.».

    Il problema delle specie aliene invasive e' tra le  priorita'  di

intervento europeo e  nazionale  in  tema  di  gestione  della  fauna

ittica.

    Le norme comunitarie e nazionali sul tema della alloctonia mirano

a proteggere l'habitat naturale e la fauna selvatica; la  continuita'

della immissione di materiale ittico non  autoctono  pone  a  rischio

l'habitat naturale e le specie autoctone.

    In tale contesto la direttiva  92/43/CEE,  con  la  finalita'  di

tutela  dell'ecosistema,  rimette   al   legislatore   nazionale   la

disciplina delle immissioni del  materiale  ittico;  nel  recepimento

della direttiva il legislatore  ha  disposto  che  «sono  vietate  le

reintroduzione, l'introduzione e il ripopolamento in natura di specie

e popolazioni non autoctone» (art. 12, comma 3, D.P.R. n. 357/1993).

    La  norma  regionale  impugnata  viola  la  richiamata  normativa

nazionale e comunitaria, perche' autorizza le  immissioni  di  specie

alloctone,  senza  il  rispetto  dell'intero  sistema  di   verifiche

preventive e di autorizzazioni,  superando  il  divieto  assoluto  di

introduzione, previsti dalla richiamata normativa statale di settore,

attuativa di precise prescrizioni di diritto europeo -  espresse  dal

regolamento (UE) n. 1143 del 2014 e dal regolamento  CE  n.  708  del

2007  -  e,  comunque,   fondante   standard   uniformi   di   tutela

dell'ambiente, non soggetti a differenti discipline tra le regioni.

    L'art. 35, consentendo l'immissione di esemplari  di  specie  non

autoctone purche' sterili, contrasta con  l'art.  12,  comma  3,  del

decreto del Presidente della Repubblica 8  settembre  1997,  n.  357,

costituente  parametro   interposto,   che,   invece,   disciplinando

«Introduzioni e reintroduzioni», al comma 3, prevede, come detto, che

«sono vietate la reintroduzione, l'introduzione e il ripopolamento in

natura  di  specie  e  popolazioni  non  autoctone»;  il  divieto  ha

carattere generale e non e' circoscritto ai soli esemplari fecondi.

    Inoltre, il decreto legislativo 15 dicembre 2017, n. 230, recante

«Adeguamento  della  normativa  nazionale   alle   disposizioni   del

regolamento (UE) n. 1143/2014 del Parlamento europeo e del  Consiglio

del 22 ottobre 2014, recante disposizioni volte a prevenire e gestire

l'introduzione e  la  diffusione  delle  specie  esotiche  invasive»,

all'art. 6, comma 1, vieta il rilascio nell'ambiente di esemplari  di

specie esotiche invasive  di  rilevanza  unionale,  transnazionale  o

nazionale.

    Il  regolamento   (CE)   708/2007,   «relativo   all'impiego   in

acquacoltura di specie esotiche  e  di  specie  localmente  assenti»,

prevede l'adozione di procedure e  provvedimenti  volti  a  garantire

un'adeguata protezione degli habitat acquatici dai  rischi  derivanti

dall'impiego di specie alloctone in acquacoltura.

    L'art. 35, nel prevedere il rilascio di esemplari di  specie  non

autoctone se sterili si pone in palese contrasto  con  la  richiamata

disciplina  nazionale  e  comunitaria  che,  a  tutela  delle  specie

autoctone,  vieta  l'immissione  delle  specie  non  autoctone  senza

eccezioni.

    La circostanza che le specie non autoctone siano  infeconde,  non

esclude, invero, il rischio connesso alla compresenza di specie.

    La norma regionale viola, pertanto, l'art. 117,  comma  1,  della

Costituzione, per il contrasto con il principio  di  precauzione  che

trova relativa espressione  nelle  disposizioni  della  direttiva  n.

92/43/CEE  relativa  alla  conservazione  degli  habitat  naturali  e

seminaturali e  della  flora  e  della  fauna  selvatiche  (direttiva

Habitat), le quali consentono  agli  Stati  membri,  in  funzione  di

conservazione dell'equilibrio ambientale, di  vietare  l'introduzione

di specie alloctone, come previsto dalla legislazione statale.

