Ricorso n. 50 del 5 marzo 2012 (Regione Friuli-Venezia Giulia)
N. 50 RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 5 marzo 2012.
Ricorso per questione di legittimita' costituzionale depositato in
cancelleria il 5 marzo 2012 (della Regione Friuli-Venezia Giulia) .
(GU n. 16 del 18.04.2012 )
Ricorso della Regione Friuli-Venezia Giulia, (cod. fisc.
…; P. IVA …) in persona del Presidente della
Giunta regionale pro-tempore dott. Renzo Tondo, autorizzato con
deliberazione della Giunta regionale n. 236 del 17 febbraio 2012
(doc. 1), rappresentata e difesa - come da procura a margine del
presente atto - dall'avv. prof. Giandomenico Falcon di Padova, (cod.
fisc. …) con domicilio eletto in Roma presso l'Ufficio
di rappresentanza della Regione, in Piazza Colonna, 355, contro il
Presidente del Consiglio dei ministri per la dichiarazione di
illegittimita' costituzionale dell'articolo 1, commi da i a 8; 2,
commi 1 e 2; 13, commi 11, 14, lett. a), e 17, terzo, quarto e quinto
periodo; 14, comma 13-bis, terzo e quarto periodo; 16, commi da 2 a
10; 23, commi 4, da 14 a 20-bis e 22; 28, comma 3; 31, comma 1; 48
del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, Disposizioni urgenti per
la crescita, l'equita' e il consolidamento dei conti pubblici,
convertito, con modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214.
pubblicata nella G.U. n. 300 del 27 dicembre 2011, per violazione:
degli articoli 3, 53, 97, 117, co. 3, e 119 della
Costituzione;
degli artt. 4, 5, 8. 48, 49, 51, 54, 63 e 65 dello Statuto
speciale . adottato con 1. cost. n. 1 del 1963;
degli artt. 2, 9, 14 e 18 d. lgs 9/1997, dell'art. 4 d. lgs.
114/1965 e dell'art. 1 d. 1gs. 265/2011;
del principio di leale collaborazione,
per i profili e nei modi di seguito illustrati.
FATTO
Il d.l. 201/2011, come risultante dalla legge di conversione n.
214/2011, contiene disposizioni di vario tipo, distribuite in quattro
titoli: Sviluppo ed equita', Rafforzamento del sistema finanziario
nazionale e internazionale, Consolidamento dei conti pubblici,
Disposizioni per la promozione e la tutela della concorrenza.
Tutte sono rivolte - come rivela lo stesso soprannome di decreto
"salva Italia" che il Governo ha attribuito ad esso - a produrre un
risultato utile all'economia del Paese: e la Regione Friuli-Venezia
Giulia, come parte del Paese, non puo' che augurarsi che le misure
producano i risultati sperati.
Allo sforzo collettivo necessario al conseguimento di tali
risultati essa non intende certo sottrarsi.
Al tempo stesso, tuttavia, essa non puo' rinunciare a chiedere
che ogni contributo ad essa richiesto sia richiesto legittimamente,
nel quadro e nel rispetto delle regole che disciplinano sotto il
profilo finanziario - come sotto ogni altro profilo - i rapporti con
lo Stato.
Ed essa ritiene che nei punti che formano oggetto della presente
impugnazione le regole costituzionali e statutarie di tali rapporti
non siano rispettate.
Vengono qui in considerazione alcune disposizioni dei Titoli I
("Sviluppo ed equita'"), III ("Consolidamento dei conti pubblici") e
IV ("Disposizioni per la promozione e la tutela della concorrenza").
Quanto al Titolo I, si tratta dell'art. 1, Aiuto alla crescita
economica, e dell'art. 2, Agevolazioni fiscali riferite al costo del
lavoro nonche' per donne e giovani.
Quanto al Titolo III, si tratta dell'art. 13, recante
Anticipazione sperimentale dell'imposta municipale propria, dell'art.
14, recante Istituzione del tributo comunale sui rifiuti e sui
servizi, e dell'art. 16, Disposizioni per la tassazione di auto di
lusso, imbarcazioni ed aerei (tutti facenti parte del Capo secondo
Disposizioni in materia di maggiori entrate).
Si tratta poi dell'art. 23, Riduzione dei costi di funzionamento
delle Autorita' di Governo, del CNEL, delle Autorita' indipendenti e
delle Province, facente parte del Capo terzo (Riduzioni di spesa.
Costi degli apparati), nonche' dell'art. 28, recante Concorso alla
manovra degli Enti territoriali e ulteriori riduzioni di spese, che
forma ed esaurisce il capo VI (Concorso alla manovra degli Enti
territoriali).
Quanto al Titolo IV si tratta dell'art. 31, Esercizi commerciali
(facente parte del capo I, Liberalizzazioni), e dell'art. 48,
Clausola di finalizzazione, che ricade nel Capo IV, Misure per lo
sviluppo infrastrutturale.
Ad avviso della Regione Friuli-Venezia Giulia, le disposizioni
succitate risultano lesive delle proprie prerogative costituzionali e
statutarie per le seguenti ragioni di
DIRITTO
1) Illegittimita' costituzionale dell'art. 1, commi da 1 a 8, e
dell'art. 2, commi 1 e 2.
L'art. 1, comma l, del d.l. 201/2011 prevede deduzioni che vanno
ad abbassare il reddito imponibile ai fini dell'imposta sul reddito
delle societa' (Ires), degli altri enti di cui allo stesso comma 1, e
sul "reddito d'impresa di persone fisiche, societa' in nome
collettivo e in accomandita semplice in regime di contabilita'
ordinaria" (v. il comma 7), e cio' "in considerazione della esigenza
di rilanciare Io sviluppo economico del Paese e fornire un aiuto alla
crescita mediante una riduzione della imposizione sui redditi
derivanti dal finanziamento con capitale di rischio, nonche' per
ridurre lo squilibrio del trattamento fiscale tra imprese che si
finanziano con debito ed imprese che si finanziano con capitale
proprio, e rafforzare, quindi, la struttura patrimoniale delle
imprese e del sistema produttivo italiano".
Dal canto suo, l'art. 2 prevede che sia deducibile, ai fini
dell'Ires, "un importo pari all'imposta regionale sulle attivita'
produttive determinata ai sensi degli articoli 5, 5-bis, 6, 7 e 8 del
decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, relativa alla quota
imponibile delle spese per il personale dipendente e assimilato"
(comma 1).
Il comma 2 prevede deduzioni nella determinazione della base
imponibile a fini Irap, collegate all'assunzione di donne e giovani.
Dunque, le norme succitate producono l'effetto di diminuire il
gettito dell'Ires, dell'Irpef e dell'Irap, cioe' di imposte che
spettano o pro quota o interamente alla Regione.
Quest'ultimo e', notoriamente, il caso dell'Irap (v. il d. lgs.
446/1997 e la 1. FVG 4/2000). Quanto alle compartecipazioni spettanti
a questa Regione, e' da ricordare che lo Statuto, dopo aver stabilito
che "la Regione ha una propria finanza, coordinata con quella dello
Stato, in armonia con i principi della solidarieta' nazionale, nei
modi stabiliti dagli articoli seguenti" (art. 48), aggiunge che
"spettano alla Regione le seguenti quote fisse delle sottoindicate
entrate tributarie erariali riscosse nel territorio della Regione
stessa: 1) sei decimi del gettito dell'imposta sul reddito delle
persone fisiche; 2) quattro decimi e mezzo del gettito dell'imposta
sul reddito delle persone giuridiche; 3) sei decimi del gettito delle
ritenute alla fonte di cui agli artt. 23, 24, 25 e 29 del d.P.R. 29
settembre 1973, n. 600, ed all'art. 25-bis aggiunto allo stesso
decreto" (art. 49).
Le norme censurate, dunque, incidono sull'Irap e sui meccanismi
di compartecipazione previsti dallo Statuto, che rappresentano la
fondamentale forma di finanziamento della Regione, la quale subisce
cosi' una rilevante riduzione di entrate, senza che sia previsto
alcun meccanismo compensativo.
Si noti che, al contrario, le deduzioni relative a lrpef e Ires
non pregiudicano la finanza delle Regioni ordinarie, che non godono
della compartecipazione a quelle imposte, e la finanza delle Regioni
ordinarie non e' pregiudicata neppure dalla deduzione Irap: invero,
considerata la modalita' di finanziamento della spesa sanitaria in
tali Regioni (v. D. Lgs. 56/2000), la diminuzione del gettito Irap
viene compensata da un corrispondente aumento della compartecipazione
Iva, con garanzia di integrale finanziamento della spesa sanitaria
regionale.
