Ricorso n.41 dell'8 marzo 2019 (del Presidente del Consiglio dei Ministri)
Ricorso per questione di legittimita' costituzionale depositato in cancelleria l'8 marzo 2019 (del Presidente del Consiglio dei ministri).
(GU n. 22 del 2019-05-29)
Ricorso ex art. 127 Costituzione del Presidente del Consiglio
dei ministri (c.f. 80188230587) rappresentato e difeso ex lege
dall'Avvocatura generale dello Stato c.f. 80224030587, fax
06/96514000 e PEC roma@mailcert.avvocaturastato.it presso i cui
uffici ex lege domicilia in Roma, via dei Portoghesi n. 12;
nei confronti della Regione Liguria in persona del presidente
della giunta pro tempore per la declaratoria di illegittimita'
costituzionale degli articoli 2, commi 1, 2, 9, 10 e 11; 30; 35,
commi 1 e 2, e 36 della legge regionale Liguria n. 29 del 27 dicembre
2018 recante «Disposizioni collegate alla legge di stabilita' per
l'anno 2019», pubblicata nel BUR Liguria 31 dicembre 2018, n. 20,
giusta delibera del Consiglio dei ministri in data 27 febbraio 2019.
La legge Regione Liguria n. 29 del 27 dicembre 2018, pubblicata
sul BUR n. 20 del 31 dicembre 2018, che consta di 49 articoli, ha
dettato le «Disposizioni collegate alla legge di stabilita' per
l'anno 2019».
E' avviso del Governo che, con le norme denunciate in epigrafe,
gli articoli 2, commi 1, 2, 9, 10 e 11; 30; 35, commi 1 e 2, e 36
della legge della Regione Liguria n. 29/2018 citata, la Regione
Liguria abbia ecceduto dalla propria competenza in violazione della
normativa costituzionale, come si confida di dimostrare in appresso
con l'illustrazione dei seguenti
Motivi
1. L'art. 2, comma 1, della legge regionale Liguria 27 febbraio 2018,
n. 29 citata viola gli articoli 51, comma 1, 97, comma 4, e 117,
comma 2, lettera l), della Costituzione in relazione all'art. 70 del
decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e all'art. 6 del decreto
del Presidente della Repubblica 9 maggio 1994, n. 487.
L'art. 2, comma 1, citato sostituisce l'art. 6 della legge
regionale n. 15/1996 (Norme sull'assunzione agli impieghi regionali),
disponendo che «1. Il diario delle prove e' pubblicato nel sito
internet istituzionale dell'Ente, con valenza di notifica ai
candidati a tutti gli effetti, non meno di quindici giorni prima
dell'inizio delle prove scritte e non meno di venti giorni prima
dell'inizio della prova orale. Qualora il ridotto numero dei
candidati lo consenta, la convocazione alle suddette prove puo'
essere effettuata con comunicazione scritta tramite posta elettronica
certificata o raccomandata con avviso di ricevimento, nel rispetto
dei predetti termini di preavviso. La comunicazione del diario delle
prove scritte puo' essere gia' contenuta nel bando di concorso. 2. Le
procedure concorsuali per il personale da inquadrare nelle categorie
C e D prevedono lo svolgimento di almeno due fra le seguenti prove:
a) prova scritta con contenuto teorico, predisposta anche in
forma di test, quesiti o elaborazioni grafiche, da espletare anche
mediante utilizzo di computer;
b) prova pratico attitudinale;
c) prova orale o colloquio.
3. Le procedure concorsuali possono prevedere anche eventuali
forme di preselezione che possono essere predisposte anche da
soggetti specializzati in selezione del personale».
La norma contrasta con la normativa statale di cui al decreto
legislativo n. 165/2001 citato che, all'art. 70, comma 13, dispone
che «In materia di reclutamento, le pubbliche amministrazioni
applicano la disciplina prevista dal decreto del Presidente della
Repubblica 9 maggio 1994, n. 487, e successive modificazioni ed
integrazioni, per le parti non incompatibili con quanto previsto
dagli articoli 35 e 36, salvo che la materia venga regolata, in
coerenza con i principi ivi previsti, nell'ambito dei rispettivi
ordinamenti».
L'art. 6, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica n.
487/1994 citato prevede, inoltre, che «Il diario delle prove scritte
deve essere comunicato ai singoli candidati almeno quindici giorni
prima dell'inizio delle prove medesime. Tale comunicazione puo'
essere sostituita dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica - 4ª Serie speciale «Concorsi ed esami».