    L'introduzione, la reintroduzione e il ripascimento delle  specie

ittiche, sono regolate dall'art. 12 del decreto del Presidente  della

Repubblica n. 357 del 1997 citato, come modificato  dal  decreto  del

Presidente della Repubblica n. 120 del 2003, in attuazione della c.d.

Direttiva  Habitat  che  richiede  agli  Stati  membri  di   valutare

l'opportunita'  di  reintrodurre  specie  autoctone,  qualora  questa

misura  possa   contribuire   alla   loro   conservazione,   sia   di

regolamentare, ed eventualmente vietare, le  introduzioni  di  specie

alloctone che possano arrecare pregiudizio alla  conservazione  degli

habitat o delle specie autoctone (art. 22, lettere a e b).

    In  attuazione  della  direttiva  comunitaria,  il  decreto   del

Presidente della Repubblica n. 357  del  1997,  come  modificato  nel

2003, consente, come detto, la reintroduzione delle specie autoctone,

sulla base di linee guida del  Ministero  dell'ambiente,  secondo  le

procedure stabilite dall'art. 12, comma 2, e vieta espressamente e in

via generale la reintroduzione, l'introduzione e il ripopolamento  in

natura di specie non autoctone (art. 12, comma 3, citato).

    Relativamente all'immissione di specie ittiche nei  corpi  idrici

regionali, la disciplina dell'introduzione,  della  reintroduzione  e

del  ripopolamento  di  specie  animali  rientra,   pertanto,   nella

esclusiva competenza statale di cui all'art. 117,  comma  2,  lettera

s), della Costituzione, trattandosi di regole di tutela dell'ambiente

e dell'ecosistema e  non  solo  di  discipline  d'uso  della  risorsa

ambientale-faunistica».

    Nell'esercizio di tale sua competenza esclusiva,  finalizzata  ad

una «tutela piena ed adeguata» dell'ambiente, lo  Stato  «puo'  porre

limiti invalicabili di tutela» (sentenza n. 30 del 2009; nello stesso

senso, sentenza n. 288 del 2012).

    A  tali  limiti  le  regioni  devono  adeguarsi  nel  dettare  le

normative d'uso dei beni ambientali, o, comunque,  nell'esercizio  di

altre   proprie   competenze,   rimanendo   libere    di    definire,

nell'esercizio della loro potesta'  legislativa,  «limiti  di  tutela

dell'ambiente anche piu' elevati di quelli statali» (sentenza  n.  30

del 2009; in senso conforme sentenza n. 151 del 2011).

    Con riferimento alle specie alloctone, l'art. 12,  comma  3,  del

citato decreto del Presidente  della  Repubblica  n.  357/1993  vieta

espressamente e in via generale la reintroduzione,  l'introduzione  e

il ripopolamento in natura di «specie e  popolazioni  non  autoctone»

(sentenza n. 30 del 2009).

    L'art. 35 impugnato si pone in contrasto con i  principi  sanciti

dalla  normativa  statale   ed   eurounitaria   citata,   consentendo

l'immissione di specie alloctone, seppure sterili, nei  corpi  idrici

naturali,  senza  valutare  gli  effetti   sul   popolamento   ittico

originario  e,   piu'   in   generale,   sull'ecosistema   acquatico,

consentendo  una  attivita'   potenzialmente   lesiva   della   fauna

autoctona.

    L'art. 35, commi 1 e 2, viola, pertanto, gli articoli 117,  comma

1, e 117, comma 2, lettera s), della Costituzione.

5. L'art. 36 della legge regionale 27 dicembre 2018, n. 29 viola  gli

articoli 97, 117,  comma  1,  e  117,  comma  2,  lettera  s),  della

Costituzione in relazione alla legge 11 febbraio 1992, n. 157 e  alla

direttiva comunitaria 92/43/CEE.

    L'art. 36, recante «Modifica alla legge regionale 1° luglio 1994,

n. 29, (Norme regionali per la protezione della fauna omeoterma e per

il prelievo venatorio), sostituisce il comma  7  dell'art.  34  della

legge regionale n. 29/1994, disponendo che «In  attuazione  dell'art.

