N.   50  RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 5 marzo 2012.

  Ricorso per questione di legittimita'  costituzionale  depositato  in

cancelleria il 5 marzo 2012 (della Regione Friuli-Venezia Giulia) .

 

 

 

(GU n. 16 del 18.04.2012 ) 

 

 

 

    Ricorso  della  Regione  Friuli-Venezia   Giulia,   (cod.   fisc.

…; P. IVA …)  in  persona  del  Presidente  della

Giunta regionale  pro-tempore  dott.  Renzo  Tondo,  autorizzato  con

deliberazione della Giunta regionale n.  236  del  17  febbraio  2012

(doc. 1), rappresentata e difesa - come  da  procura  a  margine  del

presente atto - dall'avv. prof. Giandomenico Falcon di Padova,  (cod.

fisc. …) con domicilio eletto in Roma presso l'Ufficio

di rappresentanza della Regione, in Piazza Colonna,  355,  contro  il

Presidente  del  Consiglio  dei  ministri  per  la  dichiarazione  di

illegittimita' costituzionale dell'articolo 1, commi da  i  a  8;  2,

commi 1 e 2; 13, commi 11, 14, lett. a), e 17, terzo, quarto e quinto

periodo; 14, comma 13-bis, terzo e quarto periodo; 16, commi da  2  a

10; 23, commi 4, da 14 a 20-bis e 22; 28, comma 3; 31,  comma  1;  48

del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, Disposizioni  urgenti  per

la crescita,  l'equita'  e  il  consolidamento  dei  conti  pubblici,

convertito, con modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n.  214.

pubblicata nella G.U. n. 300 del 27 dicembre 2011, per violazione:

        degli  articoli  3,  53,  97,  117,  co.  3,  e   119   della

Costituzione;

        degli artt. 4, 5, 8. 48, 49, 51, 54, 63 e  65  dello  Statuto

speciale . adottato con 1. cost. n. 1 del 1963;

        degli artt. 2, 9, 14 e 18 d. lgs 9/1997, dell'art. 4 d.  lgs.

114/1965 e dell'art. 1 d. 1gs. 265/2011;

        del principio di leale collaborazione,

    per i profili e nei modi di seguito illustrati.

 

                                FATTO

 

    Il d.l. 201/2011, come risultante dalla legge di  conversione  n.

214/2011, contiene disposizioni di vario tipo, distribuite in quattro

titoli: Sviluppo ed equita', Rafforzamento  del  sistema  finanziario

nazionale  e  internazionale,  Consolidamento  dei  conti   pubblici,

Disposizioni per la promozione e la tutela della concorrenza.

    Tutte sono rivolte - come rivela lo stesso soprannome di  decreto

"salva Italia" che il Governo ha attribuito ad esso - a  produrre  un

risultato utile all'economia del Paese: e la  Regione  Friuli-Venezia

Giulia, come parte del Paese, non puo' che augurarsi  che  le  misure

producano i risultati sperati.

    Allo  sforzo  collettivo  necessario  al  conseguimento  di  tali

risultati essa non intende certo sottrarsi.

    Al tempo stesso, tuttavia, essa non puo'  rinunciare  a  chiedere

che ogni contributo ad essa richiesto sia  richiesto  legittimamente,

nel quadro e nel rispetto delle  regole  che  disciplinano  sotto  il

profilo finanziario - come sotto ogni altro profilo - i rapporti  con

lo Stato.

    Ed essa ritiene che nei punti che formano oggetto della  presente

impugnazione le regole costituzionali e statutarie di  tali  rapporti

non siano rispettate.

    Vengono qui in considerazione alcune disposizioni  dei  Titoli  I

("Sviluppo ed equita'"), III ("Consolidamento dei conti pubblici")  e

IV ("Disposizioni per la promozione e la tutela della concorrenza").

    Quanto al Titolo I, si tratta dell'art. 1,  Aiuto  alla  crescita

economica, e dell'art. 2, Agevolazioni fiscali riferite al costo  del

lavoro nonche' per donne e giovani.

    Quanto  al  Titolo  III,  si   tratta   dell'art.   13,   recante

Anticipazione sperimentale dell'imposta municipale propria, dell'art.

14, recante Istituzione  del  tributo  comunale  sui  rifiuti  e  sui

servizi, e dell'art. 16, Disposizioni per la tassazione  di  auto  di

lusso, imbarcazioni ed aerei (tutti facenti parte  del  Capo  secondo

Disposizioni in materia di maggiori entrate).

    Si tratta poi dell'art. 23, Riduzione dei costi di  funzionamento

delle Autorita' di Governo, del CNEL, delle Autorita' indipendenti  e

delle Province, facente parte del Capo  terzo  (Riduzioni  di  spesa.

Costi degli apparati), nonche' dell'art. 28,  recante  Concorso  alla

manovra degli Enti territoriali e ulteriori riduzioni di  spese,  che

forma ed esaurisce il capo  VI  (Concorso  alla  manovra  degli  Enti

territoriali).

    Quanto al Titolo IV si tratta dell'art. 31, Esercizi  commerciali

(facente  parte  del  capo  I,  Liberalizzazioni),  e  dell'art.  48,

Clausola di finalizzazione, che ricade nel Capo  IV,  Misure  per  lo

sviluppo infrastrutturale.

    Ad avviso della Regione Friuli-Venezia  Giulia,  le  disposizioni

succitate risultano lesive delle proprie prerogative costituzionali e

statutarie per le seguenti ragioni di

 

                               DIRITTO

 

    1) Illegittimita' costituzionale dell'art. 1, commi da 1 a  8,  e

dell'art. 2, commi 1 e 2.

    L'art. 1, comma l, del d.l. 201/2011 prevede deduzioni che  vanno

ad abbassare il reddito imponibile ai fini dell'imposta  sul  reddito

delle societa' (Ires), degli altri enti di cui allo stesso comma 1, e

sul  "reddito  d'impresa  di  persone  fisiche,  societa'   in   nome

collettivo e  in  accomandita  semplice  in  regime  di  contabilita'

ordinaria" (v. il comma 7), e cio' "in considerazione della  esigenza

di rilanciare Io sviluppo economico del Paese e fornire un aiuto alla

crescita  mediante  una  riduzione  della  imposizione  sui   redditi

derivanti dal finanziamento con  capitale  di  rischio,  nonche'  per

ridurre lo squilibrio del trattamento  fiscale  tra  imprese  che  si

finanziano con debito ed  imprese  che  si  finanziano  con  capitale

proprio,  e  rafforzare,  quindi,  la  struttura  patrimoniale  delle

imprese e del sistema produttivo italiano".

    Dal canto suo, l'art. 2  prevede  che  sia  deducibile,  ai  fini

dell'Ires, "un importo pari  all'imposta  regionale  sulle  attivita'

produttive determinata ai sensi degli articoli 5, 5-bis, 6, 7 e 8 del

decreto legislativo 15 dicembre 1997, n.  446,  relativa  alla  quota

imponibile delle spese per  il  personale  dipendente  e  assimilato"

(comma 1).

    Il comma 2 prevede  deduzioni  nella  determinazione  della  base

imponibile a fini Irap, collegate all'assunzione di donne e giovani.

    Dunque, le norme succitate producono l'effetto  di  diminuire  il

gettito dell'Ires, dell'Irpef  e  dell'Irap,  cioe'  di  imposte  che

spettano o pro quota o interamente alla Regione.

    Quest'ultimo e', notoriamente, il caso dell'Irap (v. il  d.  lgs.

446/1997 e la 1. FVG 4/2000). Quanto alle compartecipazioni spettanti

a questa Regione, e' da ricordare che lo Statuto, dopo aver stabilito

che "la Regione ha una propria finanza, coordinata con  quella  dello

Stato, in armonia con i principi della  solidarieta'  nazionale,  nei

modi stabiliti dagli  articoli  seguenti"  (art.  48),  aggiunge  che

"spettano alla Regione le seguenti quote  fisse  delle  sottoindicate

entrate tributarie erariali riscosse  nel  territorio  della  Regione

stessa: 1) sei decimi del  gettito  dell'imposta  sul  reddito  delle

persone fisiche; 2) quattro decimi e mezzo del  gettito  dell'imposta

sul reddito delle persone giuridiche; 3) sei decimi del gettito delle

ritenute alla fonte di cui agli artt. 23, 24, 25 e 29 del  d.P.R.  29

settembre 1973, n. 600,  ed  all'art.  25-bis  aggiunto  allo  stesso

decreto" (art. 49).

    Le norme censurate, dunque, incidono sull'Irap e  sui  meccanismi

di compartecipazione previsti dallo  Statuto,  che  rappresentano  la

fondamentale forma di finanziamento della Regione, la  quale  subisce

cosi' una rilevante riduzione di  entrate,  senza  che  sia  previsto

alcun meccanismo compensativo.

    Si noti che, al contrario, le deduzioni relative a lrpef  e  Ires

non pregiudicano la finanza delle Regioni ordinarie, che  non  godono

della compartecipazione a quelle imposte, e la finanza delle  Regioni

ordinarie non e' pregiudicata neppure dalla deduzione  Irap:  invero,

considerata la modalita' di finanziamento della  spesa  sanitaria  in

tali Regioni (v. D. Lgs. 56/2000), la diminuzione  del  gettito  Irap

viene compensata da un corrispondente aumento della compartecipazione

Iva, con garanzia di integrale finanziamento  della  spesa  sanitaria

regionale.

    Cio' che la Regione contesta non e' la previsione di deduzioni in

se',  ma  tale  previsione  in  quanto  non   accompagnata   da   una

compensazione a favore delle Regioni speciali,  cioe'  in  quanto  il

d.l. 201/2011 non provvede a riequilibrare le entrate regionali.

    E' ben noto che il d.l.  201/2011  contiene,  accanto  ad  alcune

norme volte a favorire lo sviluppo (come  quelle  sopra  illustrate),

altre norme volte ad aumentare le entrate tributarie.  Pero',  l'art.

48 - come piu' ampiamente si dira' - dispone che "le maggiori entrate

erariali derivanti dal presente decreto sono,  riservate  all'Erario,

per un periodo di cinque anni, per  essere  destinate  alle  esigenze

prioritarie di raggiungimento degli  obiettivi  di  finanza  pubblica

concordati in sede europea,  anche  alla  luce  della  eccezionalita'

della situazione economica  internazionale".  Dunque,  qualora  dalle

norme  tributarie  del  d.l.  201/2011  dovessero  derivare   effetti

economici   favorevoli   per   questa   Regione    (a    titolo    di

compartecipazione ai tributi erariali),  essi  sarebbero  "annullati"

(almeno) per cinque anni.

    Cio' significa che, mentre l'effetto  di  riduzione  del  gettito

fiscale determinato dagli artt. 1 e 2 va  anche  a  detrimento  della

Regione Friuli-Venezia Giulia, le maggiori entrate  risultanti  dalle

altre norme vanno a esclusivo beneficio statale, con neutralizzazione

dell'art. 49 St.

    Per  la  Regione  Friuli-Venezia  Giulia  (e  le  altre   Regioni

speciali), dunque, la manovra e' a senso unico, e si traduce  in  una

pura  e  semplice  riduzione  di  entrata,  non  compensata   affatto

dall'aumento di imposte al  cui  gettito  pure  la  Regione  dovrebbe

partecipare.

    Ne risulta violato, in primo luogo, il principio  di  uguaglianza

(e di ragionevolezza) di cui all'art. 3, comma primo, Cost., sia  con

riferimento all'uguaglianza tra enti che in relazione all'uguaglianza

tra comunita' territoriali (ed in definitiva tra le  persone  che  le

istituzioni di tale comunita' rappresentano):  essendo  evidente  che

l'istituzione   rappresentativa   della   comunita'   regionale   del

Friuli-Venezia Giulia  "partecipa"  al  peso  della  riduzione  delle

imposte dirette in misura piu' rilevante del  resto  della  comunita'

nazionale (come si e' visto).  Inoltre,  benche'  i  cittadini  della

Regione - come tutti gli altri  -  paghino  l'aumento  delle  imposte

previsto dalle altre norme del di. 201/2011, tale aumento di  entrata

non si traduce affatto in un corrispondente aumento  della  capacita'

di spesa della Regione.

    La Regione e' legittimata a far valere la violazione dell'art. 3,

perche' si tratta della parita' di' trattamento fra Regioni e perche'

essa si riflette in lesione dell'autonomia finanziaria regionale.

    La mancata attribuzione alla Regione di risorse compensative,  ed

anzi la espressa riserva allo Stato di quelle  maggiori  entrate  che

naturalmente avrebbero compensato il minor gettito, con  la  semplice

applicazione delle regole  statutarie,  violano  altresi'  l'art.  63

dello Statuto e l'insieme delle disposizioni del titolo IV. L'art. 63

prevede, in primo luogo, che sulle proposte di  legge  costituzionale

di modifica dello Statuto il Consiglio regionale esprima  il  proprio

parere (co. 3). Esso contiene poi una disposizione specifica  per  le

disposizioni finanziarie di cui al Titolo IV: queste "possono  essere

modificate con leggi ordinarie, su proposta di ciascun  membro  delle

Camere, del Governo e della Regione" ma, "in ogni  caso,  sentita  la

Regione".

    Ora, la ricorrente Regione e' ben consapevole che non si  e'  qui

di fronte ad una formale modificazione delle disposizioni statutarie,

ma non puo' essere dubbio che l'effetto degli artt. 1 e 2 equivale in

tutto e per tutto ad una riduzione  della  quota  di  partecipazione.

Infatti la riduzione del gettito non e' qui la  semplice  conseguenza

del ciclo economico, in relazione al quale  il  gettito  puo'  essere

maggiore o minore, in condizione di uguaglianza tra tutti coloro  che

ne sono destinatari: al contrario, la riduzione e' qui la conseguenza

di una consapevole decisione di governo. La previsione  di  ulteriori

deduzioni a danno delle  sole  Regioni  speciali,  con  contemporanea

espressa esclusione del riequilibrio a favore della Regione, e con la

riserva delle entrate al solo Stato, equivale ad una alterazione  del

rapporto tra  finanza  statale  e  finanza  regionale  quale  fissato

dall'art. 49 dello Statuto. La mancata attivazione di  una  procedura

di consultazione comporta  ad  avviso  della  ricorrente  Regione  la

violazione dell'art. 63  dello  Statuto  e  del  principio  di  leale

collaborazione.

    Inoltre, le norme in questione  violano  anche  il  principio  di

corrispondenza  tra  entrate  e  funzioni,  implicito   nel   sistema

statutario (v. l'art. 50, in base al quale "per  provvedere  a  scopi

determinati,  che  non  rientrano  nelle   funzioni   normali   della

Regione,..lo  Stato  assegna  alla  stessa,  con  legge,   contributi

speciali")  ed  espresso   nell'art.   119,   comma   quarto,   della

Costituzione. E'evidente infatti che la dimensione quantitativa delle

entrate  regionali  era  stata  predisposta   in   correlazione   con

l'ampiezza delle funzioni proprie della  stessa  Regione,  e  che  un

"taglio" delle risorse a sua disposizione comporta lo squilibrio  tra

queste e le funzioni. Nel  presente  periodo  di  crisi  finanziaria,

senz'altro tutte le  componenti  della  Repubblica  sono  chiamate  a

collaborare, ma - per la Regione Friuli-Venezia Giulia, cio' e'  gia'

avvenuto con  le  diverse  manovre  finanziarie  (v.  l'art.  14  di.

78/2010, l'art. 20, co. 5, d.l. 98/2011  e  l'art.  1,  co.  8,  d.l.

138/2011) e con le norme di cui all'art. 1, co. 151 ss., 1. 220/2010.

    Questa Regione e'  consapevole  che  all'accoglimento  della  sua

domanda sotto il profilo ora indicato potrebbe ostare  il  precedente

rappresentato dalla sent. 155/2006, relativa alla 1. 311/2004,  nella

quale si legge che,  "a  seguito  di  manovre  di  finanza  pubblica,

possono anche determinarsi riduzioni nella disponibilita' finanziaria

delle  Regioni,  purche'  esse  non  siano  tali  da  comportare  uno

squilibrio  incompatibile  con  le  complessive  esigenze  di   spesa

regionale e, in definitiva, rendano insufficienti i mezzi  finanziari

dei quali la Regione stessa  dispone  per  l'adempimento  dei  propri

compiti". Questa Regione, pero', non si puo' esimere dal  far  notare

che, da un lato, la prova richiesta da codesta Corte e' una  probatio

diabolica, dall'altro l'onere della prova dovrebbe incombere  su  chi

opera il taglio, non su chi lo subisce.

    Si puo' presupporre, cioe', che lo Stato abbia riconosciuto  alla

Regione le risorse finanziarie adeguate  alle  sue  funzioni  e  che,

percio', un "taglio" di risorse possa avvenire solo  in  presenza  di

determinati presupposti. Lo Stato non puo' diminuire  unilateralmente

le risorse senza alcuna valutazione di adeguatezza finanziaria, cioe'

di una diminuita necessita' finanziaria della Regione. Il  necessario

collegamento con la dimensione effettiva della finanza delle  Regioni

speciali e con le "funzioni da esse effettivamente esercitate" emerge

anche dall'art. 27, co. 2,1. 42/2009.

    2) Illegittimita' costituzionale  dell'art.  13,  commi  11,  14,

lett. a), e 17, terzo, quarto e quinto periodo

    A) Premessa. Il passaggio alla nuova  imposta  e  la  sottrazione

delle risorse al sistema locale.

    L'art.  13  regola  l'Anticipazione   sperimentale   dell'imposta

municipale propria, stabilendo (comma 1) che  l'istituzione  di  tale

imposta "e' anticipata, in via sperimentale,  a  decorrere  dall'anno

2012, ed e' applicata in tutti i comuni del territorio nazionale fino

al 2014 in base agli articoli 8 e 9 del decreto legislativo 14  marzo

2011,  n.  23,  in  quanto  compatibili,  ed  alle  disposizioni  che

seguono",  e   che   conseguentemente,   "l'applicazione   a   regime

dell'imposta municipale propria e' fissata al 2015".

    Il riferimento a "tutti i comuni del territorio nazionale" induce

a ritenere che l'art.  13  intenda  applicarsi  anche  nella  regione

Friuli-Venezia Giulia.

    L'art. 8, co. 1, d. lgs. 23/2011, richiamato dall'art. 13,  comma

1, ora citato, stabilisce che l'imposta municipale propria  istituita

dallo stesso articolo "sostituisce, per  la  componente  immobiliare,

l'imposta sul reddito delle persone fisiche e le relative addizionali

dovute in relazione ai redditi fondiari relativi ai beni non  locati,

e l'imposta comunale sugli immobili".

    Dunque, l'Imup sostituisce - oltre  all'ICI,  gia'  destinata  ai

Comuni - imposte  destinate  alla  Regione:  o  per  seidecimi,  come

l'Irpef relativa ai redditi fondiari degli immobili non locati  (art.

