Ricorso n. 46 del 2 aprile 2015 (Presidente del Consiglio dei ministri)
Ricorso per questione di legittimita' costituzionale depositato in
cancelleria il 2 aprile 2015 (del Presidente del Consiglio dei
ministri).
(GU n. 19 del 2015-05-13)
Ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato
e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato (codice fiscale
…), presso i cui uffici domicilia in Roma, alla via dei
Portoghesi n. 12, per il ricevimento degli atti, fax … e
PEC …;
Nei confronti della regione Umbria, in persona del presidente
della giunta regionale pro tempore, con sede in Perugia al corso
Vannucci n. 96;
Per la dichiarazione della illegittimita' costituzionale della
legge della regione Umbria del 21 gennaio 2015, n. 1, recante: «Testo
unico governo del territorio e materie correlate», pubblicata nel
B.U.R. Umbria 28 gennaio 2015, n. 6, supplemento ordinario n. 1,
limitatamente agli articoli 1, commi 2 e 3; art. 7, comma 1, lettere
b), d), g), m), n); art. 8; art. 9, comma 4; art. 10, comma 1; art.
11, comma 1, lettera d); art. 13; art. 15, commi 1 e 5; art. 16,
commi 4 e 5; art. 17; art. 19; art. 21; art. 18, commi 4, 5, 6, 7, 8
e 9; art. 28, comma 10; art. 56, comma 3; art. 32, comma 4; art. 49,
comma 2, lettera a); art. 51, comma 6; art. 79, comma 3; art. 56,
comma 14; art. 54; art. 59, comma 3; art. 64, comma 1; art. 95, comma
4; art. 118, comma 1, lettere e) ed i), e comma 3; art. 118, comma 2,
lettera e); art. 118, comma 3, lettera e); art. 140, comma 12; art.
124; art. 124, comma 1, lettera g); art. 140, comma 11; art. 141,
comma 2; art. 142, comma 1; art. 147; art. 155; art. 118, comma 2,
lettera h); art. 151, comma 2 e comma 4; art. 154, comma 1 e comma 3;
art. 206, comma 1; art. 215, comma 5 e comma 12; art. 243, comma 1;
art. 250, comma 1, lettere a), b) e c), in combinato disposto con gli
articoli 201, 202 e 208; art. 258; art. 264, commi 13, 14 e 16.
La legge della regione Umbria n. 1/2015, con riferimento alle
disposizioni sopra indicate, presenta profili di illegittimita'
costituzionale e viene quindi impugnata per i seguenti,
Motivi
1) L'art. 1, commi 2 e 3, in correlazione con l'art. 2, commi 5 e 6,
per violazione dell'art. 117, comma 3, della Costituzione.
L'art. 1, al comma 2, della legge regionale umbra n. 1 del 2015
definisce il «governo del territorio» come «complesso coordinato,
organico e sinergico, delle attivita' conoscitive, regolative,
valutative, attuative, di vigilanza e controllo, nonche' di
programmazione, anche della spesa, riguardanti gli interventi di
tutela, valorizzazione ed uso del territorio ai fini dello sviluppo
sostenibile nelle materie attinenti l'urbanistica e l'edilizia,
compresa la disciplina antisismica». Il comma 3 precisa che «ai fini
del presente testo unico sono materie correlate, limitatamente agli
strumenti urbanistici e ai titoli abilitativi edilizi, le norme in
materia di Valutazione ambientale strategica (VAS) e di tutela
dell'ambiente e della salute pubblica dall'inquinamento acustico
prodotto dalle attivita' antropiche».
Tali previsioni, nell'introduzione di una nuova definizione di
«governo del territorio», non prevista dalla legge statale,
travalicano i limiti della competenza concorrente attribuita alle
regioni dall'art. 117, comma 3, della Costituzione, in riferimento
alla materia del «governo del territorio». E' riservata allo Stato,
infatti, l'enunciazione dei principi fondamentali (tra i quali
rientra evidentemente la definizione stessa della materia in
questione) atti a garantire una disciplina uniforme su tutto il
territorio nazionale. In altri termini, deve escludersi che nelle
materie di legislazione concorrente le regioni possano rivendicare il
potere di definire autonomamente la materia stessa, invadendo con
cio' l'ambito dei principi fondamentali che l'art. 117, terzo comma,
Cost. riserva alla competenza legislativa dello Stato (sent. n. 343
del 2005). Del resto, rientrano nell'ambito della normativa di
principio in materia di governo del territorio le disposizioni
legislative riguardanti i titoli abilitativi per gli interventi
edilizi (sent. 309 del 2011), cui si riferisce appunto il comma 3
dell'art. 1 della legge regionale denunciata.
Dalla definizione della materia «governo del territorio»
contenuta nella legge regionale sospettata discendono, infatti,
conseguenze lesive delle prerogative attribuite alla normativa
statale.
Ad esempio, l'art. 2, comma 5, della legge regionale in parola
prevede che la regione e gli enti locali «negli atti normativi e nei
procedimenti amministrativi in materia di governo del territorio e
materie correlate di cui al presente testo unico, non possono
introdurre ulteriori adempimenti regolatori, informativi o
amministrativi senza contestualmente ridurne o eliminarne altri con
riferimento al medesimo arco temporale e comunque senza costi
aggiuntivi». E' evidente che la regione e gli enti locali non
potrebbero sopprimere adempimenti regolatori, informativi o
amministrativi previsti dalla legge statale in ambiti di competenza
legislativa esclusiva (come la tutela dell'ambiente o della salute, o
i livelli essenziali della prestazioni), o nella determinazione dei
principi fondamentali di materie di legislazione concorrente (quale
il governo del territorio). La formulazione dell'art. 1, letto
congiuntamente all'art. 2, invece, si presta alla suddetta
interpretazione e appare, pertanto, in contrasto con l'art. 117,
comma 3, della Cost.
Analogamente, al comma 6 dell'art. 2 il legislatore regionale ha
previsto che «Le pubbliche amministrazioni nell'esercizio dei poteri
amministrativi concernenti la materia di governo del territorio e
materie correlate, di cui al presente testo unico, adottano gli atti
e provvedimenti amministrativi di propria competenza scegliendo la
soluzione meno afflittiva per le imprese ed i cittadini». Anche in
questo caso, dal combinato disposto delle due norme sembra che la
discrezionalita' delle pubbliche amministrazioni «nell'esercizio dei
poteri amministrativi concernenti la materia di governo del
territorio e materie correlate» possa essere sempre indirizzata alla
scelta della soluzione meno «affittiva» per le imprese ed i
cittadini, mentre, specialmente in alcuni settori (come la tutela
dell'ambiente, della salute, della pubblica incolumita'), che la
definizione di cui all'art. 1 riconduce al «governo del territorio e
materie correlate», sono altri gli interessi pubblici che devono
prevalere.
In altri termini, l'impropria estensione del significato e della
portata della materia «governo del territorio» attraverso il richiamo
alle «materie correlate» si traduce in una palese violazione
dell'art. 117, terzo comma, della Costituzione perche' consente alla
legge regionale, di introdurre inammissibili deroghe ai principi
fondamentali dettati in materie di legislazione concorrente se non
addirittura una compressione della competenza esclusiva statale in
materia di ambiente.
Alla luce delle considerazioni formulate, la definizione di
«governo del territorio» contenuta all'art. 1, commi 2 e 3, contrasta
con l'art. 117, comma 3, della Costituzione.
2) L'art. 7, comma 1, lettere b), d), g), m), n), per violazione
dell'art. 117, comma 3, della Costituzione.
L'art. 7, comma 1, lettere b), d), g), m) ed n), della legge
regionale censurata presenta profili di illegittimita' costituzionale
per contrasto con l'art. 117, comma 3, della Costituzione (con
riferimento alla materia del «governo del territorio»).
Le disposizioni censurate dettano alcune definizioni in materia
edilizia che, in parte, contrastano con quelle espressamente
individuate dalla normativa statale [ad esempio, nel caso della
«manutenzione straordinaria» e della «ristrutturazione edilizia»,
rispettivamente indicate alle di cui lettere b) e d) dell'art. 7] e
in parte non sono contenute nella normativa statale, che
deliberatamente - in un'ottica di semplificazione - ha scelto di
accorpare le categorie gli interventi edilizi, riducendole a quelle
individuate nell'art. 3 del decreto del Presidente della Repubblica
n. 380/2001 [come nel caso delle «opere interne» indicate di cui alla
lettera g) dell'art. 7], oppure deliberatamente ha scelto di non
definire determinate categorie concettuali, rimettendole, quindi,
all'elaborazione giurisprudenziale e all'interpretazione [e' il caso
della nozione di «edificio» e di «isolato edilizio», rispettivamente
indicate alle di cui alle lettere m) e n) dell'art. 7].
In particolare, l'art. 3 del testo unico dell'edilizia adottato
con il decreto del Presidente della Repubblica n. 380/2001, definisce
la «manutenzione straordinaria» e la «ristrutturazione edilizia» in
modo diverso dall'art. 7 della legge regionale dell'Umbria n. 1 del
2015, mentre non disciplina affatto le nozioni di «edificio» e di
«isolato edilizio» (pur riferendosi ripetutamente a queste categorie
concettuali nella Parte II - Normativa tecnica per l'edilizia). La
formulazione letterale di tali disposizioni regionali, specialmente
delle ultime due [lettere m) e n) dell'art. 7, comma 1] consente
astrattamente di darne un'applicazione generale, e quindi e'
suscettibile di avere effetti sulle modalita' di applicazione delle
norme poste dal legislatore statale a tutela di interessi unitari.
Al riguardo, codesta Ecc.ma Corte costituzionale, con la sentenza
n. 309/2011, ha chiarito che le definizioni degli interventi edilizi
contenute all'art. 3 del testo unico costituiscono un principio
fondamentale della legislazione statale nella materia del «governo
del territorio». E, in particolare, ha osservato che «sono principi
fondamentali della materia le disposizioni che definiscono le
categorie di interventi, perche' e' in conformita' a queste ultime
che e' disciplinato il regime dei titoli abilitativi, con riguardo al
procedimento e agli oneri, nonche' agli abusi e alle relative
sanzioni, anche penali» e che quindi «rientra nella competenza
legislativa statale stabilire la linea di distinzione tra le ipotesi
di nuova costruzione e quelle degli altri interventi edilizi».
Inoltre, codesta Ecc.ma Corte - da ultimo con la sentenza n.
49/2014 - ha precisato che qualora una materia sia di competenza
esclusiva dello Stato (e cio' deve ritenersi, quindi, nel caso della
definizione di un principio fondamentale in una materia di competenza
concorrente), sono «inibiti alle regioni interventi normativi diretti
ad incidere sulla disciplina dettata dallo Stato, finanche in modo
meramente riproduttivo della stessa (sentenza n. 245 del 2013, che
richiama le sentenze n. 18 del 2013, n. 271 del 2009, n. 153 e n. 29
del 2006)». Di qui il contrasto delle disposizioni censurate con
l'art. 117, comma 3, della Costituzione.
Anche se deve ritenersi che il presente motivo abbia carattere
assorbente, si rileva che le disposizioni censurate sono affette
anche da ulteriori profili di incostituzionalita' e, come si vedra'
di seguito, contrastano anche con l'art. 117, comma 2, lettera s) e,
limitatamente alla lettera d), con l'art. 9 nonche', per ulteriori
profili, con l'art. 117, comma 3, della Costituzione.
2.1) L'art. 7, comma 1, lettera b) in correlazione con l'art.
118, commi 2, 3 e 5, per violazione dell'art. 117, comma 2, lettera
s) della Costituzione.
L'art. 7, comma 1, lettera b), definisce gli interventi di
manutenzione straordinaria come «le opere e le modifiche necessarie
per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici e
delle loro pertinenze, sempre che non alterino i volumi e la
superficie utile coperta complessiva delle unita' immobiliari e non
comportino modifica della destinazione d'uso, e inoltre le opere e le
modifiche necessarie a sostituire o eliminare materiali inquinanti.
Sono altresi' classificabili come manutenzione straordinaria gli
interventi consistenti nel frazionamento o accorpamento delle unita'
immobiliari, anche con esecuzione di opere, senza modifica della
destinazione d'uso».
Tale previsione contrasta con l'art. 3, comma 1, lettera b), del
testo unico dell'edilizia di cui al decreto del Presidente della
Repubblica n. 380/2001, come modificato dall'art. 17, comma 1,
lettera a), n. 1 e 2 del decreto-legge n. 133/2014 convertito in
legge n. 164/2014, nella parte in cui non prevede che gli interventi
di frazionamento e accorpamento delle unita' immobiliari possono
comportare «la variazione delle superfici delle singole unita'
immobiliari nonche' del carico urbanistico purche' non sia modificata
la volumetria complessiva degli edifici e si mantenga l'originaria
destinazione di uso».
Di conseguenza, la disposizione regionale ascrive nel novero
della ristrutturazione edilizia interventi che invece andrebbero
ricondotti alla manutenzione straordinaria, incidendo cosi'
sull'individuazione del titolo abilitativo necessario per realizzare
tali interventi.
L'art. 7, comma 1, lettera b), inoltre, include tra gli
interventi di manutenzione straordinaria: «... le opere e le
modifiche necessarie a sostituire o eliminare materiali inquinanti».
L'art. 118, comma 2, lettera a), della legge regionale in commento
prevede poi che questi interventi siano di «attivita' edilizia
libera», realizzabili previa comunicazione al comune.
Pertanto, la previsione contenuta all'art. 7, comma 1, lettera
b), oltre a contrastare con l'art. 3, comma 1, lettera b) del decreto
del Presidente della Repubblica n. 380/2001, che non annovera queste
opere nell'ambito della manutenzione straordinaria, riconduce alla
materia «edilizia» l'esercizio di un'attivita' consistente nella
gestione di rifiuti o addirittura nella realizzazione di interventi
di bonifica (cui la sostituzione o l'eliminazione di detti materiali
puo' sostanzialmente ricondursi) e invade, cosi', la potesta'
legislativa statale nella materia di tutela dell'ambiente, cui va
ricondotta la disciplina dei rifiuti e della bonifica.
Per effetto del combinato disposto delle due norme regionali
sopra richiamate, non e' assicurato il rispetto di quanto previsto
dal decreto legislativo n. 152/2006 in materia di rifiuti (in
particolare agli articoli 177, comma 4; 179, commi 1 e 2; 181, commi
1 e 4).
L'art. 118, comma 3, infatti, nell'individuare il contenuto della
comunicazione prevista al comma 2 del medesimo articolo, infatti, fa
genericamente riferimento a «le autorizzazioni previste come
obbligatorie dalla normativa di settore, fatti salvi i casi in cui
queste possono essere sostituite da autocertificazione». Altrettanto
generica e' la clausola di salvaguardia contenuta al comma 5 dello
stesso art. 118, che non contiene alcun espresso riferimento alle
norme in materia ambientale contenute nel codice dell'ambiente,
mentre richiama il necessario rispetto «in particolare, delle norme
antisismiche, come previsto all'art. 114, comma 11, di sicurezza,
antincendio, igienico-sanitarie, di quelle relative alla efficienza
energetica, nonche' delle disposizioni contenute nel decreto
legislativo n. 42/2004 e nell'atto di indirizzo di cui all'art. 248,
comma 1, lettere b) e g), nonche' gli eventuali adempimenti fiscali e
tributari, compresi gli atti di aggiornamento catastale nei termini
di legge».
Alla luce delle suesposte considerazioni, le norme censurate sono
idonee a far sorgere nell'interessato il ragionevole convincimento
che non ci siano normative specifiche da seguire sulla eliminazione e
sostituzione dei materiali inquinanti, non garantendo, dunque, il
rispetto della normativa ambientale in materia di gestione di
rifiuti.
Posto che la normativa dei rifiuti e della bonifica rientra
nell'ambito della potesta' legislativa esclusiva statale in materia
di ambiente, le disposizioni censurate contrastano, oltre che con un
principio fondamentale in materia di governo del territorio, anche
con l'art. 117, comma 2, lettera s) della Costituzione.
2.2) L'art. 7, comma 1, lettera d) per violazione dell'art. 9 e
dell'art. 117, comma 2, lettera s) e comma 3, della Costituzione.
L'art. 7, comma 1, lettera d) definisce gli «interventi di
ristrutturazione edilizia» includendovi «l'aumento delle superfici
utili interne».
Tale previsione contrasta con l'art. 3, comma 1, lettera b) del
testo unico dell'edilizia n. 380/2001, come modificato dall'art. 17,
comma 1, lettera a), n. 1 e 2 del decreto-legge n. 133/2014, che
riconduce alla manutenzione straordinaria gli interventi di
frazionamento e accorpamento delle unita' immobiliari che comportano
«la variazione delle superfici delle singole unita' immobiliari
nonche' del carico urbanistico purche' non sia modificata la
volumetria complessiva degli edifici e si mantenga l'originaria
destinazione di uso».
Inoltre, lo stesso art. 7, comma 1, lettera d) include
nell'ambito della ristrutturazione edilizia gli interventi
«consistenti nella demolizione e ricostruzione anche con modifiche
della superficie utile coperta, di sagoma ed area di sedime
preesistenti, nell'inserimento di strutture in aggetto e balconi,
senza comunque incremento del volume complessivo dell'edificio
originario, fatte salve le innovazioni necessarie per l'adeguamento
alla normativa antisismica, per gli interventi di prevenzione sismica
e per l'installazione di impianti tecnologici».
Tale previsione contrasta con l'art. 3, comma 1, lettera d), del
decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, come
modificato dall'art. 30, comma 1, lettera a), del decreto-legge 21
giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 9
agosto 2013, n. 98, in quanto, a differenza di quella statale, la
norma regionale non prevede che «Rimane fermo che, con riferimento
agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo
22 gennaio 2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di
demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici
crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione
edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio
preesistente».
Orbene, l'art. 3 del decreto del Presidente della Repubblica n.
380 del 2001, mantenendo per gli immobili vincolati il principio del
rispetto della sagoma ai fini della classificazione dell'intervento
come «ristrutturazione edilizia», costituisce, non solo norma di
principio in materia di governo del territorio, ma altresi'
disposizione in materia di tutela del patrimonio culturale (sentenza
n. 309/2011). Ne consegue, allora, che l'art. 7, comma 1, lettera d)
viola anche l'art. 9 e l'art. 117, comma 2, lettera s) e comma 3,
della Costituzione.