18, comma 6, della legge n. 157/1992  e  successive  modificazioni  e

integrazioni, prevista l'integrazione di due giornate settimanali per

l'esercizio venatorio da appostamento alla fauna selvatica migratoria

nel periodo intercorrente tra il 1° ottobre  e  il  30  novembre.  La

giunta regionale, sentito l'ISPRA, ha la facolta' di modificare  tale

integrazione».

    La norma introduce stabilmente due giornate di  caccia  a  quelle

gia' previste, ampliando cosi' la possibilita' venatoria della  fauna

selvatica  e,  per  quanto  qui  rileva,  modificando  per  legge  il

calendario venatorio. La possibilita' di ampliamento  delle  giornate

di caccia e' prevista  dalla  normativa,  ma  e'  subordinata  a  una

valutazione discrezionale.

    Il calendario venatorio e le modifiche allo stesso sono  adottati

all'esito  di   istruttoria,   acquisito   il   parere   ISPRA,   con

provvedimento amministrativo; il rispetto del  procedimento  risponde

all'esigenza di garantire che eventuali  repentini  ed  imprevedibili

mutamenti delle circostanze di fatto  possano  pregiudicare  il  bene

ambiente.

    Si ricorda che e' principio fondante di  derivazione  comunitaria

l'obbligo di adeguata istruttoria e  motivazione  che  si  impone  al

legislatore regionale nell'adottare norme anche se di maggior  tutela

dell'ambiente. In tale contesto la legge 11 febbraio  1992,  n.  157,

all'art. 18, comma 4, prescrive  che  il  calendario  venatorio,  sia

adottato con  regolamento  in  relazione  ad  ogni  singola  stagione

venatoria.

    L'art. 36 impugnato non e' conforme ai principi enunciati e  alla

legge richiamata, prevedendo, come detto, la modifica  con  legge  in

via generale ed astratta del calendario venatorio della Regione.

    Secondo i principi costantemente affermati  dalla  giurisprudenza

costituzionale la disciplina sulla caccia ha  per  oggetto  la  fauna

selvatica, che rappresenta «un bene ambientale di  notevole  rilievo,

la  cui  tutela  rientra  nella  materia   tutela   dell'ambiente   e

dell'ecosistema»,  affidata  alla  competenza  legislativa  esclusiva

dello Stato, che deve provvedervi assicurando un livello  di  tutela,

«minimo», ma «adeguato e non riducibile» (sentenza n. 193 del 2010).

    La  normativa  statale  in  tema  di   tutela   dell'ambiente   e

dell'ecosistema,   esprime,   infatti,   regole    minime    uniformi

inderogabili dalle regioni se non innalzando i livelli di tutela  (ex

plurimis, sentenze n. 2 del 2015; n. 278 del 2012; n. 151 del 2011  e

n. 315 del 2010) costituenti (come nel caso della legge  11  febbraio

1992, n. 157 citata, il nucleo minimo  di  salvaguardia  della  fauna

selvatica e  il  cui  rispetto  deve  essere  assicurato  sull'intero

territorio nazionale (sentenza n. 233/2010).

    Le norme statali ed eurounitarie, la direttiva 92/43/CEE, art. 6,

comma  3,  del  Consiglio,  del  21  maggio   1992,   relativa   alla

conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della  flora  e

della fauna selvatiche c.d. «Direttiva Habitat»  e  la  direttiva  n.

79/409/CEE c.d. «Direttiva Uccelli», disciplinano la materia dettando

norme imperative che devono essere rispettate sull'intero  territorio

nazionale per primarie esigenze di tutela ambientale.

    L'art.  18,  comma  2,  della  legge  n.  157  del  1992  citato,

espressione della competenza di cui all'art. 117,  comma  2,  lettera

s), della Costituzione, prevede la possibilita'  per  le  regioni  di

modificare il calendario venatorio, con riferimento all'elenco  delle

specie tacciabili e al  periodo  in  cui  e'  consentita  la  caccia,

indicati dal precedente  comma  1,  attraverso  un  procedimento  che

prevede l'acquisizione del  parere  dell'Istituto  nazionale  per  la

fauna selvatica (nelle cui competenze oggi e'  subentrato  l'istituto

superiore per la protezione e la ricerca ambientale - ISPRA).