49 Statuto) o interamente, come le addizionali regionale  e  comunale

relative ai redditi fondiari degli immobili non locati  e  l'Ici:  va

infatti ricordato che, in base all'art. 51, co. 2, St.,  "il  gettito

relativo a tributi propri e  a  compartecipazioni  e  addizionali  su

tributi erariali che le leggi dello  Stato  attribuiscano  agli  enti

locali spetta alla Regione  con  riferimento  agli  enti  locali  del

proprio territorio, ferma restando la neutralita' finanziaria per  il

bilancio dello Stato". Del resto, la Regione e' competente in materia

di finanza locale, ai sensi degli artt. 51 e  54  St.  e  9  d.  Igs.

9/1997.

    Peraltro, la Regione Friuli-Venezia Giulia non avrebbe titolo per

contestare la  trasformazione  di  determinati  tributi  erariali  in

tributi  locali:   lo   Statuto   assicura   determinate   quote   di

compartecipazione su  diversi  tributi  erariali,  ma  non  prescrive

l'esistenza in particolare di determinati tributi erariali: e  se  lo

Stato vi rinuncia, in favore della finanza  comunale,  tale  rinuncia

vale anche per la quota spettante alla Regione Friuli-Venezia Giulia.

    Sennonche', tale conclusione opera sino a che  le  risorse  siano

realmente attribuite ai comuni, come avviene  nel  disegno  normativo

originario dell'IMUP ai sensi degli artt. 8 e 9 d. lgs. 23/2011.  Ove

invece il reddito dell'imposta "municipale" sia assegnato allo Stato,

ne risulta un complessivo impoverimento del sistema locale: dietro la

"municipalizzazione",  infatti,  vi  e'  sempre  l'imposta  erariale,

soltanto  che  il  suo   gettito   viene   sottratto   alla   Regione

Friuli-Venezia Giulia,  con  evidente  sostanziale  violazione  degli

artt. 49 e 51 dello Statuto.

    E proprio questo accade con le nuove disposizioni  dell'art.  13,

comma 11. Esse, infatti, prevedono la riserva allo Stato di una quota

dell'Imup.

    Ecco il testo della disposizione:

        "E'riservata allo Stato la quota di imposta pari  alla  meta'

dell'importo calcolato applicando alla base imponibile di  tutti  gli

immobili, ad eccezione dell'abitazione principale  e  delle  relative

pertinenze di cui al comma 7, nonche' dei fabbricati  rurali  ad  uso

strumentale di cui al comma 8, l'aliquota di base di cui al comma  6,

primo periodo. La quota di imposta risultante e' versata  allo  Stato

contestualmente  all'imposta  municipale   propria.   Le   detrazioni

previste dal presente articolo, nonche' le detrazioni e le  riduzioni

di aliquota deliberate dai comuni non  si  applicano  alla  quota  di

imposta riservata allo  Stato  di  cui  al  periodo  precedente.  Per

l'accertamento,  la  riscossione,  i  rimborsi,  le   sanzioni,   gli

interessi ed il contenzioso si applicano le disposizioni  vigenti  in

materia di imposta municipale propria. Le attivita' di accertamento e

riscossione dell'imposta erariale sono svolte  dal  comune  al  quale

spettano le maggiori somme derivanti dallo svolgimento delle suddette

attivita'  a  titolo  di  imposta,  interessi  e  sanzioni"   (enfasi

aggiunta).

    In realta', pero', dal comma 17 dell'art. 13 risulta che lo Stato

non solo si trattiene la meta' "riservata" dell'importo,  ma  intende

appropriarsi  di  tutto  il  maggior  gettito,  cioe'  ogni   importo

eccedente  le  entrate  che  affluivano  ai  comuni   della   regione

Friuli-Venezia Giulia in base alle norme previgenti: ed intende farlo

acquisendo tali fondi dalla Regione.

    Infatti, il comma 17, terzo periodo, dispone - in relazione  alle

autonomie speciali competenti in materia di finanza locale - che "con

le procedure previste dall'articolo 27 della legge 5 maggio 2009,  n.

42, le regioni Friuli-Venezia Giulia  e  Valle  d'Aosta,  nonche'  le

Province autonome di Trento e di Bolzano, assicurano il  recupero  al

bilancio statale del predetto  maggior  gettito  stimato  dei  comuni

ricadenti nel proprio territorio". Ed il quarto periodo precisa  che,

"fino all'emanazione delle norme di attuazione  di  cui  allo  stesso

articolo 27, a valere sulle quote  di  compartecipazione  ai  tributi

erariali, e' accantonato un importo pari al maggior  gettito  stimato

di cui al precedente periodo". Il quinto periodo, infine, prevede che

"l'importo  complessivo  della  riduzione  del  recupero  di  cui  al

presente comma e' pari per l'anno 2012 a 1.627 milioni di  curo,  per

l'anno 2013 a 1.762,4 milioni di euro  e  per  l'anno  2014  a  2.162

milioni di euro".

    Ora, benche' il riferimento alla "riduzione del recupero"  appaia

privo  di  senso,  sembra  da  ritenere   che   i   numeri   indicati

rappresentino  la  quantificazione  del  "recupero"  a  carico  della

autonomie speciali.

    Dunque,  lo  Stato  ha  provveduto  a  ristrutturare  le  imposte

"immobiliari" e a rideterminare le basi imponibili, ma - nel  periodo

2012-2014 - i maggiori incassi derivanti da  questa  operazione  sono

interamente destinati  allo  Stato,  il  quale  in  parte  li  riceve

direttamente dai contribuenti in base alla riserva di  cui  al  comma

11, in parte li riceve dalla Regione con i meccanismi di "recupero" o

"accantonamento" di cui al comma 17.

    Si noti che il comma 17 e' formulato in modo tale da poter essere

inteso nel senso che l'importo Imup 2012 non debba essere confrontato

con l'importo 2011 dei tributi sostituiti ma solo con  l'importo  dei

tributi sostituiti percepiti dai Comuni (cioe', l'Ici 2011). Se cosi'

fosse, il taglio delle risorse assumerebbe  un  carattere  del  tutto

particolare rispetto alla  Regione  Friuli-Venezia  Giulia.  Infatti,

delle tre componenti sostituite dall'/mup (cioe'  1'Irpef  fondiaria,

le  addizionali  regionale   e   comunali   e   l'ICI),   l'ICI   era

precedentemente riscossa direttamente dai comuni (anche se  destinata

alla Regione, dopo le modifiche apportate all'art. 51  St.  dalla  1.

220/2010), mentre sia le risorse derivanti dall'Irpef  fondiaria  che

quelle  derivanti  dalle  addizionali  spettavano  alla  Regione.  Ne

risulta che - concentrata  la  fiscalita'  nell'Imup  -  il  "maggior

gettito stimato  dei  comuni"  della  Regione  sara'  particolarmente

elevato,  comprendendo  anche  il  gettito  dei  tributi  che   prima

costituivano entrate della Regione.

    In entrambi i casi, tributi spettanti  al  sistema  regionale  in

base allo Statuto e alle norme di  attuazione  sono  illegittimamente

avocati allo Stato, come di seguito si illustra.

    B) Illegittimita' costituzionale del comma 11, nella parte in cui

riserva allo Stato meta' dell'Importo Imup.

    Poste le premesse appena illustrate, viene in  considerazione  in

primo luogo l'illegittimita' costituzionale del comma 11, nella parte

in cui considera tributo erariale la quota del  50  dell'Imup  e  la

riserva allo Stato.

    L'art. 49 dello  Statuto  speciale  dispone  che  "spettano  alla

Regione  le  seguenti  quote  fisse   delle   sottoindicate   entrate

tributarie erariali riscosse nel territorio della Regione stessa:  1)

sei  decimi  del  gettito  dell'imposta  sul  reddito  delle  persone

fisiche". L'art. 51, co. 2,  come  gia'  visto,  stabilisce  che  "il

gettito relativo a tributi propri e a compartecipazioni e addizionali

su tributi erariali che le leggi dello Stato attribuiscano agli  enti

locali spetta alla Regione  con  riferimento  agli  enti  locali  del

proprio territorio".

    Dunque, alla Regione spettano i 6/10 dell'Irpef e le  addizionali

Irpef (regionale e comunali). L'art. 13  sostituisce  l'Imup  a  tali

imposte (per la quota fondiaria) ma l'operazione si  rivela  elusiva,

fittizia, perche' il comma 11 riporta  le  somme  in  questione  allo

Stato. Non basta,  pero',  un  semplice  cambio  di  "etichetta"  del

tributo per eludere il sistema statutario.  Il  comma  11  viola  gli

artt. 49, n. 1, e  51,  co.  2,  perche'  avoca  allo  Stato  risorse

riscosse a titolo di tributo erariale (come ammette lo  stesso  comma

11, ultimo periodo) e che  sostanzialmente  corrispondono  a  tributi

spettanti alla Regione (pro quota o interamente).

    Qualora, invece, si volesse  valorizzare  lo  status  di  tributo

locale dell'Imup, allora l'art. 13, co. 11, violerebbe l'art. 51, co.

2, la' dove dispone che "il gettito relativo a tributi propri...  che

le leggi dello Stato  attribuiscano  agli  enti  locali  spetta  alla

Regione con riferimento agli enti  locali  del  proprio  territorio".

L'Imup e' un tributo attribuito agli  enti  locali  ma  il  comma  11

riserva meta' del gettito allo Stato, in contrasto con l'art. 51, co.

2, St.

    La fondatezza della censura sopra  esposta  non  potrebbe  essere

contestata facendo valere la clausola di possibile riserva all'erario

statale prevista dalle norme di attuazione (art.  4  dPR  114/1965  e

art. 6, co. 2, d. 1gs. 8/1997): su questo  punto,  pero',  si  rinvia

alla censura relativa alla norma generale di  cui  all'art.  48  ("Le

maggiori  entrate  erariali  derivanti  dal  presente  decreto   sono

riservate all'Erario, per un  periodo  di  cinque  anni,  per  essere

destinate alle esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi

di finanza pubblica concordati in sede europea, anche alla luce della

eccezionalita' della situazione economica internazionale"), che  pare

applicabile anche alle risorse attribuite allo  Stato  dall'art.  13,

co. 11.

    C) In particolare, ancora illegittimita' costituzionale del comma

11, nella parte in cui riserva ai comuni le attivita' di accertamento

e riscossione e assegna ai Comuni le maggiori entrate connesse a tali

attivita'.

    Oltre che per la riserva allo Stato, l'art. 13, co.  11,  risulta

lesivo anche per quel che dispone l'ultimo periodo di  esso,  secondo

cui "le attivita' di accertamento e riscossione dell'imposta erariale

sono svolte dal comune al quale spettano le maggiori somme  derivanti

dallo svolgimento delle  suddette  attivita'  a  titolo  di  imposta,

interessi e sanzioni".

    L'art.   53   St.   stabilisce   che   "la   regione    collabora

all'accertamento delle imposte erariali sui redditi dei soggetti  con

domicilio fiscale nel suo territorio" (co.  1)  e  che  "le  predette

intese [fra Regione e Ministro] definiscono i necessari  indirizzi  e

obiettivi  strategici  relativi  all'attivita'  di  accertamento  dei

tributi nel territorio della Regione, la quale e' svolta attraverso i

conseguenti accordi operativi con le Agenzie fiscali" (co. 4) Dunque,

l'ultimo periodo del comma 11 viola l'art. 53, co. 4, St.,  regolando

direttamente un'attivita' di accertamento di  tributi  (la  quota  di

IMUP avente natura erariale) nel territorio regionale.

    Inoltre, la norma in questione viola gli ara. 49 e 51, co. 2, St.

la' dove attribuisce ai comuni "le  maggiori  somme  derivanti  dallo

svolgimento delle suddette attivita' a titolo di imposta, interessi e

sanzioni". Infatti, si tratta di somme che spettano alla Regione  sia

che si valorizzi la corrispondenza con l'Irpef  fondiaria  e  con  le

addizionali (v. l'art. 49 e  l'art.  51,  co.  2,  St.)  sia  che  si

valorizzi lo status di tributo locale (v. art. 51, co. 2): su cio' v.

sopra, punto B).

    Non  si  tratta,  cioe',  di  maggiori   entrate   che   derivano

dall'aumento delle aliquote o dall'introduzione di nuovi tributi,  ma

semplicemente  di  entrate  che  derivano   da   un   piu'   rigoroso

accertamento degli obblighi tributari preesistenti,  il  cui  gettito

deve seguire la destinazione impressa dallo Statuto e non puo' essere

discrezionalmente attribuito dallo Stato.

    La fondatezza di tale censura e' confermata anche dalla  sentenza

di codesta  Coste  costituzionale  n.  152/2011,  che  ha  dichiarato

costituzionalmente illegittimo l'art. 1, comma 6, del d.l. n. 40  del

2010, "nella parte in cui stabilisce che  le  entrate  derivanti  dal

recupero  dei  crediti  d'imposta  «sono  riversate  all'entrata  del

bilancio dello Stato  e  restano  acquisite  all'erario»,  anche  con

riferimento a crediti d'imposta  inerenti  a  tributi  che  avrebbero

dovuto essere riscossi nel territorio della  Regione  siciliana".  La

sentenza precisa che "e' alla Regione siciliana...  che  spetta,  non

solo provvedere al detto recupero, ma anche acquisire il  gettito  da

esso derivante, posto che tale gettito, lungi dal  costituire  frutto

di  una  nuova  entrata  tributaria  erariale,  non  e'   altro   che

l'equivalente del gettito del tributo previsto (al di fuori dei  casi

nei quali e' concesso il credito d'imposta), che compete alla Regione

sulla base e nei limiti dell'art. 2 del d.P.R. n. 1074 del 1965".

    La medesima sent. 152/2011 ha poi annullato l'art. 3, co.  2-bis,

d.l. 40/2010, in quanto "la previsione della esclusiva destinazione a

fondi erariali del gettito derivante dalla definizione agevolata  di'

tali controversie inerenti alla contestazione di tributi erariali che

avrebbero dovuto essere riscossi nel territorio regionale si pone  in

contrasto  con  il  principio  di  cui  all'art.  2  delle  norme  di

attuazione, non potendo peraltro neppure  ritenersi  che  le  entrate

derivanti dalla richiamata definizione agevolata  delle  controversie

tributarie siano "entrate nuove".

    D) Illegittimita' costituzionale del comma 14, lett.  a),  e  del

comma 17, terzo, quarto e quinto periodo.

    Il comma 14, lett. a) dell'art. 13 abroga l'art. 1 d.l.  93/2008,

che introduceva l'esenzione ICI per la prima  casa  e,  al  comma  4,

stabiliva   quanto   segue:   "La   minore   imposta    che    deriva

dall'applicazione dei commi 1, 2 e 3, pari a 1.700 milioni di euro  a

decorrere  dall'anno  2008,  e'  rimborsata  ai  singoli  comuni,  in

aggiunta a quella  prevista  dal  comma  2-bis  dell'articolo  8  del

decreto legislativo n. 504  del  1992,  introdotto  dall'articolo  1,

comma 5, della legge 24 dicembre 2007, n. 244.  A  tale  fine,  nello

stato di previsione del Ministero dell'interno  l'apposito  fondo  e'

integrato di un importo pari a quanto  sopra  stabilito  a  decorrere

dall'anno 2008. Relativamente alle regioni  a  statuto  speciale,  ad

eccezione delle regioni Sardegna e Sicilia, ed alle province autonome

di Trento e di Balzano, i rimborsi  sono  in  ogni  caso  disposti  a

favore dei citati enti, che provvedono all'attribuzione  delle  quote

dovute ai comuni compresi  nei  loro  territori  nel  rispetto  degli

statuti speciali e delle relative norme di attuazione".

    L'art.  13,  co.  17,  primo  periodo,  d.l.  201/2011  (qui  non

impugnato, in quanto non riguarda la Regione Friuli-Venezia  Giulia.)

dispone che "il fondo sperimentale di riequilibrio, come  determinato

ai sensi dell'articolo 2 del decreto legislativo 14  marzo  2011,  n.

23, e il fondo perequativo, come determinato ai  sensi  dell'articolo

13  del  medesimo  decreto  legislativo  n.  23  del   2011,   ed   i

trasferimenti erariali dovuti ai comuni  della  Regione  Siciliana  e

della Regione  Sardegna  variano  in  ragione  delle  differenze  del

gettito stimato ad aliquota di base derivanti dalle  disposizioni  di

cui al presente articolo"; si aggiunge che  "in  caso  di  incapienza

ciascun comune versa all'entrata del bilancio dello  Stato  le  somme

residue". Tale disposizione e' scritta in modo oscuro (i fondi  ed  i

trasferimenti "variano", i comuni versano "le somme residue"): ma  in

definitiva sembra significare  che  o  attraverso  la  riduzione  dei

trasferimenti dallo Stato o (se la riduzione  non  basta)  attraverso

trasferimenti dagli stessi Comuni, lo Stato incamera tutto  cio'  che

per effetto delle nuove regole ai Comuni affluisca in misura maggiore

di prima.

    Per  la  Regione  Friuli-Venezia  Giulia  -  come  per  le  altre

autonomie speciali aventi competenza in materia di finanza  locale  -

vale invece, come sopra visto, l'art. 13, co. 17, terzo  periodo:  il

quale  dispone  direttamente   che   "con   le   procedure   previste

dall'articolo 27 della  legge  5  maggio  2009,  n.  42,  le  regioni

Friuli-Venezia Giulia e Valle d'Aosta, nonche' le  Province  autonome

di Trento e di Bolzano, assicurano il recupero  al  bilancio  statale

del predetto maggior gettito stimato dei comuni ricadenti nel proprio

territorio". Il quarto periodo  aggiunge  che,  "fino  all'emanazione

delle norme di attuazione di cui allo stesso articolo  27,  a  valere

sulle quote di compartecipazione ai tributi erariali, e'  accantonato

un importo pari al maggior  gettito  stimato  di  cui  al  precedente

periodo".

    Dunque, lo Stato non solo trattiene la parte  erariale  dell'Imup

(in base al comma 11), ma vorrebbe  incamerare  dalla  Regione  anche

l'imposta comunale, per tutto  l'importo  eccedente  le  entrate  che

affluivano ai comuni in base alle norme previgenti. Come si  e'  gia'

notato, il comma 17 e' formulato in modo tale da poter essere  inteso

nel senso che l'importo Imup 2012 non debba  essere  confrontato  con

l'importo 2011 dei tributi  sostituiti  ma  solo  con  l'importo  dei

tributi comunali sostituiti (cioe', l'Ici 2011). Se cosi'  fosse,  la

Regione e i suoi enti locali risulterebbero depauperati:

        dei sei decimi dell'Irpef sui redditi immobiliari, soppressi;

        delle  addizionali  regionale  e   comunale   precedentemente

previste (la seconda era destinata alla Regione in luogo dei comuni);

    Inoltre, il comma 17 potrebbe essere interpretato anche nel senso

che dal gettito precedente sia esclusa  la  somma  che  perveniva  ai

comuni (tramite la Regione) ai sensi dell'art. 1, co. 4, di. 98/2008,

sopra citato. Se cosi' fosse, ne risulterebbe un ulteriore  rilevante

depauperamento del sistema regionale.