Cio' che la Regione contesta non e' la previsione di deduzioni in
se', ma tale previsione in quanto non accompagnata da una
compensazione a favore delle Regioni speciali, cioe' in quanto il
d.l. 201/2011 non provvede a riequilibrare le entrate regionali.
E' ben noto che il d.l. 201/2011 contiene, accanto ad alcune
norme volte a favorire lo sviluppo (come quelle sopra illustrate),
altre norme volte ad aumentare le entrate tributarie. Pero', l'art.
48 - come piu' ampiamente si dira' - dispone che "le maggiori entrate
erariali derivanti dal presente decreto sono, riservate all'Erario,
per un periodo di cinque anni, per essere destinate alle esigenze
prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica
concordati in sede europea, anche alla luce della eccezionalita'
della situazione economica internazionale". Dunque, qualora dalle
norme tributarie del d.l. 201/2011 dovessero derivare effetti
economici favorevoli per questa Regione (a titolo di
compartecipazione ai tributi erariali), essi sarebbero "annullati"
(almeno) per cinque anni.
Cio' significa che, mentre l'effetto di riduzione del gettito
fiscale determinato dagli artt. 1 e 2 va anche a detrimento della
Regione Friuli-Venezia Giulia, le maggiori entrate risultanti dalle
altre norme vanno a esclusivo beneficio statale, con neutralizzazione
dell'art. 49 St.
Per la Regione Friuli-Venezia Giulia (e le altre Regioni
speciali), dunque, la manovra e' a senso unico, e si traduce in una
pura e semplice riduzione di entrata, non compensata affatto
dall'aumento di imposte al cui gettito pure la Regione dovrebbe
partecipare.
Ne risulta violato, in primo luogo, il principio di uguaglianza
(e di ragionevolezza) di cui all'art. 3, comma primo, Cost., sia con
riferimento all'uguaglianza tra enti che in relazione all'uguaglianza
tra comunita' territoriali (ed in definitiva tra le persone che le
istituzioni di tale comunita' rappresentano): essendo evidente che
l'istituzione rappresentativa della comunita' regionale del
Friuli-Venezia Giulia "partecipa" al peso della riduzione delle
imposte dirette in misura piu' rilevante del resto della comunita'
nazionale (come si e' visto). Inoltre, benche' i cittadini della
Regione - come tutti gli altri - paghino l'aumento delle imposte
previsto dalle altre norme del di. 201/2011, tale aumento di entrata
non si traduce affatto in un corrispondente aumento della capacita'
di spesa della Regione.
La Regione e' legittimata a far valere la violazione dell'art. 3,
perche' si tratta della parita' di' trattamento fra Regioni e perche'
essa si riflette in lesione dell'autonomia finanziaria regionale.
La mancata attribuzione alla Regione di risorse compensative, ed
anzi la espressa riserva allo Stato di quelle maggiori entrate che
naturalmente avrebbero compensato il minor gettito, con la semplice
applicazione delle regole statutarie, violano altresi' l'art. 63
dello Statuto e l'insieme delle disposizioni del titolo IV. L'art. 63
prevede, in primo luogo, che sulle proposte di legge costituzionale
di modifica dello Statuto il Consiglio regionale esprima il proprio
parere (co. 3). Esso contiene poi una disposizione specifica per le
disposizioni finanziarie di cui al Titolo IV: queste "possono essere
modificate con leggi ordinarie, su proposta di ciascun membro delle
Camere, del Governo e della Regione" ma, "in ogni caso, sentita la
Regione".
Ora, la ricorrente Regione e' ben consapevole che non si e' qui
di fronte ad una formale modificazione delle disposizioni statutarie,
ma non puo' essere dubbio che l'effetto degli artt. 1 e 2 equivale in
tutto e per tutto ad una riduzione della quota di partecipazione.
Infatti la riduzione del gettito non e' qui la semplice conseguenza
del ciclo economico, in relazione al quale il gettito puo' essere
maggiore o minore, in condizione di uguaglianza tra tutti coloro che
ne sono destinatari: al contrario, la riduzione e' qui la conseguenza
di una consapevole decisione di governo. La previsione di ulteriori
deduzioni a danno delle sole Regioni speciali, con contemporanea
espressa esclusione del riequilibrio a favore della Regione, e con la
riserva delle entrate al solo Stato, equivale ad una alterazione del
rapporto tra finanza statale e finanza regionale quale fissato
dall'art. 49 dello Statuto. La mancata attivazione di una procedura
di consultazione comporta ad avviso della ricorrente Regione la
violazione dell'art. 63 dello Statuto e del principio di leale
collaborazione.
Inoltre, le norme in questione violano anche il principio di
corrispondenza tra entrate e funzioni, implicito nel sistema
statutario (v. l'art. 50, in base al quale "per provvedere a scopi
determinati, che non rientrano nelle funzioni normali della
Regione,..lo Stato assegna alla stessa, con legge, contributi
speciali") ed espresso nell'art. 119, comma quarto, della
Costituzione. E'evidente infatti che la dimensione quantitativa delle
entrate regionali era stata predisposta in correlazione con
l'ampiezza delle funzioni proprie della stessa Regione, e che un
"taglio" delle risorse a sua disposizione comporta lo squilibrio tra
queste e le funzioni. Nel presente periodo di crisi finanziaria,
senz'altro tutte le componenti della Repubblica sono chiamate a
collaborare, ma - per la Regione Friuli-Venezia Giulia, cio' e' gia'
avvenuto con le diverse manovre finanziarie (v. l'art. 14 di.
78/2010, l'art. 20, co. 5, d.l. 98/2011 e l'art. 1, co. 8, d.l.
138/2011) e con le norme di cui all'art. 1, co. 151 ss., 1. 220/2010.
Questa Regione e' consapevole che all'accoglimento della sua
domanda sotto il profilo ora indicato potrebbe ostare il precedente
rappresentato dalla sent. 155/2006, relativa alla 1. 311/2004, nella
quale si legge che, "a seguito di manovre di finanza pubblica,
possono anche determinarsi riduzioni nella disponibilita' finanziaria
delle Regioni, purche' esse non siano tali da comportare uno
squilibrio incompatibile con le complessive esigenze di spesa
regionale e, in definitiva, rendano insufficienti i mezzi finanziari
dei quali la Regione stessa dispone per l'adempimento dei propri
compiti". Questa Regione, pero', non si puo' esimere dal far notare
che, da un lato, la prova richiesta da codesta Corte e' una probatio
diabolica, dall'altro l'onere della prova dovrebbe incombere su chi
opera il taglio, non su chi lo subisce.
Si puo' presupporre, cioe', che lo Stato abbia riconosciuto alla
Regione le risorse finanziarie adeguate alle sue funzioni e che,
percio', un "taglio" di risorse possa avvenire solo in presenza di
determinati presupposti. Lo Stato non puo' diminuire unilateralmente
le risorse senza alcuna valutazione di adeguatezza finanziaria, cioe'
di una diminuita necessita' finanziaria della Regione. Il necessario
collegamento con la dimensione effettiva della finanza delle Regioni
speciali e con le "funzioni da esse effettivamente esercitate" emerge
anche dall'art. 27, co. 2,1. 42/2009.
2) Illegittimita' costituzionale dell'art. 13, commi 11, 14,
lett. a), e 17, terzo, quarto e quinto periodo
A) Premessa. Il passaggio alla nuova imposta e la sottrazione
delle risorse al sistema locale.
L'art. 13 regola l'Anticipazione sperimentale dell'imposta
municipale propria, stabilendo (comma 1) che l'istituzione di tale
imposta "e' anticipata, in via sperimentale, a decorrere dall'anno
2012, ed e' applicata in tutti i comuni del territorio nazionale fino
al 2014 in base agli articoli 8 e 9 del decreto legislativo 14 marzo
2011, n. 23, in quanto compatibili, ed alle disposizioni che
seguono", e che conseguentemente, "l'applicazione a regime
dell'imposta municipale propria e' fissata al 2015".
Il riferimento a "tutti i comuni del territorio nazionale" induce
a ritenere che l'art. 13 intenda applicarsi anche nella regione
Friuli-Venezia Giulia.
L'art. 8, co. 1, d. lgs. 23/2011, richiamato dall'art. 13, comma
1, ora citato, stabilisce che l'imposta municipale propria istituita
dallo stesso articolo "sostituisce, per la componente immobiliare,
l'imposta sul reddito delle persone fisiche e le relative addizionali
dovute in relazione ai redditi fondiari relativi ai beni non locati,
e l'imposta comunale sugli immobili".
Dunque, l'Imup sostituisce - oltre all'ICI, gia' destinata ai
Comuni - imposte destinate alla Regione: o per seidecimi, come
l'Irpef relativa ai redditi fondiari degli immobili non locati (art.