L'art. 2 della legge regionale n. 29/2018 citato, in violazione
delle richiamate disposizioni della legislazione statale con
riferimento alle prove scritte, contempla, in alternativa alla
comunicazione personale, la pubblicazione del diario delle predette
prove nella Gazzetta Ufficiale. In tema di pubblicita' delle
procedure e', inoltre, consolidato orientamento della giurisprudenza
amministrativa in base al quale le forme di pubblicita' previste dal
decreto del Presidente della Repubblica n. 487 del 1994 citato, che
rappresentano una diretta attuazione degli articoli 51 e 97 della
Costituzione, non risultano in alcun modo sostituite dalle forme di
«adeguata pubblicita'» della selezione e modalita' di svolgimento
previste dall'art. 35, comma 3, lettera a), del decreto legislativo
n. 165 del 2001 citato (Cons. Stato, sez. V, 8 giugno 2015, n. 2801;
Cons. Stato, sez. V, 25 gennaio 2016, n. 227; Cons. Stato, sez. V, 10
settembre 2018, n. 5298).
Alla luce delle precedenti considerazioni l'art. 2, comma 1,
citato viola la competenza dello Stato in materia dell'ordinamento
civile ai sensi dell'art. 117, comma 2, lettera l), della
Costituzione e degli articoli 51, comma 1, e 97, comma 4, della
Costituzione.
2. L'art. 2, commi 2, 9, 10 e 11 della legge regionale 27 dicembre
2018, n. 29 citata viola gli articoli 2, 3, 51, 97 e 117, comma 2,
lettera l) della Costituzione in relazione all'art. 37 del decreto
legislativo 30 marzo 2001, n. 165.
2.1. L'art. 2 della legge regionale n. 29/2018 citato sostituisce
l'art. 16 della legge regionale n. 15 del 1996, disciplinando nel
dettaglio la selezione pubblica per assunzioni di personale a tempo
determinato.
La norma come novellata presenta profili di illegittimita'
costituzionale. Sotto un primo profilo, il comma 9 del cosi'
novellato art. 16 prevede come facoltativo l'accertamento della
conoscenza da parte dei candidati dell'uso delle apparecchiature e
delle applicazioni informatiche piu' diffuse.
L'art. 37, comma 1, del decreto legislativo n. 165 del 2001
citato dispone, invece, che, a decorrere dal 1° gennaio 2000, i bandi
di concorso per l'accesso alle pubbliche amministrazioni di cui
all'art. 1, comma 2, devono prevedere quali requisiti di ammissione
che i candidati abbiano conoscenza dell'uso delle apparecchiature e
delle applicazioni informatiche piu' diffuse e di almeno una lingua
straniera.
La norma statale e' finalizzata a garantire una uniforme e
adeguata selezione adeguata dei candidati.
L'art. 2 citato, nel rendere meramente facoltativo l'accertamento
del requisito di conoscenza delle apparecchiature e applicazioni
informatiche, discostandosi dalle chiare e univoche prescrizioni
della legislazione statale richiamate viola gli articoli 3, 51, 97 e
117, comma 2, lettera l), della Costituzione.
2.2. Sotto un secondo profilo, il comma 10 del novellato art. 16
prevede che le assunzioni che avvengono per chiamata dei candidati
nel rispetto dell'ordine di avviamento o graduatoria e che, per
l'ipotesi che sia necessario assumere piu' dipendenti con uguale
decorrenza, ma per periodi di diversa durata, l'assunzione per il
periodo piu' lungo avviene nei confronti dei candidati risultati
idonei seguendo l'ordine della graduatoria o dell'elenco.
La legislazione statale prevede che, in base all'art. 1, comma
361, della legge n. 145 della 2018, «le graduatorie dei concorsi per
il reclutamento del personale presso le amministrazioni pubbliche di
cui all'art. 1, comma 2 del medesimo decreto legislativo sono
utilizzate esclusivamente per la copertura dei posti messi a
concorso».
La previsione della legge regionale impugnata nel disciplinare
differentemente la fattispecie in modo difforme dalla normativa
statale e' costituzionalmente illegittima per violazione degli
articoli 3, 51, 97 e 117, comma 2, lettera l), della Costituzione.
2.3. Sotto un terzo profilo, il comma 11 del novellato art. 16
stabilendo che «i candidati che si trovino nel periodo corrispondente
all'interdizione anticipata dal lavoro e all'astensione obbligatoria
per maternita' hanno titolo a permanere in graduatoria e ad essere
richiamati in caso di ulteriore utilizzo della graduatoria stessa da
parte dell'Amministrazione al termine del predetto periodo», viola
gli articoli 2, 3, 31 e 51 della Costituzione.