    In questi  termini,  la  fittizia  comunalizzazione  dei  tributi

immobiliari si traduce nel transito delle corrispondenti risorse  dal

bilancio  regionale  al  bilancio  statale.  La  Regione,  che  prima

"integrava" la finanza locale avvalendosi delle predette risorse, ora

ne e' priva ma dovra' comunque far fronte alle necessita' finanziarie

dei comuni (art. 54 St. e art. 9, co. 2, d. lgs. 9/1997), e  dovrebbe

contestualmente  versare  allo  Stato  proprie  risorse   in   misura

corrispondente alle maggiori entrate dei Comuni, o comunque in misura

corrispondente  a  quella  a  priori  determinata   dalla   impugnata

disposizione (quinto periodo).

    In  un  sistema  nel  quale  la  Regione  ha  la  responsabilita'

complessiva della finanza locale,  la  sottrazione  ai  comuni  delle

risorse  derivanti  dalle  imposte  ad  essi  destinate   costituisce

contemporaneamente una lesione dell'autonomia finanziaria regionale.

    In ogni modo, il terzo e quarto periodo  del  comma  17,  dunque,

violano l'art. 49 St. e gli artt. 4 dPR 114/1965 e 6, co. 2, d.  lgs.

8/1997 perche' pretendono di avocare allo Stato risorse di  spettanza

regionale, al di fuori dei casi previsti.

    Cio' e' vero sia nel caso in cui  si  ritenga  che  il  comma  17

produca  l'effetto  di  avocare  allo  Stato  le  risorse  che  prima

spettavano alla  Regione  a  titolo  di  compartecipazione  all'Irpef

fondiaria (art. 49 St.) e di addizionali regionale e  comunale  (art.

51, co. 2), sia nel caso in cui si ritenga che  la  Regione  dovrebbe

assicurare il recupero allo Stato del maggior gettito con le  proprie

risorse ordinarie, per cui il comma  17  produce  l'effetto  di  "far

tornare" nelle casse statali risorse spettanti alla Regione e ad essa

affluite in attuazione delle regole finanziarie poste dallo Statuto e

dalle norme di attuazione (co. 17, terzo periodo).

    Ancora, il comma 17, terzo e quarto periodo, viola gli artt. 63 e

65 St., proprio perche' pretende di derogare agli artt. 49 e 51 St. e

al dPR 114/1965 con una fonte primaria "ordinaria".

    L'art. 65 St.  e'  violato  anche  perche'  il  comma  17,  terzo

periodo, pretende di vincolare  unilateralmente  il  contenuto  delle

nonne di attuazione.

    Inoltre, il comma 14, lett. a) ed il comma  17,  terzo  e  quarto

periodo, violano l'autonomia finanziaria regionale (assicurata  dagli

articoli 48 e 49 Statuto, e dall'art. 119, commi 1, 2, e 4, Cost.) in

quanto producono l'effetto di infliggere un nuovo, rilevante "taglio"

di risorse al sistema regionale.

    Su questo punto si rinvia alle considerazioni svolte nel presente

atto a proposito dell'art. 28,  co.  3.  Si  puo',  pero',  gia'  qui

indicare, in sintesi, che  le  norme  in  questione  producono,  come

abbiamo visto, l'effetto di  "espropriare"  la  Regione  e  gli  enti

locali delle risorse corrispondenti  ai  6/10  dell'Irpef  fondiaria,

alle addizionali regionale e comunali e a quelle che  l'art.  1  d.1.

93/2008 (ora abrogato) attribuiva ai comuni (tramite la Regione)  per

compensare l'esenzione Ici sulla prima casa. Si tratta di  una  quota

rilevante di risorse, la cui eliminazione si aggiunge ai  tagli  gia'

operati con l'art. 14 d.l. 78/2010, l'art. 20, co. 5,  d.l.  98/2011,

l'art. 1, co. 8, d.l. 138/2011 e l'art. 1, comma 156, primo  periodo,

della legge 220/2010.

    Le risorse  "avocate"  dalle  norme  qui  impugnate  (soprattutto

quelle compensative dell'Ici  sulla  prima  casa)  erano  dirette  al

finanziamento delle "funzioni normali" dei comuni, per  cui  la  loro

sottrazione produce gravi squilibri e incide sulla finanza  regionale

(v. l'art. 54 St. e l'art. 9 d.  lgs.  9/1997).  Lo  Stato  non  puo'

revocare quote cosi' rilevanti di risorse senza alcuna compensazione.

Il principio di "neutralita' finanziaria" (riconosciuto dallo  stesso

legislatore statale all'art.  1,  co.  159,  l.  220/2010,  cui  deve

attribuirsi valore  interpretativo  dello  Statuto:  "Qualora  con  i

decreti legislativi di attuazione della legge 5 maggio 2009,  n.  42,

siano istituite sul territorio nazionale nuove forme di  imposizione,

in  sostituzione  totale  o  parziale  di  tributi  vigenti,  con  le

procedure previste dall'articolo 27 della medesima legge  n.  42  del

2009, e' rivisto l'ordinamento  finanziario  della  regione  autonoma

Friuli-Venezia  Giulia  al  fine   di   assicurare   la   neutralita'

finanziaria dei predetti decreti nei confronti dei  vari  livelli  di

governo") e' stravolto dalle norme qui  impugnate,  che  regolano  un

nuovo tributo, sostituendolo a tributi preesistenti, con il risultato

di spostare risorse dal sistema regionale allo Stato.

    E' anche violato il principio consensuale che domina  i  rapporti

finanziari tra Stato  e  Regioni  speciali  (v.  le  sentt.  82/2007,

353/2004, 39/1984, 98/2000, 133/2010; v. sempre  il  motivo  relativo

all'art. 28, co. 4), perche'  lo  Stato  ha  proceduto  a  sovvertire

l'assetto   della   finanza   regionale   e   comunale   del    tutto

unilateralmente, anzi violando le norme (come il succitato  principio

di neutralita' finanziaria) concordate con la Regione (l'art. 1,  co.

159, 1. 220/2010 recepisce l'art. 11 del Protocollo di intesa Tondo -

Tremonti').

    Infine, e' da sottolineare  che  le  norme  impugnate  colpiscono

essenzialmente le Regioni speciali, sia perche' solo esse  dispongono

delle compartecipazioni e delle addizionali  locali,  sia  perche'  i

comuni  delle  regioni  ordinarie  non  perdono  la   "compensazione"

dell'Ici sulla prima casa (che e' confluita nel fondo sperimentale di

riequilibrio). Di qui la violazione  dell'art.  3  Cost.,  con  ovvie

ripercussioni sull'autonomia finanziaria della Regione e  degli  enti

locali situati nel suo territorio.

    Una menzione separata e specifica richiede  l'illegittimita'  del

quarto periodo del comma 17 che  prevede  lo  "accantonamento"  delle

quote di compartecipazione previste dall'art. 49 Statuto.

    Va  rilevato,  infatti,  che  tale   "accantonamento"   contrasta

anch'esso frontalmente con l'art. 49 dello  Statuto  e  con  l'intero

sistema finanziario della  Regione  da  esso  istituito.  E'evidente,

infatti, che le risorse che lo Statuto prevede come entrate regionali

sono cosi' stabilite perche' esse vengano  utilizzate  dalla  Regione

per lo svolgimento delle sue funzioni costituzionali, e  non  perche'

esse vengano "accantonate". L'istituto dell'accantonamento non ha nel

sistema statutario cittadinanza alcuna.

    Inoltre, l'illegittimita' del  trasferimento  previsto  determina

anche l'illegittimita' dell'accantonamento disposto nella prospettiva

del trasferimento.

    Specifica illegittimita' colpisce poi il quinto periodo del comma

17, che stabilisce in un ammontare fisso e determinato l'importo  del

"recupero", stimandolo a priori con  criteri  del  tutto  oscuri.  Si

tratta di una norma irragionevole, che prevede un importo fisso senza

contemplare alcun meccanismo di conguaglio  o  rimborso  in  caso  di

inesattezza.   L'irragionevolezza,    naturalmente,    si    riflette

sull'autonomia finanziaria della Regione,  tenuta  ad  assicurare  il

"recupero".

    Inoltre e'  violato  il  gia'  citato  principio  consensuale  in

materia di finanza delle Regioni speciali, perche' la  norma  avrebbe

dovuto  prevedere  una  determinazione  concordata  dell'importo   in

questione.

    3) Illegittimita'  costituzionale  dell'art.  14,  comma  13-bis,

terzo e quarto periodo

    L'art. 14, comma 1, d.1. 201/2011 stabilisce che "a decorrere dal

1° gennaio 2013  e'  istituito  in  tutti  i  comuni  del  territorio

nazionale il tributo comunale sui rifiuti e sui servizi, a  copertura

dei costi relativi al servizio di gestione dei rifiuti urbani  e  dei

rifiuti assimilati avviati allo  smaltimento,  svolto  in  regime  di

privativa dai comuni, e dei costi relativi  ai  servizi  indivisibili

dei comuni". Il comma 8 dispone che "il  tributo  e'  corrisposto  in

base a tariffa" ed i  commi  successivi  regolano  la  determinazione

della tariffa (il comma 12 rinvia, a tal fine, ad un regolamento).

    Il comma 13 statuisce che "alla tariffa determinata in base  alle

disposizioni di cui ai commi da 8 a 12, si applica una  maggiorazione

pari a 0,30 euro per metro quadrato, a copertura dei  costi  relativi

ai  servizi  indivisibili  dei   comuni,   i   quali   possono,   con

deliberazione del consiglio comunale, modificare in aumento la misura

della maggiorazione fino a 0,40 euro, anche  graduandola  in  ragione

della tipologia dell'immobile e della zona ove e' ubicato".

    Tali commi riguardano il regime generale del tributo, e non  sono

oggetto di impugnazione.

    Oggetto di impugnazione e' invece - per la parte che interessa la

Regione Friuli-Venezia Giulia - il comma  13-bis,  il  quale  dispone

quanto segue:

        "a  decorrere  dall'anno  2013  il  fondo   sperimentale   di

riequilibrio, come determinato ai sensi dell'articolo 2  del  decreto

legislativo 14 marzo 2011,  n.  23,  e  il  fondo  perequativo,  come

determinato  ai  sensi  dell'articolo   13   del   medesimo   decreto

legislativo n. 23 del 2011, ed i  trasferimenti  erariali  dovuti  ai

comuni della Regione Siciliana e della Regione Sardegna sono  ridotti

in misura corrispondente al  gettito  derivante  dalla  maggiorazione

standard di cui al  comma  13  del  presente  articolo.  In  caso  di

incapienza ciascun comune versa all'entrata del bilancio dello  Stato

le somme residue. Con le procedure previste  dall'articolo  27  della

legge 5 maggio 2009, n. 42, le regioni Friuli-Venezia Giulia e  Valle

d'Aosta, nonche'  le  Province  autonome  di  Trento  e  di  Bolzano,

assicurano il recupero  al  bilancio  statale  del  predetto  maggior

gettito  dei  comuni   ricadenti   nel   proprio   territorio.   Fino

all'emanazione delle norme di attuazione di cui allo stesso  articolo

27, a valere sulle quote di compartecipazione ai tributi erariali, e'

accantonato un importo pari al maggior gettito di cui  al  precedente

periodo". Dunque, in base al terzo e quarto periodo dell'art.  13-bis

la Regione Friuli-Venezia Giulia dovrebbe versare al  bilancio  dello

Stato - a "compenso" di maggiori entrate dei  Comuni  -  risorse  dal

proprio bilancio.

    Come si vede, si tratta di disposizioni simili a  quelle  di  cui

all'art. 13, co. 17, terzo e quarto periodo, sopra censurate, con  la

differenza che, nel caso del  tributo  comunale  sui  rifiuti  e  sui

servizi, il recupero  al  bilancio  statale  della  maggiorazione  e'

previsto in modo stabile.

    Vanno richiamati, dunque, i motivi gia'  svolti  con  riferimento

all'art. 13, co. 17, terzo e quarto periodo.

    Per tali trasferimenti al bilancio dello  Stato  di  entrate  che

spettano alla Regione a termini di Statuto non vi e' alcun fondamento

statutario, ma vi  e'  invece  violazione  dello  Statuto:  il  quale

assegna determinate entrate alla Regione affinche' essa  ne  disponga

per l'esercizio  delle  proprie  funzioni,  e  non  per  versarle  al

bilancio dello Stato.

    Per il concorso ai bisogni  della  finanza  pubblica  sono  stati

previsti appositi meccanismi (concordati con l'Accordo  di  Roma  del

2010) dall'art. 1, commi 152 ss., 1. 220/2010, mentre l'art. 14,  co.

13-bis, terzo e quarto periodo, stravolge  unilateralmente  l'assetto

dei rapporti tra Stato e Regione  in  materia  finanziaria  disegnato

dallo Statuto. Il terzo e quarto periodo del  comma  13-bis,  dunque,

violano gli artt. 48 e 49 St. e l'art. 4 dPR 114/1965 (su di esso  v.

l'ultimo motivo) perche' pretendono di avocare allo Stato risorse  di

spettanza regionale, al di  fuori  dei  casi  previsti.  Infatti,  la

Regione  dovrebbe   assicurare   il   recupero   allo   Stato   della

maggiorazione standard con le proprie risorse ordinarie, per  cui  il

comma impugnato  produce  l'effetto  di  "far  tornare"  nelle  casse

statali risorse affluite alla  Regione  in  attuazione  delle  regole

finanziarie poste dallo Statuto e  dalle  norme  di  attuazione  (co.

13-bis, terzo periodo).

    Ancora, essi violano gli artt.  63  e  65  St.,  proprio  perche'

pretendono di derogare agli artt. 49 e al dPR 114/1965 con una  fonte

primaria "ordinaria".

    L'art. 65 St. e' violato anche perche'  il  comma  13-bis,  terzo

periodo, pretende di vincolare  unilateralmente  il  contenuto  delle

norme di attuazione.

    Come gia' osservato per  l'art.  13,  comma  17,  e'  poi  palese

l'illegittimita' del quarto periodo del  comma  13-bis  dell'art.  14

che, prevedendo l'accantonamento delle entrate regionali sulle  quote

di   compartecipazione   previste   dall'art.   49   St.,   contrasta

frontalmente con tale norma e con  il  sistema  finanziario  previsto

dallo Statuto, per le stesse ragioni sopra enunciate.

    4) Illegittimita' costituzionale dell'art. 16, commi da 2 a 10

    L'art. 16, co. 2, d.l. 201/2011 dispone che "dal 1°  maggio  2012

le unita' da diporto che stazionino  in  porti  marittimi  nazionali,

navighino  o  siano  ancorate  in  acque  pubbliche,  anche   se   in

concessione a privati, sono soggette al pagamento della tassa annuale

di stazionamento, calcolata per ogni giorno". Il comma 3 prevede  una

riduzione della tassa per le imbarcazioni "utilizzate  esclusivamente

dai proprietari residenti, come propri ordinari mezzi di locomozione,

nei comuni ubicati nelle isole minori e nella Laguna di Venezia".  In

base al comma 4, "la tassa non si applica.  alle  unita'  di  cui  al

comma 2 che si trovino in un'area di rimessaggio e per  i  giorni  di

effettiva permanenza in rimessaggio". Il comma 7 individua i soggetti

tenuti al pagamento della tassa e precisa che "il gettito della tassa

di cui al comma 2 affluisce all'entrata del bilancio dello Stato".

    In primo luogo, e'  opportuno  soffermarsi  sulla  qualificazione

giuridica del tributo. Diversi elementi  inducono  a  riconoscere  ad

esso la natura di  tassa  a  fronte  dell'utilizzazione  di  un  bene

pubblico.

    In primo luogo, lo stesso legislatore  usa  la  denominazione  di

"tassa", che,  storicamente,  e'  il  tributo  che  si  paga  per  la

fruizione di un servizio o di un bene pubblico. La  denominazione  di

"tassa di stazionamento" e', dunque, coerente, perche' evidenzia  che

l'oggetto del tributo e' l'occupazione di uno spazio  o  comunque  il

transito sul bene pubblico acqua.

    Inoltre, e' significativo il fatto che oggetto  della  tassazione

siano le unita' da diporto anche straniere e non iscritte in pubblici

registri italiani, contrariamente a quanto previsto,  implicitamente,

per gli autoveicoli di cui  al  comma 1  ed  esplicitamente  per  gli

aeromobili nei commi 11 e seguenti.

    Ancora, la circostanza che la tassa non sia dovuta per il periodo

di  rimessaggio  ricollega  direttamente   l'imposizione   tributaria

all'utilizzo del bene pubblico acqua e non  alla  presenza  del  bene

"unita' da diporto" nel patrimonio del soggetto.

    Premesso cio', e' necessario ricordare le  prerogative  regionali

in relazione alle  acque  pubbliche.  In  base  all'art.  1  d.  lgs.

265/2001, "sono  trasferiti  alla  regione  Friuli-Venezia  Giulia...

tutti i beni dello Stato appartenenti al demanio idrico, comprese  le

acque pubbliche, gli alvei e  le  pertinenze,  i  laghi  e  le  opere

idrauliche, situati nel  territorio  regionale,  con  esclusione  del

fiume Judrio, nel tratto, classificato di  prima  categoria,  nonche'

dei fiumi Tagliamento e Livenza, nei tratti che fanno da confine  con

la regione Veneto" (co. 1). Il comma 2 aggiunge che "sono  trasferiti

alla regione tutti  i  beni  dello  Stato  e  relative  pertinenze...

situati nella laguna di Marano-Grado". La regione "esercita tutte  le

attribuzioni inerenti alla titolarita' dei beni trasferiti  ai  sensi

dei commi 1 e 2" (co. 3). L'art. 5, co. 5, dispone che "i proventi  e

le spese derivanti dalla gestione dei beni trasferiti  spettano  alla

regione a decorrere dalla data di consegna".

    L'art. 9, co. 2 d. lgs. 111/2004, poi, trasferisce  alla  Regione

"tutte  le  funzioni  amministrative,  salvo   quelle   espressamente

mantenute allo Stato dall'articolo 11, in  materia  di..  navigazione

interna  e  porti  regionali,  comprese  le  funzioni  relative  alle

concessioni dei beni  del  demanio  della  navigazione  interna,  del

demanio marittimo,  di  zone  del  mare  territoriale  per  finalita'

diverse da quelle  di  approvvigionamento  energetico".  Il  comma  5

aggiunge che "i proventi e le  spese  derivanti  dalla  gestione  del

demanio  marittimo  e  della  navigazione  interna.   spettano   alla

Regione".

    L'art. 11, co. 1, conferma che allo  Stato  restano  soltanto  le

funzioni  relative  "oo)  all'utilizzazione  del   pubblico   demanio

marittimo e delle zone del mare territoriale  di  competenza  statale

per finalita' di approvvigionamento energetico".

    La Regione, dunque, e' titolare dei beni del demanio idrico e  di

quelli relativi  alla  laguna  di  Marano-Grado  ed  e'  titolare  in

sostanza di tutte le funzioni amministrative relative ai porti e agli

altri beni del demanio marittimo.