2.3) L'art. 7, comma 1, lettera g) e 118, comma 1, lettera e),
per violazione dell'art. 117, comma 3, della Costituzione.
L'art. 7, comma 1, lettera g) della legge regionale impugnata
definisce le «opere interne» come «quelle da realizzare all'interno
delle unita' immobiliari concernenti l'eliminazione, lo spostamento e
la realizzazione di aperture e pareti divisorie interne che non
costituiscano elementi strutturali, sempre che non comportino aumento
del numero delle unita' immobiliari o implichino incremento degli
standard urbanistici, nonche' concernenti la realizzazione ed
integrazione dei servizi igienicosanitari e tecnologici, da
realizzare nel rispetto delle norme di sicurezza, di quelle igienico
sanitarie, sul dimensionamento dei vani e sui rapporti
aeroilluminanti».
Si tratta di una definizione non contemplata dal decreto del
Presidente della Repubblica n. 380/2001, ma che in buona parte
coincide con quella di «manutenzione straordinaria» (art. 3, comma 1,
lettera b), che include «le opere e le modifiche necessarie per
rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonche'
per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e
tecnologici, sempre che non alterino la volumetria complessiva degli
edifici e non comportino modifiche delle destinazioni di uso».
Invero, quella delle «opere interne» era una definizione prevista
dall'art. 28 della legge n. 47/1985 che, in un'ottica di
semplificazione dell'individuazione delle tipologie di interventi
edilizi e dei rispettivi titoli abilitativi, il legislatore del
decreto del Presidente della Repubblica n. 380/2001 ha ritenuto di
non riprodurre. La definizione regionale, pertanto, presentando
margini di sovrapposizione con altre categorie individuate dalla
legge statale, e' foriera di incertezze applicative e ha riflessi sul
regime dei titoli abilitativi all'esercizio dell'attivita' edilizia.
Il legislatore nazionale, infatti, ha assoggettato queste opere
(inizialmente soggette a DIA) a comunicazione di inizio lavori
asseverata [art. 6, comma 2, lettera a) e comma 4], perche' la loro
rilevanza richiede quantomeno il coinvolgimento di un tecnico
abilitato. Il legislatore regionale, invece, all'art. 118, comma 1,
lettera e), annovera questi interventi edilizi tra quelli totalmente
liberi.
Le due disposizioni regionali citate, dunque, contrastano con i
principi fondamentali in materia di governo del territorio contenuti
nella legislazione statale e quindi violano, per i cennati profili,
l'art. 117, comma 3, della Costituzione.
2.4) L'art. 7, comma 1, lettere m) ed n), per violazione
dell'art. 117, comma 3, della Costituzione.
L'art. 7, comma 1, lettere m) ed n) della legge regionale in
commento, introduce, rispettivamente, la definizione di «edificio»
(«insieme di strutture portanti ed elementi costruttivi e
architettonici reciprocamente connessi in modo da formare con
continuita' da cielo a terra una entita' strutturale autonoma, sia
isolata o collegata ad altri edifici adiacenti, composta da una o
piu' unita' immobiliari, indipendentemente dal regime della
proprieta'») e di «isolato edilizio» («costruzione delimitata da
spazi aperti su ogni lato e la costruzione stessa si considera divisa
in piu' isolati edilizi per le parti rese strutturalmente
indipendenti da giunti sismici di adeguata ampiezza»). Tali nozioni,
non previste nella normativa statale contenuta nel decreto del
Presidente della Repubblica n. 380/2001, interferiscono specialmente
sull'ambito di applicazione della normativa tecnica per l'edilizia
contenuta nella parte II del testo unico.
Le definizioni «edificio» e di «isolato edilizio», la cui
formulazione letterale, tra altro, consente astrattamente di darne
un'applicazione generale, costituiscono il presupposto per
l'applicazione di norme poste dal legislatore statale a tutela di
interessi unitari. Tra queste rientrano, in particolare, le norme
relative alle costruzioni in zone sismiche, contenute agli articoli
83 e seguenti del decreto del Presidente della Repubblica n. 380/2001
e nelle specifiche norme tecniche emanate con decreti del Ministro
per le infrastrutture e i trasporti, di concerto con il Ministro per
l'interno, sentiti il Consiglio superiore dei lavori pubblici, il
Consiglio nazionale delle ricerche e la Conferenza unificata
Stato-regioni-enti locali.
Codesta Ecc. Corte ha chiarito che la competenza statale in
materia di vigilanza sulle costruzioni riguardo al rischio sismico si
giustifica «attesa la rilevanza del bene protetto, che trascende
anche l'ambito della disciplina del territorio, per attingere a
valori di tutela dell'incolumita' pubblica che fanno capo alla
materia della protezione civile, in cui, ugualmente, compete allo
Stato la determinazione dei principi fondamentali» (sent. n. 182 del
2006; si veda anche sent. n. 64 del 2013 e sent. 300 del 2013).
L'uniforme applicazione delle norme per le costruzioni in zone
sismiche presuppone, evidentemente, una definizione altrettanto
uniforme di «edificio» e alla luce di questa considerazione risulta
esorbitante, rispetto alla sfera di competenza regionale, la
previsione censurata che intende dare una propria definizione
generale, a maggior ragione se essa comporta poi l'applicazione di
norme con fini di protezione civile e di riduzione del rischio
rilevante in relazione alle azioni sismiche. Gli articoli 83 e
seguenti del testo unico dell'edilizia, infatti, si applicano a tutte
le costruzioni la cui sicurezza possa interessare la pubblica
incolumita', da realizzarsi nelle zone dichiarate sismiche, senza
alcuna distinzione tra nuove costruzioni e opere realizzate previa
demolizione di manufatti preesistenti (Cons. St., sez. IV, sent. n.
3703 del 2009) e senza che sia rilevante il carattere stabile o
precario della costruzione (Cass. pen., sez. III, sent. n. 17623 del
2006).
Tale definizione appare piu' ampia di quella data dall'art. 7
della legge regionale in esame che, nel riferirsi all'«insieme di
strutture portanti ed elementi costruttivi e architettonici
reciprocamente connessi in modo da formare con continuita' da cielo a
terra una entita' strutturale autonoma, sia isolata o collegata ad
altri edifici adiacenti, composta da una o piu' unita' immobiliari,
indipendentemente dal regime della proprieta'» presuppone un grado di
completezza dell'edificio (che deve essere dotato di una copertura e
soprattutto «strutturalmente autonomo») non richiesta dalla normativa
statale.
La norma regionale, dunque, viola l'art. 117, comma 3, Cost. (con
riferimento alle materie del «governo del territorio» e della
«protezione civile»), per contrasto con i principi fondamentali
dettati dalle norme sopra indicate del testo unico dell'edilizia.
Infatti, se alla nozione di «edificio» la legge regionale da' portata
generale, seppure «ai fini del presente testo unico», posto che in
quest'ultimo sono contenute anche le norme tecniche in materia di
costruzioni in zone sismiche, e' evidente che si viene a determinare
una restrizione dell'ambito di applicazione di una disciplina
statale, dettata alla luce di esigenze unitarie di tutela
dell'incolumita' pubblica, con conseguente violazione dell'art. 117,
comma 3, Cost.
3) Gli articoli 8, 9, comma 4, e 10, comma 1, e 13, comma 1, per
violazione dell'art. 9, dell'art. 117, comma 2, lettera s) e
dell'art. 117, comma 3, della Costituzione.
Gli articoli 8, 9, comma 4, e 10, comma 1, della legge regionale
umbra n. 1 del 2015 nel disciplinare i rapporti tra Programma
strategico territoriale - PST e il Piano paesaggistico regionale -
PPR, invadono la potesta' legislativa esclusiva statale in materia di
tutela del paesaggio e quindi violano l'art. 9 e l'art. 117, comma 2,
lettera s) della Costituzione; inoltre, le disposizioni impugnate
violano anche l'art. 117, comma 3, con riferimento alle materie del
«governo del territorio» e della «valorizzazione dei beni culturali».
Le norme censurate, nel disciplinare il Programma strategico
territoriale - PST, che l'art. 4 della legge regionale stessa
definisce «strumento di livello e scala regionale, di dimensione
strategica e programmatica», duplicano in alcuni casi e si
sovrappongono in altri casi alle previsioni e prescrizioni proprie
del piano paesaggistico, alterando la corretta gerarchia tra i
diversi strumenti di pianificazione. Ancorche' l'art. 14 della legge
regionale stabilisca comunque la prevalenza del PPR (Piano paesistico
regionale), ai sensi dell'art. 145, comma 3, del decreto legislativo
22 gennaio 2004, n. 42 (codice dei beni culturali e del paesaggio),
le duplicazioni e sovrapposizioni, che si vanno a illustrare nel
dettaglio, costituiscono in ogni caso una violazione della sfera di
attribuzioni normative statali e una causa di incertezza
interpretativa e applicativa foriera di un indebolimento della
tutela.
L'art. 8 (Finalita' e contenuti del Programma strategico
territoriale (PST)),
comma 1, lettera b) della legge regionale in commento,
nell'affermare che il PST «b) e' [...] strumento per la costruzione e
la condivisione delle scelte di sviluppo sostenibile del territorio
comprensive della valorizzazione del paesaggio», viola l'art. 117,
comma 2, lettera s), Cost.
Tale disposizione sottrae contenuti al piano paesaggistico - come
configurato dal decreto legislativo n. 42/2004 (articoli 135 e 143) -
per trasferirli al Programma strategico territoriale, che e' un piano
non di salvaguardia, ma di sviluppo territoriale. Infatti, l'art.
143, comma 1, lettera g), decreto legislativo n. 42/2004 prevede che
la valorizzazione dei beni paesaggistici sia contenuta nel piano
paesaggistico.
Analoga censura deve essere rivolta avverso il comma 3 dell'art.
8, a tenore del quale il PST «indica le azioni necessarie alla
mitigazione del rischio territoriale ed ambientale, al risanamento
delle singole componenti dell'ecosistema ed alla valorizzazione delle
specificita' paesaggistiche, architettoniche e storico-tipologiche
dell'Umbria». L'art. 143, comma 1, lettera f), decreto legislativo n.
42/2004, infatti, annovera tra i contenuti del piano paesaggistico
l'«analisi delle dinamiche di trasformazione del territorio ai fini
dell'individuazione dei fattori di rischio e degli elementi di
vulnerabilita' del paesaggio, nonche' comparazione con gli altri atti
di programmazione, di pianificazione e di difesa del suolo».
Appare cosi' integrata la violazione dell'art. 117, comma 2,
lettera s), e dell'art. 9 Cost.
Alla stessa stregua la previsione dell'art. 9, comma 4, per cui
«L'attivita' di pianificazione degli enti locali e' svolta in
coerenza con il PST», non riferendosi al piano paesaggistico, viola
l'art. 117, comma 2, lettera s), Cost.
La norma regionale, infatti, contrasta con il principio generale
dettato dall'art. 145 (Coordinamento della pianificazione
paesaggistica con altri strumenti di pianificazione), commi 3 e 4,
del decreto legislativo n. 42 del 2004 in base al quale «3. Le
previsioni dei piani paesaggistici di cui agli articoli 143 e 156 non
sono derogabili da parte di piani, programmi e progetti nazionali o
regionali di sviluppo economico, sono cogenti per gli strumenti
urbanistici dei comuni, delle citta' metropolitane e delle province,
sono immediatamente prevalenti sulle disposizioni difformi
eventualmente contenute negli strumenti urbanistici, stabiliscono
norme di salvaguardia applicabili in attesa dell'adeguamento degli
strumenti urbanistici e sono altresi' vincolanti per gli interventi
settoriali. Per quanto attiene alla tutela del paesaggio, le
disposizioni dei piani paesaggistici sono comunque prevalenti sulle
disposizioni contenute negli atti di pianificazione ad incidenza
territoriale previsti dalle normative di settore, ivi compresi quelli
degli enti gestori delle aree naturali protette. 4. I comuni, le
citta' metropolitane, le province e gli enti gestori delle aree
naturali protette conformano o adeguano gli strumenti di
pianificazione urbanistica e territoriale alle previsioni dei piani
paesaggistici, secondo le procedure previste dalla legge regionale,
entro i termini stabiliti dai piani medesimi e comunque non oltre due
anni dalla loro approvazione. I limiti alla proprieta' derivanti da
tali previsioni non sono oggetto di indennizzo».
L'art. 9, imponendo ai comuni la conformazione al PST, li obbliga
indirettamente a disattendere il piano paesaggistico quando
contrastante, il che e' una conferma dell'indebita sovraordinazione
del PST al PPR, evincibile peraltro anche dalle ulteriori norme
regionali che si esaminano qui di seguito.
L'art. 10, comma 1, secondo cui il Piano paesaggistico regionale
(PPR) deve essere «in correlazione a quanto previsto dal PST», vale a
dire deve essere coerente con il Programma strategico territoriale
(PST), il quale e' un piano territoriale di sviluppo economico, vale
a dire un piano urbanistico, contraddice il «principio della
«gerarchia» degli strumenti di pianificazione dei diversi livelli
territoriali» (Corte cost., 30 maggio 2008, n. 180), che deve
considerarsi un principio fondamentale rilevante ex art. 117, terzo
comma, Cost. ed espresso dal sopra riportato art. 145, comma 3,
decreto legislativo n. 42/2004.
Codesta Ecc.ma Corte, infatti, ha chiarito che: «L'art. 145,
comma 3, contempla il principio di «prevalenza dei piani
paesaggistici» sugli altri strumenti urbanistici, precisando,
segnatamente, che: «Per quanto attiene alla tutela del paesaggio, le
disposizioni dei piani paesaggistici sono comunque prevalenti sulle
disposizioni contenute negli atti di pianificazione ad territoriale
previsti dalle normative di settore, ivi compresi quelli degli enti
gestori delle aree naturali protette» (sent. n. 180 del 2008 v. anche
sentenze n. 193/2010, n. 272/2009 e n. 182/2006).
E' dunque evidente che la prevalenza gerarchica voluta dal codice
dei beni culturali e del paesaggio [e dunque dall'art. 117, secondo
comma, lettera s), e terzo comma, Cost.], e' inconciliabile con la
predetta «correlazione» prevista dall'art. 10, comma 1, della legge
regionale dell'Umbria n. 1 del 2015. La «correlazione» sta piuttosto
a significare una relazione gerarchica inversa, cioe' (potenzialmente
anche) una relazione di subordinazione del PPR al PST, visto che
l'ordine di queste disposizioni normative regionali antepone il PST
al PPR [sotto il comune capo I - Programmazione territoriale - il PST
(art. 8) precede il PPR (art. 10)]. D'altra parte se tale
correlazione fosse anche di equiordinazione tra i due strumenti, il
ricordato principio gerarchico dell'art. 145 sarebbe egualmente
sovvertito, perche' l'equiordinazione e' il contrario della
gerarchia. Tale ambigua correlazione rischia di subordinare la
salvaguardia del paesaggio, dal punto di vista pianificatorio, allo
«sviluppo» del territorio (che e' l'obiettivo fondamentale del PST),
con evidente indebolimento della funzione conservativa propria del
piano paesaggistico.
La complessiva dequotazione del PPR rispetto al PST, con
l'annessa accentuazione del solo profilo dello sviluppo territoriale
e la conseguente minusvalenza dei profili conservativi e di tutela,
risulta peraltro accentuata dalla scelta regionale, consacrata
nell'art. 13, comma 1, di limitare la copianificazione paesaggistica
con il Ministero «ai beni paesaggistici di cui all'art. 143, comma 1,
lettere b), e) e d) del decreto legislativo n. 42/2004».
Tale scelta, ancorche' formalmente legittima (atteso che l'art.
135 del codice impone la copianificazione solo per i beni vincolati e
lascia alla scelta discre-zionale regionale la possibilita'
alternativa), si pone in contrasto con le migliori pratiche
amministrative finora seguite da alcune regioni (vedi Sardegna,
Puglia, Toscana), che hanno preferito, con l'accordo del Ministero,
la copianificazione estesa all'intero territorio regionale, essendo
tale scelta piu' coerente con i dettami della Convenzione europea
fatta a Firenze il 20 ottobre 2000 e ratificata con legge n. 14 del 9
gennaio 2006. L'attenzione per la dimensione paesaggistica con
riferimento all'intero territorio, rappresenta uno dei principi
fondamentali della Convenzione che, all'art. 2, dispone che essa «si
applica a tutto il territorio delle parti e riguarda gli spazi
naturali, rurali, urbani e periurbani. Essa comprende i paesaggi
terrestri, le acque interne e marine. Concerne sia i paesaggi che
possono essere considerati eccezionali, che i paesaggi della vita
quotidiana e i paesaggi degradati».
E' evidente che la copianificazione limitata alla trattazione
delle sole aree territoriali coperte da vincolo indebolisce la
visione strategica del PPR e rende tale strumento oggettivamente
dipendente dalle scelte strategiche orientate prevalentemente allo
sviluppo contenute nel PST, che invece riguarda l'intero territorio
regionale. In questa ottica il PST rischia di diventare la cornice
generale delle linee ispiratrici dello sviluppo dell'intero
territorio regionale, all'interno del quale il PPR assume una
dimensione solo consequenziale e inevitabilmente subordinata. La
disposizione in commento, quindi, si rivela frutto di una scelta del
legislatore umbro che viola l'art. 117, comma 2, lettera s) Cost. e
contrasta con il principio prevalenza gerarchica degli strumenti di
pianificazione, rilevante ex art. 117, comma 3, Cost.
In conclusione, le norme regionali sospettate, per i profili
sopra descritti, si rivelano invasive della sfera competenziale
affidata alla legislazione statale esclusiva e lesive dei principi
fondamentali riservati alla Stato in punto di legislazione
concorrente nonche' dei valori paesaggistici costituzionalmente
protetti.
4) L'art. 11, comma 1, lettera d) per violazione dell'art. 9 e
dell'art. 117, comma 2, lettera s) della Costituzione.
L'art. 11, comma 1, lettera d), nel prevedere tra i contenuti del
PPR «la individuazione dei beni paesaggistici di cui agli articoli
134 e 142 del decreto legislativo n. 42/2004, con la definizione
delle discipline di tutela e valorizzazione», contrasta con l'art.