49 Statuto) o interamente, come le addizionali regionale e comunale
relative ai redditi fondiari degli immobili non locati e l'Ici: va
infatti ricordato che, in base all'art. 51, co. 2, St., "il gettito
relativo a tributi propri e a compartecipazioni e addizionali su
tributi erariali che le leggi dello Stato attribuiscano agli enti
locali spetta alla Regione con riferimento agli enti locali del
proprio territorio, ferma restando la neutralita' finanziaria per il
bilancio dello Stato". Del resto, la Regione e' competente in materia
di finanza locale, ai sensi degli artt. 51 e 54 St. e 9 d. Igs.
9/1997.
Peraltro, la Regione Friuli-Venezia Giulia non avrebbe titolo per
contestare la trasformazione di determinati tributi erariali in
tributi locali: lo Statuto assicura determinate quote di
compartecipazione su diversi tributi erariali, ma non prescrive
l'esistenza in particolare di determinati tributi erariali: e se lo
Stato vi rinuncia, in favore della finanza comunale, tale rinuncia
vale anche per la quota spettante alla Regione Friuli-Venezia Giulia.
Sennonche', tale conclusione opera sino a che le risorse siano
realmente attribuite ai comuni, come avviene nel disegno normativo
originario dell'IMUP ai sensi degli artt. 8 e 9 d. lgs. 23/2011. Ove
invece il reddito dell'imposta "municipale" sia assegnato allo Stato,
ne risulta un complessivo impoverimento del sistema locale: dietro la
"municipalizzazione", infatti, vi e' sempre l'imposta erariale,
soltanto che il suo gettito viene sottratto alla Regione
Friuli-Venezia Giulia, con evidente sostanziale violazione degli
artt. 49 e 51 dello Statuto.
E proprio questo accade con le nuove disposizioni dell'art. 13,
comma 11. Esse, infatti, prevedono la riserva allo Stato di una quota
dell'Imup.
Ecco il testo della disposizione:
"E'riservata allo Stato la quota di imposta pari alla meta'
dell'importo calcolato applicando alla base imponibile di tutti gli
immobili, ad eccezione dell'abitazione principale e delle relative
pertinenze di cui al comma 7, nonche' dei fabbricati rurali ad uso
strumentale di cui al comma 8, l'aliquota di base di cui al comma 6,
primo periodo. La quota di imposta risultante e' versata allo Stato
contestualmente all'imposta municipale propria. Le detrazioni
previste dal presente articolo, nonche' le detrazioni e le riduzioni
di aliquota deliberate dai comuni non si applicano alla quota di
imposta riservata allo Stato di cui al periodo precedente. Per
l'accertamento, la riscossione, i rimborsi, le sanzioni, gli
interessi ed il contenzioso si applicano le disposizioni vigenti in
materia di imposta municipale propria. Le attivita' di accertamento e
riscossione dell'imposta erariale sono svolte dal comune al quale
spettano le maggiori somme derivanti dallo svolgimento delle suddette
attivita' a titolo di imposta, interessi e sanzioni" (enfasi
aggiunta).
In realta', pero', dal comma 17 dell'art. 13 risulta che lo Stato
non solo si trattiene la meta' "riservata" dell'importo, ma intende
appropriarsi di tutto il maggior gettito, cioe' ogni importo
eccedente le entrate che affluivano ai comuni della regione
Friuli-Venezia Giulia in base alle norme previgenti: ed intende farlo
acquisendo tali fondi dalla Regione.
Infatti, il comma 17, terzo periodo, dispone - in relazione alle
autonomie speciali competenti in materia di finanza locale - che "con
le procedure previste dall'articolo 27 della legge 5 maggio 2009, n.
42, le regioni Friuli-Venezia Giulia e Valle d'Aosta, nonche' le
Province autonome di Trento e di Bolzano, assicurano il recupero al
bilancio statale del predetto maggior gettito stimato dei comuni
ricadenti nel proprio territorio". Ed il quarto periodo precisa che,
"fino all'emanazione delle norme di attuazione di cui allo stesso
articolo 27, a valere sulle quote di compartecipazione ai tributi
erariali, e' accantonato un importo pari al maggior gettito stimato
di cui al precedente periodo". Il quinto periodo, infine, prevede che
"l'importo complessivo della riduzione del recupero di cui al
presente comma e' pari per l'anno 2012 a 1.627 milioni di curo, per
l'anno 2013 a 1.762,4 milioni di euro e per l'anno 2014 a 2.162
milioni di euro".
Ora, benche' il riferimento alla "riduzione del recupero" appaia
privo di senso, sembra da ritenere che i numeri indicati
rappresentino la quantificazione del "recupero" a carico della
autonomie speciali.
Dunque, lo Stato ha provveduto a ristrutturare le imposte
"immobiliari" e a rideterminare le basi imponibili, ma - nel periodo
2012-2014 - i maggiori incassi derivanti da questa operazione sono
interamente destinati allo Stato, il quale in parte li riceve
direttamente dai contribuenti in base alla riserva di cui al comma
11, in parte li riceve dalla Regione con i meccanismi di "recupero" o
"accantonamento" di cui al comma 17.
Si noti che il comma 17 e' formulato in modo tale da poter essere
inteso nel senso che l'importo Imup 2012 non debba essere confrontato
con l'importo 2011 dei tributi sostituiti ma solo con l'importo dei
tributi sostituiti percepiti dai Comuni (cioe', l'Ici 2011). Se cosi'
fosse, il taglio delle risorse assumerebbe un carattere del tutto
particolare rispetto alla Regione Friuli-Venezia Giulia. Infatti,
delle tre componenti sostituite dall'/mup (cioe' 1'Irpef fondiaria,
le addizionali regionale e comunali e l'ICI), l'ICI era
precedentemente riscossa direttamente dai comuni (anche se destinata
alla Regione, dopo le modifiche apportate all'art. 51 St. dalla 1.
220/2010), mentre sia le risorse derivanti dall'Irpef fondiaria che
quelle derivanti dalle addizionali spettavano alla Regione. Ne
risulta che - concentrata la fiscalita' nell'Imup - il "maggior
gettito stimato dei comuni" della Regione sara' particolarmente
elevato, comprendendo anche il gettito dei tributi che prima
costituivano entrate della Regione.
In entrambi i casi, tributi spettanti al sistema regionale in
base allo Statuto e alle norme di attuazione sono illegittimamente
avocati allo Stato, come di seguito si illustra.
B) Illegittimita' costituzionale del comma 11, nella parte in cui
riserva allo Stato meta' dell'Importo Imup.
Poste le premesse appena illustrate, viene in considerazione in
primo luogo l'illegittimita' costituzionale del comma 11, nella parte
in cui considera tributo erariale la quota del 50 dell'Imup e la
riserva allo Stato.
L'art. 49 dello Statuto speciale dispone che "spettano alla
Regione le seguenti quote fisse delle sottoindicate entrate
tributarie erariali riscosse nel territorio della Regione stessa: 1)
sei decimi del gettito dell'imposta sul reddito delle persone
fisiche". L'art. 51, co. 2, come gia' visto, stabilisce che "il
gettito relativo a tributi propri e a compartecipazioni e addizionali
su tributi erariali che le leggi dello Stato attribuiscano agli enti
locali spetta alla Regione con riferimento agli enti locali del
proprio territorio".
Dunque, alla Regione spettano i 6/10 dell'Irpef e le addizionali
Irpef (regionale e comunali). L'art. 13 sostituisce l'Imup a tali
imposte (per la quota fondiaria) ma l'operazione si rivela elusiva,
fittizia, perche' il comma 11 riporta le somme in questione allo
Stato. Non basta, pero', un semplice cambio di "etichetta" del
tributo per eludere il sistema statutario. Il comma 11 viola gli
artt. 49, n. 1, e 51, co. 2, perche' avoca allo Stato risorse
riscosse a titolo di tributo erariale (come ammette lo stesso comma
11, ultimo periodo) e che sostanzialmente corrispondono a tributi
spettanti alla Regione (pro quota o interamente).
Qualora, invece, si volesse valorizzare lo status di tributo
locale dell'Imup, allora l'art. 13, co. 11, violerebbe l'art. 51, co.
2, la' dove dispone che "il gettito relativo a tributi propri... che
le leggi dello Stato attribuiscano agli enti locali spetta alla
Regione con riferimento agli enti locali del proprio territorio".
L'Imup e' un tributo attribuito agli enti locali ma il comma 11
riserva meta' del gettito allo Stato, in contrasto con l'art. 51, co.
2, St.