    Poste tali premesse, l'art. 16 appare  dunque  illegittimo  -  in

primo luogo - nella parte in cui non esclude tutti i beni del demanio

idrico e la laguna di Marano-Grado dall'applicazione della  tassa  di

stazionamento, per violazione degli artt. 48 e  51,  co. 1  St.  (che

garantiscono l'autonomia finanziaria e patrimoniale  della  Regione)e

dell'art. 1   d.   lgs.   265/2001   (sopra   illustrato),    perche'

l'istituzione, da parte dello Stato, di  una  tassa  statale  per  la

fruizione  di  un  bene  del  demanio  regionale  viola   l'autonomia

finanziaria e patrimoniale della Regione.

    Ove l'istituzione della tassa apparisse legittima,  non  potrebbe

non apparire illegittima la destinazione al bilancio dello Stato.  In

effetti, l'art. 5, comma 5, del d. lgs. n. 265 del 2001 riserva  alla

Regione "i proventi e le spese  derivanti  dalla  gestione  dei  beni

trasferiti spettano": e tra essi non possono  non  includersi  quelli

derivanti dalle imposizioni relative specificamente alla fruizione di

essi.

    Inoltre, l'art. 16 e' illegittimo perche' prevede una  tassa  che

colpisce la fruizione di beni del demanio marittimo (cioe' di beni la

cui gestione amministrativa  spetta  alla  Regione,  con  i  relativi

proventi: art. 9, co. 5, d. lgs. 111/2004) senza prevedere  un  ruolo

della Regione nella regolamentazione della tassa. Se  il  presupposto

del tributo dev'essere riconosciuto, come si e' visto,  nell'uso  del

bene pubblico, nella disciplina di  esso  dovrebbe  essere  coinvolto

l'ente che, in virtu' delle norme di  attuazione,  ha  la  competenza

legislativa ed amministrativa sulla gestione del bene stesso.

    Infine, l'art. 16, co. 3, appare illegittimo perche' prevede  una

riduzione della tassa per le imbarcazioni "utilizzate  esclusivamente

dai proprietari residenti, come propri ordinari mezzi di locomozione,

nei comuni ubicati nelle isole minori e  nella  Laguna  di  Venezia",

senza estendere eguale regime  ai  comuni  ubicati  nella  laguna  di

Marano-Grado. La norma distingue irragionevolmente fra situazioni del

tutto assimilabili, e  la  violazione  dell'art.  3  si  riflette  in

lesione dell'autonomia finanziaria regionale, trattandosi di beni del

demanio regionale. Inoltre, la Regione e'  anche  legittimata  a  far

valere  la  violazione  del  principio  di  eguaglianza  quale   ente

esponenziale (art. 5 Cost.) della  comunita'  stanziata  sul  proprio

territorio (per un precedente v. sent. 276/1991).

    5) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23, comma 4.

    L'art. 23, co. 4, aggiunge il comma 3-bis  all'art.  33  d.  lgs.

163/2006, stabilendo che "i Comuni con popolazione  non  superiore  a

5.000  abitanti  ricadenti  nel  territorio  di  ciascuna   Provincia

affidano  obbligatoriamente  ad  un'unica  centrale  di   committenza

l'acquisizione di  lavori,  servizi  e  forniture  nell'ambito  delle

unioni dei comuni, di cui all'articolo 32 del testo unico di  cui  al

decreto legislativo 18 agosto 2000, n.  267,  ove  esistenti,  ovvero

costituendo un apposito accordo consortile tra i  comuni  medesimi  e

avvalendosi dei competenti uffici".

    Tale disposizione dovrebbe  essere  intesa  in  collegamento  con

l'art. 4, co. 5, d. lgs. 163/2006 ("Le regioni a statuto  speciale  e

le  province  autonome  di  Trento  e  Bolzano  adeguano  la  propria

legislazione secondo le disposizioni contenute negli statuti e  nelle

relative norme  di  attuazione")  e,  dunque,  in  senso  conforme  a

costituzione, cioe' nel senso che non si applica a questa Regione.

    Essa, pero', potrebbe essere  anche  interpretata  nel  senso  di

volersi applicare in tutto il territorio nazionale e,  in  tal  caso,

sarebbe lesiva delle prerogative costituzionali della Regione.

    La  norma,  infatti,  rientra   prevalentemente   nella   materia

"organizzazione amministrativa degli  enti  locali"  e,  poi,  incide

anche  sulla  materia  "finanza  locale",  avendo   come   scopo   la

razionalizzazione della spesa degli enti locali. Nella prima  materia

la Regione Friuli-Venezia Giulia e' dotata  di  potesta'  legislativa

primaria ai sensi dell'art. 4, n. 1-bis, dello Statuto. Con la  legge

regionale 9 gennaio 2006, n. 1, sono  stati  dettati  i  "Principi  e

norme fondamentali del sistema Regione -  autonomie  locali"  e,  tra

l'altro, sono stati disciplinati l'esercizio coordinato di funzioni e

la gestione associata di servizi tra  enti  locali,  individuando  le

forme collaborative tra gli enti locali della regione.

    Anche nella seconda materia  la  Regione  e'  titolare  di  ampia

competenza statutaria in base agli artt. 51  e  54  dello  Statuto  e

all'art. 9 d. lgs. 9/1997.  In  particolare,  il  comma 1  di  questa

disposizione statuisce  che  "spetta  alla  regione  disciplinare  la

finanza    locale,    l'ordinamento    finanziario    e    contabile,

l'amministrazione del patrimonio e i contratti degli enti locali".

    La norma censurata, per il suo carattere  dettagliato,  non  puo'

rappresentare un limite alle competenze regionali  appena  illustrate

e,  percio',  essa  sarebbe  illegittima   qualora   pretendesse   di

applicarsi ai  comuni  della  regione  Friuli-Venezia  Giulia.  Essa,

infatti,  non  si  limita  a  prescrivere  ai  comuni  piccoli  forme

organizzative idonee a determinare un risparmio nella conclusione dei

contratti pubblici, ma prevede direttamente la soglia di  popolazione

e le forme associative per l'individuazione della centrale  unica  di

committenza.

    Inoltre, e' da osservare che, in base all'art. 9, co. 2, d.  1gs.

9/1997 (attuativo dell'art. 54 St), "la  regione  finanzia  gli  enti

locali con oneri a carico del proprio bilancio". L'art. 1,  co.  154,

1.  220/2010  ha  statuito  quanto  segue:   "la   regione   autonoma

Friuli-Venezia Giulia, gli enti locali del territorio, i suoi enti  e

organismi strumentali, le  aziende  sanitarie  e  gli  altri  enti  e

organismi il cui funzionamento e' finanziato dalla  regione  medesima

in via ordinaria e prevalente costituiscono  nel  loro  complesso  il

«sistema regionale integrato». Gli obiettivi  sui  saldi  di  finanza

pubblica complessivamente concordati tra lo Stato e la  regione  sono

realizzati attraverso il  sistema  regionale  integrato.  La  regione

risponde  nei  confronti  dello  Stato  del  mancato  rispetto  degli

obiettivi di cui al periodo precedente". Il comma 155 ha poi aggiunto

che "spetta alla  regione  individuare,  con  riferimento  agli  enti

locali costituenti il sistema regionale integrato, gli obiettivi  per

ciascun ente  e  le  modalita'  necessarie  al  raggiungimento  degli

obiettivi complessivi di volta in volta concordati con lo  Stato  per

il periodo di' riferimento, compreso il sistema sanzionatorio", e che

"le disposizioni statali relative al patto di stabilita' interno  non

trovano applicazione con riferimento agli enti locali costituenti  il

sistema regionale integrato".

    Da tali norme risulta che lo Stato deve  limitarsi  a  concordare

con la Regione i'  vincoli  finanziari,  lasciando  alla  Regione  il

compito di regolare i rispettivi obblighi finanziari propri  e  degli

enti locali del proprio territorio.

    E' illegittimo, in altre parole, che lo Stato vada direttamente a

limitare  una  voce  di  spesa  degli   enti   locali,   laddove   il

finanziamento di questi e' a carico del bilancio  regionale  (v.,  ad

es., la sent. 341/09, punto 6: lo Stato non ha "ha titolo per dettare

norme di coordinamento finanziario che definiscano  le  modalita'  di

contenimento di una spesa  sanitaria  che  e'  interamente  sostenuta

dalla Provincia autonoma di Trento")

    6) Illegittimita' costituzionale dell'art.  23,  commi  da  14  a

20-bis. Violazione degli articoli 5, 114, 117 commi primo, secondo  e

sesto, 118, commi primo e secondo, e 119 cost. nonche'  dell'art.  4,

lett. 1 bis, dell'art. 11 e dell'art.  59  dello  Statuto  regionale.

Violazione dell'art. 54 St. e del d. lgs. 9/1997.

    L'art.  23,  nei  commi  da  14  a  20,  contiene  una  serie  di

disposizioni che alterano radicalmente l'organizzazione e le funzioni

delle Province. Dichiaratamente, esse fanno  parte  di  un  programma

che, al punto di  arrivo,  prevede  la  soppressione  delle  Province

mediante legge costituzionale.

    In particolare e' disposto che:

        "Spettano  alla  provincia  esclusivamente  le  funzioni   di

indirizzo e di coordinamento delle attivita' dei comuni nelle materie

e nei limiti indicati con  legge  statale  o  regionale,  secondo  le

rispettive competenze" (comma 14);

        "Sono  organi  di  governo  della  Provincia   il   Consiglio

provinciale ed il Presidente della Provincia. Tali organi  durano  in

carica cinque anni" (comma 15);

         "Il consiglio provinciale e' composto da non piu'  di  dieci

componenti eletti dagli organi  elettivi  dei  comuni  ricadenti  nel

territorio della Provincia. Le modalita' di elezione  sono  stabilite

con legge dello Stato entro il 30 aprile 2012" (comma 16);

         "Il Presidente  della  Provincia  e'  eletto  dal  Consiglio

provinciale tra i suoi  componenti  secondo  le  modalita'  stabilite

dalla legge statale di cui al comma 16" (comma 17);

        "Fatte salve le funzioni di cui al comma 14, lo  Stato  e  le

Regioni,  con  propria  legge,  secondo  le  rispettive   competenze,

provvedono a trasferire ai Comuni, entro  il  31  dicembre  2012,  le

funzioni conferite dalla normativa vigente alle Province, salvo  che,

per assicurarne l'esercizio unitario, le stesse siano acquisite dalle

Regioni, sulla base dei principi di sussidiarieta',  differenziazione

ed adeguatezza. In caso di mancato trasferimento  delle  funzioni  da

parte delle Regioni entro il 31 dicembre 2012,  si  provvede  in  via

sostitutiva, ai sensi dell'articolo 8 della legge 5 giugno  2003,  n.

131, con legge dello Stato" (comma 18).

        "Lo Stato e le Regioni,  secondo  le  rispettive  competenze,

provvedono altresi' al trasferimento delle risorse umane, finanziarie

e strumentali per l'esercizio delle funzioni trasferite,  assicurando

nell'ambito  delle  medesime  risorse  il  necessario   supporto   di

segreteria per l'operativita' degli organi  della  provincia"  (comma

19);

         "Agli organi provinciali che devono essere  rinnovati  entro

il 31 dicembre 2012 si applica, sino al 31 marzo 2013, l'articolo 141

del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli  enti  locali,  di

cui al decreto legislativo 18  agosto  2000,  n.  267,  e  successive

modificazioni. Gli organi provinciali  che  devono  essere  rinnovati

successivamente al 31 dicembre  2012  restano  in  carica  fino  alla

scadenza naturale. Decorsi i termini di cui al  primo  e  al  secondo

periodo del presente comma, si procede all'elezione dei nuovi  organi

provinciali di cui ai commi 16 e 17" (comma 20).

    Le  disposizioni  ora  citate   dispongono   direttamente   delle

Province,  per  gli  aspetti  indicati,  nelle  Regioni   a   statuto

ordinario. Le Regioni speciali  -  pur  titolari  tutte  di  potesta'

legislativa primaria in materia di enti locali - non sono lasciate al

di fuori di questo processo. Infatti, il comma 20  bis  dell'art.  23

precisa  che  "le  regioni  a  statuto  speciale  adeguano  i  propri

ordinamenti alle disposizioni di cui ai commi da 14 a  20  entro  sei

mesi dalla data di entrata in vigore del presente  decreto"  (dispone

inoltre - senza che qui la cosa  rilevi  -  che  le  disposizioni  in

questione "non trovano  applicazione  per  le  province  autonome  di

Trento e di Bolzano").

    Se e quando il destino delle Province verra' deciso  mediante  lo

strumento appropriato della legge  di  revisione  costituzionale,  la

Regione Friuli-Venezia Giulia - che si riserva di prendere  parte  al

relativo dibattito con i propri strumenti ordinamentali - non  potra'

che prendere atto di tali decisioni.

    Essa ritiene tuttavia che  -  sino  a  che  tali  scelte  vengano

compiute - le disposizioni dettate in proposito dai commi da 14 a  20

siano sotto molti profili costituzionalmente illegittime, sia per  il

fatto di essere contenute in un decreto-legge sia nei loro  specifici

contenuti, per violazione delle disposizioni  costituzionali  di  cui

agli artt. 5, 114, 117 e 118 Cost., e che la disposizione di  cui  al

comma 20 bis sia costituzionalmente illegittima, sia in quanto impone

alla Regione un dovere di adeguamento a tali  contenuti  illegittimi,

sia - se pure tali contenuti fossero in se'  legittimi  -  in  quanto

impone un dovere di adeguamento al di la' di quanto doveroso ai sensi

dell'art. 4, n. 1 bis, dello Statuto.

    Di seguito verranno illustrate tali illegittimita', sotto tutti i

profili. La Regione ricorre per se', in quanto la legge  dello  Stato

impedisce il legittimo esercizio delle  sue  competenze,  ma  ricorre

anche  in  quanto  portatrice   degli   interessi   delle   comunita'

provinciali del proprio territorio.

    a. In via preliminare: illegittimita' costituzionale di tutte  le

disposizioni impugnate per violazione dell'art. 77 Cost.

    I commi da 14 a 20 sono inseriti in un decreto-legge  ma,  com'e'

evidente, non sono affatto sorretti dai presupposti costituzionali di

cui all'art. 77 cost. ("casi straordinari di necessita' e  urgenza"),

in quanto si tratta di norme  che  operano  una  riforma  strutturale

delle funzioni e degli organi delle Province, e che sono destinate  a

produrre i propri effetti finanziari solo in un futuro non  prossimo.

Lo Stato, dunque, avrebbe potuto e dovuto  adottare  tali  norme  con

l'ordinario procedimento legislativo. Per stessa ammissione contenuta

nella  relazione  tecnica  al  decreto  (doc.  2),  trattasi  di   un

"intervento  di  carattere  strutturale  con   riguardo   all'assetto

istituzionale delle Province", che, per  sua  natura,  non  ha  alcun

carattere di urgenza, tanto che rinvia alla  successiva  legislazione

ordinaria l'assetto delle funzioni e la disciplina degli  organi.  Si

consideri, poi, che le nuove disposizioni introdotte si applicheranno

ai rinnovi elettorali successivi alla data del 31 dicembre 2012.

    Inoltre, dalle norme impugnate non conseguono immediati  risparmi

di spesa. Sempre dalla relazione tecnica risulta che "il risparmio di

spesa associabile al complesso normativa in esame  -  65  milioni  di

euro lordi - e' destinato a prodursi  dal  2013  e  peraltro  in  via

prudenziale non viene  considerato  in  quanto  verra'  registrato  a

consuntivo".

    La Regione e' legittimata a denunciare la violazione dell'art. 77

cost. perche' essa si ripercuote  su  una  sua  sfera  di  competenza

(ordinamento  degli  enti  locali),  nel  senso   che   la   potesta'

legislativa regionale viene vincolata in modo illegittimo e,  per  di

piu', la procedura accelerata di approvazione delle nonne ha impedito

alla Regione di far valere il proprio punto di  vista  (si  veda,  di

recente, la sent. 22/2012).

    b. Illegittimita' costituzionale dei commi 14, 18 e 19.

    Secondo il comma 14 - come esposto  -  "spettano  alla  provincia

esclusivamente le funzioni di  indirizzo  e  di  coordinamento  delle

attivita' dei comuni nelle materie e nei limiti  indicati  con  legge

statale o regionale, secondo le rispettive competenze" (comma 14).

    Tale disposizione, nella parte in cui limita  le  funzioni  della

Provincia a quelle di "indirizzo e di coordinamento  delle  attivita'

dei  comuni",  viola,  ad  avviso  della   Regione,   la   disciplina

costituzionale in materia di funzioni degli enti  locali,  in  quanto

enti costitutivi della Repubblica (oltre al fondamentale principio di

cui all'art. 5: "la Repubblica... riconosce e promuove  le  autonomie

locali"). Da tale  disciplina,  infatti,  risulta  con  evidenza  che

ognuno di tali enti  compositivi  ha  funzioni  proprie  di  autonomo

soddisfacimento   degli   interessi    pubblici    della    comunita'

rappresentata, e non puo' essere ridotto ad  una  mera  struttura  di

coordinamento di funzioni altrui.

    Cio' risulta in particolare:

        dall'articolo 114, comma secondo cui "i Comuni, le  Province,

le Citta' metropolitane e le Regioni sono enti  autonomi  con  propri

statuti, poteri e funzioni";

        dall'art. 117, comma secondo, lett. p), dalla  quale  risulta

da un lato che alle Province (come agli altri enti) spetta di  vedere

definite dalla legge statale le  funzioni  fondamentali,  che  sembra

chiaro non possano essere ridotte alla mera funzione di  indirizzo  e

coordinamento di funzioni altrui;

        dall'art. 117, comma sesto, secondo cui  le  Province  "hanno

potesta' regolamentare in ordine alla disciplina  dell'organizzazione

e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite (mentre nel  nuovo

sistema   mancherebbe   il   possibile   oggetto    della    potesta'

regolamentare);

        dall'art. 118, comma 1, che prevede che alle Province vengano

attribuite "per assicurarne l'esercizio unitario" le funzioni che non

possano essere svolte dai Comuni,  e  d'altronde  non  richiedano  di

essere svolte dalla Regione o dallo Stato  in  base  ai  principi  di

sussidiarieta'   e   di   adeguatezza   (con   conseguente   evidente

illegittimita' di una disciplina di  legge  ordinaria  che  a  priori

limiti le funzioni della Provincia a quelle di coordinamento);

        dall'art. 118, comma  secondo  il  quale  le  Province  "sono

titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con

legge statale o regionale, secondo le  rispettive  competenze":  dove

l'aggettivo proprie  esclude  che  si  tratti  di  mere  funzioni  di

coordinamento, e  la  previsione  di  funzioni  conferite  con  legge

regionale vale  evidentemente  ad  escludere  che  la  legge  statale

ordinaria possa impedire alle Regioni di fare quanto prescritto dalla

Costituzione;

        dell'art. 119 cost.  le  cui  varie  disposizioni  suppongono

anch'esse un ente dotato, al pari degli altri enti compositivi  della

Repubblica, di funzioni proprie da finanziare in termini adeguati.