143, comma 1, decreto legislativo n. 42/2004, che stabilisce che
l'elaborazione del piano paesaggistico comprende «la ricognizione» e
non «l'individuazione» di tali aree e immobili. Il codice dei beni
culturali e del paesaggio, infatti, usa distintamente, all'art. 143,
i termini «individuazione» e «ricognizione», attribuendo ad essi un
significato diverso.
In particolare, il codice dei beni culturali e del paesaggio
adopera il termine «ricognizione» in quanto la pianificazione
paesaggistica si limita ad accertare l'esistenza dei beni
paesaggistici, gia' individuati con vincolo provvedimentale o ex
lege. L'uso del termine «individuazione», invece, e' utilizzato dallo
stesso articolo del codice in relazione a ulteriori beni sottoposti
ex novo dai piani paesaggistici a tutela o comunque a specifiche
misure di salvaguardia e di utilizzazione.
Orbene, l'uso indistinto del termine «individuazione» da parte
del legislatore regionale puo' significare l'attribuzione alla
pianificazione paesaggistica di una funzione non solo ricognitiva, ma
anche tacitamente abrogativa dei vincoli esistenti, in palese
contrasto con l'art. 143 del codice, che non attribuisce tale
funzione alla pianificazione paesaggistica. E' dunque evidente il
contrasto della disposizione regionale censurata con l'art. 9 e
l'art. 117, comma 2, lettera s) della Costituzione.
5) L'art. 13, commi 4 e 5, per violazione dell'art. 117, comma 2,
lettera s) e dell'art. 9, comma 2, della Costituzione.
L'art. 13 della legge regionale censurata, nel disciplinare il
procedimento di approvazione regionale del PPR, ai commi 4 e 5, non
assicura la necessaria compartecipazione paritetica del Ministero dei
beni e delle attivita' culturali e del turismo nella «approvazione»
sostanziale dei contenuti del nuovo piano paesaggistico.
Va ricordato, a riguardo, che l'impronta unitaria della
pianificazione paesaggistica e' assunta a valore imprescindibile, non
derogabile dal legislatore regionale in quanto espressione di un
intervento teso a stabilire una metodologia uniforme nel rispetto
della legislazione di tutela dei beni culturali e paesaggistici
sull'intero territorio nazionale (sent. 197 del 2014).
In tale prospettiva, l'art. 143, comma 2, del codice dei beni
culturali e del paesaggio, pur rinviando alle leggi regionali la
disciplina delle modalita' di approvazione del piano, postula che
l'approvazione regionale debba rispecchiare e recepire l'accordo
definito con il predetto Ministero avente ad oggetto il nuovo piano
redatto congiuntamente. Per quanto le disposizioni codicistiche non
individuino il momento in cui l'accordo conclusivo avente ad oggetto
il nuovo piano redatto congiuntamente debba esattamente intervenire,
e' logico ed evidente che si porrebbe in contrasto con la norma
statale di tutela la disciplina regionale che collochi l'accordo con
il Ministero in una fase anteriore agli ulteriori sviluppi dell'iter
approvativo regionale - scaglionato in successivi passaggi
deliberativi dell'organo di governo o di quello consiliare - senza
farsi carico di stabilire garanzie chiare e certe di conformita' del
testo finale del piano, per come esitato dai vari passaggi
consiliari, a quello sancito nell'accordo con il Ministero.
La sequenza procedimentale individuata all'art. 13 non assicura
dunque che l'elaborazione del PPR sia realmente congiunta tra Stato e
regione. Nonostante il richiamo all'elaborazione congiunta contenuto
nel comma 1, infatti, l'elaborato appare modificabile unilateralmente
dalla regione, a seguito delle osservazioni e audizioni varie
descritte nell'art. 13. Non si rinvengono disposizioni idonee ad
assicurare che quanto emerge da dette osservazioni e audizioni sia da
sottoporre all'esame del Ministero al fine di verificare la fedelta'
e la corrispondenza del nuovo testo a quello oggetto di accordo (o al
fine di rinegoziare con il Ministero l'accordo sui punti che fossero
risultati modificati per effetto del successivo iter approvativo
regionale).
Dalla sequenza procedurale proposta dall'art. 13, comma 4, sembra
che l'accordo con il Ministero debba avere ad oggetto il piano
paesaggistico adottato dalla giunta regionale (previa espressione del
parere del consiglio delle autonomie locali e previa acquisizione
delle proposte e delle osservazioni dei soggetti interessati e delle
associazioni portatrici di interessi diffusi, e una volta acquisito
il «parere preliminare alla sottoscrizione degli accordi previsti
dall'art. 143, comma 2 del decreto legislativo n. 42/2004» espresso
dall'assemblea legislativa «esaminate le proposte ed osservazioni
pervenute e formulate le valutazioni sulle stesse», «unitamente al
parere del CAL). Sennonche', in base al comma 5 dell'art. 13, il
consiglio regionale «decide in merito alle proposte ed osservazioni e
approva il PPR nel rispetto di quanto previsto dagli articoli 135 e
143 del decreto legislativo n. 42/2004», senza che sia previsto alcun
momento di confronto successivo con il Ministero atto a verificare
che il piano approvato dal consiglio regionale corrisponda o si
discosti rispetto a quello adottato dalla giunta e portato in sede di
accordo con il Ministero sulla base del solo parere preliminare del
consiglio.
Sotto il medesimo profilo, appare criticabile anche la scelta di
non coinvolgere gli organi tecnici ministeriali nell'esame delle
osservazioni prima della finale decisione del consiglio. Una logica
negoziale autentica imporrebbe che prima di passare alla valutazione
politica del consiglio regionale (vale a dire, all'ultima parola
della regione), sulle osservazioni in questione, essenzialmente
tecniche, si esprimessero simmetricamente i tecnici del Ministero.
Con la disposizione di legge regionale in esame, quindi, si rende
asimmetrico lo sviluppo procedimentale e si vanifica il principio
dell'elaborazione congiunta. In altri termini, la pur affermata
elaborazione «congiunta» rischia di restare circoscritta da questa
asimmetria a un mero momento istruttorio e preliminare e non
rappresenta piu' quel momento autenticamente e consapevolmente
codecisorio del procedimento cui il disegno del codice la preordina
perche' possa avere quegli effetti di semplificazione (parere del
soprintendente non piu' vincolante, ma solo obbligatorio) che tanto
incidono sulle prerogative statali di tutela. Consegue da quanto
sopra la lesione delle attribuzioni statali di legislazione esclusiva
ex art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., stante il contrasto
delle disposizioni regionali denunciate con il dettato dell'art. 143,
comma 2, del codice.
Da tale contrasto scaturisce la consequenziale violazione
dell'art. 9, secondo comma, Cost. poiche' la descritta sequenza
procedimentale, nel consentire unilaterali modifiche del piano in
sede di consiglio regionale, senza prevedere successive verifiche,
comporta la possibilita' di trasformare nei fatti quella che dovrebbe
essere una manifestazione di discrezionalita' tecnica in una
manifestazione di (unilaterale) volonta' politica consiliare, con
cio' tradendo il significato di tutela di cui all'art. 9 Cost.,
significato che e' di discrezionalita' tecnica e - proprio perche'
inserito in una Costituzione - di limite alla scelta politica.
6) L'art. 15, commi 1 e 5, per violazione dell'art. 117, comma 2,
lettera s) della Costituzione.
L'art. 15, commi 1 e 5, della legge regionale censurata, nel
disciplinare l'adeguamento degli strumenti di pianificazione al PPR,
prevede che «Le province e i soggetti gestori delle aree naturali
protette conformano i rispettivi piani e programmi al PPR nei termini
ivi stabiliti che non devono essere superiori ad un anno
dall'approvazione del medesimo PPR» (comma 1) e che «Le procedure di
adeguamento e conformazione degli strumenti urbanistici comunali al
PPR sono quelle previste all'art. 32, comma 4, lettera j) e comma 10»
(comma 5).
Tali disposizioni non prevedono la partecipazione del Ministero
dei beni e delle attivita' culturali e del turismo al procedimento
per l'adeguamento degli strumenti urbanistici al PPR, in contrasto
con quanto dispone l'art. 145, comma 5, del codice dei beni culturali
e del paesaggio, secondo cui «La regione disciplina il procedimento
di conformazione ed adeguamento degli strumenti urbanistici alle
previsioni della pianificazione paesaggistica, assicurando la
partecipazione degli organi ministeriali al procedimento medesimo».
Il decreto legislativo n. 42/2004 richiede che la verifica
dell'intervenuto adeguamento (o conformazione) degli strumenti
urbanistici si concreti in una espressa e specifica pronuncia propria
del Ministero sul punto. Cio' si evince dal combinato disposto
dell'art. 145, comma 5, con l'art. 146, comma 5, secondo periodo,
che, al fine di definire il momento temporale e giuridico a partire
dal quale opera la dequotazione del parere statale da vincolante a
solo obbligatorio, opera un preciso riferimento alla «positiva
verifica da parte del Ministero, su richiesta della regione
interessata, dell'avvenuto adeguamento degli strumenti urbanistici».
Sul punto, codesta Ecc.ma Corte, con la sentenza n. 211 del 2013, ha
stabilito che l'esclusione di qualsiasi partecipazione degli organi
ministeriali nei procedimenti di verifica di compatibilita' degli
strumenti di pianificazione delle amministrazioni locali al piano
regionale paesistico si pone «in evidente contrasto con la normativa
statale interposta e, in particolare, con il citato art. 145, comma
5, del decreto legislativo n. 42 del 2004, il quale - in linea con le
prerogative riservate allo Stato dalla disposizione costituzionale
evocata a parametro, come anche riconosciute da costante
giurisprudenza di questa Corte (tra le molte, sentenza n. 235 del
2011) - specificamente impone che la regione adotti la propria
disciplina "assicurando la partecipazione degli organi ministeriali
al procedimento medesimo"». Analogamente, con la sentenza n. 197 del
2014, ha poi dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 34
della legge della regione Piemonte 25 marzo 2013, n. 3, nella parte
in cui non prevedeva la partecipazione degli organi del Ministero per
i beni e le attivita' culturali al procedimento di conformazione agli
strumenti di pianificazione territoriale e paesaggistica delle
varianti al piano regolatore generale comunale e intercomunale.
In particolare, codesta Ecc.ma Corte, dopo aver ribadito i
principi enunciati, con la sentenza n. 211 del 2013, ha osservato che
«Costituisce, infatti, affermazione costante - su cui si fonda il
principio della gerarchia degli strumenti di pianificazione dei
diversi livelli territoriali, dettato dall'evocato art. 145, comma 5,
del decreto legislativo n. 42 del 2004 (sentenze n. 193 del 2010 e n.
272 del 2009) - quella secondo cui l'impronta unitaria della
pianificazione paesaggistica «e' assunta a valore imprescindibile,
non derogabile dal legislatore regionale in quanto espressione di un
intervento teso a stabilire una metodologia uniforme nel rispetto
della legislazione di tutela dei beni culturali e paesaggistici
sull'intero territorio nazionale» (sentenza n. 182 del 2006). Al
contrario, nella specie, la generale esclusione della partecipazione
degli organi ministeriali nei procedimenti di adozione delle
varianti, nella sostanza, veniva a degradare la tutela paesaggistica
da valore unitario prevalente e a concertazione rigorosamente
necessaria, in mera esigenza urbanistica (sentenza n. 437 del 2008)».
Consegue da quanto sopra l'illegittima compressione delle
attribuzioni statali di legislazione esclusiva ex art. 117, secondo
comma, lettera s), Cost., mediante violazione dell'art. 145, comma 5,
decreto legislativo n. 42/2004.
7) Gli articoli 16, commi 4 e 5, 17, 19 e 21, per violazione
dell'art. 117, comma 2, lettera p) e comma 3, della Costituzione.
Gli articoli 16, commi 4 e 5; 17 e 19 e 21 che disciplinano il
contenuto del Piano territoriale di coordinamento provinciale - PTCP
e i rapporti di questo strumento urbanistico con il piano regolatore
generale, si pongono in contrasto con l'art. 20, comma 2, decreto
legislativo n. 267/2000 e all'art. 1, comma 85, legge n. 56/2014, e
pertanto violano l'art. 117, comma 2, lettera p) e comma 3, della
Costituzione, con riferimento ai principi fondamentali in materia di
governo del territorio.
In particolare, si osserva che l'art. 1, comma 85, della legge n.
56 del 2014 annovera la pianificazione territoriale di coordinamento
tra le funzioni fondamentali delle province, quali enti con funzioni
di area vasta. Il comma 87 della legge statale da ultimo citata
specifica che dette funzioni «sono esercitate nei limiti e secondo le
modalita' stabilite dalla legislazione statale e regionale di
settore, secondo la rispettiva competenza per materia», come
individuata all'art. 117 della Costituzione.
Al riguardo, si osserva che il contenuto del piano territoriale
di coordinamento e' previsto all'art. 20, comma 2, del testo unico
sugli enti locali (decreto legislativo n. 267/2000). Secondo tale
norma il piano territoriale di coordinamento «determina gli indirizzi
generali di assetto del territorio e, in particolare, indica:
a) le diverse destinazioni del territorio in relazione alla
prevalente vocazione delle sue parti;
b) la localizzazione di massima delle maggiori infrastrutture e
delle principali linee di comunicazione;
c) le linee di intervento per la sistemazione idrica,
idrogeologica ed idraulico-forestale ed in genere per il
consolidamento del suolo e la regimazione delle acque;
d) le aree nelle quali sia opportuno istituire parchi o riserve
naturali». Il comma 5 dell'art. 20, inoltre, prevede che «Ai fini del
coordinamento e dell'approvazione degli strumenti di pianificazione
territoriale predisposti dai comuni, la provincia esercita le
funzioni ad essa attribuite dalla regione ed ha, in ogni caso, il
compito di accertare la compatibilita' di detti strumenti con le
previsioni del piano territoriale di coordinamento». In generale,
infine, il comma 6 dispone che «6. Gli enti e le amministrazioni
pubbliche, nell'esercizio delle rispettive competenze, si conformano
ai piani territoriali di coordinamento delle province e tengono conto
dei loro programmi pluriennali».
Appare chiaro, quindi, che la normativa statale concepisce il
PTCP come strumento di pianificazione di area vasta, sovraordinato
rispetto al piano urbanistico comunale.
Cio' posto, le disposizioni regionali censurate, nel ridurre
drasticamente il contenuto del PTCP e nel modificare i rapporti di
questo strumento urbanistico con i piani regolatori generali,
contraddicono l'essenza della pianificazione di area vasta e dunque,
oltre a contrastare con i principi fondamentali in materia di governo
del territorio sopra richiamati, incidono sulla disciplina di una
funzione fondamentale attribuita dallo Stato alla competenza delle
province. La pianificazione territoriale provinciale di coordinamento
rappresenta, infatti, una delle funzioni fondamentali [art. 1, comma
85, lettera a) della legge n. 56 del 2014] che consentira' alla
provincia di continuare ad esistere quale ente territoriale «con
funzioni di area vasta» nel nuovo assetto voluto dal legislatore
statale, la cui legittimita' costituzionale e' stata recentemente
affermata dal codesta Ecc.ma Corte (sent. 50 del 2015).
Orbene, l'art. 16 della legge regionale umbra n. 1 del 2015, al
comma 4, prevede che «le province con il PTCP (...): a) raccordano e
coordinano i diversi piani sovracomunali nei limiti dagli stessi
previsti; b) forniscono ai comuni le basi conoscitive utili per le
azioni pianificatorie; c) promuovono azioni di raccordo tra le
pianificazioni dei comuni con particolare riferimento a quelli i cui
territori presentano un'elevata continuita' morfologica o funzionale,
in cui le scelte di pianificazione comportano significativi effetti
di livello sovracomunale; d) esercitano le funzioni per attuare la
perequazione territoriale e la compartecipazione tra i comuni
interessati ai proventi e costi conseguenti a trasformazioni o
interventi di rilevanza intercomunale». Il comma 5, invece, dispone
che «le province, attraverso il PTCP, promuovono il coordinamento con
le province ed i comuni contermini ai fini dell'integrazione delle
rispettive politiche territoriali».
Gia' da queste disposizioni risulta evidente che i PTCP non hanno
la funzione essenziale, prevista dalla testo unico degli enti locali,
di «determinare gli indirizzi generali di assetto del territorio». I
PTCP si limitano a un mero «raccordo e coordinamento» degli altri
piani sovracomunali, peraltro «nei limiti dagli stessi previsti», a
«fornire ai comuni ... basi conoscitive», a «promuovere azioni di
raccordo della pianificazione comunale», ad «attuare la perequazione
territoriale e la compartecipazione tra i comuni interessati ai
proventi e costi conseguenti a trasformazioni o interventi di
rilevanza intercomunale».
Per quanto riguarda i contenuti dei PTCP, l'art. 17, comma 1,
prevede alla lettera b), «... 2) la rete delle infrastrutture della
mobilita', esistenti e di progetto, che rientra nelle competenze
provinciali, nel rispetto degli strumenti sovraordinati, (...) 3) la
localizzazione delle attrezzature, degli impianti, delle
infrastrutture e dei servizi di interesse provinciale esistenti e di
progetto; 4) la definizione degli adempimenti previsti al titolo IV»
e, alla lettera c) «2) le linee di intervento in materia di difesa
del suolo, di tutela delle acque, sulla base delle caratteristiche
ambientali, geologiche, idrogeologiche e sismiche del territorio, per
quanto non regolato dai piani di cui al decreto legislativo 3 aprile
2006, n. 152 (Norme in materia ambientale) o da specifiche
disposizioni regionali; 3) i criteri per gli insediamenti produttivi
a rischio di incidente rilevante di cui alle normative statali di
settore; 4) la disciplina di specifica competenza del PTCP prevista
al titolo IV». Infine, il comma 2 prevede che «il PTCP detta la
metodologia e coordina la individuazione delle aree per le
attrezzature e per gli insediamenti di interesse intercomunale,
stabilendo anche concreti riferimenti territoriali, nonche'
definisce, previa intesa istituzionale con i comuni interessati, le
aree destinate ad attrezzature e servizi di rilievo provinciale».