La norma impugnata, infatti, nel dettare regole peculiari in
relazione alla fattispecie del personale in aspettativa per
maternita', introduce una discriminazione in ragione dello stato di
gravidanza, espressamente vietata dall'art. 3 del decreto legislativo
n. 151 del 2001 citato, in violazione degli articoli 2, 3, 31 e 51
della Costituzione.
La norma regionale, infatti, consente all'Amministrazione di
derogare per le candidate in astensione per maternita' dalla
graduatoria/ordine di merito, di non procedere al reclutamento
secondo l'ordine di merito, per il solo fatto che la candidata sia in
stato di gravidanza e di non utilizzare la stessa graduatoria, una
volta trascorso il periodo di interdizione anticipata o di astensione
obbligatoria dal lavoro, sostanzialmente negando cosi' il diritto
alla assunzione in servizio.
Nel dettare tale disciplina particolare per i candidati in
astensione obbligatoria dal lavoro per maternita' la norma regionale
impugnata introduce una palese discriminazione che viola gli articoli
2, 3, 51 della Costituzione.
3. L'art. 30 della legge regionale 27 dicembre 2018, n. 29 viola gli
articoli 3 e 117, comma 2, lettera l), della Costituzione.
L'art. 30 citato, recante «Disposizioni di interpretazione
autentica», prevede che l'art. 29, comma 2, lettera d), della legge
regionale n. 25 del 2006 («sino alla data di entrata in vigore
dell'apposito accordo collettivo nazionale quadro relativo alla
costituzione del profilo professionale del personale addetto alle
attivita' di informazione e comunicazione delle pubbliche
amministrazioni al personale dell'Ufficio stampa di cui all'art. 15
si attribuiscono i profili professionali dei giornalisti previsti dal
vigente contratto collettivo nazionale di lavoro dei giornalisti
nonche' per equivalente economico previsto dal medesimo contratto
collettivo nazionale di lavoro dei giornalisti per i relativi
profili»), si interpreta «nel senso che l'accordo collettivo
nazionale quadro e quello definito a seguito dell'apposita sequenza
contrattuale di cui alla dichiarazione congiunta n. 8 al CCNL
funzioni locali del 21 maggio 2018. Rimane comunque ferma
applicazione dei profili professionali dei giornalisti previsti dal
vigente contratto collettivo nazionale di lavoro dei giornalisti,
nonche' per equivalente economico previsto dal medesimo contratto
collettivo nazionale di lavoro dei giornalisti per i relativi profili
nei confronti del personale assunto con contralto a tempo determinato
anteriormente alla data del 21 maggio 2018.».
Nella dichiarazione congiunta n. 8 al CCNL funzioni locali,
richiamata dalla disposizione regionale impugnata, si legge: «Con
riferimento all'art. 18-bis [Istituzione di nuovi profili per le
attivita' di comunicazione e informazioni], le parti del presente
contratto, con l'intervento della FNSI ai fini di quanto previsto
dall'art. 9, comma 5, della legge 7 giugno 2000, n. 150 convengono
sull'opportunita' di definire, in un'apposita sequenza contrattuale,
una specifica regolazione di raccordo, anche ai sensi dell'art 2,
comma 3 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, che provveda a
disciplinare l'applicazione della citata disposizione contrattuale
nei confronti del personale al quale, in forza di specifiche, vigenti
norme di legge regionale in materia, sia stata applicata una diversa
disciplina contrattuale nazionale, seppure in via transitoria. In
tale sede, saranno affrontate le questioni relative alla
flessibilita' dell'orario di lavoro, all'autonomia professionale,
alla previdenza complementare, all'adesione alle casse previdenziali
e di assistenza dei giornalisti. Le parti si danno inoltre
reciprocamente atto che, in sede di Commissione di cui all'art. 11, i
profili di cui all'art. 18-bis saranno oggetto di ulteriore
approfondimento finalizzato ad una eventuale revisione o
specificazione del loro contenuto professionale».
Nonostante il rinvio alla sequenza contrattuale prevista dal
CCNL, l'art. 30, nel precisare che «rimane comunque ferma
l'applicazione dei profili professionali dei giornalisti previsti dal
vigente contratto collettivo nazionale di lavoro dei giornalisti,
nonche' l'equivalente economico previsto dal medesimo contratto
collettivo nazionale di lavoro dei giornalisti, per i relativi
profili nei confronti del personale assunto con contratto a tempo
determinato anteriormente alla data del 21 maggio 2018», non solo
sembra innovare (e non gia' interpretare autenticamente) il contenuto
del sopra menzionato art. 29, comma 2, lettera d, della legge
regionale n. 25 del 2006, ma finisce finanche per cristallizzate il
trattamento economico e giuridico applicabile al personale assunto in
data anteriore al 21 maggio 2018.