    Il comma 4 dello stesso art. 18  della  legge  n.  157  del  1992

citata,  dispone  che  il  calendario  venatorio  sia  approvato  con

regolamento, modalita' prescelta da legislatore statale  che  attiene

alle modalita' di protezione della fauna e  si  ricollega,  per  tale

ragione, alla competenza esclusiva dello Stato in materia  di  tutela

dell'ambiente  e  dell'ecosistema  (sentenza  n.  536  del  2002;  in

seguito,  con  riferimento   alla   determinazione   della   stagione

venatoria, sentenze n. 165 del 2009; n. 313  del  2006;  n.  393  del

2005; n. 391 del 2005; n. 311 del 2003 e n. 226 del 2003).

    La normativa statale richiamata costituisce parametro  interposto

come espressione della  competenza  esclusiva  dello  Stato  a  porre

standard uniformi  di  tutela  dell'ambiente  e  dell'ecosistema  non

derogabili in peius dalle regioni in  base  all'art.  117,  comma  2,

lettera s), della Costituzione.

    La disciplina normativa in  materia  di  protezione  della  fauna

selvatica e di prelievo venatorio e',  invero,  dettata  dalla  legge

quadro n. 157 del 1992, che costituisce ai sensi dell'art. 117, comma

2, lettera s), della Costituzione, il nucleo minimo  di  salvaguardia

della fauna selvatica  e  il  cui  rispetto  deve  essere  assicurato

sull'intero territorio nazionale (sentenza n. 233/2010).

    E' principio affermato che  «spetta  allo  Stato,  nell'esercizio

della  potesta'  legislativa   esclusiva   in   materia   di   tutela

dell'ambiente e  dell'ecosistema,  prevista  dall'art.  117,  secondo

comma, lettera s,), Cost., stabilire standard minimi  e  uniformi  di

tutela della fauna, ponendo  regole  che  possono  essere  modificate

dalle regioni  nell'esercizio  della  loro  potesta'  legislativa  in

materia di caccia, esclusivamente nella  direzione  dell'innalzamento

del livello di tutela» (ex plurimis, sentenze n.  303  del  2103;  n.

278, n. 116 e n. 106 del 2012).

    Il procedimento deve, pertanto, concludersi con l'adozione di  un

provvedimento amministrativo e non, come  e'  avvenuto  nel  caso  di

specie, con un intervento di natura normativa.

    L'approvazione  del  calendario   venatorio   con   provvedimento

amministrativo  e'  imposta  dalla  necessita'  di   assicurare   una

flessibilita'  della  disciplina  in  materia,   come   costantemente

riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale (sentenza n.  7  del

2019, punto 6.3. del Considerato in diritto; sentenza n. 20 e n.  105

del 2012).

    L'espressione di cui all'art. 18, comma 4,  per  cui  le  regioni

hanno  l'obbligo  di  pubblicare  «il  calendario  regionale  ed   il

regolamento relativi all'intera annata venatoria», e' da  intendersi,

difatti, come riferita a  un  unico  atto  di  natura  regolamentare,

contenente le specifiche norme applicabili nel  territorio  regionale

durante il periodo venatorio preso in considerazione.

    Anche per la sua  efficacia  temporale  (annuale)  il  calendario

venatorio deve essere approvato con  provvedimento  amministrativo  e

non anche con  una  legge,  non  essendo  consentito  al  legislatore

regionale   sostituirsi   all'amministrazione   della   Regione   nel

compimento di un'attivita' di regolamentazione che l'art. 18, commi 2

e  4,  della  legge  n.  157  del  1992  citato  riserva  alla  sfera

amministrativa.

    In questa prospettiva, l'art. 18 della  legge  n.  157  del  1992

citato, predetermina gli esemplari abbattibili, specie per  specie  e

nei periodi indicati, ma  consente  alla  Regione  l'introduzione  di

limitate deroghe motivate con  riferimento  al  parere  dell'Istituto

superiore per la protezione e la ricerca ambientale - ISPRA (art. 18,

commi 2 e 4, citati).