Risulta evidente che la normativa regionale censurata omette di
attribuire al PTCP: il compito di «indicare le diverse destinazioni
del territorio in relazione alla prevalente vocazione di ogni sua
parte» (art. 20, comma 2, lettera a), decreto legislativo n.
267/2000); il compito di «localizzazione di massima delle maggiori
infrastrutture e delle principali comunicazioni» (la norma regionale,
infatti, parla solo di infrastrutture e di servizi di interesse
provinciale esistenti e di progetto), ne' vi e' riferimento alcuno
alle linee di intervento in materia di consolidamento del suolo e
tutela delle acque o alla individuazione delle aree nelle quali sia
opportuno istituire parchi o riserve naturali. Anche per quanto
riguarda la definizione delle aree destinate ad attrezzature e
servizi di interesse provinciale, la funzione del PTCP e' subordinata
alla «previa intesa istituzionale con i comuni interessati» (art. 17,
comma 2).
La disposizione regionale in commento integra, dunque, la
violazione dell'art. 117, comma 2, lettera p) e comma 3, Cost., con
riferimento ai principi fondamentali in materia di governo del
territorio.
Identica violazione si ravvisa nel disposto dell'art. 19 della
legge umbra. La norma infatti prevede che «i comuni adeguano i propri
strumenti urbanistici al PTCP» (comma 1), e che «dalla data di
efficacia del PTCP approvato, il comune non puo' rilasciare titoli
abilitativi o approvare piani attuativi che siano in contrasto con le
norme immediatamente prevalenti del PTCP medesimo di cui all'art. 17,
comma 1, lettera c), punto 1)» (comma 2).
Da un lato, dunque, non viene attribuito alla provincia il
compito di accertare la compatibilita' degli strumenti urbanistici
comunali con il PTCP (come previsto, invece, all'art. 20, comma 5,
del testo unico degli enti locali), dall'altro, la prevalenza del
PTCP viene di fatto limitata ai soli contenuti individuati all'art.
17, comma 1, lettera c), punto 1) della legge regionale in commento,
con la conseguenza che non ci sono rimedi in caso di mancato
adeguamento dei piani comuni al PTCP.
Va rilevato, infine, che quelli che la legge statale individua
come contenuti fondamentali del PTCP sono attribuiti, di fatto, ai
piani regolatori comunali, che pero' sono inidonei a svolgere una
funzione di pianificazione di area vasta.
L'art. 21, comma 1, della legge regionale n. 1 del 2015 infatti,
attribuisce al PRG - parte strutturale, il compito di individuare le
diverse destinazioni del territorio (in particolare: gli elementi che
costituiscono il sistema delle componenti naturali - lettera a) -; le
aree instabili o a rischio - lettera b) -; le aree agricole - lettera
c) -; gli elementi del territorio di valore storico culturale -
lettera e) -), nonche' di individuare «le infrastrutture lineari e
nodali per la mobilita' ed in particolare la rete ferroviaria e
viaria di interesse regionale, provinciale e comunale, nonche' gli
elettrodotti di alta tensione» (lettera f) e «le principali
infrastrutture lineari e nodali per la mobilita', nonche' la rete
escursionistica di interesse interregionale e regionale» (comma 2,
lettera e).
Si tratta di attribuzioni che dovrebbero essere di competenza del
PTCP, per la rilevanza di interesse regionale e, addirittura,
interregionale. La sovrapposizione tra i due piani emerge anche per
il fatto che l'art. 21, comma 2, lettera l), prevede che il PRG
«definisce gli adempimenti previsti al titolo IV», ma la stessa
funzione e' attribuita anche al PTCP dall'art. 17, comma 1, lettera
b), n. 4. Di conseguenza, si estendono alle citate disposizioni
dell'art. 21 i medesimi profili di illegittimita' costituzionale
sopra evidenziati con riferimento agli articoli 16, commi 4 e 5; 17 e
19 della legge regionale sospettata.
8) L'art. 18, commi 4, 5, 6 e 7, 8 e 9, per violazione dell'art. 117,
comma 2, lettera s), della Costituzione.
L'art. 18, commi 4, 5, 6 e 7, 8 e 9, nel disciplinare il
procedimento di valutazione della conformita' e adeguamento delle
previsioni del PTCP, nonche' delle relative varianti, al PPR, prevede
la convocazione da parte della regione di una conferenza
istituzionale di copianificazione alla quale partecipano le province,
ma non contempla la partecipazione al procedimento di conformazione e
adeguamento al PPR degli organi ministeriali.
L'esclusione della partecipazione di qualsivoglia organismo
ministeriale dai procedimenti di verifica di compatibilita' degli
strumenti di pianificazione delle amministrazioni locali al piano
regionale paesistico si pone in evidente contrasto con la normativa
statale (art. 145, comma 5, del decreto legislativo n. 42 del 2004)
che impone la partecipazione dello Stato, in linea con le prerogative
ad esso riservate dall'art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.,
riconosciute dalla costante giurisprudenza costituzionale (sent. n.
211 del 2013 n. 235 del 2011 e n. 197 del 2014).
Pertanto, si estendono alle disposizioni censurate i profili di
incostituzionalita' gia' rilevati in relazione all'art. 15 e,
conseguentemente, si rileva, anche in questo caso, la violazione
delle attribuzioni statali di legislazione esclusiva ex art. 117,
secondo comma, lettera s), Cost., mediante violazione dell'art. 145,
comma 5, decreto legislativo n. 42/2004.
9) L'art. 28, comma 10, e l'art. 56, comma 3, per violazione
dell'art. 117, comma 3, della Costituzione.
L'art. 28, comma 10 della legge regionale n. 1 del 2015,
attribuisce al comune, in sede di adozione del PRG, il compito di
esprimere il parere di cui all'art. 89 del decreto del Presidente
della Repubblica n. 380/2001, previa determinazione della commissione
comunale per la qualita' architettonica ed il paesaggio di cui
all'art. 2, comma 4, della stessa legge regionale. L'art. 56, comma
3, inoltre, stabilisce che il SUAPE (sportello unico delle attivita'
produttive ed edilizie) «acquisisce direttamente ... i pareri che
debbono essere resi dagli uffici comunali necessari ai fini
dell'approvazione del piano attuativo compreso il parere in materia
sismica, idraulica ed idrogeologica, da esprimere con le modalita' di
cui all'art. 112, comma 4, lettera d)».
Tali norme contrastano con l'art. 89 del decreto del Presidente
della Repubblica n. 380/2001, secondo cui il parere sugli strumenti
urbanistici generali dei comuni siti in zone sismiche o in abitati da
consolidare va richiesto «al competente ufficio tecnico regionale
sugli strumenti urbanistici generali e particolareggiati prima della
delibera di adozione nonche' sulle lottizzazioni convenzionate prima
della delibera di approvazione, e loro varianti affini della verifica
della compatibilita' delle rispettive previsioni con le condizioni
geomorfologiche del territorio» (comma 1). I commi 2 e 3 del medesimo
art. 89 prevedono che il competente ufficio tecnico regionale si
pronunci entro sessanta giorni dal ricevimento della richiesta
dell'amministrazione comunale e che, in caso di mancato riscontro, il
parere deve intendersi reso in senso negativo.
Per consolidata giurisprudenza di codesta Ecc.ma Corte (tra le
tante, sentenze n. 167 del 2014, n. 300 e n. 101 del 2013, n. 201 del
2012, n. 254 del 2010, n. 248 del 2009, n. 182 del 2006), la
disciplina degli interventi edilizi in zone sismiche e' riconducibile
all'ambito materiale del «governo del territorio», nonche' a quello
relativo alla «protezione civile», per i profili concernenti «la
tutela dell'incolumita' pubblica» (sentenza n. 254 del 2010).
In entrambe le materie, di potesta' legislativa concorrente,
spetta allo Stato fissare i principi fondamentali ai sensi dell'art.
117, comma 3, della Costituzione. Come chiarito, da ultimo, nella
sentenza n. 167/2014, l'art. 89 del testo unico dell'edilizia
costituisce principio fondamentale in materia di «protezione civile»,
in quanto «appare funzionale ad assicurare l'"intento unificatore
della legislazione statale", palesemente orientato a soddisfare
quelle imprescindibili garanzie valevoli per tutti gli strumenti
urbanistici generali e particolareggiati con riguardo al rischio di
calamita' naturali» (ex plurimis, sentenze n. 254 del 2010 e n. 182
del 2006). L'art. 89 del decreto del Presidente della Repubblica n.
380 del 2001 ha come suo oggetto gli strumenti urbanistici e le
costruzioni nelle zone ad alto rischio sismico e come sua ratio la
tutela dell'interesse generale alla sicurezza delle persone.
Cio' posto, deve ritenersi che l'attribuzione agli uffici
regionali delle funzioni relative al rilascio di detto parere (e la
previsione del silenzio rifiuto in caso di mancata risposta entro il
termine), sia funzionale alle suddette esigenze di tutela
dell'incolumita' pubblica. Il comune, infatti, avendo redatto il
piano urbanistico, non e' soggetto terzo e quindi non offre
sufficienti garanzie di imparzialita' nel rilascio di questo parere.
Inoltre, il comune potrebbe essere esposto a interessi configgenti,
che rendono piu' opportuno attribuire il compito del rilascio del
parere da un organo diverso. Ne' offre sufficienti garanzie la
previsione del previo parere (obbligatorio e non vincolante), della
commissione comunale per la qualita' architettonica e il paesaggio
contemplata dall'art. 112 della legge regionale in commento.
Per questi motivi, l'art. 28, comma 10, e, di conseguenza, l'art.
56, comma 3, della legge regionale impugnata contrastano con l'art.
89 del testo unico dell'edilizia e quindi violano l'art. 117, comma
3, della Costituzione con riferimento alla materia «protezione
civile», oltre che alla materia «governo del territorio».
10) L'art. 32, comma 4; l'art. 49, comma 2, lettera a); l'art. 51,
comma 6; l'art. 79, comma 3, per violazione dell'art. 117, comma 2,
lettera l) e comma 3, della Costituzione.
Gli articoli 32, comma 4, lettera c); 49, comma 2, lettera a);
51, comma 6; 79, comma 3, della legge regionale censurata, nel
consentire varianti e deroghe alle altezze massime previste dagli
strumenti urbanistici senza prevedere il necessario rispetto degli
standard previsti dall'art. 8 del decreto ministeriale n. 1444/1968,
violano l'art. 117, comma 3 (con riferimento ai principi fondamentali
in materia di «governo del territorio»), nonche' comma 2, lettera l)
(con riferimento alla materia «ordinamento civile») della
Costituzione.
Le predette norme regionali consentono espressamente ai comuni di
derogare alle altezze massime fissate nel decreto ministeriale n.
1444 del 1968, senza rispettare le condizioni stabilite dal medesimo
decreto ministeriale. Le deroghe introdotte dal legislatore regionale
agli standard imposti dal legislatore statale non garantiscono il
perseguimento dell'interesse pubblico relativo al governo del
territorio e appaiono irrispettose delle prerogative riconosciute
allo Stato.
Il mancato rispetto di dette condizioni, da parte delle norme
regionali denunciate, comporta pertanto la violazione della
competenza legislativa statale in materia «ordinamento civile»
stabilita dell'art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. (sent. n.
114 del 2012 e sent. n. 6 del 2013) oltre che l'inosservanza dei
principi fondamentali in materia di «governo del territorio» ai sensi
dell'art. 117, terzo comma, Cost.
11) L'art. 56, comma 14, per violazione dell'art. 117, comma 2,
lettera s), della Costituzione.
L'art. 56, comma 14, della legge regionale censurata, nel
disciplinare l'adozione e l'approvazione del piano attuativo, prevede
che «il piano attuativo relativo ad interventi nelle zone sottoposte
al vincolo di cui al decreto legislativo n. 42/2004 e nelle aree o
immobili di cui all'art. 112, comma 1, e' adottato previo parere
della commissione comunale per la qualita' architettonica ed il
paesaggio. Il comune trasmette alla Soprintendenza il parere della
commissione unitamente agli elaborati del piano attuativo adottato,
corredati del progetto delle opere di urbanizzazione e
infrastrutturali previste, nonche' della documentazione di cui al
comma 3, dell'art. 146, del decreto legislativo n. 42/2004 relativa a
tali opere. La Soprintendenza esprime il parere di cui all'art. 146
del decreto legislativo n. 42/2004 esclusivamente sulle opere di
urbanizzazione e infrastrutturali, ai fini di quanto previsto
all'art. 57, comma 6, fermo restando il parere di cui allo stesso
art. 146 del decreto legislativo n. 42/2004 da esprimere
successivamente sul progetto definitivo dei singoli interventi
edilizi. Nel caso di attuazione del procedimento di cui al presente
comma i termini relativi al procedimento di adozione e approvazione
del piano attuativo sono sospesi.
Il parere della Soprintendenza sul piano attuativo e' richiesto
«esclusivamente» per le opere di urbanizzazione e infrastrutturali,
ai fini dell'autorizzazione paesaggistica, poiche' ai sensi del comma
6 del citato art. 57 «La deliberazione comunale di approvazione del
piano attuativo costituisce titolo abilitativo e autorizzazione
paesaggistica per la realizzazione degli allacci e delle opere di
urbanizzazione previste».
La disposizione in esame esibisce due distinti profili di
incostituzionalita'.
Da un lato, come osservato per gli articoli 15 e 18, la norma
regionale non prevede il procedimento di conformazione/adeguamento
dello strumento urbanistico (piano attuativo) al PPR e, quindi, la
partecipazione a tale procedimento degli organi ministeriali, e
valgono al riguardo le argomentazioni esposte a sostegno delle
censure mosse verso le norme regionali da ultimo citate.
Dall'altro lato, l'art. 56, comma 14, della legge regionale in
commento, viola il disposto degli articoli 16 e 28 della legge n.
1150 del 1942 (legge urbanistica), perche' di fatto abolisce il
parere preventivo del soprintendente ivi previsto sugli strumenti
attuativi, confondendo tale istituto (autonomo e distinto nella legge
statale) con l'istituto dell'autorizzazione paesaggistica, di cui
all'art. 146 del codice dei beni culturali e del paesaggio, che
riguarda il diverso momento provvedimentale, relativo al singolo
intervento, e che si pone «a valle» della pianificazione attuativa.
Il parere reso dal soprintendente ex articoli 16 e 28 cit. della
legge urbanistica n. 1150 del 1942 e' cosa diversa e autonoma
rispetto al parere vincolante espresso dallo stesso soprintendente
sul singolo progetto, a livello provvedimentale (e non
pianificatorio) ex art. 146 del predetto codice (sulla perdurante
vigenza di tali articoli 16 e 28 della legge urbanistica, pur dopo il
codice, cfr. Cons. Stato, sez. VI, 18 gennaio 2012, n. 173; Id., 1°
ottobre 2008, n. 4726; 5 febbraio 2010, n. 538, nonche' 15 marzo
2010, n. 1491).
Anche in questo caso, dunque, si evidenzia la violazione
dell'art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, poiche'
le norme interposte richiamate (articoli 16 e 28 della legge n. 1150
del 1942), pur se contenute nella legge urbanistica, costituiscono
norme di tutela del paesaggio.
12) L'art. 54, comma 4, e l'art. 215, comma 5, per violazione
dell'art. 42 e dell'art. 117, comma 2, lettera l) della Costituzione.
L'art. 54 della legge regionale censurata, che disciplina il
piano attuativo (del PRG) di iniziativa privata e mista, prevede, al
comma 4, che per l'esproprio si applicano «le modalita' previste
dall'art. 27, comma 5, della legge 1° agosto 2002, n. 166», in
materia di Programmi di riabilitazione urbana. Detta norma stabilisce
che «l'indennita' espropriativa, posta a carico del consorzio, in
deroga all'art. 5-bis del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333,
convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359,
deve corrispondere al valore venale dei beni espropriati diminuito
degli oneri di urbanizzazione stabiliti in convenzione. L'indennita'
puo' essere corrisposta anche mediante permute di altre proprieta'
immobiliari site nel comune».
La disposizione censurata, nel diminuire l'indennita' di
esproprio degli oneri di urbanizzazione stabiliti in convenzione,
contrasta con gli articoli 42 e 117, comma 2, lettera l) della
Costituzione.
Dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 348 del 2007,
infatti, il legislatore, con l'art. 2 della legge finanziaria del
2008 (legge 24 dicembre 2007, n. 244), ha previsto che l'indennita'
di espropriazione dei suoli edificabili deve essere commisurata al
valore venale del bene, salvi i correttivi di volta in volta
previsti. Per effetto delle nuove disposizioni, soltanto qualora
«l'esproprio avvenga nell'ambito di iniziative di rilevante interesse
economico-sociale», l'indennita', pur restando agganciata al
parametro del valore venale del bene, puo' essere ridotta in funzione
del fine di utilita' sociale che la procedura espropriativa mira a
realizzare.
In relazione ai suesposti principi, si espone a censura di
incostituzionalita' la disposizione regionale che prevede, ai fini
della determinazione dell'indennita' di esproprio relativa a
qualsiasi intervento ablatorio compiuto in esecuzione dei piani
attuativi, l'applicazione di una percentuale fissa di abbattimento,
richiamando una disposizione di settore operante in materia di
infrastrutture e trasporti, e dunque in uno specifico ambito
coinvolgente rilevanti interessi pubblicistici. Non sono invero
ravvisabili, nell'ipotesi dei piani attuativi disciplinati dall'art.
54 della legge regionale umbra n. 1 del 2015, le finalita' sociali
che codesta Ecc.ma Corte ha ritenuto necessarie per prevedere una
decurtazione dell'indennita' di esproprio (sentenza n. 348 del 2007).
Analoghe censure sono formulabili con riferimento all'art. 215,
comma 5, della legge regionale in commento. La norma inserita al capo
II del titolo VII della legge umbra n. 1 del 2015, dedicato alle
«Espropriazione per pubblica utilita'» dispone che «nel caso di piani
attuativi di iniziativa privata e mista di cui all'art. 54, commi 3 e
5, si procede a norma dell'art. 27, comma 5 della legge n. 166/2002».
In forza del citato art. 215, comma 5, in presenza di piani
attuativi di iniziativa privata mista si procede a norma dell'art.