La fondatezza della censura sopra esposta non potrebbe essere
contestata facendo valere la clausola di possibile riserva all'erario
statale prevista dalle norme di attuazione (art. 4 dPR 114/1965 e
art. 6, co. 2, d. 1gs. 8/1997): su questo punto, pero', si rinvia
alla censura relativa alla norma generale di cui all'art. 48 ("Le
maggiori entrate erariali derivanti dal presente decreto sono
riservate all'Erario, per un periodo di cinque anni, per essere
destinate alle esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi
di finanza pubblica concordati in sede europea, anche alla luce della
eccezionalita' della situazione economica internazionale"), che pare
applicabile anche alle risorse attribuite allo Stato dall'art. 13,
co. 11.
C) In particolare, ancora illegittimita' costituzionale del comma
11, nella parte in cui riserva ai comuni le attivita' di accertamento
e riscossione e assegna ai Comuni le maggiori entrate connesse a tali
attivita'.
Oltre che per la riserva allo Stato, l'art. 13, co. 11, risulta
lesivo anche per quel che dispone l'ultimo periodo di esso, secondo
cui "le attivita' di accertamento e riscossione dell'imposta erariale
sono svolte dal comune al quale spettano le maggiori somme derivanti
dallo svolgimento delle suddette attivita' a titolo di imposta,
interessi e sanzioni".
L'art. 53 St. stabilisce che "la regione collabora
all'accertamento delle imposte erariali sui redditi dei soggetti con
domicilio fiscale nel suo territorio" (co. 1) e che "le predette
intese [fra Regione e Ministro] definiscono i necessari indirizzi e
obiettivi strategici relativi all'attivita' di accertamento dei
tributi nel territorio della Regione, la quale e' svolta attraverso i
conseguenti accordi operativi con le Agenzie fiscali" (co. 4) Dunque,
l'ultimo periodo del comma 11 viola l'art. 53, co. 4, St., regolando
direttamente un'attivita' di accertamento di tributi (la quota di
IMUP avente natura erariale) nel territorio regionale.
Inoltre, la norma in questione viola gli ara. 49 e 51, co. 2, St.
la' dove attribuisce ai comuni "le maggiori somme derivanti dallo
svolgimento delle suddette attivita' a titolo di imposta, interessi e
sanzioni". Infatti, si tratta di somme che spettano alla Regione sia
che si valorizzi la corrispondenza con l'Irpef fondiaria e con le
addizionali (v. l'art. 49 e l'art. 51, co. 2, St.) sia che si
valorizzi lo status di tributo locale (v. art. 51, co. 2): su cio' v.
sopra, punto B).
Non si tratta, cioe', di maggiori entrate che derivano
dall'aumento delle aliquote o dall'introduzione di nuovi tributi, ma
semplicemente di entrate che derivano da un piu' rigoroso
accertamento degli obblighi tributari preesistenti, il cui gettito
deve seguire la destinazione impressa dallo Statuto e non puo' essere
discrezionalmente attribuito dallo Stato.
La fondatezza di tale censura e' confermata anche dalla sentenza
di codesta Coste costituzionale n. 152/2011, che ha dichiarato
costituzionalmente illegittimo l'art. 1, comma 6, del d.l. n. 40 del
2010, "nella parte in cui stabilisce che le entrate derivanti dal
recupero dei crediti d'imposta «sono riversate all'entrata del
bilancio dello Stato e restano acquisite all'erario», anche con
riferimento a crediti d'imposta inerenti a tributi che avrebbero
dovuto essere riscossi nel territorio della Regione siciliana". La
sentenza precisa che "e' alla Regione siciliana... che spetta, non
solo provvedere al detto recupero, ma anche acquisire il gettito da
esso derivante, posto che tale gettito, lungi dal costituire frutto
di una nuova entrata tributaria erariale, non e' altro che
l'equivalente del gettito del tributo previsto (al di fuori dei casi
nei quali e' concesso il credito d'imposta), che compete alla Regione
sulla base e nei limiti dell'art. 2 del d.P.R. n. 1074 del 1965".
La medesima sent. 152/2011 ha poi annullato l'art. 3, co. 2-bis,
d.l. 40/2010, in quanto "la previsione della esclusiva destinazione a
fondi erariali del gettito derivante dalla definizione agevolata di'
tali controversie inerenti alla contestazione di tributi erariali che
avrebbero dovuto essere riscossi nel territorio regionale si pone in
contrasto con il principio di cui all'art. 2 delle norme di
attuazione, non potendo peraltro neppure ritenersi che le entrate
derivanti dalla richiamata definizione agevolata delle controversie
tributarie siano "entrate nuove".
D) Illegittimita' costituzionale del comma 14, lett. a), e del
comma 17, terzo, quarto e quinto periodo.
Il comma 14, lett. a) dell'art. 13 abroga l'art. 1 d.l. 93/2008,
che introduceva l'esenzione ICI per la prima casa e, al comma 4,
stabiliva quanto segue: "La minore imposta che deriva
dall'applicazione dei commi 1, 2 e 3, pari a 1.700 milioni di euro a
decorrere dall'anno 2008, e' rimborsata ai singoli comuni, in
aggiunta a quella prevista dal comma 2-bis dell'articolo 8 del
decreto legislativo n. 504 del 1992, introdotto dall'articolo 1,
comma 5, della legge 24 dicembre 2007, n. 244. A tale fine, nello
stato di previsione del Ministero dell'interno l'apposito fondo e'
integrato di un importo pari a quanto sopra stabilito a decorrere
dall'anno 2008. Relativamente alle regioni a statuto speciale, ad
eccezione delle regioni Sardegna e Sicilia, ed alle province autonome
di Trento e di Balzano, i rimborsi sono in ogni caso disposti a
favore dei citati enti, che provvedono all'attribuzione delle quote
dovute ai comuni compresi nei loro territori nel rispetto degli
statuti speciali e delle relative norme di attuazione".
L'art. 13, co. 17, primo periodo, d.l. 201/2011 (qui non
impugnato, in quanto non riguarda la Regione Friuli-Venezia Giulia.)
dispone che "il fondo sperimentale di riequilibrio, come determinato
ai sensi dell'articolo 2 del decreto legislativo 14 marzo 2011, n.
23, e il fondo perequativo, come determinato ai sensi dell'articolo
13 del medesimo decreto legislativo n. 23 del 2011, ed i
trasferimenti erariali dovuti ai comuni della Regione Siciliana e
della Regione Sardegna variano in ragione delle differenze del
gettito stimato ad aliquota di base derivanti dalle disposizioni di
cui al presente articolo"; si aggiunge che "in caso di incapienza
ciascun comune versa all'entrata del bilancio dello Stato le somme
residue". Tale disposizione e' scritta in modo oscuro (i fondi ed i
trasferimenti "variano", i comuni versano "le somme residue"): ma in
definitiva sembra significare che o attraverso la riduzione dei
trasferimenti dallo Stato o (se la riduzione non basta) attraverso
trasferimenti dagli stessi Comuni, lo Stato incamera tutto cio' che
per effetto delle nuove regole ai Comuni affluisca in misura maggiore
di prima.
Per la Regione Friuli-Venezia Giulia - come per le altre
autonomie speciali aventi competenza in materia di finanza locale -
vale invece, come sopra visto, l'art. 13, co. 17, terzo periodo: il
quale dispone direttamente che "con le procedure previste
dall'articolo 27 della legge 5 maggio 2009, n. 42, le regioni
Friuli-Venezia Giulia e Valle d'Aosta, nonche' le Province autonome
di Trento e di Bolzano, assicurano il recupero al bilancio statale
del predetto maggior gettito stimato dei comuni ricadenti nel proprio
territorio". Il quarto periodo aggiunge che, "fino all'emanazione
delle norme di attuazione di cui allo stesso articolo 27, a valere
sulle quote di compartecipazione ai tributi erariali, e' accantonato
un importo pari al maggior gettito stimato di cui al precedente
periodo".
Dunque, lo Stato non solo trattiene la parte erariale dell'Imup
(in base al comma 11), ma vorrebbe incamerare dalla Regione anche
l'imposta comunale, per tutto l'importo eccedente le entrate che
affluivano ai comuni in base alle norme previgenti. Come si e' gia'
notato, il comma 17 e' formulato in modo tale da poter essere inteso
nel senso che l'importo Imup 2012 non debba essere confrontato con
l'importo 2011 dei tributi sostituiti ma solo con l'importo dei
tributi comunali sostituiti (cioe', l'Ici 2011). Se cosi' fosse, la
Regione e i suoi enti locali risulterebbero depauperati:
dei sei decimi dell'Irpef sui redditi immobiliari, soppressi;
delle addizionali regionale e comunale precedentemente
previste (la seconda era destinata alla Regione in luogo dei comuni);
Inoltre, il comma 17 potrebbe essere interpretato anche nel senso
che dal gettito precedente sia esclusa la somma che perveniva ai
comuni (tramite la Regione) ai sensi dell'art. 1, co. 4, di. 98/2008,
sopra citato. Se cosi' fosse, ne risulterebbe un ulteriore rilevante
depauperamento del sistema regionale.