    In definitiva, la  eliminazione  di  qualunque  funzione  propria

della Provincia, e la sua riduzione ad un ente di presunto  indirizzo

e  di  coordinamento  dei  comuni,   contraddice   sia   le   singole

disposizioni costituzionali citate, sia il disegno complessivo che da

esse emerge.

    L'illegittimita' del comma 14 si riverbera  sulla  corrispondente

illegittimita' dei commi  18  e  19,  che  contengono  in  definitiva

disposizioni attuative del comma 14. Il comma 18 riguarda le funzioni

attualmente conferite alle Province dalla normativa vigente, che  con

legge regionale dovrebbero essere riportate ai  Comuni,  oppure  alla

stessa Regione, entro il 31 dicembre 2012.

    In questo modo la legge statale chiama la legge regionale a  fare

esattamente il contrario di quanto la Regione dovrebbe fare  in  base

alla Costituzione: anziche' attribuire alle Province le  funzioni  in

base ai principi di sussidiarieta' ed adeguatezza, togliere  ad  esse

le funzioni che in base a tali principi esse svolgono, per assegnarle

a livelli che si suppongono meno adatti.

    Essendo  illegittimo  il  dovere  cosi  imposto   alle   Regioni,

altrettanto illegittimo e' anche il potere sostitutivo  previsto  dal

secondo periodo del comma 18 per il "caso  di  mancato  trasferimento

delle funzioni da parte delle Regioni" entro il termine.

    La stessa illegittimita' colpisce poi il comma 19,  che  completa

il disegno di sottrazione delle funzioni  sul  piano  delle  "risorse

umane, finanziarie e strumentali". che ovviamente dovrebbero  seguire

il trasferimento delle funzioni.

    c. Illegittimita' costituzionale dei commi 15, 16 e 17.

    I commi 15, 16 e 17 modificano gli  organi  delle  Province,  per

renderli coerenti con le funzioni  che  il  comma  14  le  chiama  ad

esercitare.

    In quanto questo ne e' lo scopo, ed in quanto essi completano sul

piano organizzativo il disegno perseguito sul piano  delle  funzioni,

l'illegittimita' della sottrazione delle funzioni colpisce  anche  il

disegno organizzativo che ne e' la conseguenza.

    Ma gli stessi commi presentano anche autonome illegittimita', per

violazione diretta delle norme costituzionali.

    La prima  illegittimita'  consiste  ad  avviso  della  ricorrente

Regione nella  recisione  da  parte  del  comma  15  del  legame  tra

cittadini e istituzione provinciale, che si  realizza  attraverso  la

soppressione della elezione popolare sia  del  Presidente  che  dello

stesso Consiglio provinciale.

    Non sembra dubbio, infatti, che  nel  disegno  costituzionale  la

Provincia debba essere  direttamente  rappresentativa  della  propria

comunita' popolare di riferimento, e non soltanto  delle  istituzioni

comunali del suo territorio.

    "Costituire" la Repubblica, ai sensi del  primo  comma  dell'art.

114 Cost., significa che ciascuno di tali enti ne e'  una  "autonoma"

espressione, in base  alle  regole  generali  della  autonomia.  Cio'

risulta confermato dal comma secondo, secondo il quale esse sono enti

autonomi con propri statuti, poteri e  funzioni  secondo  i  principi

costituzionali). Esse  sono  parte  della  Repubblica,  e  godono  di

autonomia, proprio in quanto condividono la  natura  di  entita'  che

rappresentano il popolo, per la relativa porzione di territorio.

    Del resto, gia' la versione originaria del Titolo V  della  Parte

seconda della Costituzione aveva confermato la  Provincia  nella  sua

configurazione storica di  ente  locale  rappresentativo  del  popolo

insediato nel suo territorio.

    Come si vedra', quanto qui considerato e' pienamente  confermato,

sul piano internazionale, dalla Carta europea delle autonomie locali,

che risulta anch'essa violata.

    Una volta ritenuta l'illegittimita' della  derivazione  indiretta

del Consiglio provinciale, risulta illegittimo,  per  violazione  del

principio di ragionevolezza, sia l'individuazione in dieci del numero

massimo dei consiglieri - numero che rende impossibile  una  adeguata

rappresentanza  del  territorio  provinciale   -   sia   la   mancata

individuazione,  tra  gli  organi  della  Provincia,   della   Giunta

provinciale, dato che la  soppressione  puo'  avere  senso  solo  nel

quadro di un ente privo di funzioni.

    d. Illegittimita' dei commi 14, 16  e  17  per  violazione  della

Carta europea delle autonomie locali.

    Come e' ben noto, l'art. 117,  primo  comma,  della  Costituzione

sancisce che "la potesta' legislativa e'  esercitata  dallo  Stato  e

dalle Regioni nel rispetto della Costituzione,  nonche'  dei  vincoli

derivanti   dall'ordinamento    comunitario    e    dagli    obblighi

internazionali".

    Tra gli atti che determinano obblighi  internazionali  vi  e'  la

Carta europea delle autonomie locali, resa esecutiva con 1.  439  del

1989.

    Posto che non puo' essere messo in dubbio che la  Provincia,  per

come e' disegnata dalla Costituzione, costituisca "autonomia  locale"

ai sensi della Carta europea, occorre qui ricordare che l'art.  3  di

essa sancisce, sul piano  dell'azione,  che  "per  autonomia  locale,

s'intende il diritto e le capacita' effettiva, per  le  collettivita'

locali, di regolamentare ed  amministrare  nell'ambito  della  legge,

sotto la loro responsabilita', e  a  favore  delle  popolazioni,  una

parte importante di affari pubblici".

    Ne risulta che  il  comma  14,  assegnando  alle  Provincia  solo

funzioni di coordinamento dei Comuni, e nessuna funzione autonoma  di

amministrazione, viola l'art. 3, comma 1, della Carta.

    Inoltre, il comma 2 dell'art. 3 stabilisce che "tale  diritto  e'

esercitato da Consigli e Assemblee  costituiti  da  membri  eletti  a

suffragio libero, segreto, paritario, diretto e universale, in  grado

di disporre di organi esecutivi responsabili nei loro confronti".  Ne

risulta che  il  comma  16,  che  stabilisce  che  i  componenti  del

Consiglio provinciale sono eletti dai Comuni, anziche'  "a  suffragio

libero, segreto, paritario, diretto e universale",  viola  l'art.  3,

comma 2, della Carta.

    e. Violazione dell'art. 4, dell'art. 1l, dell'art. 54 e dell'art.

59 dello Statuto regionale; violazione dell'art. 2 d. lgs. 9/1997.

    Il comma 20-bis dell'art. 23 riguarda - per quanto qui  interessa

- la posizione delle Regioni a statuto speciale nei  confronti  delle

disposizioni dei commi da 14 a 20, e dispone  che  esse  "adeguano  i

propri ordinamenti alle disposizioni di cui ai commi da 14 a 20 entro

sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto".

    Se,   come   sopra   argomentato,    tali    disposizioni    sono

costituzionalmente illegittime, e' ovviamente  illegittimo  anche  il

dovere di adeguamento cosi' posto.

    Ma il comma 20-bis appare illegittimo anche al di la'  di  questa

constatazione. Infatti, avendo la Regione Friuli-Venezia Giulia (come

del resto le altre Regioni speciali) potesta'  legislativa  primaria,

la sua legislazione e' soggetta soltanto ai limiti fissati  dall'art.

4 dello Statuto, escluso ogni  dovere  di  generico  "adeguamento"  a

specifiche disposizioni di legge ordinaria.

    Risulta  poi  specificamente  violato  l'art. 11   dello   stesso

Statuto, secondo il quale "la Regione  esercita  normalmente  le  sue

funzioni amministrative delegandole alle Province ed  ai  Comuni,  ai

loro consorzi ed agli altri  enti  locali,  o  avvalendosi  dei  loro

uffici".  E'evidente,  infatti,  che  tale  disposizione  implica  la

facolta' (e il dovere) della Regione di delegare  "normalmente"  alle

Province parte delle proprie  funzioni  amministrative,  e  che  tale

facolta' di delega non puo' in alcun modo essere riferita  alla  sola

funzione di indirizzo e coordinamento dei comuni.

    Ugualmente risulta violato l'art. 59 dello  Statuto,  secondo  il

quale le Province (al pari  dei  Comuni)  della  Regione  "sono  Enti

autonomi ed hanno ordinamenti e funzioni stabilite dalle leggi  dello

Stato e della Regione". Esso e' stato attuato con l'art.  2  d.  lgs.

9/1997, in base al quale "la regione, nel rispetto degli articoli 5 e

128 della Costituzione, nonche'  dell'articolo  4  dello  statuto  di

autonomia, fissa i principi dell'ordinamento locale e ne determina le

funzioni, per favorire la piena  realizzazione  dell'autonomia  degli

enti  locali".  Tali  disposizioni,  che  riprendono  in   parte   le

definizioni costituzionali (con le loro  implicazioni,  che  si  sono

sopra esposte), comportano il potere della  Regione  di  definire  le

funzioni delle Province, al di fuori di ogni possibile limitazione al

solo ruolo di indirizzo e coordinamento dei Comuni.

    E'violato poi anche l'art. 54 St. ("Allo  scopo  di  adeguare  le

finanze delle Province e dei Comuni al raggiungimento delle finalita'

ed all'esercizio delle funzioni stabilite dalle leggi,  il  Consiglio

regionale puo' assegnare ad essi annualmente una quota delle  entrate

della Regione"), dal quale risulta che alle Province devono  spettare

anche funzioni gestionali e non solo di coordinamento.

    f. Violazione dell'art. 54 St. e dell'art. 9 d. lgs. 9/1997

    Le norme in questione (in particolare, i commi 14, 15 e 16) sono,

infine, illegittime per ragioni analoghe a quelle esposte  alla  fine

del punto precedente, cioe' per violazione delle norme  statutarie  e

di attuazione che attribuiscono alla Regione il compito di finanziare

gli enti locali, cosi' come integrate dall'art. 1, co. 154 e 155,  1.

220/2010. In sintesi (e rinviando  al  punto  5,  ultima  parte),  e'

illegittimo che lo Stato vada direttamente a limitare la spesa  degli

enti locali, laddove il finanziamento  di  questi  e'  a  carico  del

bilancio regionale.

    7) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23, comma 22

    L'art. 23, co. 22,  dispone  che  "la  titolarita'  di  qualsiasi

carica, ufficio o organo di natura elettiva di un  ente  territoriale

non previsto dalla Costituzione e' a titolo esclusivamente  onorifico

e non puo' essere fonte di alcuna forma di remunerazione,  indennita'

o gettone di presenza, con esclusione dei comuni di cui  all'articolo

2, comma 186, lettera b), della legge 23 dicembre  2009,  n.  191,  e

successive  modificazioni".   In   sede   di   conversione,   dunque,

l'applicazione della norma e' stata esclusa  per  i  "comuni  di  cui

all'articolo 2, comma 186, lettera b) della legge 23  dicembre  2009,

n. 191, e successive modificazioni". Si tratta  delle  circoscrizioni

nei Comuni di dimensione superiore ai 250.000 abitanti.

    Per l'assenza di  una  clausola  di  salvaguardia,  il  comma  22

potrebbe essere inteso nel senso di  volersi  applicare  anche  nelle

regioni speciali. In tal caso, esso sarebbe lesivo  delle  competenze

costituzionali della Regione in materia  di  ordinamento  degli  enti

locali e di finanza  locale,  per  ragioni  analoghe  a  quelle  gia'

esposte con riferimento all'art. 23, co. 4.

    La  norma,  infatti,  rientra   prevalentemente   nella   materia

"ordinamento degli enti locali" e, poi, incide  anche  sulla  materia

"finanza locale", avendo come scopo la razionalizzazione della  spesa

degli enti locali. Nella  prima  materia  la  Regione  Friuli-Venezia

Giulia e' dotata di potesta' legislativa primaria ai sensi  dell'art.

4, n. 1-bis, dello Statuto. Le norme  di  attuazione  adottate  nella

stessa  materia  hanno  poi  precisato  che  "spetta   alla   regione

disciplinare lo status degli amministratori locali" (art. 14 d.  lgs.

9/1997).

    Con l'art. 3, co. 13, 1.r. 13/2002 la Regione ha disposto che "la

misura  delle  indennita'   e   dei   gettoni   di   presenza   degli

amministratori degli Enti locali  e'  determinata  con  deliberazione

della Giunta regionale, su proposta dell'Assessore per  le  autonomie

locali, d'intesa con il Consiglio delle autonomie locali". L'art. 12,

co. 2,1.r. 22/2010 ha  poi  stabilito  (a  fini  di  chiarezza,  dopo

l'emanazione del d.l. 78/2010) che "la misura delle indennita' e  dei

gettoni di presenza previsti a favore degli amministratori degli enti

locali continua ad essere disciplinata secondo  quanto  previsto  dal

comma 13 dell'articolo 3 della legge regionale  15  maggio  2002,  n.

13". Tale disposizione non e' stata impugnata dal Governo.

    Anche nella materia della finanza locale la Regione  e'  titolare

di ampia competenza statutaria in base  agli  artt.  51  e  54  dello

Statuto e all'art. 9 d. lgs. 9/1997. In particolare,  il  comma 1  di

questa disposizione statuisce che "spetta alla  regione  disciplinare

la   finanza   locale,   l'ordinamento   finanziario   e   contabile,

l'amministrazione del patrimonio e i contratti degli enti locali".

    La norma censurata, per il suo carattere  dettagliato,  non  puo'

rappresentare un limite alle competenze regionali  appena  illustrate

e,  percio',  essa  sarebbe  illegittima   qualora   pretendesse   di

applicarsi nella regione Friuli-Venezia Giulia.  Essa,  infatti,  non

solo non  e'  idonea  a  concretare  uno  dei  limiti  alla  potesta'

legislativa primaria ma pone un limite  puntuale,  autoapplicativo  e

stabile ad una voce minuta di spesa e, percio', non possiede  nessuno

dei caratteri che, in base alla giurisprudenza  costituzionale,  sono

requisiti necessari dei "principi fondamentali di coordinamento della

finanza pubblica". L'art. 23, co. 22, dunque,  non  pone  un  vincolo

legittimo  neppure  in  relazione   alle   Regioni   ordinarie   (con

conseguente violazione dell'art. 117, co. 3, Cost.) e tanto meno puo'

condizionare  la  potesta'  primaria  della  Regione  in  materia  di

ordinamento degli enti  locali  e  l'ampia  potesta'  in  materia  di

finanza locale.

    Inoltre, e' da osservare che, in base all'art. 9, co. 2, d.  lgs.

9/1997 (attuativo dell'art. 54 St), "la  regione  finanzia  gli  enti

locali con oneri a carico del proprio bilancio". L'art. 1,  co.  154,

1.  220/2010  ha  statuito  quanto  segue:   "la   regione   autonoma

Friuli-Venezia Giulia, gli enti locali del territorio, i suoi enti  e

organismi strumentali, le  aziende  sanitarie  e  gli  altri  enti  e

organismi il cui funzionamento e' finanziato dalla  regione  medesima

in via ordinaria e prevalente costituiscono  nel  loro  complesso  il

«sistema regionale integrato». Gli obiettivi  sui  saldi  di  finanza

pubblica complessivamente concordati tra lo Stato e la  regione  sono

realizzati attraverso il  sistema  regionale  integrato.  La  regione

risponde  nei  confronti  dello  Stato  del  mancato  rispetto  degli

obiettivi di' cui  al  periodo  precedente".  Il  comma  155  ha  poi

aggiunto che "spetta alla regione individuare, con  riferimento  agli

enti locali costituenti il sistema regionale integrato, gli obiettivi

per ciascun ente e le modalita' necessarie  al  raggiungimento  degli

obiettivi complessivi di volta in volta concordati con lo  Stato  per

il periodo di riferimento, compreso il sistema sanzionatorio", e  che

"le disposizioni statali relative al patto di stabilita' interno  non

trovano applicazione con riferimento agli enti locali costituenti  il

sistema regionale integrato".

    Da tali norme risulta che lo Stato deve  limitarsi  a  concordare

con la Regione  i  vincoli  finanziari,  lasciando  alla  Regione  il

compito di regolare i rispettivi obblighi finanziari propri  e  degli

enti locali del proprio territorio.

    E' illegittimo, in altre parole, che lo Stato vada direttamente a

limitare  una  voce  di  spesa  degli   enti   locali,   laddove   il

finanziamento di questi e' a carico del bilancio regionale (v.  sent.

341/2009, punto 6).

    8) Illegittimita' costituzionale dell'art. 28, comma 3

    L'art. 28 ha ad oggetto  il  Concorso  alla  manovra  degli  Enti

territoriali e ulteriori riduzioni di spese. Il  comma  3  stabilisce

quanto segue: "Con le  procedure  previste  dall'articolo  27,  della

legge 5 maggio 2009, n. 42,  le  Regioni  a  statuto  speciale  e  le

Province  autonome  di  Trento  e  Bolzano  assicurano,  a  decorrere

dall'anno 2012, un concorso alla finanza pubblica di curo 860 milioni

annui.  Con  le  medesime  procedure  le  Regioni  Valle  d'Aosta   e

Friuli-Venezia Giulia e le Province  autonome  di  Trento  e  Bolzano

assicurano, a decorrere dall'anno  2012,  un  concorso  alla  finanza

pubblica di 60 milioni di euro annui, da parte dei  Comuni  ricadenti

nel proprio territorio. Fino all'emanazione delle norme di attuazione

di cui al predetto articolo 27, l'importo complessivo di 920  milioni

e' accantonato, proporzionalmente alla  media  degli  impegni  finali

registrata per ciascuna autonomia nel triennio  2007-2009,  a  valere

sulle quote di compartecipazione ai tributi erariali".

    Siamo, dunque, di fronte ad una ulteriore  rilevante  sottrazione

di risorse alle Regioni speciali, che si aggiunge a  quelle  previsti

dall'art.  14  d.l.  78/2010,  dall'art.  20,  co.  5,  di.  98/2011,

dall'art. 1, co. 8, d.l. 138/2011 e, per  questa  Regione,  dalla  1.

220/2010. In piu', viene disposto un concorso  anche  "da  parte  dei

comuni" situati nei territori  delle  autonomie  speciali  dotate  di

competenza in materia di finanza locale.  Quest'ultimo  concorso,  in

realta', incide in sostanza sempre sulla Regione, e comunque anche il

concorso dei comuni inciderebbe pur sempre sulla  Regione,  in  forza

dell'art. 54 dello Statuto e dell'art. 9 del d. lgs. n. 9 del 1997.

    Comunque, in base alla giurisprudenza costituzionale  le  Regioni

sono legittimate a difendere davanti  alla  Corte  anche  l'autonomia

finanziaria dei comuni  (v.  sentt.  298/2009,  278/10,  punto  14.1,

169/2007, punto 3, 95/2007, 417/2005, 196/2004, 533/2002).