A tale riguardo si ricorda che ai sensi dell'art. 9, comma 5,
della legge regionale n. 150 del 2000 «negli uffici stampa
l'individuazione e la regolamentazione dei profili professionali sono
affidate alla contrattazione collettiva nell'ambito di una speciale
area di contrattazione, con l'intervento delle organizzazioni
rappresentative della categoria dei giornalisti. Dall'attuazione del
presente comma non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico
della finanza pubblica».
La giurisprudenza costituzionale ha costantemente affermato che
«il rapporto di impiego alle dipendenze di regioni ed enti locali,
essendo stato privatizzato» in virtu' dell'art. 2 della legge n. 421
del 1992, dell'art. 11, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n 59
(Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle
regioni ed enti locali, per la riforma della pubblica amministrazione
e per la semplificazione amministrativa), e dei decreti legislativi
emanati in attuazione di quelle leggi delega, e' retto dalla
disciplina generale dei rapporti di lavoro tra privati ed e',
percio', soggetto alle regole che garantiscono l'uniformita' di tale
tipo di rapporti (sentenza n. 95 del 2007).
Conseguentemente, i principi fissati dalla legge statale in
materia sono limiti di diritto privato, fondati sull'esigenza,
connessa al precetto costituzionale di eguaglianza, di garantire
l'uniformita' nel territorio nazionale delle regole fondamentali di
diritto che disciplinano i rapporti fra privati e, come tali, si
impongono anche alle regioni a statuto speciale (sentenze n. 234 e n.
106 del 2005; n. 282 del 2004).
In particolare, poi, dalla legge n. 421 del 1992 puo' trarsi il
principio (confermato anche dagli articoli 2, comma 3, terzo e quarto
periodo, e 45 del decreto legislativo n. 165 del 2001 citato) della
regolazione mediante contratti collettivi del trattamento economico
dei dipendenti pubblici (sentenze n. 308 del 2006 e n. 314 del 2003)
che, per le ragioni sopra esposte, si pone quale limite anche della
potesta' legislativa esclusiva che l'art. 14, lettera o), dello
statuto di autonomia speciale attribuisce alla Regione Sicilia in
materia di «regime degli enti locali» (sentenza 14 giugno 2007, n.
189).
Ne deriva che la disposizione regionale impugnata risulta in
contrasto con gli articoli 3 e 117, comma 2, lettera l), della
Costituzione, dal momento che, relativamente al personale assunto
entro il 21 maggio 2018, non si limita a rinviare alla contrattazione
collettiva, ma specifica il trattamento economico che gli deve essere
riconosciuto (e, quindi, per il personale in questione, la disciplina
di questi fondamentali aspetti del rapporto di impiego e' il frutto,
non del libero esplicarsi dell'autonomia negoziale collettiva, bensi'
dell'intervento del legislatore); piu' in generale non dispone che il
rapporto di lavoro di detto personale debba essere regolato dalla
contrattazione collettiva, bensi' individua il trattamento che si
deve applicare a quel personale (appunto, quello previsto dal
contratto collettivo del lavoro giornalistico), «onde gli agenti
negoziali rappresentativi delle categorie delle amministrazioni
datrici di lavoro e dei dipendenti interessati non possono
contrattare alcunche' in proposito» (sentenza n. 189/2007 citata).
4. L'art. 35, commi 1 e 2, della legge regionale n. 29 del 27
dicembre 2018 viola gli articoli 117, commi 1 e 2, lettera s), della
Costituzione, in relazione al decreto del Presidente della Repubblica
8 settembre 1997, n. 357, al decreto legislativo n. 230/2017 e ai
Regolamenti comunitari n. 708/2007 e 92/43/CEE.
L'art. 35, recante «Modifiche alla legge regionale 1° aprile
2014, n. 8, contenente la "Disciplina della pesca nelle acque interne
e norme per la tutela della relativa fauna ittica e dell'ecosistema
acquatico"» dispone che «1. Il comma 1 dell'art. 16 della legge
regionale n. 8/2014 e successive modificazioni e integrazioni, e'
sostituito dal seguente: "1. E' vietata l'immissione di specie
ittiche non autoctone". 2. Dopo il comma 1 dell'art. 16 della legge
regionale n. 8/2014 e successive modificazioni e integrazioni, e'
inserito il seguente: "1-bis. Ai fini dell'applicazione della
presente legge, costituisce immissione di specie ittiche il rilascio
in natura di esemplari attualmente o potenzialmente interfecondi
idonei a costituire popolazioni naturali in grado di
autoriprodursi.».