27, comma 5, della legge n. 166/2002, con conseguente riferimento
alla prevista decurtazione dell'indennita' di espropriazione. La
previsione regionale, dunque, contrasta con gli articoli 42 e 117,
comma 2, lettera l) della Costituzione per le ragioni innanzi
esposte.
13) Gli articoli 59, comma 3, e 64, comma 1, per violazione dell'art.
117, comma 3, della Costituzione.
Gli articoli 59, comma 3 e 64, comma 1, della legge regionale
impugnata contrastano con il principio fondamentale in materia di
governo del territorio contenuto all'art. 9 del decreto del
Presidente della Repubblica n. 380/2001 e pertanto violano l'art.
117, comma 3, della Costituzione.
In particolare, l'art. 59 consente nelle aree nelle quali non
siano attuate le previsioni degli strumenti urbanistici generali,
anche a mezzo di piano attuativo, gli interventi edilizi di
manutenzione ordinaria e straordinaria, di restauro e risanamento
conservativo nonche' di ristrutturazione edilizia. Inoltre,
stabilisce che detti interventi possono comportare anche la modifica
della destinazione d'uso in atto in un edificio esistente, purche' la
nuova destinazione risulti compatibile con le previsioni dello
strumento urbanistico generale.
L'art. 64, al comma 1, prevede una serie di interventi edilizi
che possono essere realizzati nei centri storici in assenza di piano
attuativo. Vi rientrano la manutenzione ordinaria, la manutenzione
straordinaria, il restauro e il risanamento conservativo, la
ristrutturazione edilizia [che non comporti aumento della SUC
(superficie utile coperta) o modifiche della sagoma e dell'area di
sedime preesistenti], i cambiamenti di destinazione d'uso, gli
interventi relativi alla prevenzione sismica, gli interventi di
recupero dei sottotetti, con incremento dell'altezza dell'edificio e
finanche l'apertura di finestre, lucernai, abbaini e terrazzi, gli
interventi per le infrastrutture viarie, tecnologiche, a rete o
puntuali, nonche' per l'arredo urbano.
Dette disposizioni si pongono in contrasto con l'art. 9, comma 2,
del testo unico dell'edilizia che, anche al fine di tutelare il
territorio, ponendo limiti all'attivita' edilizia in assenza di
pianificazione, individua gli interventi consentiti nel caso in cui
non siano stati adottati gli strumenti urbanistici attuativi. La
disposizione citata, che deve ritenersi un principio fondamentale in
materia di «governo del territorio» (tanto che, nella prima parte del
comma 1, si specifica che le leggi regionali possono individuare
limiti piu' restrittivi), consente, in assenza di strumenti
urbanistici attuativi, gli interventi di manutenzione ordinaria e
straordinaria e di restauro e risanamento conservativo che riguardino
singole unita' immobiliari o parti di esse, nonche' gli interventi di
ristrutturazione edilizia «anche se riguardino globalmente uno o piu'
edifici e modifichino fino al 25 per cento delle destinazioni
preesistenti, purche' il titolare del permesso si impegni, con atto
trascritto a favore del comune e a cura e spese dell'interessato, a
praticare, limitatamente alla percentuale mantenuta ad uso
residenziale, prezzi di vendita e canoni di locazione concordati con
il comune ed a concorrere negli oneri di urbanizzazione di cui alla
sezione II del capo II del presente titolo».
Ne deriva, quindi, che la normativa statale, a differenza di
quella regionale, limita la possibilita' di mutare la destinazione
d'uso e, in ogni caso, non consente gli interventi di recupero dei
sottotetti, con incremento dell'altezza dell'edificio e finanche
l'apertura di finestre, lucernai, abbaini e terrazzi, ne' gli
interventi per le infrastrutture viarie, tecnologiche, a rete o
puntuali, nonche' per l'arredo urbano, non essendo tali interventi
riconducibili alle categorie sopra individuate. Di qui la violazione
dell'art. 117, comma 3, della Costituzione integrata dalle norme
regionali censurate.
14) L'art. 95, comma 4, per violazione dell'art. 117, comma 1 e
dell'art. 117, comma 2, lettera s) della Costituzione.
L'art. 95, comma 4, prevede che «Gli insediamenti del PRG sulle
quali sono formulate nuove previsioni residenziali o l'ampliamento di
quelle esistenti non possono essere localizzate in avvicinamento agli
allevamenti zootecnici suinicoli, avicoli e ittiogenici di cui
all'art. 93 o attivita' a rischio di incidente rilevante, situate
all'interno del territorio comunale di riferimento determinando
distanze inferiori a metri lineari 600. La suddetta distanza non si
applica per la realizzazione di singoli edifici residenziale».
Tale formulazione, nello stabilire in modo aprioristico e
generalizzato che la localizzazione dei nuovi insediamenti
residenziali abbia una distanza minima di 600 metri lineari dalle
attivita' a rischio di incidente rilevante, si pone in violazione
degli standard uniformi stabiliti a livello nazionale dal decreto
legislativo 17 agosto 1999, n. 334, recante attuazione della
direttiva 96/82/CE (Seveso), relativa al controllo dei rischi di
incidenti rilevanti connessi con determinate sostanze pericolose.
In particolare, l'art. 14 del decreto legislativo n. 334/1999,
fissa i criteri in materia di assetto del territorio e controllo
dell'urbanizzazione, specificati dal decreto ministeriale 9 maggio
2001, che a sua volta stabilisce i requisiti minimi di sicurezza in
materia di pianificazione urbanistica e territoriale per le zone
interessate da stabilimenti a rischio di incidente rilevante.
All'art. 1, comma 1, il predetto decreto stabilisce infatti che «per
le zone interessate da stabilimenti soggetti agli obblighi di cui
agli articoli 6, 7 ed 8 del decreto, siano stabiliti requisiti minimi
di sicurezza in materia di pianificazione territoriale, con
riferimento alla destinazione ed alla utilizzazione dei suoli, al
fine di prevenire gli incidenti rilevanti connessi a determinate
sostanze pericolose e a limitarne le conseguenze per l'uomo e per
l'ambiente e in relazione alla necessita' di mantenere opportune
distanze di sicurezza tra gli stabilimenti e le zone residenziali
per:
a) insediamenti di stabilimenti nuovi;
b) modifiche degli stabilimenti di cui all'art. 10, comma 1 del
decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 334 (modifiche con aggravio
del rischio);
c) nuovi insediamenti o infrastrutture attorno agli stabilimenti
esistenti quali, ad esempio, vie di comunicazione, luoghi frequentati
dal pubblico, zone residenziali, qualora l'ubicazione o
l'insediamento o l'infrastruttura possano aggravare il rischio o le
conseguenze di un incidente rilevante».
Il comma 5-bis del medesimo art. 14 dispone inoltre che nelle
zone interessate dagli stabilimenti a rischio di incidente rilevante
«gli enti territoriali tengono conto, nell'elaborazione degli
strumenti di pianificazione dell'assetto del territorio, della
necessita' di prevedere e mantenere opportune distanze tra gli
stabilimenti e le zone residenziali, gli edifici e le zone
frequentate dal pubblico, le vie di trasporto principali, le aree
ricreative e le aree di particolare interesse naturale o
particolarmente sensibili dal punto di vista naturale (...)».
A tal fine il decreto ministeriale 9 maggio 2001 stabilisce che
le autorita' responsabili della gestione del territorio recepiscono
negli strumenti di regolamentazione territoriale ed urbanistica e
negli atti autorizzativi dell'attivita' edilizia, nelle aree
interessate dagli effetti degli scenari incidentali ipotizzabili in
relazione alla presenza di stabilimenti a rischio di incidente
rilevante, le informazioni fornite dai gestori sulle aree di danno e
le valutazioni di compatibilita' degli interventi fornite
dall'autorita' tecnica competente.
In particolare, nei casi di cui al predetto art. 14, comma 1, del
decreto legislativo n. 334/1999, la valutazione della compatibilita'
territoriale ed ambientale degli interventi edilizi e' effettuata,
secondo i criteri di cui all'allegato al decreto ministeriale,
tramite una zonizzazione delle aree circostanti gli stabilimenti a
rischio di incidente rilevante, che indica le categorie territoriali
compatibili con le aree di danno derivanti dalle analisi di rischio
effettuate (art. 6.1. dell'allegato del decreto ministeriale 9 maggio
2001).
Non appare, pertanto, costituzionalmente legittimo il riferimento
regionale ad una fascia minima di rispetto di 600 metri lineari,
fissata in modo aprioristico e generalizzato.
Sull'argomento, codesta Ecc.ma Corte, con sentenza n. 248 del 16
luglio 2009, in materia di incidenti rilevanti, ha precisato che le
norme regionali devono in ogni caso collocarsi «nell'ambito
delimitato dalla normativa statale e, quindi, dagli specifici
requisiti adottati con il decreto ministeriale 9 maggio 2001, nonche'
dei requisiti minimi di sicurezza fissati nell'ambito della
pianificazione dell'uso del territorio nei comuni ove sono presenti
stabilimenti pericolosi, soggetti agli obblighi di cui agli articoli
6, 7 e 8 del decreto legislativo n. 334 del 1999».
Si tratta, come accennato, di normativa che trova fondamento
nella disciplina comunitaria recata dalla direttiva 96/82/CE, ed in
particolare nell'art. 12 che stabilisce misure in materia di
controllo dell'urbanizzazione (cfr. ora art. 13, dir. 4 luglio 2012,
n. 2012/18/UE).
Ponendosi in contrasto con la normativa appena richiamata, l'art.
95, comma 4, della legge regionale n. 1 del 2015 viola, dunque,
l'art. 117, comma 1 e 117, comma 2, lettera s) della Costituzione.
15) L'art. 118, comma 1, lettera e), per violazione dell'art. 117,
comma 3, della Costituzione.
L'art. 118, comma 1, lettera e) annovera tra gli interventi di
attivita' edilizia libera, eseguibili senza alcun titolo abilitativo
«le opere interne alle unita' immobiliari, di cui all'art. 7, comma
1, lettera g)». Trattasi delle opere «concernenti l'eliminazione, lo
spostamento e la realizzazione di aperture e pareti divisorie interne
che non costituiscano elementi strutturali, sempre che non comportino
aumento del numero delle unita' immobiliari o implichino incrementi
degli standard urbanistici, nonche' concernenti la realizzazione ed
integrazione di servizi igienicosanitari e tecnologici, da realizzare
nel rispetto delle norme di sicurezza, di quelle igienico sanitarie,
sul dimensionamento dei vani e sui rapporti aeroilluminanti».
Tale previsione contrasta con l'art. 6, comma 2, lettera a) e
comma 4 del testo unico dell'edilizia, che assoggetta a comunicazione
di inizio lavori c.d. «asseverata» «gli interventi di manutenzione
straordinaria di cui all'art. 3, comma 1, lettera b), ivi compresa
l'apertura di porte interne o lo spostamento di pareti interne,
sempre che non riguardino le parti strutturali dell'edificio». In
proposito, va ribadito che a giudizio di codesta Ecc.ma Corte
«rientrano nell'ambito della normativa di principio in materia di
governo del territorio le disposizioni legislative riguardanti i
titoli abilitativi per gli interventi edilizi e, dunque, a fortiori
sono principi fondamentali della materia le disposizioni che
definiscono le categorie di interventi, perche' e' in conformita' a
queste ultime che e' disciplinato il regime dei titoli abilitativi,
con riguardo al procedimento e agli oneri, nonche' agli abusi e alle
relative sanzioni, anche penali. L'intero corpus normativo statale in
ambito edilizio e' costruito sulla definizione degli interventi, con
particolare riferimento alla distinzione tra le ipotesi di
ristrutturazione urbanistica, di nuova costruzione e di
ristrutturazione edilizia cosiddetta pesante, da un lato, e le
ipotesi di ristrutturazione edilizia cosiddetta leggera e degli altri
interventi, dall'altro. La definizione delle diverse categorie di
interventi edilizi spetta, dunque, allo Stato» (sent. n. 309 del 2011
v. anche sentenze n. 259/2014, n. 139/2013, n. 102/2013, e n.
303/2003). La disposizione regionale in commento, tuttavia, nel
definire categorie di interventi sottratte al rilascio di titoli
abilitativi, si discosta dai principi fondamentali dettati dalla
legislazione statale in materia di «governo del territorio».
Pertanto, atteso che il regime dei titoli abilitativi costituisce
un principio generale in materia di «governo del territorio», la
disposizione censurata contrasta con l'art. 117, comma 3, della
Costituzione.
16) L'art. 118, comma 1, lettera i), per violazione dell'art. 117,
comma 3, della Costituzione.
L'art. 118, comma 1, lettera i) della legge regionale censurata
annovera tra gli interventi di attivita' edilizia libera, eseguibili
senza alcun titolo abilitativo «gli interventi relativi
all'istallazione di impianti solari termici senza serbatoio di
accumulo esterno e fotovoltaici realizzati sugli edifici o collocati
a terra al servizio degli edifici per l'autoconsumo da realizzare al
di fuori degli insediamenti di cui all'art. 92 delle norme
regolamentari titolo II, capo I» ossia al di fuori delle aree di
particolare interesse agricolo. La realizzazione di detti interventi
non e' subordinata ad alcuna forma di comunicazione preventiva
all'amministrazione comunale, posto che gli interventi assoggettati a
comunicazione sono elencati al successivo comma 2.
La disposizione si pone in contrasto con la normativa statale di
riferimento. L'art. 6, comma 2, del testo unico dell'edilizia
(decreto del Presidente della Repubblica n. 380/2001), infatti,
prevede che «nel rispetto dei medesimi presupposti di cui al comma 1,
previa comunicazione, anche per via telematica, dell'inizio dei
lavori da parte dell'interessato all'amministrazione comunale»
possono essere istallati «i pannelli solari, fotovoltaici, a servizio
di edifici, da realizzare al di fuori della zona A» di cui al decreto
ministeriale n. 1444/1968. Occorre precisare che tale norma e' stata
cosi' modificata dall'art. 7, comma 3, del decreto legislativo n.
28/2011 (attuativo della direttiva 2009/28/CE sulla promozione
dell'energia da fonti rinnovabili), che ha espunto dalla norma il
riferimento agli impianti «termici, senza serbatoio di accumulo
esterno». Il medesimo art. 7, al comma 2, ha previsto che sono
assoggettati a previa comunicazione [perche' riconducibili agli
interventi di manutenzione ordinaria di cui all'art. 6, comma 2,
lettera a), del testo unico dell'edilizia], «gli interventi di
istallazione degli impianti solari termici (...), qualora ricorrano
congiuntamente le seguenti condizioni: a) gli impianti siano
realizzati su edifici esistenti o su loro pertinenze, ivi inclusi i
rivestimenti delle pareti verticali esterni agli edifici; b) gli
impianti siano realizzati al di fuori della zona A» di cui al decreto
ministeriale n. 1444/1968. Anche per l'istallazione degli impianti
solari termici indicati nel comma 1 del medesimo art. 7, si richiede,
attraverso il rinvio all'art. 11, comma 3, decreto legislativo n.
115/2008, una comunicazione preventiva al comune. Inoltre, l'art. 6,
comma 11, del decreto legislativo n. 28/2011 consente alle regioni di
prevedere la comunicazione per gli impianti a fonte rinnovabile,
indipendentemente dalla fonte rinnovabile di alimentazione e dal tipo
di energia che producono (elettrica o termica), a condizione che tali
impianti abbiano una potenza non superiore a 50 kw. Infine, l'art. 7,
comma 5, del decreto legislativo n. 28/2011 prevede che gli impianti
di produzione di energia termica da fonti rinnovabili diversi da
quelli indicati nei commi precedenti siano soggetti a comunicazione
secondo quanto previsto dall'art. 6 del decreto del Presidente della
Repubblica n. 380/2001.
Con le linee guida per l'autorizzazione degli impianti da fonti
rinnovabili approvate con decreto ministeriale 10 settembre 2010,
par. 11, e' stato specificato che «La locuzione «installazione di
pannelli solari fotovoltaici a servizio degli edifici», di cui
all'art. 6, comma 1, lettera d) del decreto del Presidente della
Repubblica n. 380 del 2001, e' riferita a quegli interventi in cui
gli impianti sono realizzati su edifici esistenti o su loro
pertinenze ed hanno una capacita' di generazione compatibile con il
regime di scambio sul posto» (11.8.) e che sono stati precisati i
contenuti della comunicazione. In particolare, il par. 11.9 prevede
che «nel caso di interventi di installazione di impianti alimentati
da fonti rinnovabili di cui all'art. 6, comma 2, lettere a) e d), del
decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, alla
comunicazione ivi prevista si allegano:
a) le autorizzazioni eventualmente obbligatorie ai sensi delle
normative di settore;
b) limitatamente agli interventi di cui alla lettera a) del
medesimo comma 2, i dati identificativi dell'impresa alla quale
intende affidare la realizzazione dei lavori e una relazione tecnica
provvista di data certa e corredata degli opportuni elaborati
progettuali, a firma di un tecnico abilitato, il quale dichiari di
non avere rapporti di dipendenza con l'impresa ne' con il committente
e che asseveri, sotto la propria responsabilita', che i lavori sono
conformi agli strumenti urbanistici approvati e ai regolamenti
edilizi vigenti e che per essi la normativa statale e regionale non
prevede il rilascio di un titolo abilitativo ...». Infine, preme
ricordare che in data 18 dicembre 2014, e' stato sottoscritto in
Conferenza unificata l'accordo n. 157, concernente l'adozione di
moduli unificati e standardizzati per la presentazione della
Comunicazione di inizio lavori (CIL) e della Comunicazione di inizio
lavori asseverata (CILA) per gli interventi di attivita' edilizia
libera. L'art. 1, comma 2, di detto accordo, peraltro, chiarisce che
«i moduli unificati e standardizzati costituiscono livelli essenziali
delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono
essere garantiti su tutto il territorio nazionale e assicurano il
coordinamento informativo statistico e informatico dei dati
dell'amministrazione statale, regionale e locale». Alla luce del
quadro normativo statale appena descritto, la disposizione censurata
appare viziata da illegittimita' costituzionale sotto diversi
profili. In primo luogo perche', non prevedendo la comunicazione di
inizio lavori in relazione ad interventi per i quali detto titolo e'
previsto dalla disciplina statale, si pone in contrasto con un
principio fondamentale in materia di governo del territorio (art. 6,
comma 2, decreto del Presidente della Repubblica n. 380/2001), e
dunque viola l'art. 117, comma 3, della Costituzione.