    La sottrazione di' risorse  qui  contestata  non  ha  in  effetti

alcuna base statutaria.

    Al contrario,  le  disposizioni  dello  Statuto,  a  partire  dal

fondamentale art. 49, sono rivolte  ad  assicurare  alla  Regione  le

finanze necessarie all'esercizio delle funzioni: ed e' chiaro che  la

devoluzione statutaria di importanti percentuali dei tributi riscossi

nella regione non avrebbe alcun senso, se poi fosse  consentito  alla

legge ordinaria dello Stato di riportare all'erario tali risorse, per

di piu' con determinazione unilaterale e meramente potestativa.

    Per di piu', come gia' ricordato, lo Stato ha gia' definito  (con

l'art. 1, commi 152 ss.  1.  220/2010)  i  modi  in  cui  la  Regione

Friuli-Venezia Giulia concorre al risanamento della finanza pubblica,

con norme che hanno recepito l'Accordo di Roma del 29 ottobre 2010.

    I commi 154 e 155  dell'art. 1  l.  220/2010  attribuiscono  alla

Regione poteri di coordinamento finanziario con riferimento agli enti

locali, nel quadro della generale competenza legislativa regionale in

materia di finanza  locale  prevista  dagli  artt.  51  e  54  St.  e

dall'art. 9 d. lgs. 9/1997.

    Con le disposizioni statutarie sopra ricordate  l'impugnato  art.

28, comma 3, si pone in insanabile conflitto.

    Le  risorse   spettanti   alla   Regione   non   possono   essere

semplicemente "acquisite" dallo Stato.

    Del resto, tutto il regime dei rapporti finanziari  fra  Stato  e

Regioni speciali e' dominato dal principio  dell'accordo,  pienamente

riconosciuto  nella  giurisprudenza  costituzionale:  v.  le   sentt.

82/2007, 353/2004, 39/1984, 98/2000, 133/2010.

    L'illegittimita' della disposizione  impugnata  non  puo'  essere

nascosta dal rinvio alle norme di attuazione dello Statuto.

    In primo luogo, l'accantonamento previsto in attesa  delle  norme

di attuazione e'  gia'  autonomamente  lesivo,  traducendosi  in  una

sottrazione delle  risorse  disponibili  per  la  Regione  (v.  anche

argomenti esposti sopra).

    In secondo luogo, quanto alle stesse norme di attuazione,  l'art.

49 e' modificabile solo con la procedura di cui all'art.  104  St.  e

non in sede  di  attuazione.  In  terzo  luogo,  l'art.  28,  co.  3,

determina (illegittimamente) un vincolo di contenuto per le norme  di

attuazione,  per  cui  il  rinvio  alla  fonte  "concertata"   appare

fittizio. Inoltre, "fino all'emanazione delle  norme  di  attuazione.

l'importo complessivo di 920 milioni e' accantonato. a  valere  sulle

quote di compartecipazione ai tributi erariali". Dunque, la riduzione

delle  risorse  e'  operata  direttamente   e   unilateralmente   dal

legislatore statale, in contrasto con lo Statuto e con  il  principio

consensuale che domina i rapporti tra Stato  e  Regioni  speciali  in

materia finanziaria (v. le sentt. sopra citate).

    In definitiva, come detto, l'art. 28, co. 3, viola l'art. 49 St.,

perche' diminuisce l'importo  spettante  alla  Regione  a  titolo  di

compartecipazioni, in base alla suddetta norma statutaria.

    Corrispondentemente, e' violato l'art. 63, quinto comma, St., che

richiede il consenso della Regione per la modifica  delle  norme  del

Titolo VI dello Statuto.

    Infine, e' violato l'art. 65  St.,  perche'  una  fonte  primaria

pretende di vincolare il contenuto delle norme di attuazione.

    Si noti che le censure sopra svolte valgono ugualmente alla quota

di 60 milioni di euro che lo Stato esige dalla Regione come "da parte

dei Comuni ricadenti nel proprio territorio".

    Se la Regione, come esposto, ha il dovere di contribuire  con  le

proprie risorse alla finanza dei propri comuni, non fa  certo  invece

parte dei suoi compiti di fungere in relazione ad  essi  da  esattore

per conto dello Stato. Ne' lo Stato ha alcun titolo per esigere dalla

Regione Friuli-Venezia Giulia somme  che  esso  ritenga  a  qualunque

titolo dovute dai comuni. Si tratta  di  risorse  che  spettano  alla

Regione per Statuto, e  che  non  possono  essere  destinate  se  non

secondo le previsioni statutarie, che non sono suscettibili di essere

alterate dalla legge ordinaria dello Stato.

    E', poi, ulteriormente e specificamente illegittimo e  lesivo  il

terzo periodo dell'art. 28, co. 3, la' dove prevede il  criterio  del

riparto  dell'accantonamento  ("proporzionalmente  alla  media  degli

impegni  finali  registrata  per  ciascuna  autonomia  nel   triennio

2007-2009").  Infatti,  tale  criterio  non  risulta  in  alcun  modo

pariteticamente concordato tra Stato e Regioni speciali, in contrasto

con il principio consensuale che - accanto allo  Statuto  ed  in  via

integrativa - regola le relazioni  finanziarie  tra  lo  Stato  e  la

Regione.

    Infine, risulta illegittimo il quarto periodo dell'art.  28,  co.

3, secondo il  quale,  in  relazione  al  riparto  della  sottrazione

complessiva di risorse tra le diverse  autonomie  speciali,  "per  la

Regione Siciliana si tiene conto  della  rideterminazione  del  fondo

sanitario nazionale per effetto del comma 2".

    Posto che il richiamato comma 2 stabilisce che "l'aliquota di cui

al comma 1" (cioe' l'aumento dell'aliquota di  base  dell'addizionale

regionale all'IRPEF, regolata dall'art. 6 d. lgs. 68/2011, da 0,9  a

1,23 ) "si applica anche alle Regioni  a  statuto  speciale  e  alle

Province autonome  di  Trento  e  Bolzano",  la  disposizione  appare

particolarmente oscura.

    Tuttavia, essa sembra interpretabile nel senso che la  quota  del

taglio previsto nell'art. 28, co. 3  (? 860  milioni),  che  dovrebbe

essere addossata alla  Regione  Siciliana,  deve  essere  ridotta  in

corrispondenza alle minori risorse del Fondo sanitario destinate alla

Regione stessa.

    Posto che di cio' si tratti, e' chiaro che, in  questo  modo,  si

altererebbe addirittura  in  peggio  per  la  ricorrente  Regione  il

criterio proporzionale fissato dal terzo periodo del  comma  3  e  si

addosserebbe irragionevolmente  alle  altre  autonomie  speciali  una

quota parte del finanziamento della  spesa  sanitaria  della  Regione

Siciliana.

    Ne risulterebbe la violazione dell'art.  3  cost.  e  la  lesione

dell'autonomia finanziaria e amministrativa  della  Regione,  perche'

essa - oltre a finanziare la propria sanita' con il proprio  bilancio

- verrebbe chiamata a contribuire al finanziamento parziale di quella

siciliana (v., per l'ammissibilita' di una censura ex art.  3  Cost.,

ad es., la sent. 16/2010, punto 5.1), con  inevitabili  ripercussioni

sulle proprie funzioni amministrative e sulla  propria  autonomia  di

spesa.

    La mancanza di base  statutaria  del  contributo  richiesti  alla

Regione e' base sufficiente  per  la  richiesta  di  declatatoria  di

illegittimita' costituzionale della disposizione impugnata.

    Per tuziorismo, la ricorrente  Regione  fa  valere  in  subordine

anche le seguenti considerazioni, fondate sul diverso  parametro  del

principio di corrispondenza tra autonomia  finanziaria  ed  esercizio

delle funzioni e su altri parametri.

    In  effetti,  anche  se  la  autonomia  finanziaria  intesa  come

disponibilita'  di  risorse  sufficienti  ad  esercitare  le  proprie

attribuzioni costituzionali, e come effettiva capacita' di spesa,  va

valutata nel complesso, e che "contenimenti" transitori  delle  spese

non sono necessariamente incostituzionali (secondo quanto risulta  ad

esempio, in ordine ai vincoli  derivanti  dal  patto  di  stabilita',

dalla sent. 284/2009), tuttavia, se non si vuole  privare  l'articolo

119 cost. e, per il Friuli-Venezia  Giulia,  l'articolo  48  Statuto,

della capacita' di fungere da parametri di costituzionalita', occorre

riconoscere che singoli provvedimenti normativi (gli unici  contro  i

quali - ex articolo 127 cost. - la Regione  puo'  reagire,  ed  entro

termini  tassativi)  possano  essere  sindacati  e,  se   del   caso,

censurati, anche alla luce di altri singoli provvedimenti,  l'insieme

dei quali si dimostra lesivo dell'autonomia finanziaria regionale.

    Nel caso, la Regione si trova nella condizione di  affermare  che

l'ulteriore "taglio" di risorse, in una con le riduzioni della  legge

220/2010, determina la incostituzionalita' dell'articolo 28, comma 3,

anche in quanto impone riduzioni  consistenti  alla  spesa,  tali  da

pregiudicare  l'assolvimento  delle  funzioni   pubbliche   ad   essa

attribuite, in violazione dell'articolo 119 cost. (v. soprattutto  il

principio di corrispondenza tra risorse e funzioni di cui al comma 4:

"Le  risorse  derivanti  dalle  fonti  di  cui  ai  commi  precedenti

consentono ai Comuni, alle Province, alle Citta' metropolitane e alle

Regioni  di  finanziare  integralmente  le  funzioni  pubbliche  loro

attribuite") e dell'articolo 48 Statuto, la cui  portata  si  precisa

anche attraverso la considerazione  sistematica  di  tutte  le  norme

costituzionali  e  statutarie  rilevanti   ai   fini   dell'autonomia

finanziaria. In questo senso, la lesione di  altri  parametri  -  che

subito si illustra - concorre a dimostrare anche la violazione  degli

articolo 119 cost. e 48 Statuto.

    Violato e' in primo luogo l'articolo  116,  comma  1,  Cost.,  il

quale riconosce alle Regioni speciali forme e condizioni  particolari

di autonomia, che non possono non riguardare - data  la  formulazione

della disposizione - anche la autonomia finanziaria (seni. 82/2007).

    L'art. 28, co. 3, lede la disposizione  in  quanto  riserva  alle

Regioni  speciali  -  e,  per  quanto  interessa  qui,  alla  Regione

Friuli-Venezia Giulia - un trattamento deteriore  rispetto  a  quanto

vale per le Regioni ordinarie.

    L'irragionevolezza  del   trattamento   deteriore   si   apprezza

considerando che  queste  differenziazioni  operano  in  un  contesto

normativo stabile, quanto alle funzioni, per  le  Regioni  ordinarie,

mentre   e'   aumentato   il   concorso   specifico   della   Regione

Friuli-Venezia   Giulia   al   conseguimento   degli   obiettivi   di

perequazione e di  solidarieta'  e  all'assolvimento  degli  obblighi

derivanti dall'ordinamento europeo e dal patto di stabilita' interno.

Si  rammenta  qui  il  comma  152  dell'articolo  1  della  legge  di

stabilita' per il 2011 (1. 220/2010), secondo cui "nel  rispetto  dei

principi indicati nella legge 5  maggio  2009,  n.  42,  a  decorrere

dall'anno   2011,   la   regione   autonoma   Friuli-Venezia   Giulia

contribuisce all'attuazione del federalismo fiscale, nella misura  di

370 milioni di euro annui, mediante: a) il pagamento di una somma  in

favore dello Stato; b) ovvero la rinuncia alle  assegnazioni  statali

derivanti dalle leggi di settore, individuate nell'ambito del  tavolo

di confronto di cui all'articolo 27, comma 7, della citata  legge  n.

42 del 2009; c)  ovvero  l'attribuzione  di  funzioni  amministrative

attualmente esercitate dallo Stato, individuate mediante accordo  tra

il Governo e la regione, con oneri a carico  della  regione.  Con  le

modalita' previste dagli articoli 10  e  65  dello  Statuto  speciale

della regione Friuli-Venezia Giulia, di cui alla legge costituzionale

31 gennaio 1963, n. 1, lo Stato e la regione definiscono le  funzioni

da attribuire".  Il  trattamento  gravoso  riservato  alle  autonomie

speciali, e  tra  esse  alla  ricorrente  Regione,  non  puo'  essere

giustificato sulla base della considerazione della relativa  maggiore

ampiezza - rispetto alle Regioni ordinarie - delle  risorse  ad  esse

riservate.  Tale  maggiore  ampiezza  infatti  e'  il  frutto   delle

valutazioni dell'ordinamento costituzionale dello Stato, e  non  puo'

essere alterata se non seguendo le vie costituzionalmente prescritte:

le quali, del resto, esistono, come tra breve verra' illustrato.

    L'articolo  49  Statuto  garantisce  alla  Regione  certezza   di

entrate, finalizzate ad  assicurarle  la  possibilita'  di  esercizio

delle  proprie  funzioni.  Ad  avviso  della  ricorrente  Regione  le

disposizioni censurate ledono - in via indiretta ma  sicura  -  anche

tale parametro: non ha  senso  logico  che  vi  sia  per  la  Regione

garanzia costituzionale di determinate entrate (una garanzia  che  la

ricorrente Regione ha potuto far valere  con  successo,  ad  esempio,

nella controversia definita con  la  sent.  74/2009),  se  poi  fosse

consentito  allo  Stato  di  imporre  con  legge  ordinaria  massicce

riduzioni  della  spesa,  alla  quale  le  entrate   garantite   sono

finalizzate!

    Di  fronte  a   tali   sostanziali   violazioni   dei   parametri

costituzionali, non varrebbe certo obiettare che tutte  le  autonomie

territoriali - Regioni speciali comprese - sono soggette ai  principi

di coordinamento della finanza pubblica,  inevitabilmente  fissati  a

livello nazionale, anche in adempimento di  obblighi  europei  (sent.

82/2007); che la attribuzione di quote fisse di tributi erariali puo'

condurre ad un incremento delle risorse  regionali,  in  funzione  di

manovre tributarie statali, senza che vi sia necessita'  -  da  parte

della Regione - di  nuove  risorse  per  nuove  funzioni,  o  per  un

migliore assolvimento di compiti precedenti (ma le entrate potrebbero

anche diminuire, per l'andamento negativo del ciclo economico.);  che

lo stesso articolo 49 Statuto, nel  momento  in  cui  riconosce  alla

Regione autonomia finanziaria, aggiunge subito che essa si svolge (si

deve  svolgere)  "in  armonia  con  i  principi  della   solidarieta'

nazionale".

    Infatti, la  considerazione  di  tali  valori  deve  essa  stessa

manifestarsi  mediante   strumenti   costituzionalmente   ammissibili

nell'ordinamento.

    Cosi, anzitutto, le  stesse  norme  di  attuazione  statutaria  -

radicate direttamente nel principio di solidarieta' nazionale  (sent.

75/1967) - consentono di eccettuare dalla attribuzione  alla  Regione

le nuove entrate tributarie statali il cui gettito sia destinato  con

apposite  leggi  alla  copertura  di  oneri  diretti   a   soddisfare

particolari  finalita'  contingenti  o  continuative   dello   Stato,

specificate nelle leggi medesime, a termini dell'articolo 4 d.P.R. 23

gennaio 1965, n. 114. Ma la legittimita' costituzionale della riserva

e' subordinata alla corretta destinazione di  tali  risorse  in  base

alla citata disposizione: il che nel caso presente non avviene,  come

si illustrera' oltre, in sede di contestazione dell'art. 48.

    Inoltre,  le  stesse  disposizioni  statutarie  sulla   autonomia

finanziaria (articolo 49 compreso) possono sempre  essere  modificate

(come varie volte e' gia' accaduto) senza  ricorrere  alla  revisione

con legge costituzionale, purche'  vi  sia  il  coinvolgimento  della

Regione (articolo 63, comma 5, Statuto).

    In termini generali, poi,  i  rapporti  finanziari  Stato-Regione

sono  ispirati  al  principio   della   determinazione   consensuale.

L'"obbligo generale  di  partecipazione  di  tutte  le  Regioni,  ivi

comprese quelle a statuto speciale, all'azione di  risanamento  della

finanza pubblica" - puntualizza la Corte con la sent. 82/2007 - "deve

essere contemperato e coordinato con la speciale autonomia in materia

finanziaria di cui godono le predette  Regioni,  in  forza  dei  loro

statuti. In tale prospettiva, come questa Corte ha avuto occasione di

affermare, la previsione normativa del  metodo  dell'accordo  tra  le

Regioni a statuto speciale  e  il  Ministero  dell'economia  e  delle

finanze, per la  determinazione  delle  spese  correnti  e  in  conto

capitale,  nonche'  dei   relativi   pagamenti,   deve   considerarsi

un'espressione  della   descritta   autonomia   finanziaria   e   del

contemperamento di tale principio con quello del rispetto dei  limiti

alla spesa imposti dal cosiddetto "patto di stabilita'" (sentenza  n.

353 del 2004)".

    Questo principio, sul  piano  della  legislazione  ordinaria,  ha

trovato fino ad ora varie concretizzazioni. E'sufficiente  richiamare

qui, per la sua portata sistematica, l'articolo  27,  1.42/2009,  che

rimette  alle  norme  di  attuazione  statutaria  la  attuazione  dei

principi del c.d. federalismo fiscale (tra i quali vi e' il  rispetto

del patto di stabilita' e dei vincoli  finanziari  europei),  tenendo

"conto della dimensione della finanza delle [...] regioni e  province

autonome rispetto alla finanza pubblica complessiva,  delle  funzioni

da esse effettivamente esercitate e dei relativi oneri...". Le stesse

misure particolari dei ricordati commi 152 e 156 dell'articolo  1  1.

220/2010,  specificamente   concernenti   l'apporto   della   Regione

Friuli-Venezia Giulia al risanamento delle  finanze  pubbliche,  sono

state oggetto di confronto e discussione tra Governo e Regione.

    Con il principio costituzionale di collaborazione si  pongono  in

contrasto  le  disposizioni  impugnate.  L'art.  28,  co.  3,  deroga

unilateralmente  all'Accordo  di   Roma   del   2010,   fra   l'altro

penalizzando irragionevolmente quelle Regioni speciali che nel 2009 e

nel 2010 avevano gia' concordato il loro  contributo  al  risanamento

finanziario, privandosi di notevoli risorse, rispetto  a  quelle  che

non hanno mai assunto simili impegni.

    Ne risulta anche sotto questo ulteriore profilo  l'illegittimita'

costituzionale della disposizione impugnata.

    9)  Illegittimita'  costituzionale   dell'art.   31,   comma   1.

Violazione  degli  artcoli  3  (Principio  di  ragionevolezza),  117,

secondo, terzo e quarto comma, nonche' 118, primo comma, Cost.