In questi termini, la fittizia comunalizzazione dei tributi
immobiliari si traduce nel transito delle corrispondenti risorse dal
bilancio regionale al bilancio statale. La Regione, che prima
"integrava" la finanza locale avvalendosi delle predette risorse, ora
ne e' priva ma dovra' comunque far fronte alle necessita' finanziarie
dei comuni (art. 54 St. e art. 9, co. 2, d. lgs. 9/1997), e dovrebbe
contestualmente versare allo Stato proprie risorse in misura
corrispondente alle maggiori entrate dei Comuni, o comunque in misura
corrispondente a quella a priori determinata dalla impugnata
disposizione (quinto periodo).
In un sistema nel quale la Regione ha la responsabilita'
complessiva della finanza locale, la sottrazione ai comuni delle
risorse derivanti dalle imposte ad essi destinate costituisce
contemporaneamente una lesione dell'autonomia finanziaria regionale.
In ogni modo, il terzo e quarto periodo del comma 17, dunque,
violano l'art. 49 St. e gli artt. 4 dPR 114/1965 e 6, co. 2, d. lgs.
8/1997 perche' pretendono di avocare allo Stato risorse di spettanza
regionale, al di fuori dei casi previsti.
Cio' e' vero sia nel caso in cui si ritenga che il comma 17
produca l'effetto di avocare allo Stato le risorse che prima
spettavano alla Regione a titolo di compartecipazione all'Irpef
fondiaria (art. 49 St.) e di addizionali regionale e comunale (art.
51, co. 2), sia nel caso in cui si ritenga che la Regione dovrebbe
assicurare il recupero allo Stato del maggior gettito con le proprie
risorse ordinarie, per cui il comma 17 produce l'effetto di "far
tornare" nelle casse statali risorse spettanti alla Regione e ad essa
affluite in attuazione delle regole finanziarie poste dallo Statuto e
dalle norme di attuazione (co. 17, terzo periodo).
Ancora, il comma 17, terzo e quarto periodo, viola gli artt. 63 e
65 St., proprio perche' pretende di derogare agli artt. 49 e 51 St. e
al dPR 114/1965 con una fonte primaria "ordinaria".
L'art. 65 St. e' violato anche perche' il comma 17, terzo
periodo, pretende di vincolare unilateralmente il contenuto delle
nonne di attuazione.
Inoltre, il comma 14, lett. a) ed il comma 17, terzo e quarto
periodo, violano l'autonomia finanziaria regionale (assicurata dagli
articoli 48 e 49 Statuto, e dall'art. 119, commi 1, 2, e 4, Cost.) in
quanto producono l'effetto di infliggere un nuovo, rilevante "taglio"
di risorse al sistema regionale.
Su questo punto si rinvia alle considerazioni svolte nel presente
atto a proposito dell'art. 28, co. 3. Si puo', pero', gia' qui
indicare, in sintesi, che le norme in questione producono, come
abbiamo visto, l'effetto di "espropriare" la Regione e gli enti
locali delle risorse corrispondenti ai 6/10 dell'Irpef fondiaria,
alle addizionali regionale e comunali e a quelle che l'art. 1 d.1.
93/2008 (ora abrogato) attribuiva ai comuni (tramite la Regione) per
compensare l'esenzione Ici sulla prima casa. Si tratta di una quota
rilevante di risorse, la cui eliminazione si aggiunge ai tagli gia'
operati con l'art. 14 d.l. 78/2010, l'art. 20, co. 5, d.l. 98/2011,
l'art. 1, co. 8, d.l. 138/2011 e l'art. 1, comma 156, primo periodo,
della legge 220/2010.
Le risorse "avocate" dalle norme qui impugnate (soprattutto
quelle compensative dell'Ici sulla prima casa) erano dirette al
finanziamento delle "funzioni normali" dei comuni, per cui la loro
sottrazione produce gravi squilibri e incide sulla finanza regionale
(v. l'art. 54 St. e l'art. 9 d. lgs. 9/1997). Lo Stato non puo'
revocare quote cosi' rilevanti di risorse senza alcuna compensazione.
Il principio di "neutralita' finanziaria" (riconosciuto dallo stesso
legislatore statale all'art. 1, co. 159, l. 220/2010, cui deve
attribuirsi valore interpretativo dello Statuto: "Qualora con i
decreti legislativi di attuazione della legge 5 maggio 2009, n. 42,
siano istituite sul territorio nazionale nuove forme di imposizione,
in sostituzione totale o parziale di tributi vigenti, con le
procedure previste dall'articolo 27 della medesima legge n. 42 del
2009, e' rivisto l'ordinamento finanziario della regione autonoma
Friuli-Venezia Giulia al fine di assicurare la neutralita'
finanziaria dei predetti decreti nei confronti dei vari livelli di
governo") e' stravolto dalle norme qui impugnate, che regolano un
nuovo tributo, sostituendolo a tributi preesistenti, con il risultato
di spostare risorse dal sistema regionale allo Stato.
E' anche violato il principio consensuale che domina i rapporti
finanziari tra Stato e Regioni speciali (v. le sentt. 82/2007,
353/2004, 39/1984, 98/2000, 133/2010; v. sempre il motivo relativo
all'art. 28, co. 4), perche' lo Stato ha proceduto a sovvertire
l'assetto della finanza regionale e comunale del tutto
unilateralmente, anzi violando le norme (come il succitato principio
di neutralita' finanziaria) concordate con la Regione (l'art. 1, co.
159, 1. 220/2010 recepisce l'art. 11 del Protocollo di intesa Tondo -
Tremonti').
Infine, e' da sottolineare che le norme impugnate colpiscono
essenzialmente le Regioni speciali, sia perche' solo esse dispongono
delle compartecipazioni e delle addizionali locali, sia perche' i
comuni delle regioni ordinarie non perdono la "compensazione"
dell'Ici sulla prima casa (che e' confluita nel fondo sperimentale di
riequilibrio). Di qui la violazione dell'art. 3 Cost., con ovvie
ripercussioni sull'autonomia finanziaria della Regione e degli enti
locali situati nel suo territorio.
Una menzione separata e specifica richiede l'illegittimita' del
quarto periodo del comma 17 che prevede lo "accantonamento" delle
quote di compartecipazione previste dall'art. 49 Statuto.
Va rilevato, infatti, che tale "accantonamento" contrasta
anch'esso frontalmente con l'art. 49 dello Statuto e con l'intero
sistema finanziario della Regione da esso istituito. E'evidente,
infatti, che le risorse che lo Statuto prevede come entrate regionali
sono cosi' stabilite perche' esse vengano utilizzate dalla Regione
per lo svolgimento delle sue funzioni costituzionali, e non perche'
esse vengano "accantonate". L'istituto dell'accantonamento non ha nel
sistema statutario cittadinanza alcuna.
Inoltre, l'illegittimita' del trasferimento previsto determina
anche l'illegittimita' dell'accantonamento disposto nella prospettiva
del trasferimento.
Specifica illegittimita' colpisce poi il quinto periodo del comma
17, che stabilisce in un ammontare fisso e determinato l'importo del
"recupero", stimandolo a priori con criteri del tutto oscuri. Si
tratta di una norma irragionevole, che prevede un importo fisso senza
contemplare alcun meccanismo di conguaglio o rimborso in caso di
inesattezza. L'irragionevolezza, naturalmente, si riflette
sull'autonomia finanziaria della Regione, tenuta ad assicurare il
"recupero".
Inoltre e' violato il gia' citato principio consensuale in
materia di finanza delle Regioni speciali, perche' la norma avrebbe
dovuto prevedere una determinazione concordata dell'importo in
questione.
3) Illegittimita' costituzionale dell'art. 14, comma 13-bis,
terzo e quarto periodo
L'art. 14, comma 1, d.1. 201/2011 stabilisce che "a decorrere dal
1° gennaio 2013 e' istituito in tutti i comuni del territorio
nazionale il tributo comunale sui rifiuti e sui servizi, a copertura
dei costi relativi al servizio di gestione dei rifiuti urbani e dei
rifiuti assimilati avviati allo smaltimento, svolto in regime di
privativa dai comuni, e dei costi relativi ai servizi indivisibili
dei comuni". Il comma 8 dispone che "il tributo e' corrisposto in
base a tariffa" ed i commi successivi regolano la determinazione
della tariffa (il comma 12 rinvia, a tal fine, ad un regolamento).