In secondo luogo, la disposizione si pone in contrasto con l'art.
117, comma 3, della Costituzione, in riferimento alla materia
concorrente «produzione di energia». Come chiarito da codesta Ecc.ma
Corte, infatti «la normativa del decreto legislativo n. 28/2011 «e'
espressione della competenza statale in materia di energia, poiche'
detta il regime abilitativo per gli impianti non assoggettati
all'autorizzazione unica, regime da applicarsi su tutto il territorio
nazionale» (sentenza n. 272/2012)» (cosi' nella sentenza n. 11/2014,
punto 5.2 della parte «in diritto»). Le «linee guida» adottate il 10
settembre 2010, inoltre, assumono carattere vincolante per il
legislatore regionale, in quanto «costituiscono, in un ambito
esclusivamente tecnico, il completamento del principio contenuto
nella disposizione legislativa» (cfr. sent. n. 11/2014, punto 6.1;
nonche' sent. n. 275/2011).
La regione, pertanto, non puo' estendere il regime semplificato,
consistente nella totale assenza di comunicazioni al comune, ad
interventi per i quali la legislazione statale richiede una
comunicazione di inizio lavori con particolari caratteristiche. Anche
sotto profilo, dunque, la disposizione regionale censurata ponendosi
in contrasto con i principi fondamentali della materia «produzione di
energia» viola l'art. 117, terzo comma, Cost.
17) L'art. 118, comma 2, lettera e), per violazione dell'art. 117,
comma 3, della Costituzione.
L'art. 118, comma 2, lettera e) della regionale impugnata,
assoggetta a comunicazione di inizio lavori «le modifiche interne di
carattere edilizio, compatibili con le opere di cui al presente
articolo, dei fabbricati adibiti ad esercizio d'impresa, ovvero la
modifica della destinazione d'uso dei locali adibiti ad esercizio di
impresa, con l'esclusione della destinazione residenziale».
Tale disposizione si pone in contrasto con l'art. 6, comma 2,
lettera e)-bis e comma 4, del decreto del Presidente della Repubblica
n. 380/2001, e dunque viola l'art. 117, comma 3, della Costituzione
(in riferimento alla materia del «governo del territorio»).
Le disposizioni statali appena richiamate, infatti, prevedono che
siano assoggettati a comunicazione di inizio lavori asseverata «le
modifiche interne di carattere edilizio sulla superficie coperta dei
fabbricati adibiti ad esercizio d'impresa, sempre che non riguardino
le parti strutturali, ovvero le modifiche della destinazione d'uso
dei locali adibiti ad esercizio d'impresa». Qualora le modifiche
riguardano parti strutturali, dunque, e' necessario il titolo
abilitativo della SCIA (Segnalazione certificata di inizio
attivita'), non essendo sufficiente la comunicazione di inizio
lavori, ancorche' asseverata.
Valgono al riguardo i rilievi sopra esposti con riguardo alla
riconducibilita' nell'ambito della normativa di principio in materia
di governo del territorio delle disposizioni legislative riguardanti
i titoli abilitativi per gli interventi edilizi, nonche' di quelle
che definiscono le categorie di interventi (sent. n. 309 del 2011 v.
anche sentenze n. 259/2014, n. 139/2013, n. 102/2013, e n. 303/2003).
La disposizione regionale in esame, nel sottoporre alcune
modifiche interne di carattere edilizio dei fabbricati adibiti ad
esercizio d'impresa nonche' la modifica della destinazione d'uso dei
locali adibiti ad esercizio di impresa alla mera a comunicazione di
inizio lavori, si discosta dai principi fondamentali dettati dalla
legislazione statale in materia di «governo del territorio» violando
cosi' l'art. 117, comma 3, della Costituzione.
18) L'art. 118, comma 3, lettera e) e 140, comma 12, per violazione
dell'art. 117, comma 2, lettera m) nonche' degli articoli 3, 97 e 117
comma 3, della Costituzione.
L'art. 118, comma 3, lettera e) della legge regionale per cui e'
causa include tra i contenuti della comunicazione di inizio lavori
«una relazione tecnica corredata degli opportuni elaborati
progettuali, a firma di un tecnico abilitato il quale assevera, sotto
la propria responsabilita', il rispetto delle norme di sicurezza, di
quelle igienico-sanitarie sul dimensionamento dei vani e sui rapporti
aeroilluminanti, il rispetto delle norme in materia di dotazioni
territoriali e funzionali minime, nonche' per gli aspetti di
compatibilita' previsti dall'art. 127».
Tale norma contrasta con l'art. 6, comma 4, del testo unico
dell'edilizia, come modificato dal decreto-legge n. 133 del 2014,
secondo cui «... l'interessato trasmette all'amministrazione comunale
l'elaborato progettuale e la comunicazione di inizio dei lavori
asseverata da un tecnico abilitato, il quale attesta, sotto la
propria responsabilita', che i lavori sono conformi agli strumenti
urbanistici approvati e ai regolamenti edilizi vigenti, nonche' che
sono compatibili con la normativa in materia sismica e con quella sul
rendimento energetico nell'edilizia e che non vi e' interessamento
delle parti strutturali dell'edificio; la comunicazione contiene,
altresi', i dati identificativi dell'impresa alla quale si intende
affidare la realizzazione dei lavori». Le modifiche apportate nel
2014 al suddetto art. 6 hanno eliminato, con finalita' di
semplificazione, l'obbligo di presentare la relazione tecnica,
limitando gli oneri amministrativi per il privato alla presentazione
degli elaborati progettuali.
La norma regionale, dunque, nella parte in cui continua a
prevedere l'obbligo di presentare la relazione tecnica, viola l'art.
117, comma 2, lettera m), in riferimento ai livelli essenziali delle
prestazioni, cui vanno ricondotte le disposizioni in materia di
semplificazione degli oneri amministrativi. Questa misura di
semplificazione, infatti, e' finalizzata a ridurre gli oneri a carico
dell'interessato nella presentazione della comunicazione e, deve
ritenersi, deve essere applicata uniformemente su tutto il territorio
nazionale (con specifico riferimento alla disciplina della SCIA cfr.
sent. n. 164/2012, punti 8-9).
In via consequenziale, e' da ritenersi illegittimo anche l'art.
140, comma 12, della legge umbra n. 1 del 2015 che sanziona
l'inosservanza dell'obbligo di presentare la relazione tecnica con
una sanzione pecuniaria di mille euro.
Tale ultima disposizione e' da ritenersi illegittima anche nella
parte in cui, ponendosi in contrasto con l'art. 6, comma 7, del
decreto del Presidente della Repubblica n. 380/2001, non prevede che
la sanzione per omessa comunicazione di inizio lavori sia ridotta di
due terzi quando presentata spontaneamente prima della conclusione
dei lavori. La decurtazione della sanzione prevista dalla norma
statale da ultimo richiamata e' finalizzata ad incentivare
l'adempimento spontaneo dell'obbligo di comunicazione al comune,
anche se tardiva. L'aver soppresso questa misura premiale, oltre a
contrastare con i principi di uguaglianza e buon andamento di cui
agli articoli 3 e 97 della Costituzione, non garantisce il
raggiungimento degli obiettivi previsti dall'art. 6 del testo unico
dell'edilizia e quindi viola un principio fondamentale in materia di
«governo del territorio» integrando il contrasto con l'art. 117,
comma 3, della Costituzione.
19) L'art. 124, per violazione dell'art. 117, comma 3, della
Costituzione.
L'art. 124, della legge regionale censurata che individua gli
interventi realizzabili mediante «SCIA obbligatoria», contrasta con
l'art. 22 del decreto del Presidente della Repubblica n. 380/2001 e
quindi viola l'art. 117, comma 3, della Costituzione.
La norma statale, infatti, al comma 3, prevede che «in
alternativa al permesso di costruire, possono essere realizzati
mediante denuncia di inizio attivita': a) gli interventi di
ristrutturazione di cui all'art. 10, comma 1, lettera c); b) gli
interventi di nuova costruzione o di ristrutturazione urbanistica
qualora siano disciplinati da piani attuativi comunque denominati,
ivi compresi gli accordi negoziali aventi valore di piano attuativo,
che contengano precise disposizioni plano-volumetriche, tipologiche,
formali e costruttive, la cui sussistenza sia stata esplicitamente
dichiarata dal competente organo comunale in sede di approvazione
degli stessi piani o di ricognizione di quelli vigenti; qualora i
piani attuativi risultino approvati anteriormente all'entrata in
vigore della legge 21 dicembre 2001, n. 443, il relativo atto di
ricognizione deve avvenire entro trenta giorni dalla richiesta degli
interessati; in mancanza si prescinde dall'atto di ricognizione,
purche' il progetto di costruzione venga accompagnato da apposita
relazione tecnica nella quale venga asseverata l'esistenza di piani
attuativi con le caratteristiche sopra menzionate; c) gli interventi
di nuova costruzione qualora siano in diretta esecuzione di strumenti
urbanistici generali recanti precise disposizioni
plano-volumetriche». Al comma 5 precisa che «le regioni possono
individuare con legge gli altri interventi soggetti a denuncia di
inizio attivita', diversi da quelli di cui al comma 3, assoggettati
al contributo di costruzione definendo criteri e parametri per la
relativa determinazione» e, infine, al comma 7 chiarisce che «e'
comunque salva la facolta' dell'interessato di chiedere il rilascio
di permesso di costruire per la realizzazione degli interventi di cui
ai commi 1 e 2, senza obbligo del pagamento del contributo di
costruzione di cui all'art. 16, salvo quanto previsto dal secondo
periodo del comma 5 ...».
La norma regionale censurata contrasta con i principi
fondamentali in materia di «governo del territorio» contenuti nelle
disposizioni statali appena riportate sotto diversi profili, anche
alla luce dei rilievi sopra illustrati trattandosi di disposizioni
legislative riguardanti i titoli abilitativi per gli interventi
edilizi.
In primo luogo, la previsione regionale estende il modulo
procedimentale della SCIA ad interventi che, invece, la normativa
statale ha assoggettato a denuncia di inizio attivita', per evidenti
finalita' di tutela del territorio (trattandosi di interventi piu'
gravosi, infatti, non e' stato ritenuto opportuno consentire l'avvio
dei lavori contestualmente alla presentazione dell'istanza). In
secondo luogo, perche' configura questa SCIA come «obbligatoria»,
mentre sia il comma 3 che il comma 7 dell'art. 22 fanno salva la
possibilita' dell'interessato di optare per il provvedimento
espresso, rinunciando al modulo procedimentale semplificato. Di qui
il contrasto dalla norma regionale in esame con l'art. 117, comma 3,
della Costituzione.
19.1) L'art. 124, comma 1, lettera g), per violazione dell'art.
117, comma 2, lettera s), della Costituzione.
L'art. 124, comma 1, lettera g), della legge regionale n. 1 del
2015 nella parte
in cui assoggetta a SCIA la realizzazione di pozzi adibiti ad uso
non domestico, contrasta con la disciplina vigente in materia di
realizzazione di progetti concernenti opere idrauliche, nonche' in
materia di derivazione e utilizzazione delle acque pubbliche.
Dal combinato disposto degli articoli 93, comma 1 (al quale
rinvia l'art. 167, comma 5, decreto legislativo n. 152/2006), e 95,
comma 1, regio decreto 11 dicembre 1933, n. 1775 «testo unico delle
disposizioni di' legge sulle acque e impianti elettrici» infatti, si
evince che, mentre per i pozzi ad uso domestico il proprietario di un
fondo puo' estrarre ed utilizzare liberamente - nei limiti e con le
cautele prescritte dalla legge - le acque sotterranee del medesimo
fondo (l'art. 167, comma 5, decreto legislativo n. 152/2006 richiede
che «L'utilizzazione delle acque sotterranee per gli usi domestici
... non comprometta l'equilibrio del bilancio idrico di cui all'art.
145 del presente decreto»); lo scavo dei pozzi ad uso non domestico,
nelle aree sottoposte a tutela, e' sottoposto ad autorizzazione, la
cui domanda va corredata con il piano di massima dell'estrazione ed
con l'indicazione dell'utilizzazione prevista.
L'art. 162, comma 2, decreto legislativo n. 152/2006, inoltre,
prevede che «il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio
e del mare, le regioni e le province autonome, nell'ambito delle
rispettive competenze, assicurano la pubblicita' dei progetti
concernenti opere idrauliche che comportano (...) la perforazione di
pozzi. A tal fine, le amministrazioni competenti curano la
pubblicazione delle domande di concessione, contestualmente all'avvio
del procedimento, oltre che nelle forme previste dall'art. 7 del
testo unico delle disposizioni di legge sulle acque sugli impianti
elettrici, approvato con regio decreto 11 dicembre 1933, n. 1775
(...)».
Pertanto, assoggettare la realizzazione di pozzi adibiti ad uso
non domestico al regime di SCIA, senza far salvi i comprensori
sottoposti a tutela, costituisce violazione delle competenze statali
in materia di tutela e salvaguardia delle risorse idriche,
riconducibili alla materia di cui all'art. 117, comma 2, lettera s),
Cost.
Inoltre, tale disposizione regionale, prevedendo che siano
assoggettati a SCIA i pozzi non domestici in via generale e senza
altre specificazioni, rappresenta una illegittima esclusione dal
campo di applicazione della disciplina in materia di VIA.
L'art. 20, decreto legislativo n. 152/2006, sottopone a verifica
di assoggettabilita' a VIA i progetti di «derivazione di acque
superficiali ed opere connesse che prevedano derivazioni superiori a
200 litri al secondo o di acque sotterranee che prevedano derivazioni
superiori a 50 litri al secondo, nonche' le trivellazioni finalizzate
alla ricerca per derivazioni di acque sotterranee superiori a 50
litri al secondo;» (allegato IV alla parte seconda del medesimo
decreto, punto 7, lettera d).
Alla luce delle precedenti considerazioni, l'art. 124, comma 1,
lettera g) della legge regionale in discorso, nella parte in cui
estende illegittimamente alla procedura di SCIA anche i pozzi non
domestici, invade la potesta' legislativa esclusiva statale in
materia di tutela dell'ambiente, presentando profili di
illegittimita' costituzionale in relazione all'art. 117, comma
secondo, lettera s) della Costituzione, per violazione delle norme
interposte di cui agli articoli 93 e 95 del regio decreto n.
1775/1933 e dell'art. 162 del decreto legislativo n. 152/2006,
nonche' delle su richiamate norme statali in materia di VIA.
20) L'art. 140, comma 11, per violazione dell'art. 117, comma 2),
lettera e) della Costituzione.
L'art. 140, comma 11, della legge regionale n. 1 del 2015
contrasta con l'art. 117, comma 2), lettera e) della Costituzione (in
riferimento alla materia della «tutela della concorrenza»), nella
parte in cui prevede una causa di esclusione rispetto alla
partecipazione a gare, per un periodo determinato di tempo e a
seguito dell'iscrizione dell'impresa inadempiente in un apposito
elenco.
Tale previsione, non contemplata nell'art. 38 del decreto
legislativo n. 163/2006, infatti, e' incompatibile con la tipicita'
delle cause di esclusione, ai sensi dell'art. 46 del decreto
legislativo n. 163/2006. La giurisprudenza amministrativa ha avuto
piu' volte modo di affermare che la verifica in merito alle
dichiarazioni sulla regolarita' contributiva rientra nei poteri della
stazione appaltante, riconosciuti come compatibili dalla Corte di
giustizia europea, e non ha quindi carattere di esclusione
automatica. Essa deve essere dunque effettuata con riferimento alla
singola gara, e a seguito di una verifica in concreto, che non puo'
estendersi a ulteriori gare in un periodo di tempo astrattamente
determinato.
Va soggiunto, al riguardo, che la disciplina degli appalti
pubblici, intesa in senso complessivo, include diversi «ambiti di
legislazione», con conseguente interferenza fra materie di competenza
statale e materie di competenza regionale; interferenza che,
tuttavia, si atteggia in modo peculiare, non realizzandosi
normalmente in un intreccio in senso stretto, ma con la prevalenza
della disciplina statale su ogni altra fonte normativa in relazione
agli oggetti riconducibili alla competenza esclusiva statale,
esercitata con le norme recate dal decreto legislativo n. 163 del
2006 (sent. n. 411 del 2008). Le norme relative alle procedure di
gara (ivi incluse che prevedono cause di esclusione dalla gara
stessa) ed all'esecuzione del rapporto contrattuale costituiscono,
dunque, oggetto delle disposizioni del codice dei contratti, alle
quali il legislatore regionale deve adeguarsi.
La disposizione censurata, pertanto, lede la competenza esclusiva
dello Stato in materia di tutela della concorrenza, in quanto,
esorbitando dai limiti della potesta' legislativa regionale,
introduce di ulteriori cause di esclusione dalle gare nell'ipotesi in
cui risulti iscritta in un apposito elenco l'impresa ritenuta
inadempiente ai sensi del comma 10 del citato art. 140.
21) L'art. 141, comma 2, per violazione dell'art. 117, comma 3, della
Costituzione.
L'art. 141, comma 2, che disciplina la vigilanza sull'attivita'
urbanistico-edilizia, si pone in contrasto con l'art. 27, comma 2,
del decreto del Presidente della Repubblica n. 380/2001 (che
individua i poteri d'intervento del dirigente o del responsabile del
competente ufficio comunale per l'adozione delle misure di vigilanza
nella realizzazione di opere in assenza di titolo), e quindi con un
principio fondamentale in materia di governo del territorio ai sensi
dell'art. 117, comma 3, della Costituzione, sotto due diversi
profili.
In primo luogo, la prima parte del comma 2 dell'art. 141,
nell'individuare il presupposto dell'adozione delle misure di
vigilanza nella realizzazione di opere in assenza di titolo «su aree
assoggettate, da leggi statali, regionali, da altre norme
urbanistiche vigenti a vincolo di inedificabilita', o a vincoli
preordinati all'esproprio ...», omette di prevedere la vigilanza sui
vincoli posti da norme urbanistiche adottate, ma non ancora vigenti.
In questo modo, si comprime arbitrariamente l'ambito della vigilanza
individuato dalle disposizioni statali a tutela di strumenti
urbanistici che sono ancora in corso di formazione.