    L'art. 31, comma 1, dispone quanto segue:

        "In materia di esercizi commerciali, all'articolo 3, comma 1,

lettera d-bis, del decreto legge 4 luglio 2006, n.  223,  convertito,

con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, sono  soppresse

le parole: "in via sperimentale" e dopo  le  parole  "dell'esercizio"

sono soppresse le seguenti "ubicato nei comuni inclusi negli  elenchi

regionali delle localita' turistiche o citta' d'arte".

    Cosi' facendo, esso da un  lato  rende  permanente  (e  non  piu'

"sperimentale")  la  liberalizzazione  degli  orari  degli   esercizi

commerciali, dall'altro - sopprimendo  la  limitazione  ai  comuni  a

vocazione turistica  -  estende  la  liberalizzazione  agli  esercizi

commerciali di tutti i  Comuni,  e  dunque  di  tutto  il  territorio

nazionale.

    A seguito della modifica introdotta, il  testo  dell'articolo  3,

comma 1, del decreto-legge n. 223 del 2006 e' quindi ora - per quanto

qui interessa - il seguente:

        "Ai sensi delle disposizioni dell'ordinamento comunitario  in

materia di tutela della concorrenza e libera circolazione delle merci

e dei servizi ed al fine di  garantire  la  liberta'  di  concorrenza

secondo condizioni di pari opportunita' ed il  corretto  ed  uniforme

funzionamento del  mercato,  nonche'  di  assicurare  ai  consumatori

finali un livello minimo ed uniforme di condizioni di  accessibilita'

all'acquisto di prodotti e servizi sul territorio nazionale, ai sensi

dell'articolo  117,  comma  secondo,  lettere   e)   ed   m),   della

Costituzione, le attivita' commerciali, come individuate dal  decreto

legislativo 31 marzo 1998, n. 114, e di somministrazione di  alimenti

e bevande, sono svolte senza i seguenti limiti e prescrizioni:

d-bis) il rispetto degli orari di apertura e di  chiusura,  l'obbligo

della chiusura domenicale  e  festiva,  nonche'  quello  della  mezza

giornata di chiusura infrasettimanale dell'esercizio".

    L'art. 1, co. 1-bis, d.l. 223/2006 dispone che  "le  disposizioni

di cui al presente  decreto  si  applicano  alle  regioni  a  statuto

speciale  e  alle  province  autonome  di  Trento  e  di  Bolzano  in

conformita'  agli  statuti  speciali  e  alle   relative   norme   di

attuazione", ma dalla prima parte del comma l  si  puo'  ricavare  la

pretesa della norma di vincolare anche le Regioni speciali.

    Si noti che ne' il d.l. n. 223 del 2006 ne' il d.l.  n.  201  del

2011 - pur prevalendo sulle precedenti disposizioni  incompatibili  -

abrogano specificamente le disposizioni precedentemente  dettate  dal

decreto legislativo 31 marzo 1998,  n.  114,  recante  Riforma  della

disciplina relativa al settore del commercio, a  norma  dell'articolo

4, comma 4, della L. 15 marzo 1997, n. 59.

    Le regole generali, valide per tutti  gli  esercizi  commerciali,

erano dettate all'articolo 11, orari di vendita:

        "1. Gli orari di apertura e di  chiusura  al  pubblico  degli

esercizi  di  vendita  al  dettaglio   sono   rimessi   alla   libera

determinazione degli esercenti nel rispetto  delle  disposizioni  del

presente articolo e  dei  criteri  emanati  dai  comuni,  sentite  le

organizzazioni locali dei consumatori, delle imprese del commercio  e

dei  lavoratori  dipendenti,  in  esecuzione   di   quanto   disposto

dall'articolo 36. comma 3, della legge 8 giugno 1990, n. 142.

        2. Fatto salvo quanto  disposto  al  comma  4,  gli  esercizi

commerciali  di  vendita  al  dettaglio  possono  restare  aperti  al

pubblico in tutti i giorni della settimana dalle ore sette  alle  ore

ventidue. Nel rispetto di tali limiti  l'esercente  puo'  liberamente

determinare l'orario di apertura e di chiusura del proprio  esercizio

non superando comunque il limite delle tredici ore giornaliere.

        3. L'esercente e' tenuto a rendere noto al pubblico  l'orario

di effettiva apertura  e  chiusura  del  proprio  esercizio  mediante

cartelli o altri mezzi idonei di informazione.

        4. Gli esercizi di vendita al dettaglio Osservano la chiusura

domenicale e festiva dell'esercizio e, nei casi stabiliti dai comuni,

sentite le organizzazioni di cui al comma 1,  la  mezza  giornata  di

chiusura infrasettimanale.

        5. Il comune, sentite le organizzazioni di cui  al  comma  1,

individua i giorni e le zone del territorio nei quali  gli  esercenti

possono derogare all'obbligo di chiusura domenicale e festiva.  Detti

giorni comprendono comunque quelli  del  mese  di  dicembre,  nonche'

ulteriori otto domeniche o festivita'  nel  corso  degli  altri  mesi

dell'anno".

    Nella regolamentazione degli orari  di  apertura  e  chiusura  al

pubblico erano dunque fortemente coinvolti, da un  lato  i  Comuni  e

dall'altro le associazioni di categoria: e la  libera  determinazione

da parte dell'esercente - che pure era enunciata come principio - era

temperata da limiti direttamente derivanti dalla legge  statale,  che

in parte potevano essere derogati dai Comuni, sentite le associazioni

di categoria.

    Una disciplina specifica era  invece  dettata  per  le  localita'

turistiche e le citta' d'arte dall'articolo 12,  comma  1,  il  quale

disponeva (o dispone, non essendo stato espressamente  abrogato)  che

"nei comuni  ad  economia  prevalentemente  turistica,  nelle  citta'

d'arte o nelle  zone  del  territorio  dei  medesimi,  gli  esercenti

determinano liberamente gli orari di apertura e di chiusura e possono

derogare dall'obbligo di cui all'articolo 11, comma 4".

    Dopo la riforma del Titolo V, divenuta la materia  del  commercio

di competenza residuale  delle  Regioni,  la  legislazione  regionale

aveva apportato rilevanti modifiche al sistema del d. lgs. n. 114 del

1998, nel senso di una piu'  ampia  liberta'  degli  esercenti  nella

determinazione degli orari.

    In particolare, la Regione Friuli-Venezia Giulia ha  dettato  una

disciplina completa della materia con la 1. r. 5  dicembre  2005,  n.

29, recante Normativa organica in materia di attivita' commerciali  e

di somministrazione  di  alimenti  e  bevande.  Modifica  alla  legge

regionale 16 gennaio 2002, n. 2, Disciplina organica del turismo:  la

quale disciplina gli orari al Capo IV  del  Titolo  II,  dedicato  al

Commercio in sede fissa.

    Tuttavia, la disciplina regionale ha sempre mantenuto  un  quadro

normativo di favore  per  la  libera  determinazione  dell'esercente,

bilanciato pero' dalla considerazione anche  degli  altri  valori  in

gioco, che anch'essi godono  di  tutela  costituzionale:  tutela  dei

lavoratori (artt. 4, 35 e 117,  comma  terzo),  tutela  della  salute

(artt. 32 e 117, co. 3), tutela di una ordinata convivenza  (art.  2)

e, sia consentito, tutela anche della liberta' religiosa (art. 19)  e

dell'interesse delle popolazioni -  e  degli  stessi  lavoratori  del

settore commerciale - a vivere certe giornate e certi  momenti  della

giornata in quel particolare clima civile  e  spirituale  che  deriva

dalla sospensione delle attivita' commerciali, e che costituisce esso

stesso un valore protetto. Tali  valori  rientrano  nelle  competenze

regionali, o espressamente (v. la sanita' e  la  tutela  del  lavoro:

art. 117, co. 3, Cost.) o in via residuale, o  come  generali  valori

costituzionali da rispettare in tutte le  materie  di  competenza,  a

partire ovviamente dalla disciplina del commercio.

    Sia consentito di ricordare fin d'ora che in altri paesi  europei

tali valori hanno trovato riconoscimento in esplicite regole,  talora

addirittura al  livello  costituzionale:  l'art.  140  Grundgesetz  -

attraverso il  richiamo  dell'art.  139  della  Costituzione  dell'11

agosto 1919 (Costituzione di Weimar) - sancisce che "la domenica e  i

giorni festivi  riconosciuti  dallo  Stato  rimangono  protetti  come

giorni di riposo lavorativo e di elevazione spirituale" (Der  Sonntag

und  die  staatlich  anerkannten  Feiertage  bleiben  als  Tage   der

Arbeitsruhe und der seelischen Erhebung gesetzlich geschutzt),  e  su

tale base la Corte costituzionale tedesca ha fondato la  legittimita'

e la necessita' di  una  regolazione  restrittiva  dell'apertura  dei

negozi (sentenza del 9 giugno 2004).

    La Commissione europea poi ha rilevato che «le choix d'un jour de

fermeture des commerces fait intervenir des considerations de  nature

historique, culturelle, touristique, sociale et  religieuse  relevant

de l'appreciation de chaque Etat  membre»  (citato  nel  progetto  di

legge presentato alla Presidenza  dell'Assemblee  nationale  francese

con  il  n.  3262  il   6   luglio   2006,   consultabile   al   sito

http://www.assemblee-nationale.fr/12/propositions/pion3262.asp).

    La  Regione  Friuli-Venezia  Giulia  e'  dotata   di   competenza

regionale piena in materia di commercio, ai sensi dell'art. 4, n.  6,

dello Statuto speciale o, qualora ritenuto piu' favorevole, dell'art.

117, co. 4, cost. (ex art. 10 1. cost. 3/2001): in quest'ultimo senso

v., proprio in relazione al Friuli-Venezia Giulia, la sent. 165/2007,

punto 4.3.

    Essa ritiene che la totale liberalizzazione  degli  orari,  senza

alcuna considerazione dei valori costituzionali concorrenti, ecceda i

limiti della potesta' legislativa statale in materia di tutela  della

concorrenza,  violi  i  principi  di  proporzionalita'  e  i   valori

costituzionali cosi' trascurati ed  invada  invece  l'ambito  in  cui

spetta  alla  Regione  di'  dettare  una   disciplina   degli   orari

commerciali che tenga conto anche dei predetti valori concorrenti.

    L'illustrazione  di  questo   assunto   richiede   una   ordinata

esposizione dei diversi punti. Che la materia degli orari dei  negozi

rientri  nella  potesta'  legislativa  delle  Regioni  non   richiede

particolari  dimostrazioni,   avendolo   piu'   volte   espressamente

confermato codesta ecc.ma Corte costituzionale. Con  la  sentenza  n.

150 del 2011, ad esempio, e' stato ricordato che "di recente, in piu'

occasioni, questa Corte ha affermato che la  disciplina  degli  orari

degli  esercizi  commerciali  rientra   nella   materia   «commercio»

(sentenze n. 288 del 2010 e n. 350 del 2008), di competenza esclusiva

residuale delle Regioni, ai sensi  del  quarto  comma  dell'art.  117

Cost., e che «il decreto legislativo 31 marzo 1998, n.  114  (Riforma

della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell'art.

4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59), [.],  si  applica,  ai

sensi dell'art. 1, comma  2,  della  legge  5  giugno  2003,  n.  131

(Disposizioni per  l'adeguamento  dell'ordinamento  della  Repubblica

alla legge costituzionale 18  ottobre  2001,  n.  3),  soltanto  alle

Regioni che  non  abbiano  emanato  una  propria  legislazione  nella

suddetta materia» (sentenze n. 288 e n. 247 del  2010,  ordinanza  n.

199 del 2006)" (punto 5 in diritto).

    La ricorrente Regione e' tuttavia  consapevole  che  questa  sola

constatazione non basta  a  fondare  l'illegittimita'  costituzionale

della normativa impugnata, in quanto occorre ancora dimostrare che lo

Stato non  possiede,  in  relazione  ad  essa,  un  legittimo  titolo

costituzionale di intervento.

    Ed i titoli che  vengono  in  considerazione  sono  espressamente

enunciati dal testo in  cui  l'impugnata  disposizione  e'  inserita,

cioe' nell'art. 3, comma  1,  del  decreto-legge  n.  223  del  2006,

secondo il quale gli oggetti ai quali tale comma  si  riferisce  sono

disciplinati   "ai   sensi   delle   disposizioni    dell'ordinamento

comunitario  in  materia  di  tutela  della  concorrenza   e   libera

circolazione delle merci e dei servizi ed al  fine  di  garantire  la

liberta' di concorrenza secondo condizioni di pari opportunita' ed il

corretto ed uniforme funzionamento del mercato, nonche' di assicurare

ai consumatori finali un livello minimo ed uniforme di condizioni  di

accessibilita' all'acquisto di  prodotti  e  servizi  sul  territorio

nazionale, ai sensi dell'articolo 117, comma secondo, lettere  e)  ed

m)".

    Si  noti  che  l'inserimento  degli  orari  in  questo   contesto

normativo e' frutto di un ripensamento: tanto  e'  vero  che  proprio

dalla assenza di esso aveva tratto argomento la Corte nella  sentenza

n. 150 per confermare a contrario l'appartenenza della  materia  alla

disciplina del commercio.

    In ogni modo, come la constatazione che la disciplina degli orari

appartiene alla materia del commercio non chiudeva  il  problema  del

rapporto con la tutela della concorrenza (avendo tale materia,  "dato

il suo carattere «finalistico», anche una  portata  piu'  generale  e

trasversale,  non  preventivamente  delimitabile,  che  deve   essere

valutata  in  concreto  al  momento  dell'esercizio  della   potesta'

legislativa sia dello Stato che delle Regioni nelle materie  di  loro

rispettiva  competenza":  ancora  sent.  150/2011,  punto  5),  cosi'

l'attrazione  degli  orari  tra  le   materie   "influenzate"   dalla

concorrenza non assolve automaticamente ogni intervento statale nella

materia del commercio.

    Intanto, la stessa sentenza n. 150, gia'  piu'  volte  ricordata,

nel  valutare  la  legge  regionale  abruzzese  allora  sottoposta  a

scrutinio, ricordava (al punto piu' volte citato) che, "nel  caso  di

specie, la normativa regionale  sull'apertura  domenicale  e  festiva

degli esercizi commerciali per  la  vendita  al  dettaglio  non  solo

persegue  il  medesimo  obiettivo  di  apertura  al  mercato   e   di

eliminazione   di   barriere   e   vincoli   al   libero   esplicarsi

dell'attivita' economica che ha ispirato il d.lgs. n. 114  del  1998,

ma ne amplia la  portata  liberalizzatrice,  aumentando,  rispetto  a

quanto prevede l'art. 11 di tale decreto, il numero  di  giornate  in

cui e' consentita  l'apertura  domenicale  e  festiva,  contribuendo,

quindi, ad estendere l'area di libera scelta sia dei consumatori  che

delle imprese". E concludeva nel senso che la Regione Abruzzo, con le

norme impugnate, avesse "esercitato la propria competenza in  materia

di commercio, dettando una normativa che non  solo  non  si  pone  in

contrasto con gli obiettivi delle norme statali che  disciplinano  il

mercato, tutelano e promuovono la concorrenza, ma che  produce  anche

effetti pro-concorrenziali, sia pure in via marginale e indiretta".

    Il  punto  che  si  vuole  sottolineare,  ai  fini  del  giudizio

sull'art. 31, comma 1, e' che codesta  stessa  Corte  costituzionale,

nel valutare l'effetto  della  sostituzione  di  una  disciplina  che

consentiva  una  piu'  ampia  apertura  domenicale  rispetto  ad  una

disciplina piu' restrittiva, ne ha  bensi'  riconosciuto  un  effetto

proconcorrenziale, ma lo ha al tempo stesso qualificato che marginale

e indiretto.

    In effetti, non si puo' negare  che  la  totale  liberalizzazione

degli orari dei negozi, e la sostanziale interdizione per le  Regioni

di dettare in relazione ad  essi  qualunque  regola  limitativa,  non

abbia nulla a che fare con la tutela della  concorrenza  intesa  come

parita' di condizione tra imprese nell'accesso al mercato:  dato  che

la disciplina degli orari vale allo stesso modo per tutte le  imprese

che si trovino nelle situazioni indicate dalle norme.

    Proprio  percio',  del  resto,  e'  pacifico   che   il   diritto

dell'Unione europea non esclude affatto  una  ragionevole  disciplina

degli orari, che viene rimessa alla  sensibilita'  ed  alle  esigenze

degli Stati membri. Negli stati articolati le relative decisioni sono

in genere di competenza locale (in Svizzera, ad  esempio,  a  livello

cantonale, in  Germania  a  livello  di  Lander,  ferma  restando  la

limitazione costituzionale sopra ricordata).

    Semmai, supponendosi  che  ad  un  maggiore  orario  di  apertura

corrisponda un maggior volume di commercio, l'orario dei negozi  puo'

avere a che fare con la  "concorrenza"  in  quel  senso  traslato  ed

indiretto per il quale - se la concorrenza promuove lo sviluppo -  la

promozione dello sviluppo diviene anche tutela della concorrenza.

    E' evidente tuttavia che -  come  notato  da  codesta  Corte,  la

connessione con la concorrenza e' comunque scarsa: appunto, marginale

ed  indiretta.  Come  si  deduce  in  modo  evidente   dallo   stesso

disinteresse dell'Unione  europea  per  la  questione,  rimandata  ai

singoli Stati membri, e dalla  circostanza  stessa  che  negli  Stati

Uniti, provvisti di apposita commerce  clause  nella  Costituzione  e

pionieri nella tutela della concorrenza, sarebbero inimmaginabili sia

una regolazione federale dell'orario dei negozi, sia una interdizione

federale della possibilita' che gli Stati  stabiliscano  una  propria

disciplina.

    E' dunque accertato che il collegamento tra orari  dei  negozi  e

tutela della concorrenza - se pure se ne  ritenga  l'esistenza  -  e'

debole, e riguarda in realta' non la concorrenza in senso proprio  ma

l'espansione delle attivita' economiche.

    E' vero invece che, misurata sul terreno vero della  concorrenza,

la  supposta  misura  di  tutela,  per  il  suo  effetto  di   totale

deregolazione, si traduce in un fattore distorsivo della concorrenza,

in quanto scorrettamente avvantaggia gli operatori maggiori, che  per

la ampiezza e complessita' della loro organizzazione sono in grado di

mantenere l'apertura per sette giorni su sette e per  un  orario  non

limitato se non dalla convenienza, rispetto agli operatori  familiari

o comunque  minori,  che  per  limiti  di  personale  non  potrebbero

competere neppure sottoponendosi ad un  regime  di  autosfruttamento,

che del resto contraddirebbe il diritto costituzionale al riposo.