Il comma 13 statuisce che "alla tariffa determinata in base alle
disposizioni di cui ai commi da 8 a 12, si applica una maggiorazione
pari a 0,30 euro per metro quadrato, a copertura dei costi relativi
ai servizi indivisibili dei comuni, i quali possono, con
deliberazione del consiglio comunale, modificare in aumento la misura
della maggiorazione fino a 0,40 euro, anche graduandola in ragione
della tipologia dell'immobile e della zona ove e' ubicato".
Tali commi riguardano il regime generale del tributo, e non sono
oggetto di impugnazione.
Oggetto di impugnazione e' invece - per la parte che interessa la
Regione Friuli-Venezia Giulia - il comma 13-bis, il quale dispone
quanto segue:
"a decorrere dall'anno 2013 il fondo sperimentale di
riequilibrio, come determinato ai sensi dell'articolo 2 del decreto
legislativo 14 marzo 2011, n. 23, e il fondo perequativo, come
determinato ai sensi dell'articolo 13 del medesimo decreto
legislativo n. 23 del 2011, ed i trasferimenti erariali dovuti ai
comuni della Regione Siciliana e della Regione Sardegna sono ridotti
in misura corrispondente al gettito derivante dalla maggiorazione
standard di cui al comma 13 del presente articolo. In caso di
incapienza ciascun comune versa all'entrata del bilancio dello Stato
le somme residue. Con le procedure previste dall'articolo 27 della
legge 5 maggio 2009, n. 42, le regioni Friuli-Venezia Giulia e Valle
d'Aosta, nonche' le Province autonome di Trento e di Bolzano,
assicurano il recupero al bilancio statale del predetto maggior
gettito dei comuni ricadenti nel proprio territorio. Fino
all'emanazione delle norme di attuazione di cui allo stesso articolo
27, a valere sulle quote di compartecipazione ai tributi erariali, e'
accantonato un importo pari al maggior gettito di cui al precedente
periodo". Dunque, in base al terzo e quarto periodo dell'art. 13-bis
la Regione Friuli-Venezia Giulia dovrebbe versare al bilancio dello
Stato - a "compenso" di maggiori entrate dei Comuni - risorse dal
proprio bilancio.
Come si vede, si tratta di disposizioni simili a quelle di cui
all'art. 13, co. 17, terzo e quarto periodo, sopra censurate, con la
differenza che, nel caso del tributo comunale sui rifiuti e sui
servizi, il recupero al bilancio statale della maggiorazione e'
previsto in modo stabile.
Vanno richiamati, dunque, i motivi gia' svolti con riferimento
all'art. 13, co. 17, terzo e quarto periodo.
Per tali trasferimenti al bilancio dello Stato di entrate che
spettano alla Regione a termini di Statuto non vi e' alcun fondamento
statutario, ma vi e' invece violazione dello Statuto: il quale
assegna determinate entrate alla Regione affinche' essa ne disponga
per l'esercizio delle proprie funzioni, e non per versarle al
bilancio dello Stato.
Per il concorso ai bisogni della finanza pubblica sono stati
previsti appositi meccanismi (concordati con l'Accordo di Roma del
2010) dall'art. 1, commi 152 ss., 1. 220/2010, mentre l'art. 14, co.
13-bis, terzo e quarto periodo, stravolge unilateralmente l'assetto
dei rapporti tra Stato e Regione in materia finanziaria disegnato
dallo Statuto. Il terzo e quarto periodo del comma 13-bis, dunque,
violano gli artt. 48 e 49 St. e l'art. 4 dPR 114/1965 (su di esso v.
l'ultimo motivo) perche' pretendono di avocare allo Stato risorse di
spettanza regionale, al di fuori dei casi previsti. Infatti, la
Regione dovrebbe assicurare il recupero allo Stato della
maggiorazione standard con le proprie risorse ordinarie, per cui il
comma impugnato produce l'effetto di "far tornare" nelle casse
statali risorse affluite alla Regione in attuazione delle regole
finanziarie poste dallo Statuto e dalle norme di attuazione (co.
13-bis, terzo periodo).
Ancora, essi violano gli artt. 63 e 65 St., proprio perche'
pretendono di derogare agli artt. 49 e al dPR 114/1965 con una fonte
primaria "ordinaria".
L'art. 65 St. e' violato anche perche' il comma 13-bis, terzo
periodo, pretende di vincolare unilateralmente il contenuto delle
norme di attuazione.
Come gia' osservato per l'art. 13, comma 17, e' poi palese
l'illegittimita' del quarto periodo del comma 13-bis dell'art. 14
che, prevedendo l'accantonamento delle entrate regionali sulle quote
di compartecipazione previste dall'art. 49 St., contrasta
frontalmente con tale norma e con il sistema finanziario previsto
dallo Statuto, per le stesse ragioni sopra enunciate.
4) Illegittimita' costituzionale dell'art. 16, commi da 2 a 10
L'art. 16, co. 2, d.l. 201/2011 dispone che "dal 1° maggio 2012
le unita' da diporto che stazionino in porti marittimi nazionali,
navighino o siano ancorate in acque pubbliche, anche se in
concessione a privati, sono soggette al pagamento della tassa annuale
di stazionamento, calcolata per ogni giorno". Il comma 3 prevede una
riduzione della tassa per le imbarcazioni "utilizzate esclusivamente
dai proprietari residenti, come propri ordinari mezzi di locomozione,
nei comuni ubicati nelle isole minori e nella Laguna di Venezia". In
base al comma 4, "la tassa non si applica. alle unita' di cui al
comma 2 che si trovino in un'area di rimessaggio e per i giorni di
effettiva permanenza in rimessaggio". Il comma 7 individua i soggetti
tenuti al pagamento della tassa e precisa che "il gettito della tassa
di cui al comma 2 affluisce all'entrata del bilancio dello Stato".
In primo luogo, e' opportuno soffermarsi sulla qualificazione
giuridica del tributo. Diversi elementi inducono a riconoscere ad
esso la natura di tassa a fronte dell'utilizzazione di un bene
pubblico.
In primo luogo, lo stesso legislatore usa la denominazione di
"tassa", che, storicamente, e' il tributo che si paga per la
fruizione di un servizio o di un bene pubblico. La denominazione di
"tassa di stazionamento" e', dunque, coerente, perche' evidenzia che
l'oggetto del tributo e' l'occupazione di uno spazio o comunque il
transito sul bene pubblico acqua.
Inoltre, e' significativo il fatto che oggetto della tassazione
siano le unita' da diporto anche straniere e non iscritte in pubblici
registri italiani, contrariamente a quanto previsto, implicitamente,
per gli autoveicoli di cui al comma 1 ed esplicitamente per gli
aeromobili nei commi 11 e seguenti.
Ancora, la circostanza che la tassa non sia dovuta per il periodo
di rimessaggio ricollega direttamente l'imposizione tributaria
all'utilizzo del bene pubblico acqua e non alla presenza del bene
"unita' da diporto" nel patrimonio del soggetto.
Premesso cio', e' necessario ricordare le prerogative regionali
in relazione alle acque pubbliche. In base all'art. 1 d. lgs.
265/2001, "sono trasferiti alla regione Friuli-Venezia Giulia...
tutti i beni dello Stato appartenenti al demanio idrico, comprese le
acque pubbliche, gli alvei e le pertinenze, i laghi e le opere
idrauliche, situati nel territorio regionale, con esclusione del
fiume Judrio, nel tratto, classificato di prima categoria, nonche'
dei fiumi Tagliamento e Livenza, nei tratti che fanno da confine con
la regione Veneto" (co. 1). Il comma 2 aggiunge che "sono trasferiti
alla regione tutti i beni dello Stato e relative pertinenze...
situati nella laguna di Marano-Grado". La regione "esercita tutte le
attribuzioni inerenti alla titolarita' dei beni trasferiti ai sensi
dei commi 1 e 2" (co. 3). L'art. 5, co. 5, dispone che "i proventi e
le spese derivanti dalla gestione dei beni trasferiti spettano alla
regione a decorrere dalla data di consegna".
L'art. 9, co. 2 d. lgs. 111/2004, poi, trasferisce alla Regione
"tutte le funzioni amministrative, salvo quelle espressamente
mantenute allo Stato dall'articolo 11, in materia di.. navigazione
interna e porti regionali, comprese le funzioni relative alle
concessioni dei beni del demanio della navigazione interna, del
demanio marittimo, di zone del mare territoriale per finalita'
diverse da quelle di approvvigionamento energetico". Il comma 5
aggiunge che "i proventi e le spese derivanti dalla gestione del
demanio marittimo e della navigazione interna. spettano alla
Regione".