Il problema delle specie aliene invasive e' tra le priorita' di
intervento europeo e nazionale in tema di gestione della fauna
ittica.
Le norme comunitarie e nazionali sul tema della alloctonia mirano
a proteggere l'habitat naturale e la fauna selvatica; la continuita'
della immissione di materiale ittico non autoctono pone a rischio
l'habitat naturale e le specie autoctone.
In tale contesto la direttiva 92/43/CEE, con la finalita' di
tutela dell'ecosistema, rimette al legislatore nazionale la
disciplina delle immissioni del materiale ittico; nel recepimento
della direttiva il legislatore ha disposto che «sono vietate le
reintroduzione, l'introduzione e il ripopolamento in natura di specie
e popolazioni non autoctone» (art. 12, comma 3, D.P.R. n. 357/1993).
La norma regionale impugnata viola la richiamata normativa
nazionale e comunitaria, perche' autorizza le immissioni di specie
alloctone, senza il rispetto dell'intero sistema di verifiche
preventive e di autorizzazioni, superando il divieto assoluto di
introduzione, previsti dalla richiamata normativa statale di settore,
attuativa di precise prescrizioni di diritto europeo - espresse dal
regolamento (UE) n. 1143 del 2014 e dal regolamento CE n. 708 del
2007 - e, comunque, fondante standard uniformi di tutela
dell'ambiente, non soggetti a differenti discipline tra le regioni.
L'art. 35, consentendo l'immissione di esemplari di specie non
autoctone purche' sterili, contrasta con l'art. 12, comma 3, del
decreto del Presidente della Repubblica 8 settembre 1997, n. 357,
costituente parametro interposto, che, invece, disciplinando
«Introduzioni e reintroduzioni», al comma 3, prevede, come detto, che
«sono vietate la reintroduzione, l'introduzione e il ripopolamento in
natura di specie e popolazioni non autoctone»; il divieto ha
carattere generale e non e' circoscritto ai soli esemplari fecondi.
Inoltre, il decreto legislativo 15 dicembre 2017, n. 230, recante
«Adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del
regolamento (UE) n. 1143/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio
del 22 ottobre 2014, recante disposizioni volte a prevenire e gestire
l'introduzione e la diffusione delle specie esotiche invasive»,
all'art. 6, comma 1, vieta il rilascio nell'ambiente di esemplari di
specie esotiche invasive di rilevanza unionale, transnazionale o
nazionale.
Il regolamento (CE) 708/2007, «relativo all'impiego in
acquacoltura di specie esotiche e di specie localmente assenti»,
prevede l'adozione di procedure e provvedimenti volti a garantire
un'adeguata protezione degli habitat acquatici dai rischi derivanti
dall'impiego di specie alloctone in acquacoltura.
L'art. 35, nel prevedere il rilascio di esemplari di specie non
autoctone se sterili si pone in palese contrasto con la richiamata
disciplina nazionale e comunitaria che, a tutela delle specie
autoctone, vieta l'immissione delle specie non autoctone senza
eccezioni.
La circostanza che le specie non autoctone siano infeconde, non
esclude, invero, il rischio connesso alla compresenza di specie.
La norma regionale viola, pertanto, l'art. 117, comma 1, della
Costituzione, per il contrasto con il principio di precauzione che
trova relativa espressione nelle disposizioni della direttiva n.
92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e
seminaturali e della flora e della fauna selvatiche (direttiva
Habitat), le quali consentono agli Stati membri, in funzione di
conservazione dell'equilibrio ambientale, di vietare l'introduzione
di specie alloctone, come previsto dalla legislazione statale.
L'introduzione, la reintroduzione e il ripascimento delle specie
ittiche, sono regolate dall'art. 12 del decreto del Presidente della
Repubblica n. 357 del 1997 citato, come modificato dal decreto del
Presidente della Repubblica n. 120 del 2003, in attuazione della c.d.
Direttiva Habitat che richiede agli Stati membri di valutare
l'opportunita' di reintrodurre specie autoctone, qualora questa
misura possa contribuire alla loro conservazione, sia di
regolamentare, ed eventualmente vietare, le introduzioni di specie
alloctone che possano arrecare pregiudizio alla conservazione degli
habitat o delle specie autoctone (art. 22, lettere a e b).