    In questa situazione, la forzosa deregolamentazione operata dallo

Stato e la connessa interdizione di dettare qualunque disciplina  che

in termini di ragionevolezza bilanci il valore della promozione delle

attivita'  commerciali   con   gli   altri   valori   concorrenti   e

costituzionalmente tutelati, come sopra enunciati e come riconosciuti

anche in sede europea (e rientranti nelle competenze regionali,  come

sopra  visto),  viola  al  tempo  stesso  i  principi  e  le   regole

costituzionali che custodiscono tali valori, i principi di  autonomia

delle Regioni e delle comunita', come espressi dall'art. 117, co. 3 e

4, e dal principio  di  sussidiarieta'  (dato  che  si  impedisce  al

livello istituzionale piu' adeguato, che e' senz'altro quello locale,

di valutare caso per caso e periodo per periodo quale sia la migliore

regolazione degli orari), e la competenza legislativa  delle  Regioni

nella disciplina del commercio, che viene espropriata ed annullata in

una parte rilevante, senza una ragione  di  cogente  e  proporzionata

tutela del bene affidato alla  competenza  statale,  ed  impedita  di

svolgere la  propria  funzione  di  bilanciamento  del  valore  della

massima dilatazione delle contrattazioni commerciali  con  gli  altri

valori in gioco.

    La norma in questione viola  persino  la  competenza  finalistica

statale in materia di  tutela  della  concorrenza,  se  e'  vero  che

compito di tale tutela e' di produrre una  regolazione  che  consenta

una competizione corretta tra le diverse imprese, e di  impedire  che

la mancanza di qualunque regola produca  la  sopravvivenza  dei  soli

operatori maggiori, a prescindere dalla qualita' della  loro  offerta

commerciale.

    Sono  dunque  violati  il  principio  di  ragionevolezza  di  cui

all'art. 3 Cost., gli articoli 117, secondo, terzo  e  quarto  comma,

nonche' l'art. 118, primo comma, Cost.

    Illustrata  l'illegittimita'  costituzionale  della  disposizione

impugnata sotto il profilo del rapporto  tra  competenza  legislativa

regionale nella disciplina del  commercio  e  competenza  legislativa

statale nella tutela della concorrenza, rimane da  osservare  che  la

normativa qui contestata non potrebbe essere giustificata neppure  ai

sensi dell'art. 117, comma secondo, lett.  m),  cioe'  come  presunto

"livello essenziale" delle "prestazioni concernenti i diritti  civili

e  sociali  che  devono  essere  garantiti  su  tutto  il  territorio

nazionale".

    Non si tratta infatti di alcuna "prestazione", piu' di quanto non

lo sia qualunque altra regolazione; ed  e'  inoltre  evidente  che  i

diritti civili e  sociali  dei  cittadini  e  degli  interessati  non

subiscono alcuna lesione da una  ragionevole  disciplina  dell'orario

dei negozi, mentre al contrario li  puo'  ledere  una  situazione  di

totale  deregolamentazione,  che  semmai   preclude   una   razionale

organizzazione dei tempi dei propri acquisti.

    10) Illegittimita' costituzionale dell'art. 48

    L'art. 48 contiene una generale "clausola di finalizzazione".

    In base al comma 1, "le maggiori entrate erariali  derivanti  dal

presente decreto sono riservate all'Erario, per un periodo di  cinque

anni,   per   essere   destinate   alle   esigenze   prioritarie   di

raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede

europea,  anche  alla  luce  della  eccezionalita'  della  situazione

economica internazionale". Si prevede poi che "con  apposito  decreto

del Ministero  dell'economia  e  delle  finanze.  sono  stabilite  le

modalita' di individuazione del maggior gettito, attraverso  separata

contabilizzazione".

    Il comma 1-bis aggiunge  che,  "ferme  restando  le  disposizioni

previste dagli articoli 13,  14  e  28,  nonche'  quelle  recate  dal

presente articolo,  con  le  norme  di  attuazione  statutaria.  sono

definiti le modalita' di applicazione e gli  effetti  finanziari  del

presente decreto per le regioni a statuto speciale e per le  province

autonome di Trento e di Bolzano".

    Tale comma 1-bis, con il suo "rinvio" alle  norme  di  attuazione

dello statuto, ha l'apparenza di una clausola di  salvaguardia  delle

autonomie speciali e delle loro regole statutarie: ma al tempo stesso

la disposizione ribadisce la  diretta  applicazione  non  solo  degli

articoli 13, 14  e  28,  ma  anche  delle  disposizioni  "recate  dal

presente articolo": dunque, il regime di cui all'art. 48, co.  1,  si

riferisce anche alle entrate percepite nella  regione  Friuli-Venezia

Giulia.

    Maggiori entrate erariali deriveranno, ad esempio,  dall'art.  10

(a seguito dell'emersione della base imponibile), dall'art.  15  (che

aumenta le aliquote di accisa  sui  carburanti),  dall'art.  16  (che

aumenta la tassa automobilistica per le auto di lusso e istituisce la

tassa  annuale  di  stazionamento  sulle  imbarcazioni  e   l'imposta

erariale sugli aeromobili privati),  dall'art.  18  (che  aumenta  le

aliquote Iva), dall'art. 19 (che aumenta l'imposta di bollo  relativa

a conti correnti e  strumenti  finanziari,  introduce  un'imposta  di

bollo  speciale  annuale  sulle  attivita'  finanziarie   che   hanno

beneficiato del c.d. scudo fiscale e un'imposta straordinaria per  le

stesse  attivita'  se  gia'  prelevate  dal  rapporto  di   deposito,

istituisce un'imposta sul valore degli immobili situati all'estero  e

istituisce un'imposta sul valore delle attivita' finanziarie detenute

all'estero dalle  persone  fisiche  residenti  nel  territorio  dello

Stato),  dall'art.   20   (in   materia   di   riallineamento   delle

partecipazioni) e dall'art. 24 (il cui comma 31 regola la  tassazione

delle  indennita'  di  fine  rapporto  di  importo   complessivamente

eccedente curo 1.000.000 e dei  compensi  e  indennita'  a  qualsiasi

titolo erogati agli amministratori delle societa' di capitali, ed  il

cui comma 31-bis aumenta il contributo  di  solidarieta'  sulle  c.d.

pensioni d'oro).

    Ad avviso della ricorrente Regione la riserva  di  tali  maggiori

entrate all'erario e' illegittima per le ragioni di seguito esposte.

    L'art. 49 dello Statuto attribuisce  alla  Regione  "le  seguenti

quote fisse delle sottoindicate entrate tributarie erariali  riscosse

nel territorio della  Regione  stessa:  1)  sei  decimi  del  gettito

dell'imposta sul reddito delle persone fisiche; 2) quattro  decimi  e

mezzo del gettito dell'imposta sul reddito delle persone  giuridiche;

3) sei decimi del gettito delle ritenute alla fonte di cui agli artt.

23, 24, 25 e 29 del d.P.R. 29 settembre 1973,  n.  600,  ed  all'art.

25-bis aggiunto allo stesso decreto del Presidente  della  Repubblica

con l'art. 2, primo comma, del D.L. 30 dicembre 1982, n. 953.; 4) 9,1

decimi del gettito dell'imposta sul valore aggiunto,  esclusa  quella

relativa all'importazione, al netto dei rimborsi effettuati ai  sensi

dell'articolo 38-bis del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, e successive

modificazioni; 5)  nove  decimi  del  gettito  dell'imposta  erariale

sull'energia elettrica, consumata nella regione; 6) nove  decimi  del

gettito dei canoni per le concessioni idroelettriche; 7) nove  decimi

del gettito della quota  fiscale  dell'imposta  erariale  di  consumo

relativa ai  prodotti  dei  monopoli  dei  tabacchi  consumati  nella

regione; 7-bis) il 29,75 per  cento  del  gettito  dell'accisa  sulle

benzine ed il 30,34 per cento del  gettito  dell'accisa  sul  gasolio

consumati nella regione per uso autotrazione".

    L'art. 48, co. 1,  dunque,  riservando  all'Erario  le  "maggiori

entrate   erariali   derivanti   dal   presente   decreto",   risulta

contrastante con l'art. 49 dello Statuto, che garantisce alla Regione

ben precise compartecipazioni a diversi  tributi  erariali  (ad  es.,

Irpef, Iva, accisa sulla benzina).

    Ne' varrebbe replicare che, in base all'art.  4,  co.  1,  d.P.R.

114/1965, a certe condizioni e' ammessa  la  riserva  all'erario  del

"gettito  derivante  da  maggiorazioni  di  aliquote   o   da   altre

modificazioni in ordine ai tributi devoluti alla regione".

    Tali  condizioni,  infatti,  non  ricorrono  nella  clausola   di

finalizzazione prevista dall'art. 48.

    Infatti, i requisiti sono: a) la  destinazione  per  legge  "alla

copertura di nuove specifiche spese di  carattere  non  continuativo,

che non rientrano nelle materie  di  competenza  della  regione,  ivi

comprese quelle relative a calamita' naturali"»; b) la  delimitazione

temporale del gettito; c) la contabilizzazione distinta nel  bilancio

statale e la quantificabilita'.

    Ora, ad avviso della Regione ricorrente risulta evidente  che  e'

assente il primo requisito sopra indicato, in quanto  l'art.  48  non

destina le maggiori entrate a "nuove specifiche spese": nel  caso  in

questione, infatti, ne' si tratta di "spese", ne' le situazioni  alle

quali si vuole far fronte sono "nuove" ne' "specifiche".

    E' da ricordare  che  la  sent.  182/2010  fece  salva  la  norma

impugnata  in  quell'occasione   (l'art.   13-bis,   comma   8,   del

decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78) proprio in quanto essa destinava

il gettito dell'imposta "al finanziamento  della  ripresa  economica,

quali: il sostegno alle imprese, anche  attraverso  il  finanziamento

del fondo di garanzia e l'alleggerimento del carico  fiscale...;  gli

interventi sul mercato del lavoro, anche attraverso il  finanziamento

del fondo per l'occupazione...; il finanziamento  degli  investimenti

pubblici,  con  particolare  riguardo  alle  infrastrutture  e   alle

attivita' di ricerca e sviluppo...; il supporto  alle  famiglie,  con

misure di salvaguardia del potere d'acquisto, di tutela  dei  piccoli

risparmiatori,   di   risposta   all'emergenza    abitativa...;    il

finanziamento della cooperazione internazionale  allo  sviluppo.;  il

finanziamento delle opere di ricostruzione dell'Abruzzo". Si  tratta,

come si puo' vedere, di spese e finalita'  ben  diverse  dal  mero  e

generale  "raggiungimento  degli  obiettivi   di   finanza   pubblica

concordati in sede europea": e non puo' essere dubbio che i requisiti

posti dall'art. 4, co. 1, d.P.R. 114/1965, sono requisiti essenziali,

il cui rispetto non puo' essere legittimamente pretermesso.

    Escluso che l'art. 48 possa trovare fondamento  nell'art.  4  dPR

114/1965, e' anche da escludere che esso possa ricondursi all'art. 6,

co.  2,  d.  lgs.  8/1997,  in  base  al  quale,  "nelle   more   del

completamento del processo di trasferimento e di delega  di  funzioni

dallo Stato alla regione,  qualora  la  quota  delle  spese  relative

all'esercizio delle funzioni delegate eventualmente  a  carico  della

regione ai sensi dell'articolo 4, comma 2, lettera b)[dPR  114/1965],

fosse insufficiente al raggiungimento degli obiettivi di  risanamento

della finanza pubblica, una quota del previsto incremento del gettito

tributario spettante alla regione - ad esclusione in ogni caso  degli

incrementi derivanti dall'evoluzione tendenziale ed  al  netto  delle

eventuali previsioni  di  riduzioni  di  gettito  -  derivante  dalle

manovre  correttive  di  finanza  pubblica   previste   dalla   legge

finanziaria e dai relativi  provvedimenti  collegati,  nonche'  dagli

altri provvedimenti legislativi aventi  le  medesime  finalita',  non

considerati  ai  fini  della  determinazione  dell'accordo   relativo

all'esercizio  finanziario  precedente,  puo'  essere  destinata   al

raggiungimento degli obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica

previsti dai predetti  provvedimenti,  tenuto  conto  altresi'  delle

spese  a  carico  della  regione  per  funzioni  trasferite  in  data

successiva al 1° gennaio 1997".

    Ad  avviso  della  ricorrente  Regione  questa   norma   non   e'

applicabile alla disciplina qui contestata, in  quanto  essa  non  ha

portata  generale  ma  opera  in  relazione  allo  specifico  accordo

annuale, tra Governo e Regione, che  determinava  "l'eventuale  quota

che rimane a carico del bilancio  della  regione  -  per  l'esercizio

oggetto dell'accordo - delle  spese  derivanti  dall'esercizio  delle

funzioni statali delegate alla medesima, in  relazione  alle  manovre

correttive di finanza pubblica previste dalla legge finanziaria e dai

relativi provvedimenti collegati, nonche' dagli  altri  provvedimenti

legislativi aventi le medesime finalita', da determinarsi nei  limiti

del  previsto  incremento  del  gettito  tributario  derivante  dalle

manovre  medesime,  ad  esclusione  in  ogni  caso  degli  incrementi

derivanti dall'evoluzione tendenziale ed  al  netto  delle  eventuali

previsioni di riduzione del gettito" (art. 4, co.  2,  lett.  b)  dPR

114/1965).

    In ogni modo, anche qualora la disposizione di  cui  all'art.  6,

co. 2, d. lgs. 8/1997 fosse ritenuta applicabile, l'art.  48  non  vi

corrisponderebbe sia  per  l'unilateralita'  della  riserva  (essendo

chiaro che l'art. 6, co. 2, presuppone l'accordo: v. anche l'art.  6,

co. 3) sia perche' riserva all'Erario tutte le maggiori entrare e non

solo "una  quota  del  previsto  incremento  del  gettito  tributario

spettante alla regione".

    Dunque, nella denegata ipotesi dell'applicabilita'  dell'art.  6,

co. 2, d. lgs. 8/1997, lo Stato avrebbe  pur  sempre  dovuto  cercare

l'accordo con la Regione, non  potendo  unilateralmente  alterare  le

regole sulle compartecipazioni. L'art.  48,  dunque,  violerebbe  pur

sempre il principio di leale collaborazione  e,  in  particolare,  il

principio consensuale che domina  le  relazioni  finanziarie  fra  lo

Stato e le Regioni speciali (v. le sentt. 82/2007, 353/2004, 39/1984,

98/2000, 74/2009 e 133/2010).

    In effetti, e' chiaramente illegittimo  che  lo  Stato,  con  una

fonte  primaria  unilateralmente  adottata,  alteri  in  modo   cosi'

rilevante l'assetto dei rapporti  finanziari  tra  Stato  e  Regione,

laddove il principio consensuale e' da tempo riconosciuto  in  questa

materia.

    Infine, proprio perche' agli artt. 48 e 49 St. si e' derogato con

una  fonte  primaria  "ordinaria"  (nella  specie,  un  decreto-legge

convertito), l'art. 48 viola anche gli artt. 63,  commi 1  e  5  (che

prevedono  il  procedimento  di  revisione  costituzionale   per   le

modifiche  dello  Statuto  e  la  possibilita'  di   modificare   "le

disposizioni  contenute  nel  titolo  IV.  con  leggi  ordinarie,  su

proposta di ciascun membro delle Camere, del Governo e della Regione,

e, in ogni caso, sentita la Regione") e l'art. 65 (che disciplina  la

speciale procedura per l'adozione delle  norme  di  attuazione  dello

Statuto) dello Statuto speciale.

    L'art.  48  altera  gravemente  e  unilateralmente  la  relazione

strutturale  che  intercorre   tra   il   tributo   erariale   e   la

compartecipazione statutaria regionale. Il legislatore costituzionale

ha posto a  presidio  dell'autonomia  finanziaria  della  Regione  il

meccanismo della compartecipazione ai tributi erariali che garantisce

l'approvvigionamento  finanziario  dell'ente   in   via   del   tutto

automatica.  L'attribuzione  del   gettito   e'   rimessa,   infatti,

esclusivamente   all'operare   della   percentuale    di    spettanza

statutariamente  prevista,  applicata   al   gettito   riscosso   nel

territorio regionale

    L'art. 48 viola la struttura automatica  della  compartecipazione

escludendo  che  talune  innovazioni  fiscali  possano  tradursi   in

beneficio  per  l'entrata   della   Regione,   con   cio'   incidendo

sull'autonomia che di tale automatismo costituisce il portato.

    La sent. 155/2006 di codesta Corte ha  statuito  che  la  Regione

Friuli-Venezia Giulia non  puo'  contestare  nuove  norme  tributarie

statali che, incidendo  su  tributi  erariali  ai  quali  la  Regione

compartecipa, comportino una riduzione del gettito  per  la  Regione.

Proprio l'automatismo insito nella compartecipazione implica  che  la

Regione debba subire gli effetti - entro certi limiti - delle novita'

normative statali che hanno riflessi finanziari riduttivi (e  infatti

anche il d.l. 201/2011 contiene norme che,  indirettamente,  incidono

negativamente sulla finanza regionale, come visto nel  punto  1).  Se

cosi' e', allora e' evidente  che  anche  i  vantaggi  economici  che

derivano dalla modifica di aliquote  o  da  altre  novita'  normative

concernenti i tributi erariali devono andare, pro quota, a  beneficio

della Regione, cosi' come prevede lo Statuto.

    Il secondo periodo dell'art. 48, co. 1, dispone che "con apposito

decreto del Ministero dell'economia e delle finanze, da emanare entro

sessanta giorni dalla data  di  entrata  in  vigore  della  legge  di

conversione del presente decreto..., sono stabilite le  modalita'  di

individuazione   del    maggior    gettito,    attraverso    separata

contabilizzazione". Si tratta dunque di una norma  volta  a  regolare

l'attuazione del primo periodo: la quale, pertanto,  e'  affetta  dai

medesimi vizi sopra illustrati.

    In  subordine,  essa  e'  poi   censurabile   specificamente   ed

autonomamente sotto  un  ulteriore  aspetto,  cioe'  per  la  mancata

previsione dell'intesa con questa Regione in relazione al decreto che

stabilisce  le  modalita'  di  individuazione  del  maggior  gettito.

infatti, poiche' si tratta di intervenire in relazione a risorse  che

spetterebbero alla Regione, in una  materia  dominata  dal  principio

consensuale, risulta specificamente illegittima, per  violazione  del

principio di  leale  collaborazione,  la  previsione  di  un  decreto

ministeriale, senza intesa con questa Regione.

 

 

                                P.Q.M

 

    Voglia codesta ecc.ma Corte costituzionale accogliere il ricorso,

dichiarando l'illegittimita' costituzionale degli articoli  1,  commi

da 1 a 8; 2, commi 1 e 2; 13, commi 11, 14, lett. a),  e  17,  terzo,

quarto e quinto periodo; 14, comma 13-bis, terzo  e  quarto  periodo;

16, commi da 2 a 10; 23, commi 4, da 14 a 20-bis e 22; 28,  comma  3;

31,  comma  1;  48  del  decreto-legge  6  dicembre  2011,  n.   201,

Disposizioni urgenti per la crescita, l'equita' e  il  consolidamento

dei conti pubblici, convertito, con  modificazioni,  nella  legge  22

dicembre 2011, n. 214, nelle parti, nei termini  e  sotto  i  profili

esposti nel presente ricorso.

        Padova, 23 febbraio 2012

 

                          Prof. Avv. Falcon

 

 

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