L'art. 11, co. 1, conferma che allo Stato restano soltanto le
funzioni relative "oo) all'utilizzazione del pubblico demanio
marittimo e delle zone del mare territoriale di competenza statale
per finalita' di approvvigionamento energetico".
La Regione, dunque, e' titolare dei beni del demanio idrico e di
quelli relativi alla laguna di Marano-Grado ed e' titolare in
sostanza di tutte le funzioni amministrative relative ai porti e agli
altri beni del demanio marittimo.
Poste tali premesse, l'art. 16 appare dunque illegittimo - in
primo luogo - nella parte in cui non esclude tutti i beni del demanio
idrico e la laguna di Marano-Grado dall'applicazione della tassa di
stazionamento, per violazione degli artt. 48 e 51, co. 1 St. (che
garantiscono l'autonomia finanziaria e patrimoniale della Regione)e
dell'art. 1 d. lgs. 265/2001 (sopra illustrato), perche'
l'istituzione, da parte dello Stato, di una tassa statale per la
fruizione di un bene del demanio regionale viola l'autonomia
finanziaria e patrimoniale della Regione.
Ove l'istituzione della tassa apparisse legittima, non potrebbe
non apparire illegittima la destinazione al bilancio dello Stato. In
effetti, l'art. 5, comma 5, del d. lgs. n. 265 del 2001 riserva alla
Regione "i proventi e le spese derivanti dalla gestione dei beni
trasferiti spettano": e tra essi non possono non includersi quelli
derivanti dalle imposizioni relative specificamente alla fruizione di
essi.
Inoltre, l'art. 16 e' illegittimo perche' prevede una tassa che
colpisce la fruizione di beni del demanio marittimo (cioe' di beni la
cui gestione amministrativa spetta alla Regione, con i relativi
proventi: art. 9, co. 5, d. lgs. 111/2004) senza prevedere un ruolo
della Regione nella regolamentazione della tassa. Se il presupposto
del tributo dev'essere riconosciuto, come si e' visto, nell'uso del
bene pubblico, nella disciplina di esso dovrebbe essere coinvolto
l'ente che, in virtu' delle norme di attuazione, ha la competenza
legislativa ed amministrativa sulla gestione del bene stesso.
Infine, l'art. 16, co. 3, appare illegittimo perche' prevede una
riduzione della tassa per le imbarcazioni "utilizzate esclusivamente
dai proprietari residenti, come propri ordinari mezzi di locomozione,
nei comuni ubicati nelle isole minori e nella Laguna di Venezia",
senza estendere eguale regime ai comuni ubicati nella laguna di
Marano-Grado. La norma distingue irragionevolmente fra situazioni del
tutto assimilabili, e la violazione dell'art. 3 si riflette in
lesione dell'autonomia finanziaria regionale, trattandosi di beni del
demanio regionale. Inoltre, la Regione e' anche legittimata a far
valere la violazione del principio di eguaglianza quale ente
esponenziale (art. 5 Cost.) della comunita' stanziata sul proprio
territorio (per un precedente v. sent. 276/1991).
5) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23, comma 4.
L'art. 23, co. 4, aggiunge il comma 3-bis all'art. 33 d. lgs.
163/2006, stabilendo che "i Comuni con popolazione non superiore a
5.000 abitanti ricadenti nel territorio di ciascuna Provincia
affidano obbligatoriamente ad un'unica centrale di committenza
l'acquisizione di lavori, servizi e forniture nell'ambito delle
unioni dei comuni, di cui all'articolo 32 del testo unico di cui al
decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, ove esistenti, ovvero
costituendo un apposito accordo consortile tra i comuni medesimi e
avvalendosi dei competenti uffici".
Tale disposizione dovrebbe essere intesa in collegamento con
l'art. 4, co. 5, d. lgs. 163/2006 ("Le regioni a statuto speciale e
le province autonome di Trento e Bolzano adeguano la propria
legislazione secondo le disposizioni contenute negli statuti e nelle
relative norme di attuazione") e, dunque, in senso conforme a
costituzione, cioe' nel senso che non si applica a questa Regione.
Essa, pero', potrebbe essere anche interpretata nel senso di
volersi applicare in tutto il territorio nazionale e, in tal caso,
sarebbe lesiva delle prerogative costituzionali della Regione.
La norma, infatti, rientra prevalentemente nella materia
"organizzazione amministrativa degli enti locali" e, poi, incide
anche sulla materia "finanza locale", avendo come scopo la
razionalizzazione della spesa degli enti locali. Nella prima materia
la Regione Friuli-Venezia Giulia e' dotata di potesta' legislativa
primaria ai sensi dell'art. 4, n. 1-bis, dello Statuto. Con la legge
regionale 9 gennaio 2006, n. 1, sono stati dettati i "Principi e
norme fondamentali del sistema Regione - autonomie locali" e, tra
l'altro, sono stati disciplinati l'esercizio coordinato di funzioni e
la gestione associata di servizi tra enti locali, individuando le
forme collaborative tra gli enti locali della regione.
Anche nella seconda materia la Regione e' titolare di ampia
competenza statutaria in base agli artt. 51 e 54 dello Statuto e
all'art. 9 d. lgs. 9/1997. In particolare, il comma 1 di questa
disposizione statuisce che "spetta alla regione disciplinare la
finanza locale, l'ordinamento finanziario e contabile,
l'amministrazione del patrimonio e i contratti degli enti locali".
La norma censurata, per il suo carattere dettagliato, non puo'
rappresentare un limite alle competenze regionali appena illustrate
e, percio', essa sarebbe illegittima qualora pretendesse di
applicarsi ai comuni della regione Friuli-Venezia Giulia. Essa,
infatti, non si limita a prescrivere ai comuni piccoli forme
organizzative idonee a determinare un risparmio nella conclusione dei
contratti pubblici, ma prevede direttamente la soglia di popolazione
e le forme associative per l'individuazione della centrale unica di
committenza.
Inoltre, e' da osservare che, in base all'art. 9, co. 2, d. 1gs.
9/1997 (attuativo dell'art. 54 St), "la regione finanzia gli enti
locali con oneri a carico del proprio bilancio". L'art. 1, co. 154,
1. 220/2010 ha statuito quanto segue: "la regione autonoma
Friuli-Venezia Giulia, gli enti locali del territorio, i suoi enti e
organismi strumentali, le aziende sanitarie e gli altri enti e
organismi il cui funzionamento e' finanziato dalla regione medesima
in via ordinaria e prevalente costituiscono nel loro complesso il
«sistema regionale integrato». Gli obiettivi sui saldi di finanza
pubblica complessivamente concordati tra lo Stato e la regione sono
realizzati attraverso il sistema regionale integrato. La regione
risponde nei confronti dello Stato del mancato rispetto degli
obiettivi di cui al periodo precedente". Il comma 155 ha poi aggiunto
che "spetta alla regione individuare, con riferimento agli enti
locali costituenti il sistema regionale integrato, gli obiettivi per
ciascun ente e le modalita' necessarie al raggiungimento degli
obiettivi complessivi di volta in volta concordati con lo Stato per
il periodo di' riferimento, compreso il sistema sanzionatorio", e che
"le disposizioni statali relative al patto di stabilita' interno non
trovano applicazione con riferimento agli enti locali costituenti il
sistema regionale integrato".
Da tali norme risulta che lo Stato deve limitarsi a concordare
con la Regione i' vincoli finanziari, lasciando alla Regione il
compito di regolare i rispettivi obblighi finanziari propri e degli
enti locali del proprio territorio.
E' illegittimo, in altre parole, che lo Stato vada direttamente a
limitare una voce di spesa degli enti locali, laddove il
finanziamento di questi e' a carico del bilancio regionale (v., ad
es., la sent. 341/09, punto 6: lo Stato non ha "ha titolo per dettare
norme di coordinamento finanziario che definiscano le modalita' di
contenimento di una spesa sanitaria che e' interamente sostenuta
dalla Provincia autonoma di Trento")
6) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23, commi da 14 a
20-bis. Violazione degli articoli 5, 114, 117 commi primo, secondo e
sesto, 118, commi primo e secondo, e 119 cost. nonche' dell'art. 4,
lett. 1 bis, dell'art. 11 e dell'art. 59 dello Statuto regionale.
Violazione dell'art. 54 St. e del d. lgs. 9/1997.
L'art. 23, nei commi da 14 a 20, contiene una serie di
disposizioni che alterano radicalmente l'organizzazione e le funzioni
delle Province. Dichiaratamente, esse fanno parte di un programma
che, al punto di arrivo, prevede la soppressione delle Province
mediante legge costituzionale.