Sotto un diverso profilo, la disposizione regionale, a differenza
di quella statale, subordina l'adozione del provvedimento di
demolizione e ripristino dello stato dei luoghi in caso di
accertamento dell'abuso, ad un procedimento amministrativo complesso
che viene avviato con l'ordine di sospensione dei lavori e che
prevede la partecipazione dell'interessato e delle altre
amministrazioni eventualmente coinvolte. Soltanto qualora le opere
interessino beni assoggettati a vincolo il provvedimento di
demolizione viene subito disposto. Tale disposizione contrasta con un
principio fondamentale in materia di «governo del territorio»
contenuto nella legislazione statale, al citato art. 27, e
finalizzato alla massima repressione degli abusi edilizi. Il
procedimento amministrativo contemplato dalla norma regionale
sospettata frustra, per la sua complessita', le finalita' perseguite
dal testo unico dell'edilizia e finisce, cosi', per violare il
disposto dell'art. 117, terzo comma, Cost.
22) L'art. 142, comma 1, per violazione dell'art. 117, comma 2,
lettera l) dell'art. 117, comma 3 della Costituzione.
L'art. 142, comma 1, della legge regionale impugnata, nel
disciplinare la vigilanza sulla attivita' urbanistico-edilizia,
individuando i soggetti responsabili, contrasta con l'art. 29 del
testo unico dell'edilizia di cui al decreto del Presidente della
Repubblica n. 380/2001, e quindi viola l'art. 117, comma 2, lettera
l) Cost. (con riferimento alla materia «ordinamento penale»), nonche'
l'art. 117, comma 3 Cost. (in riferimento alla materia del «governo
del territorio»), nei limiti e per i motivi di seguito indicati.
La norma censurata inserisce il proprietario tra i soggetti
responsabili, diversamente da quanto previsto dall'art. 29 del testo
unico dell'edilizia, che non contempla il proprietario tra i soggetti
tenuti a garantire la conformita' delle opere alla normativa
urbanistica e alle previsioni di piano, sulla base del principio per
cui il proprietario, non autore dell'abuso e non committente delle
opere, puo' ritenersi corresponsabile soltanto ove emerga un suo
coinvolgimento doloso o colposo nella realizzazione dell'abuso
edilizio stesso; sono invece soggetti responsabili il titolare del
permesso di costruire, il committente e il costruttore, nonche' il
direttore dei lavori, limitatamente al rispetto per le opere da lui
dirette delle prescrizioni e delle modalita' esecutive fissate dal
permesso di costruire.
La norma regionale denunciata, nell'individuare il proprietario
tra i soggetti responsabili «della conformita' delle opere alla
normativa urbanistica ed edilizia ed alle previsioni degli strumenti
urbanistici e dei piani di settore, nonche', unitamente al direttore
dei lavori, a quelle del titolo abilitativo e alle modalita'
esecutive o prescrizioni stabilite dal medesimo», viola le
disposizioni della Costituzione sopra indicate.
23) Gli articoli 147 e 155 e 118, comma 2, lettera h), per violazione
dell'art. 117, comma 3, nonche' dell'art. 117, comma 2, lettera l) e
dell'art. 3 della Costituzione.
Gli articoli 147 e 155 della legge regionale censurata
disciplinano i mutamenti di destinazione d'uso.
Il combinato disposto dell'art. 118, comma 2, lettera h) e
dell'art. 155, comma 4, considera il mutamento della destinazione
d'uso nell'ambito delle tre categorie elencate al comma 3 dell'art.
155 [a) residenziale; b) produttiva (compresa quella agricola); c)
attivita' di servizi come definita all'art. 7,
comma 1, lettera l)] come attivita' edilizia libera soggetta a
comunicazione di inizio lavori asseverata. Al di fuori di queste
ipotesi, il titolo richiesto dal comma 4 dell'art. 155 e' «la SCIA
nel caso di modifica della destinazione d'uso o per la realizzazione
di attivita' agrituristiche o di attivita' connesse all'attivita'
agricola, realizzate senza opere edilizie o nel caso in cui la
modifica sia contestuale alle opere di cui all'art. 118, comma 1»
(lettera a), ovvero «il permesso di costruire o la SCIA, in relazione
all'intervento edilizio da effettuare con opere, al quale e' connessa
la modifica della destinazione d'uso» (lettera b).
Il comma 5 dell'art. 155 prevede che non costituisce modifica di
destinazione d'uso «la realizzazione di attivita' di tipo
agrituristico, o di attivita' connesse all'attivita' agricola o le
attivita' di vendita al dettaglio dei prodotti dell'impresa agricola
in zona agricola, attraverso il recupero di edifici esistenti» e che
«i relativi interventi sono soggetti al titolo abilitativo previsto
per l'intervento edilizio al quale e' connessa tale realizzazione».
Le disposizioni appena richiamate contrastano con la normativa
statale di riferimento, che, da un lato, assoggetta a SCIA il
mutamento di destinazione d'uso ad di fuori dei centri storici
(combinato disposto degli articoli 6, 10 e 22 del testo unico
dell'edilizia), dall'altro individua in modo piu' ampio la categoria
dei mutamenti di destinazioni d'uso urbanisticamente rilevanti.
L'art. 23-ter del testo unico dell'edilizia, introdotto con il
decreto-legge n. 133/2014, infatti, prevede cinque diverse categorie
funzionali, stabilendo che il passaggio tra le varie categorie
costituisce mutamento di destinazione d'uso urbanisticamente
rilevante.
La categoria contemplata dall'art. 155, lettera c), della legge
regionale e' troppo ampia (vi rientrano attivita' a carattere
socio-santiario, direzionale, commerciali, di somministrazione,
turistico-produttive, ricreative, sportive e culturali) ed e' atta ad
includere piu' categorie statali, in contrasto con l'art. 23-ter, che
riconduce a tre categorie diverse (turistiche-ricettive, quelle
produttive e direzionali, quelle commerciali) le attivita' che la
legge umbra racchiude alla predetta lettera c).
La differenza nella definizione del mutamento di destinazione
d'uso urbanisticamente rilevante e nel titolo abilitativo richiesto
incide quindi sul regime sanzionatorio previsto dalla legge statale e
da quella regionale.
L'art. 147 della legge regionale stabilisce, al comma 1, le
sanzioni comminate in caso di mutamenti in assenza del titolo
abilitativo previsto dall'art. 155, comma 4. Le sanzioni vanno da
euro trecento a euro tremila, in rapporto alla superficie interessata
dall'abuso, nel caso in cui il mutamento di destinazione d'uso
risulti conforme alle norme urbanistiche ed edilizie (lettera a). In
questo caso, il comma 2 prevede che «contestualmente all'applicazione
della sanzione ... il dirigente o il responsabile del competente
ufficio comunale dispone sempre il pagamento del contributo di
costruzione di cui agli articoli 130, 131 e 132 ... valido anche ai
fini dell'eventuale accertamento di conformita' ai sensi dell'art.
154, comma 4 ... In caso di mancata ottemperanza da parte dei
responsabili dell'abuso nei termini stabiliti il dirigente o il
responsabile del competente ufficio comunale dispone il ripristino
dello stato preesistente».
Nel caso in cui il mutamento della destinazione d'uso non risulti
conforme alle norme urbanistiche ed edilizie (lettera b), invece, le
sanzioni sono le seguenti: «1) euro cinquanta per ogni metro quadro
di superficie utile di calpestio per gli immobili con destinazione
finale residenziale, ridotta ad euro venti a metro quadro per gli
immobili adibiti ad abitazione principale del proprietario; 2) euro
cento a metro quadro di superficie utile di calpestio per gli
immobili con utilizzazione finale commerciale, direzionale, o
servizi; 3) euro cinquanta per ogni metro quadro di superficie utile
di calpestio per gli immobili con utilizzazione finale industriale,
artigianale o agricola». In questo caso, il dirigente o il
responsabile del competente ufficio comunale ordina, contestualmente
alla irrogazione della sanzione, la cessazione dell'utilizzazione
abusiva dell'immobile, assegnando un termine non inferiore a trenta
giorni e non superiore a novanta giorni decorso il quale si provvede
d'ufficio in danno dei responsabili dell'abuso.
Il comma 4, infine, dispone che la sanzione di cui al presente
articolo, nel caso in cui il mutamento di destinazione d'uso sia
effettuato con gli interventi abusivi di cui agli articoli 144, 145 e
146, si cumula con le sanzioni pecuniarie previste da detti articoli.
La disciplina regionale appena descritta si pone sotto piu'
profili in contrasto con i principi fondamentali di governo del
territorio dettati dallo Stato in attuazione dell'art. 117, comma 3,
della Costituzione. Inoltre, incide sull'ambito di applicazione delle
sanzioni amministrative, civili e penali previste dal decreto del
Presidente della Repubblica n. 380/2001, invadendo la potesta'
legislativa statale in materia di ordinamento civile e penale (art.
117, comma 2, lettera l), e in contrasto con il principio di
uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione.
Nel dettaglio:
laddove le norme statali richiedono il permesso di costruire o la
DIA alternativa per il mutamento della destinazione d'uso [art. 10,
comma 1, lettera c) del testo unico dell'edilizia, mutamento di
destinazione d'uso nei centri storici], la normativa regionale
contrasta con gli articoli 33, 36 e 44 del testo unico;
laddove le norme statali subordinano il mutamento di destinazione
d'uso a SCIA, invece, contrasta con l'art. 37 del testo unico.
24) L'art. 151, comma 2 e comma 4, per violazione dell'art. 117,
comma 2, lettera e) della Costituzione.
L'art. 151, comma 2, della legge impugnata prevede che i lavori
di demolizione di opere abusive svolti a cura del comune «laddove non
eseguibili direttamente dal comune o dalla provincia, sono affidati,
anche a trattativa privata ove ne sussistano i presupposti, ad
imprese tecnicamente e finanziariamente idonee».
Tale disposizione si pone in contrasto con gli articoli 56 e 57
del Codice degli appalti di cui al decreto legislativo n. 163/2006,
che impongono il ricorso a procedure negoziali aperte, salvo che in
casi limitati dettagliatamente individuati dagli stessi articoli. La
norma regionale, a differenza della previsione statale, si limita a
prevedere che il ricorso a procedure negoziali aperte «e' in ogni
caso ammesso» (comma 4). Dunque, questo strumento, che per il
legislatore statale e' la regola generale, sembra diventare residuale
nella normativa regionale, con potenziali effetti anticoncorrenziali.
Pertanto, la disposizione impugnata contrasta con l'art. 117,
comma 2, lettera e) della Costituzione (in riferimento alla materia
della «tutela della concorrenza»), anche per i profili accennati sub
20).
25) L'art. 154, comma 1 e comma 3, per violazione dell'art. 117,
comma 3, e dell'art. 117, comma 2, lettera l) della Costituzione.
L'art. 154, comma 1, della legge regionale in esame prevede che
«In caso di interventi realizzati in assenza di permesso di
costruire, con variazioni essenziali o in difformita' da esso, ovvero
in assenza di SCIA o in difformita' da essa, fino alla scadenza dei
termini di cui agli articoli 143, comma 3, 144, comma 1, 145, comma
1, 146, comma 1 e comunque fino all'irrogazione delle sanzioni
amministrative, il responsabile dell'abuso, o l'attuale proprietario
dell'immobile, possono ottenere il titolo a sanatoria se l'intervento
risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente, sia
al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della
presentazione della domanda e non in contrasto con gli strumenti
urbanistici adottati. Ai fini di cui al presente comma e' consentito
l'adeguamento di eventuali piani attuativi, purche' tale adeguamento
risulti conforme allo strumento urbanistico generale vigente e non in
contrasto con quello adottato. Per le violazioni di cui all'art. 147
il titolo abilitativo a sanatoria e' rilasciato se l'intervento
risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al
momento della presentazione della domanda».
I presupposti previsti da tale disposizione per l'accertamento in
conformita' - e conseguentemente per il rilascio del permesso in
sanatoria - non rispettano il principio fondamentale in materia di
«governo del territorio» previsto agli articoli 36 e 37, comma 4, del
decreto del Presidente della Repubblica n. 380/2001, che subordinano
il rilascio del titolo in sanatoria alla conformita' degli immobili
alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della
realizzazione dell'intervento, sia al momento della presentazione
dell'istanza (c.d. «doppia conformita'», sul punto sent. n.
101/2013).
In particolare, la norma non e' conforme al richiamato principio
nella parte in cui stabilisce «l'adeguamento di eventuali piani
attuativi, purche' tale adeguamento risulti conforme allo strumento
urbanistico generale vigente e non in contrasto con quello adottato»
e nella parte in cui esclude la doppia conformita' per le violazioni
di cui all'art. 147 (mutamento di destinazione d'uso in assenza di
titolo abilitativo).
La disposizione censurata, dunque, contrasta con l'art. 117,
comma 3, della Costituzione e con l'art. 117, comma 2, della
Costituzione, in riferimento alla materia «ordinamento penale».
Inoltre, contrasta con i principi fondamentali in materia di
«governo del territorio» il comma 3 del medesimo art. 154, che, nel
richiamare le procedure previste dall'art. 123 per il permesso in
sanatoria, estende anche a questa fattispecie l'applicazione del
silenzio assenso, in espresso contrasto con l'art. 36, comma 3, del
decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, secondo cui
«sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il
responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con
adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la
richiesta si intende rifiutata».
Si richiamano, anche sul punto, i rilievi sopra esposti con
riguardo alla riconducibilita' nell'ambito della normativa di
principio in materia di governo del territorio delle disposizioni
legislative riguardanti i titoli abilitativi per gli interventi
edilizi (sent. n. 309 del 2011 v. anche sentenze n. 259/2014, n.
139/2013, n. 102/2013, e n. 303/2003).
26) L'art. 206, comma 1, per violazione dell'art. 117, comma 3, della
Costituzione.
L'art. 206, comma 1, della legge regionale umbra n. 1 del 2015,
nella parte in cui prevede che «per i lavori di cui all'art. 201,
comma 1 , nelle zone 1, 2 e 3 ad alta, media e bassa sismicita', il
deposito del certificato di collaudo statico tiene luogo anche del
certificato di rispondenza dell'opera alle norme tecniche per le
costruzioni previsto all'art. 62 del decreto del Presidente della
Repubblica n. 380/2001. Negli interventi in cui il certificato di
collaudo non e' richiesto, la rispondenza e' attestata dal direttore
dei lavori che provvede al relativo deposito presso la provincia
competente», contrasta con l'art. 62 del decreto del Presidente della
Repubblica n. 380/2001, secondo cui «il rilascio della licenza d'uso
per gli edifici costruiti in cemento armato e dei certificati di
agibilita' da parte dei comuni e' condizionato all'esibizione di un
certificato da rilasciarsi dall'ufficio tecnico della regione, che
attesti la perfetta rispondenza dell'opera eseguita alle norme del
capo quarto».
La disposizione regionale, dunque, prevede che per tutti i lavori
di nuova costruzione, di ampliamento e di sopraelevazione e i lavori
di manutenzione straordinaria, di restauro, di risanamento e di
ristrutturazione del patrimonio edilizio esistente che compromettono
la sicurezza statica della costruzione o riguardano le strutture o
alterano l'entita' e/o la distribuzione dei carichi, effettuati nelle
zone ad alta, media e bassa sismicita', sia sufficiente il
certificato di collaudo statico o una attestazione del direttore dei
lavori.
La previsione contenuta all'art. 62 del decreto del Presidente
della Repubblica n. 380/2001, che richiede il rilascio del
certificato di rispondenza dell'opera alle norme tecniche per le
costruzioni, essendo finalizzata a garantire la sicurezza delle
costruzioni in zone sismiche, risponde ad un'esigenza unitaria di
sicurezza, non derogabile dal legislatore regionale. D'altronde, con
riferimento al rischio sismico, codesta Ecc.ma Corte ha avuto modo di
rilevare che «l'intento unificatore della legislazione statale e'
palesemente orientato ad esigere una vigilanza assidua sulle
costruzioni riguardo al rischio sismico, attesa la rilevanza del bene
protetto, che trascende anche l'ambito della disciplina del
territorio, per attingere a valori di tutela dell'incolumita'
pubblica che fanno capo alla materia della protezione civile, in cui,
ugualmente, compete allo Stato la determinazione dei principi
fondamentali»; pertanto, il coinvolgimento di interessi primari della
collettivita' limita la possibilita' del legislatore regionale di
introdurre misure di semplificazione, quale quella contenuta dalla
disposizione censurata (cfr. sentenza n. 182/2006). Per le ragioni
suesposte, l'art. 206, comma 1 contrasta con l'art. 117, comma 3,
della Costituzione (nelle materie del «governo del territorio» e
«protezione civile») e con la disposizione interposta di cui all'art.
62 del decreto del Presidente della Repubblica n. 380/2001, e viene
pertanto impugnato dinanzi a codesta Ecc.ma Corte ai sensi dell'art.
127 della Costituzione.
27) L'art. 215, comma 12, per violazione dell'art. 117, comma 3,
della Costituzione.
L'art. 215, comma 12, della legge regionale censurata prevede che
«qualora l'autorita' espropriante realizzi l'opera pubblica o di
pubblica utilita' tramite affidamento a concessionario di lavori
pubblici o a contraente generale, l'autorita' medesima puo' delegare
con proprio provvedimento assunto secondo le norme che disciplinano
il proprio funzionamento, in tutto o in parte, l'esercizio dei propri
poteri espropriativi al concessionario ovvero al contraente generale,
determinando l'ambito della delega nell'atto di concessione o di
affidamento, i cui estremi vanno specificati in ogni atto del
procedimento espropriativo. I soggetti privati delegati possono
avvalersi a tal fine di societa' di servizi».
L'ultima parte di tale previsione contrasta con l'art. 6, comma
8, del decreto del Presidente della Repubblica n. 327/2001, secondo
cui «8. Se l'opera pubblica o di pubblica utilita' va realizzata da
un concessionario o contraente generale, l'amministrazione titolare
del potere espropriativo puo' delegare, in tutto o in parte,
l'esercizio dei propri poteri espropriativi, determinando chiaramente
l'ambito della delega nella concessione o nell'atto di affidamento, i
cui estremi vanno specificati in ogni atto del procedimento
espropriativo. A questo scopo i soggetti privati cui sono attribuiti
per legge o per delega poteri espropriativi, possono avvalersi di
societa' controllata. I soggetti privati possono altresi' avvalersi
di societa' di servizi ai fini delle attivita' preparatorie».