In attuazione della direttiva comunitaria, il decreto del
Presidente della Repubblica n. 357 del 1997, come modificato nel
2003, consente, come detto, la reintroduzione delle specie autoctone,
sulla base di linee guida del Ministero dell'ambiente, secondo le
procedure stabilite dall'art. 12, comma 2, e vieta espressamente e in
via generale la reintroduzione, l'introduzione e il ripopolamento in
natura di specie non autoctone (art. 12, comma 3, citato).
Relativamente all'immissione di specie ittiche nei corpi idrici
regionali, la disciplina dell'introduzione, della reintroduzione e
del ripopolamento di specie animali rientra, pertanto, nella
esclusiva competenza statale di cui all'art. 117, comma 2, lettera
s), della Costituzione, trattandosi di regole di tutela dell'ambiente
e dell'ecosistema e non solo di discipline d'uso della risorsa
ambientale-faunistica».
Nell'esercizio di tale sua competenza esclusiva, finalizzata ad
una «tutela piena ed adeguata» dell'ambiente, lo Stato «puo' porre
limiti invalicabili di tutela» (sentenza n. 30 del 2009; nello stesso
senso, sentenza n. 288 del 2012).
A tali limiti le regioni devono adeguarsi nel dettare le
normative d'uso dei beni ambientali, o, comunque, nell'esercizio di
altre proprie competenze, rimanendo libere di definire,
nell'esercizio della loro potesta' legislativa, «limiti di tutela
dell'ambiente anche piu' elevati di quelli statali» (sentenza n. 30
del 2009; in senso conforme sentenza n. 151 del 2011).
Con riferimento alle specie alloctone, l'art. 12, comma 3, del
citato decreto del Presidente della Repubblica n. 357/1993 vieta
espressamente e in via generale la reintroduzione, l'introduzione e
il ripopolamento in natura di «specie e popolazioni non autoctone»
(sentenza n. 30 del 2009).
L'art. 35 impugnato si pone in contrasto con i principi sanciti
dalla normativa statale ed eurounitaria citata, consentendo
l'immissione di specie alloctone, seppure sterili, nei corpi idrici
naturali, senza valutare gli effetti sul popolamento ittico
originario e, piu' in generale, sull'ecosistema acquatico,
consentendo una attivita' potenzialmente lesiva della fauna
autoctona.
L'art. 35, commi 1 e 2, viola, pertanto, gli articoli 117, comma
1, e 117, comma 2, lettera s), della Costituzione.
5. L'art. 36 della legge regionale 27 dicembre 2018, n. 29 viola gli
articoli 97, 117, comma 1, e 117, comma 2, lettera s), della
Costituzione in relazione alla legge 11 febbraio 1992, n. 157 e alla
direttiva comunitaria 92/43/CEE.
L'art. 36, recante «Modifica alla legge regionale 1° luglio 1994,
n. 29, (Norme regionali per la protezione della fauna omeoterma e per
il prelievo venatorio), sostituisce il comma 7 dell'art. 34 della
legge regionale n. 29/1994, disponendo che «In attuazione dell'art.
18, comma 6, della legge n. 157/1992 e successive modificazioni e
integrazioni, prevista l'integrazione di due giornate settimanali per
l'esercizio venatorio da appostamento alla fauna selvatica migratoria
nel periodo intercorrente tra il 1° ottobre e il 30 novembre. La
giunta regionale, sentito l'ISPRA, ha la facolta' di modificare tale
integrazione».
La norma introduce stabilmente due giornate di caccia a quelle
gia' previste, ampliando cosi' la possibilita' venatoria della fauna
selvatica e, per quanto qui rileva, modificando per legge il
calendario venatorio. La possibilita' di ampliamento delle giornate
di caccia e' prevista dalla normativa, ma e' subordinata a una
valutazione discrezionale.
Il calendario venatorio e le modifiche allo stesso sono adottati
all'esito di istruttoria, acquisito il parere ISPRA, con
provvedimento amministrativo; il rispetto del procedimento risponde
all'esigenza di garantire che eventuali repentini ed imprevedibili
mutamenti delle circostanze di fatto possano pregiudicare il bene
ambiente.
Si ricorda che e' principio fondante di derivazione comunitaria
l'obbligo di adeguata istruttoria e motivazione che si impone al
legislatore regionale nell'adottare norme anche se di maggior tutela
dell'ambiente. In tale contesto la legge 11 febbraio 1992, n. 157,
all'art. 18, comma 4, prescrive che il calendario venatorio, sia
adottato con regolamento in relazione ad ogni singola stagione
venatoria.
L'art. 36 impugnato non e' conforme ai principi enunciati e alla
legge richiamata, prevedendo, come detto, la modifica con legge in
via generale ed astratta del calendario venatorio della Regione.