    Il parere non e', invece previsto dalla norma impugnata.

    La scelta  del  regolamento  per  l'approvazione  del  calendario

venatorio non solo e' coerente con il  peculiare  contenuto  che  nel

caso di specie l'atto andra' ad assumere, si inserisce  armonicamente

nel tessuto della legge n. 157 del  1992  citata,  ma  si  riconnette

altresi' a un regime di flessibilita' piu' marcato  che  nell'ipotesi

in cui il contenuto del provvedimento sia cristallizzato nella  forma

della legge, a tutela del  bene  ambiente  (in  termini,  la  recente

sentenza n. 7 del 2019 citata).

    Tale assetto e' il solo idoneo a prevenire i danni che potrebbero

conseguire a un repentino e imprevedibile mutamento delle circostanze

di fatto  in  base  alle  quali  il  calendario  venatorio  e'  stato

approvato.

    Sul punto si richiama quanto disposto all'art. 19, comma 1, della

legge n. 157 del 1992 citata, che prevede il ricorso da  parte  della

Regione a divieti imposti  da  «sopravvenute  particolari  condizioni

ambientali, stagionali o  climatiche  o  per  malattie  o  per  altre

calamita'».

    La legge, prescrivendo la pubblicazione del calendario  venatorio

e contestualmente del «regolamento» sull'attivita' venatoria e previa

l'acquisizione obbligatoria del parere dell'ISPRA ed esplicitando  la

natura tecnica  dell'intervento,  ha  descritto  il  procedimento  di

competenza della Regione.

    La  procedimentalizzazione  della  materia  ha  la  finalita'  di

contemperare  gli  interessi  ambientali  in   gioco,   connotandosi,

altresi',  per  una  coerente  motivazione  che,  nel  rispetto   del

principio di buon andamento dell'amministrazione, deve tradursi in un

provvedimento amministrativo espresso.

    Sulla  necessita'   che,   nell'ipotesi   in   cui   la   materia

dell'intervento  riguardi  la  tutela   dell'ambiente,   l'intervento

regionale avvenga  nel  rispetto  del  modulo  procedimentale  e  dei

criteri fissati dalla legislazione statale, con specifico riferimento

alla piu' corretta scelta dell'atto  amministrativo  rispetto  a  una

legge-provvedimento, da ultimo la sentenza n. 28/2019, punto 2.3. del

Considerato in diritto.

    L'art.  36,  nel  prevedere  stabilmente  l'integrazione  di  due

giornate settimanali per l'esercizio venatorio da  appostamento  alla

fauna selvatica migratoria, viola le disposizioni della legge n.  157

del  1992  citata,  ponendosi  in  contrasto  con  l'art.  97   della

Costituzione per il mancato rispetto del principio di buon  andamento

dell'amministrazione. L'art. 36 viola l'art. 117,  comma  2,  lettera

s), della Costituzione, perche' riduce in peius il livello di  tutela

della fauna selvatica stabilito dalla legislazione nazionale e  dalle

direttive  comunitarie  in  materia  (art.  6,  comma  3,   direttiva

92/43/CEE c.d. «Direttiva habitat» e  direttiva  n.  79/409/CEE  c.d.

«Direttiva  Uccelli»)  richiamate,  invadendo   illegittimamente   la

competenza legislativa esclusiva dello Stato  in  materia  di  tutela

dell'ambiente e dell'ecosistema.

 

                                           P.Q.M.

 

    Si conclude perche' gli articoli 2, commi 1, 2, 9, 10 e  11;  30;

35, commi 1 e 2, e 36 della legge della Regione Liguria n. 29 del  27

dicembre  2018,  recante  «Disposizioni  collegate  alla   legge   di

stabilita' per  l'anno  2019»,  siano  dichiarati  costituzionalmente

illegittimi.

 

Roma, 1° marzo 2019

Il Vice Avvocato generale dello Stato: Palmieri

e per l'Avvocato dello Stato: Morici

 

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