La legislazione statale, a differenza di quella regionale,
consente di avvalersi, per il procedimento espropriativo, di societa'
controllate, non di societa' di servizi. Il ricorso a queste ultime,
infatti, puo' avvenire limitatamente «ai fini delle attivita'
preparatorie». Cio' in quanto il procedimento di esproprio comporta
l'esercizio di poteri di ordine pubblicistico che non possono essere
delegati ad un soggetto che non sia posto sotto il controllo
pubblico.
Nel disporre diversamente, la disposizione regionale in esame si
pone in contrasto con un principio fondamentale in materia di governo
del territorio - cui deve essere ricondotto l'art. 6, comma 8, del
decreto del Presidente della Repubblica n. 327/2001 - e quindi viola
l'art. 117, comma 3, della Costituzione.
28) L'art. 243, comma 1, per violazione dell'art. 117, comma 2,
lettera l) e 117, comma 3, della Costituzione.
L'art. 243, al comma 1, della legge regionale n. 1 del 2015
prevede che «la disciplina concernente le distanze, le dotazioni
territoriali e funzionali minime, nonche' quella relativa alle
situazioni insediative del PRG, di cui alle norme regolamentari
titolo I, capo I, sezione V e al titolo II, capo I, sezioni II, III e
IV, sostituisce quella del decreto ministeriale 2 aprile 1968, n.
1444 (...), in materia, rispettivamente, di distanze, di standard e
di zone territoriali omogenee, anche ai sensi dell'art. 2-bis del
decreto del Presidente della Repubblica n. 380/2001».
La norma impugnata da un lato «disapplica» le disposizioni del
decreto ministeriale n. 1444/1968, comprese quelle in materia di
distanze, dall'altro omette di richiamare le disposizioni in materia
contenute nel codice civile, rinviando ad una norma di carattere
regolamentare (che, peraltro, non richiama le relative disposizioni
del codice civile).
Al riguardo, occorre ricordare che le norme in materia di
distanze contenute all'art. 9 del decreto ministeriale n. 1444/1968
hanno, per consolidata giurisprudenza costituzionale, carattere
inderogabile e rientrano nella competenza legislativa esclusiva dello
Stato in materia di «ordinamento civile». Codesta Ecc.ma ha piu'
volte ritenuto - da ultimo nella sentenza n. 6/2013 - che l'art. 9
del decreto ministeriale n. 1444 del 1968, e' dotato di «efficacia
precettiva e inderogabile, secondo un principio giurisprudenziale
consolidato» (sentenza n. 114 del 2012; ordinanza n. 173 del 2011;
sentenza n. 232 del 2005, si veda anche la sent. n. 134/2014).
Per queste ragioni, la disposizione impugnata viola l'art. 117,
comma 2, lettera l) e 117, comma 3 (con riferimento al «governo del
territorio») della Costituzione.
29) L'art. 250, comma 1, lettere a), b) e c), in combinato disposto
con gli articoli 201, 202 e 208, per violazione dell'art. 117, comma
3 della Costituzione.
L'art. 250, comma 1, lettere a), b) e c), in combinato disposto
con gli articoli 201, commi 2, 3 e 4; 202, comma 1, e 208, commi 2 e
3, della legge regionale impugnata sostanzialmente consentono alla
giunta regionale, con proprio atto, di sottrarre tipologie di
interventi edilizi dall'applicazione della normativa sismica e
dell'autorizzazione sismica di cui agli articoli 62, 63, 65, 82, 83 e
88 del testo unico dell'edilizia.
Codesta Ecc.ma Corte ha chiarito che la disciplina in materia di
vigilanza sugli interventi edilizi in zona sismica e' riconducibile
ai principi fondamentali in materia di «protezione civile» (si veda
sent. n. 300/2013, spec. punto 4 nonche' sent. n. 101 del 2013 e n.
201 del 2012), pertanto, le disposizioni censurate violano l'art.
117, comma 3 della Costituzione.
In particolare, le categorie di «interventi privi di rilevanza ai
fini della pubblica incolumita'» e «di minore rilevanza ai fini della
pubblica incolumita'», a cui fa riferimento la disposizione regionale
impugnata, non sono conosciute dalla normativa statale: non se ne fa
menzione nel citato decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno
2001, n. 380 (testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia edilizia), ne' nella normativa tecnica,
contenuta nel decreto del Ministro delle infrastrutture 14 gennaio
2008.
Pertanto, le disposizioni regionali sospettate si discostano
illegittimamente dalla normativa statale rilevante, perche'
introducono una categoria di interventi edilizi ignota alla
legislazione statale e la escludono dalla applicazione di norme
improntate al principio fondamentale della vigilanza assidua sulle
costruzioni riguardo al rischio sismico (cfr. anche sentenza n. 182
del 2006 e sent. n. 101 del 2013 cit.), con l'effetto sostanziale di
sottrarre indebitamente determinati interventi edilizi ad ogni forma
di vigilanza pubblica.
30) L'art. 258 e l'art. 264, comma 13, per violazione dell'art. 117,
comma 3 e dell'art. 117, comma 2, lettera l) della Costituzione.
L'art. 258 della legge regionale n. 1 del 2015 detta norme
speciali per le aree terremotate e disciplina gli edifici, non
conformi, in tutto o in parte, agli strumenti urbanistici,
realizzati, prima del 31 dicembre 2000 da privati o da altri enti
pubblici, anche con il contributo pubblico, in sostituzione delle
abitazioni principali, delle attivita' produttive, dei servizi e dei
relativi accessori, che, per effetto della crisi sismica dell'anno
1997 sono stati oggetto di sgombero totale.
La norma prevede, al comma 1, che i comuni effettuino un
censimento di questi edifici e, al comma 2, ne prevede la cessione ai
conduttori degli immobili. Attribuisce dunque ai comuni (comma 3) il
compito di predisporre un'apposita variante che, limitatamente agli
edifici per i quali e' stata presentata domanda di acquisto, preveda
la realizzazione di un'adeguata urbanizzazione e di un razionale
inserimento territoriale ed ambientale, prevedendo le modalita' di
adeguamento edilizio, tipologico ed estetico degli edifici
interessati, nonche' gli elementi di arredo urbano necessari. Tale
variante deve confermare le volumetrie e le altezze degli edifici
interessati «con eventuale possibilita' di modifica entro il limite
del dieci per cento; ulteriori modifiche delle previsioni possono
essere apportate decorsi cinque anni dalla approvazione della
variante» (comma 6). Per gli edifici «non raccordabili con gli
insediamenti esistenti», il comma 5 prevede la possibilita' di
individuazione «come ambito agricolo per la riqualificazione degli
edifici medesimi, previa costituzione di un vincolo di destinazione
d'uso quindicennale decorrente dalla data di ultimazione dei lavori».
Ai sensi del comma 8, «il proprietario o avente titolo presenta al
comune la richiesta per il titolo abilitativo a sanatoria», che e'
rilasciato «a seguito del pagamento degli oneri previsti all'art.
154, comma 2 del presente testo unico e con le modalita' previsti
all'art. 23, comma 6, della legge regionale 3 novembre 2004, n. 21
(Norme sulla vigilanza, responsabilita', sanzioni e sanatoria in
materia edilizia) con il solo obbligo di accertamento in conformita'
alle previsioni della variante apportata ai sensi del presente
articolo». Per gli edifici che non risulta possibile inserire nelle
varianti il comma 9 dispone l'applicazione della disciplina di
accertamento e sanzionatoria degli abusi edilizi, di cui al titolo V,
capo VI, della legge in esame. Infine, per consentire «di verificare
la possibilita' del rientro alla normalita' delle aree interessate»,
il comma 10 sospende i provvedimenti amministrativi di demolizione e
rimessa in pristino relativi agli immobili realizzati in difformita'
dalle previsioni urbanistiche a seguito degli eventi sismici iniziati
il 26 settembre 1997.
La disciplina introdotta dalla disposizione censurata
sostanzialmente introduce un'ipotesi di condono edilizio
straordinario non previsto dalla legge statale, ponendosi in
contrasto con i principi fondamentali in materia di governo del
territorio contenuti nel decreto del Presidente della Repubblica n.
380/2001 (e in particolare con l'art. 36) e con le disposizioni
statali in materia di ordinamento civile e penale, e pertanto viola
l'art. 117, comma 3, e l'art. 117, comma 2, lettera l) della
Costituzione.
E' di tutta evidenza, infatti, che la norma consente ai comuni di
rilasciare il titolo in sanatoria per interventi edilizi non conformi
agli strumenti urbanistici, per i quali potrebbe essere gia' stato
emanato un provvedimento di demolizione (comma 10), senza peraltro
individuare chiaramente di quali edifici si tratta (estremamente
ampio il novero degli edifici «realizzati, prima del 31 dicembre 2000
... che, per effetto della crisi sismica dell'anno 1997 sono stati
oggetto di sgombero totale»). Va rilevato, altresi', che
l'accertamento in conformita' di cui all'art. 36 del testo unico
dell'edilizia si applica solo laddove vi sia la doppia conformita'
agli strumenti urbanistici e alla normativa edilizia (cosa che,
evidentemente, non sussiste nel caso in esame), anzi presuppone che
detto titolo sia richiesto prima che il comune emetta il
provvedimento di demolizione.
Inoltre, la disposizione regionale sospettata consente la vendita
dei predetti immobili abusivi ai conduttori, in aperto contrasto con
l'art. 46 del decreto del Presidente della Repubblica n. 380/2001,
che dispone la nullita' degli atti tra vivi, sia in forma pubblica,
sia in forma privata, aventi per oggetto trasferimento di diritti
reali, relativi ad edifici abusivi. Addirittura, la norma regionale
consente per questi immobili «incrementi delle volumetrie e delle
altezze», in spregio alla normativa statale che ha sempre vietato gli
incrementi volumetrici per gli interventi abusivi. E' evidente,
infine, che la sanatoria farebbe venire meno gli effetti penali
dell'abuso, e inciderebbe quindi in un ambito riservato alla potesta'
legislativa esclusiva statale.
Al riguardo, giova ricordare che codesta Ecc.ma Corte, con la
sentenza n. 225/2012 (punto 3 del considerato in diritto), ha
chiarito che: «nella disciplina del condono edilizio convergono la
competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di
sanzionabilita' penale e la competenza legislativa concorrente in
tema di governo del territorio di cui all'art. 117, terzo comma,
Cost. (sentenze n. 49 del 2006 e n. 70 del 2005)» e, soprattutto, che
«e' stata ritenuta di stretta interpretazione, in quanto espressione
di principio generale afferente ai limiti della sanatoria,
l'individuazione da parte della legge dello Stato delle fattispecie
ad essa assoggettabili, di modo che le stesse non possono essere
comunque ampliate o interpretate estensivamente dalla legislazione
regionale. Per questo motivo risulta pienamente conforme al dettato
costituzionale l'art. 32, comma 27, del decreto-legge n. 269 del
2003, contenente la previsione tassativa delle tipologie di opere
insuscettibili di sanatoria, la quale determina, in pratica, i limiti
del condono, entro il cui invalicabile perimetro puo' esercitarsi la
discrezionalita' del legislatore regionale (sentenza n. 70 del
2005)». Sul punto, si veda anche la sentenza n. 290/2009, secondo cui
«questa Corte ha gia' riconosciuto che "solo alla legge statale
compete l'individuazione della portata massima del condono edilizio
straordinario" (sentenza n. 70 del 2005; sentenza n. 196 del 2004),
sicche' la legge regionale che abbia per effetto di ampliare i limiti
applicativi della sanatoria eccede la competenza concorrente della
regione in tema di governo del territorio».
In via consequenziale, deve ritenersi costituzionalmente
illegittimo, per i medesimi motivi, l'art. 264, comma 13, secondo cui
«i titoli abilitativi relativi alle istanze di condono edilizio sono
rilasciati previa acquisizione dei pareri per interventi nelle aree
sottoposte a vincolo imposti da leggi statali e regionali vigenti al
momento della presentazione delle istanze medesime, fatto salvo
quanto previsto in materia sismica e di tutela dei beni paesaggistici
e culturali».
Anche la norma regionale da ultimo citata, pertanto, integra la
violazione dell'art. 117, comma 3, e dell'art. 117, comma 2, lettera
l) della Costituzione.
31) L'art. 264, comma 14 e 16, per violazione dell'art. 117,
comma 3, nonche' dell'art. 117, comma 2, lettera s), della
Costituzione.
L'art. 264, al comma 14, della legge regionale impugnata, dispone
che «gli interventi edilizi, limitatamente a quelli riguardanti
l'area di pertinenza degli edifici dell'impresa agricola, compresa la
realizzazione delle opere pertinenziali, nonche' le opere senza
strutture fondali fisse per l'attivita' zootecnica di cui all'art.
17, comma 1, lettera d) delle norme regolamentari, esistenti alla
data del 30 giugno 2014 e che risultino conformi alla disciplina
urbanistica ed edilizia, agli strumenti urbanistici vigenti e non in
contrasto con quelli adottati alla stessa data sono autorizzati con
la procedura prevista all'art. 154, commi 2, 3, 6, e 7, ferma
restando l'applicazione delle eventuali sanzioni penali. In tali casi
l'istanza e' presentata entro e non oltre il 30 giugno 2015». La
disposizione non prevede la cosiddetta «doppia conformita'»,
richiesta per la sanatoria dagli articoli 36 e 37, comma 4, del
decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001 (l'intervento
deve risultare conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia
vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al
momento della presentazione della domanda), perche' si limita a
richiedere la conformita' «alla disciplina urbanistica ed edilizia,
agli strumenti urbanistici vigenti e non in contrasto con quelli
adottati alla stessa data», laddove tale ultima data sembra essere
quella del 30 giugno 2014 (data fissata dalla stessa disposizione per
stabilire i requisiti necessari per poter chiedere la sanatoria).
Piu' che un'ipotesi di permesso in sanatoria, la norma censurata
dunque configura una nuova, non consentita, ipotesi di condono
edilizio, che non e' materia di competenza legislativa regionale,
ponendosi quindi in contrasto con i principi fondamentali in materia
di governo del territorio attribuiti alla competenza legislativa
statale dall'art. 117, comma terzo, della Costituzione.
L'art. 264, comma 16 dispone poi che «la domanda di concessione
ordinaria di piccola derivazione di acqua pubblica sotterranea dai
pozzi autorizzati, previo pagamento annuale dei canoni e diritti
previsti, costituisce autorizzazione annuale all'attingimento fino
alla conclusione del procedimento di concessione senza obbligo di
ulteriori formalita' o istanze e comunque nei limiti fissati dalle
normative di settore, salvo che l'autorita' idraulica competente ne
comunichi entro trenta giorni il diniego ai sensi della legge
regionale 11 maggio 2007, n. 12 (Norme per il rilascio delle licenze
di attingimento di acque pubbliche)».
La norma regionale in questione attribuisce alla semplice domanda
di concessione di piccola derivazione valore di autorizzazione
all'attingimento, salvo che l'autorita' idraulica competente ne
comunichi il diniego al richiedente entro il termine di trenta
giorni. L'art. 264, comma 16, quindi, estende l'istituto del
«silenzio-assenso» al procedimento concessorio in palese violazione
dell'art. 17, comma 1°, del testo unico n. 1775/1933 che, invece,
richiede un provvedimento espresso per derivare o utilizzare acqua
pubblica. Piu' precisamente, l'articolo da ultimo citato prevede che
«e' vietato derivare o utilizzare acqua pubblica senza un
provvedimento autorizzativo o concessorio dell'autorita' competente».
Alla luce delle precedenti considerazioni, l'art. 264, comma 16,
nella parte in cui estende l'istituto del silenzio assenso alle
concessioni di acqua pubblica si pone in contrasto con la potesta'
legislativa esclusiva statale in materia di tutela dell'ambiente di
cui all'art. 117, secondo comma, lettera s), della Costi-tuzione, per
violazione della norma interposta di cui all'art. 17, comma 1, regio
decreto n. 1775/1933.
P. Q. M.
Per le ragioni esposte, il Presidente del Consiglio dei ministri,
come sopra rappresentato e difeso chiede che codesta Ecc.ma Corte
costituzionale voglia dichiarare costituzionalmente illegittima la
legge della regione Umbria del 21 gennaio 2015, n. 1, pubblicata nel
B.U.R. Umbria 28 gennaio 2015, n. 6, supplemento ordinario n. 1,
limitatamente agli articoli 1, commi 2 e 3; art. 7, comma 1, lettere
b), d), g), m), n); art. 8; art. 9, comma 4; art. 10, comma 1; art.
11, comma 1, lettera d); art. 13; art. 15, commi 1 e 5; art. 16,
commi 4 e 5; art. 17; art. 19; art. 21; art. 18, commi 4, 5, 6, 7, 8
e 9; art. 28, comma 10; art. 56, comma 3; art. 32, comma 4; art. 49,
comma 2, lettera a); art. 51, comma 6; art. 79, comma 3; art. 56,
comma 14; art. 54; art. 59, comma 3; art. 64, comma 1; art. 95, comma
4; art. 118, comma 1, lettere e) ed i), e comma 3; art. 118, comma 2,
lettera e); art. 118, comma 3, lettera e); art. 140, comma 12; art.
124; art. 124, comma 1, lettera g); art. 140, comma 11; art. 141,
comma 2; art. 142, comma 1; art. 147, art. 155, art. 118, comma 2,
lettera h); art. 151, comma 2 e comma 4; art. 154, comma 1 e comma 3;
art. 206, comma 1; art. 215, comma 5 e comma 12; art. 243, comma 1;
art. 250, comma 1, lettere a), b) e c), in combinato disposto con gli
articoli 201, 202 e 208; art. 258; art. 264, commi 13, 14 e 16.
Con l'originale notificato del presente atto si depositano
l'estratto della determinazione del Consiglio dei ministri del 27
marzo 2015 e le motivazioni di sintesi per l'impugnativa.
Roma, 30 marzo 2015
L'Avvocato dello Stato: Marrone