Secondo i principi costantemente affermati dalla giurisprudenza
costituzionale la disciplina sulla caccia ha per oggetto la fauna
selvatica, che rappresenta «un bene ambientale di notevole rilievo,
la cui tutela rientra nella materia tutela dell'ambiente e
dell'ecosistema», affidata alla competenza legislativa esclusiva
dello Stato, che deve provvedervi assicurando un livello di tutela,
«minimo», ma «adeguato e non riducibile» (sentenza n. 193 del 2010).
La normativa statale in tema di tutela dell'ambiente e
dell'ecosistema, esprime, infatti, regole minime uniformi
inderogabili dalle regioni se non innalzando i livelli di tutela (ex
plurimis, sentenze n. 2 del 2015; n. 278 del 2012; n. 151 del 2011 e
n. 315 del 2010) costituenti (come nel caso della legge 11 febbraio
1992, n. 157 citata, il nucleo minimo di salvaguardia della fauna
selvatica e il cui rispetto deve essere assicurato sull'intero
territorio nazionale (sentenza n. 233/2010).
Le norme statali ed eurounitarie, la direttiva 92/43/CEE, art. 6,
comma 3, del Consiglio, del 21 maggio 1992, relativa alla
conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e
della fauna selvatiche c.d. «Direttiva Habitat» e la direttiva n.
79/409/CEE c.d. «Direttiva Uccelli», disciplinano la materia dettando
norme imperative che devono essere rispettate sull'intero territorio
nazionale per primarie esigenze di tutela ambientale.
L'art. 18, comma 2, della legge n. 157 del 1992 citato,
espressione della competenza di cui all'art. 117, comma 2, lettera
s), della Costituzione, prevede la possibilita' per le regioni di
modificare il calendario venatorio, con riferimento all'elenco delle
specie tacciabili e al periodo in cui e' consentita la caccia,
indicati dal precedente comma 1, attraverso un procedimento che
prevede l'acquisizione del parere dell'Istituto nazionale per la
fauna selvatica (nelle cui competenze oggi e' subentrato l'istituto
superiore per la protezione e la ricerca ambientale - ISPRA).
Il comma 4 dello stesso art. 18 della legge n. 157 del 1992
citata, dispone che il calendario venatorio sia approvato con
regolamento, modalita' prescelta da legislatore statale che attiene
alle modalita' di protezione della fauna e si ricollega, per tale
ragione, alla competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela
dell'ambiente e dell'ecosistema (sentenza n. 536 del 2002; in
seguito, con riferimento alla determinazione della stagione
venatoria, sentenze n. 165 del 2009; n. 313 del 2006; n. 393 del
2005; n. 391 del 2005; n. 311 del 2003 e n. 226 del 2003).
La normativa statale richiamata costituisce parametro interposto
come espressione della competenza esclusiva dello Stato a porre
standard uniformi di tutela dell'ambiente e dell'ecosistema non
derogabili in peius dalle regioni in base all'art. 117, comma 2,
lettera s), della Costituzione.
La disciplina normativa in materia di protezione della fauna
selvatica e di prelievo venatorio e', invero, dettata dalla legge
quadro n. 157 del 1992, che costituisce ai sensi dell'art. 117, comma
2, lettera s), della Costituzione, il nucleo minimo di salvaguardia
della fauna selvatica e il cui rispetto deve essere assicurato
sull'intero territorio nazionale (sentenza n. 233/2010).
E' principio affermato che «spetta allo Stato, nell'esercizio
della potesta' legislativa esclusiva in materia di tutela
dell'ambiente e dell'ecosistema, prevista dall'art. 117, secondo
comma, lettera s,), Cost., stabilire standard minimi e uniformi di
tutela della fauna, ponendo regole che possono essere modificate
dalle regioni nell'esercizio della loro potesta' legislativa in
materia di caccia, esclusivamente nella direzione dell'innalzamento
del livello di tutela» (ex plurimis, sentenze n. 303 del 2103; n.
278, n. 116 e n. 106 del 2012).
Il procedimento deve, pertanto, concludersi con l'adozione di un
provvedimento amministrativo e non, come e' avvenuto nel caso di
specie, con un intervento di natura normativa.
L'approvazione del calendario venatorio con provvedimento
amministrativo e' imposta dalla necessita' di assicurare una
flessibilita' della disciplina in materia, come costantemente
riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 7 del
2019, punto 6.3. del Considerato in diritto; sentenza n. 20 e n. 105
del 2012).
L'espressione di cui all'art. 18, comma 4, per cui le regioni
hanno l'obbligo di pubblicare «il calendario regionale ed il
regolamento relativi all'intera annata venatoria», e' da intendersi,
difatti, come riferita a un unico atto di natura regolamentare,
contenente le specifiche norme applicabili nel territorio regionale
durante il periodo venatorio preso in considerazione.
Anche per la sua efficacia temporale (annuale) il calendario
venatorio deve essere approvato con provvedimento amministrativo e
non anche con una legge, non essendo consentito al legislatore
regionale sostituirsi all'amministrazione della Regione nel
compimento di un'attivita' di regolamentazione che l'art. 18, commi 2
e 4, della legge n. 157 del 1992 citato riserva alla sfera
amministrativa.
In questa prospettiva, l'art. 18 della legge n. 157 del 1992
citato, predetermina gli esemplari abbattibili, specie per specie e
nei periodi indicati, ma consente alla Regione l'introduzione di
limitate deroghe motivate con riferimento al parere dell'Istituto
superiore per la protezione e la ricerca ambientale - ISPRA (art. 18,
commi 2 e 4, citati).
Il parere non e', invece previsto dalla norma impugnata.
La scelta del regolamento per l'approvazione del calendario
venatorio non solo e' coerente con il peculiare contenuto che nel
caso di specie l'atto andra' ad assumere, si inserisce armonicamente
nel tessuto della legge n. 157 del 1992 citata, ma si riconnette
altresi' a un regime di flessibilita' piu' marcato che nell'ipotesi
in cui il contenuto del provvedimento sia cristallizzato nella forma
della legge, a tutela del bene ambiente (in termini, la recente
sentenza n. 7 del 2019 citata).
Tale assetto e' il solo idoneo a prevenire i danni che potrebbero
conseguire a un repentino e imprevedibile mutamento delle circostanze
di fatto in base alle quali il calendario venatorio e' stato
approvato.
Sul punto si richiama quanto disposto all'art. 19, comma 1, della
legge n. 157 del 1992 citata, che prevede il ricorso da parte della
Regione a divieti imposti da «sopravvenute particolari condizioni
ambientali, stagionali o climatiche o per malattie o per altre
calamita'».
La legge, prescrivendo la pubblicazione del calendario venatorio
e contestualmente del «regolamento» sull'attivita' venatoria e previa
l'acquisizione obbligatoria del parere dell'ISPRA ed esplicitando la
natura tecnica dell'intervento, ha descritto il procedimento di
competenza della Regione.
La procedimentalizzazione della materia ha la finalita' di
contemperare gli interessi ambientali in gioco, connotandosi,
altresi', per una coerente motivazione che, nel rispetto del
principio di buon andamento dell'amministrazione, deve tradursi in un
provvedimento amministrativo espresso.
Sulla necessita' che, nell'ipotesi in cui la materia
dell'intervento riguardi la tutela dell'ambiente, l'intervento
regionale avvenga nel rispetto del modulo procedimentale e dei
criteri fissati dalla legislazione statale, con specifico riferimento
alla piu' corretta scelta dell'atto amministrativo rispetto a una
legge-provvedimento, da ultimo la sentenza n. 28/2019, punto 2.3. del
Considerato in diritto.
L'art. 36, nel prevedere stabilmente l'integrazione di due
giornate settimanali per l'esercizio venatorio da appostamento alla
fauna selvatica migratoria, viola le disposizioni della legge n. 157
del 1992 citata, ponendosi in contrasto con l'art. 97 della
Costituzione per il mancato rispetto del principio di buon andamento
dell'amministrazione. L'art. 36 viola l'art. 117, comma 2, lettera
s), della Costituzione, perche' riduce in peius il livello di tutela
della fauna selvatica stabilito dalla legislazione nazionale e dalle
direttive comunitarie in materia (art. 6, comma 3, direttiva
92/43/CEE c.d. «Direttiva habitat» e direttiva n. 79/409/CEE c.d.
«Direttiva Uccelli») richiamate, invadendo illegittimamente la
competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela
dell'ambiente e dell'ecosistema.
P.Q.M.
Si conclude perche' gli articoli 2, commi 1, 2, 9, 10 e 11; 30;
35, commi 1 e 2, e 36 della legge della Regione Liguria n. 29 del 27
dicembre 2018, recante «Disposizioni collegate alla legge di
stabilita' per l'anno 2019», siano dichiarati costituzionalmente
illegittimi.
Roma, 1° marzo 2019
Il Vice Avvocato generale dello Stato: Palmieri
e per l'Avvocato dello Stato: Morici