In particolare e' disposto che:
"Spettano alla provincia esclusivamente le funzioni di
indirizzo e di coordinamento delle attivita' dei comuni nelle materie
e nei limiti indicati con legge statale o regionale, secondo le
rispettive competenze" (comma 14);
"Sono organi di governo della Provincia il Consiglio
provinciale ed il Presidente della Provincia. Tali organi durano in
carica cinque anni" (comma 15);
"Il consiglio provinciale e' composto da non piu' di dieci
componenti eletti dagli organi elettivi dei comuni ricadenti nel
territorio della Provincia. Le modalita' di elezione sono stabilite
con legge dello Stato entro il 30 aprile 2012" (comma 16);
"Il Presidente della Provincia e' eletto dal Consiglio
provinciale tra i suoi componenti secondo le modalita' stabilite
dalla legge statale di cui al comma 16" (comma 17);
"Fatte salve le funzioni di cui al comma 14, lo Stato e le
Regioni, con propria legge, secondo le rispettive competenze,
provvedono a trasferire ai Comuni, entro il 31 dicembre 2012, le
funzioni conferite dalla normativa vigente alle Province, salvo che,
per assicurarne l'esercizio unitario, le stesse siano acquisite dalle
Regioni, sulla base dei principi di sussidiarieta', differenziazione
ed adeguatezza. In caso di mancato trasferimento delle funzioni da
parte delle Regioni entro il 31 dicembre 2012, si provvede in via
sostitutiva, ai sensi dell'articolo 8 della legge 5 giugno 2003, n.
131, con legge dello Stato" (comma 18).
"Lo Stato e le Regioni, secondo le rispettive competenze,
provvedono altresi' al trasferimento delle risorse umane, finanziarie
e strumentali per l'esercizio delle funzioni trasferite, assicurando
nell'ambito delle medesime risorse il necessario supporto di
segreteria per l'operativita' degli organi della provincia" (comma
19);
"Agli organi provinciali che devono essere rinnovati entro
il 31 dicembre 2012 si applica, sino al 31 marzo 2013, l'articolo 141
del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, di
cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, e successive
modificazioni. Gli organi provinciali che devono essere rinnovati
successivamente al 31 dicembre 2012 restano in carica fino alla
scadenza naturale. Decorsi i termini di cui al primo e al secondo
periodo del presente comma, si procede all'elezione dei nuovi organi
provinciali di cui ai commi 16 e 17" (comma 20).
Le disposizioni ora citate dispongono direttamente delle
Province, per gli aspetti indicati, nelle Regioni a statuto
ordinario. Le Regioni speciali - pur titolari tutte di potesta'
legislativa primaria in materia di enti locali - non sono lasciate al
di fuori di questo processo. Infatti, il comma 20 bis dell'art. 23
precisa che "le regioni a statuto speciale adeguano i propri
ordinamenti alle disposizioni di cui ai commi da 14 a 20 entro sei
mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto" (dispone
inoltre - senza che qui la cosa rilevi - che le disposizioni in
questione "non trovano applicazione per le province autonome di
Trento e di Bolzano").
Se e quando il destino delle Province verra' deciso mediante lo
strumento appropriato della legge di revisione costituzionale, la
Regione Friuli-Venezia Giulia - che si riserva di prendere parte al
relativo dibattito con i propri strumenti ordinamentali - non potra'
che prendere atto di tali decisioni.
Essa ritiene tuttavia che - sino a che tali scelte vengano
compiute - le disposizioni dettate in proposito dai commi da 14 a 20
siano sotto molti profili costituzionalmente illegittime, sia per il
fatto di essere contenute in un decreto-legge sia nei loro specifici
contenuti, per violazione delle disposizioni costituzionali di cui
agli artt. 5, 114, 117 e 118 Cost., e che la disposizione di cui al
comma 20 bis sia costituzionalmente illegittima, sia in quanto impone
alla Regione un dovere di adeguamento a tali contenuti illegittimi,
sia - se pure tali contenuti fossero in se' legittimi - in quanto
impone un dovere di adeguamento al di la' di quanto doveroso ai sensi
dell'art. 4, n. 1 bis, dello Statuto.
Di seguito verranno illustrate tali illegittimita', sotto tutti i
profili. La Regione ricorre per se', in quanto la legge dello Stato
impedisce il legittimo esercizio delle sue competenze, ma ricorre
anche in quanto portatrice degli interessi delle comunita'
provinciali del proprio territorio.
a. In via preliminare: illegittimita' costituzionale di tutte le
disposizioni impugnate per violazione dell'art. 77 Cost.
I commi da 14 a 20 sono inseriti in un decreto-legge ma, com'e'
evidente, non sono affatto sorretti dai presupposti costituzionali di
cui all'art. 77 cost. ("casi straordinari di necessita' e urgenza"),
in quanto si tratta di norme che operano una riforma strutturale
delle funzioni e degli organi delle Province, e che sono destinate a
produrre i propri effetti finanziari solo in un futuro non prossimo.
Lo Stato, dunque, avrebbe potuto e dovuto adottare tali norme con
l'ordinario procedimento legislativo. Per stessa ammissione contenuta
nella relazione tecnica al decreto (doc. 2), trattasi di un
"intervento di carattere strutturale con riguardo all'assetto
istituzionale delle Province", che, per sua natura, non ha alcun
carattere di urgenza, tanto che rinvia alla successiva legislazione
ordinaria l'assetto delle funzioni e la disciplina degli organi. Si
consideri, poi, che le nuove disposizioni introdotte si applicheranno
ai rinnovi elettorali successivi alla data del 31 dicembre 2012.
Inoltre, dalle norme impugnate non conseguono immediati risparmi
di spesa. Sempre dalla relazione tecnica risulta che "il risparmio di
spesa associabile al complesso normativa in esame - 65 milioni di
euro lordi - e' destinato a prodursi dal 2013 e peraltro in via
prudenziale non viene considerato in quanto verra' registrato a
consuntivo".
La Regione e' legittimata a denunciare la violazione dell'art. 77
cost. perche' essa si ripercuote su una sua sfera di competenza
(ordinamento degli enti locali), nel senso che la potesta'
legislativa regionale viene vincolata in modo illegittimo e, per di
piu', la procedura accelerata di approvazione delle nonne ha impedito
alla Regione di far valere il proprio punto di vista (si veda, di
recente, la sent. 22/2012).
b. Illegittimita' costituzionale dei commi 14, 18 e 19.
Secondo il comma 14 - come esposto - "spettano alla provincia
esclusivamente le funzioni di indirizzo e di coordinamento delle
attivita' dei comuni nelle materie e nei limiti indicati con legge
statale o regionale, secondo le rispettive competenze" (comma 14).
Tale disposizione, nella parte in cui limita le funzioni della
Provincia a quelle di "indirizzo e di coordinamento delle attivita'
dei comuni", viola, ad avviso della Regione, la disciplina
costituzionale in materia di funzioni degli enti locali, in quanto
enti costitutivi della Repubblica (oltre al fondamentale principio di
cui all'art. 5: "la Repubblica... riconosce e promuove le autonomie
locali"). Da tale disciplina, infatti, risulta con evidenza che
ognuno di tali enti compositivi ha funzioni proprie di autonomo
soddisfacimento degli interessi pubblici della comunita'
rappresentata, e non puo' essere ridotto ad una mera struttura di
coordinamento di funzioni altrui.
Cio' risulta in particolare:
dall'articolo 114, comma secondo cui "i Comuni, le Province,
le Citta' metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri
statuti, poteri e funzioni";
dall'art. 117, comma secondo, lett. p), dalla quale risulta
da un lato che alle Province (come agli altri enti) spetta di vedere
definite dalla legge statale le funzioni fondamentali, che sembra
chiaro non possano essere ridotte alla mera funzione di indirizzo e
coordinamento di funzioni altrui;
dall'art. 117, comma sesto, secondo cui le Province "hanno
potesta' regolamentare in ordine alla disciplina dell'organizzazione
e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite (mentre nel nuovo
sistema mancherebbe il possibile oggetto della potesta'
regolamentare);
dall'art. 118, comma 1, che prevede che alle Province vengano
attribuite "per assicurarne l'esercizio unitario" le funzioni che non
possano essere svolte dai Comuni, e d'altronde non richiedano di
essere svolte dalla Regione o dallo Stato in base ai principi di
sussidiarieta' e di adeguatezza (con conseguente evidente
illegittimita' di una disciplina di legge ordinaria che a priori
limiti le funzioni della Provincia a quelle di coordinamento);
dall'art. 118, comma secondo il quale le Province "sono
titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con
legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze": dove
l'aggettivo proprie esclude che si tratti di mere funzioni di
coordinamento, e la previsione di funzioni conferite con legge
regionale vale evidentemente ad escludere che la legge statale
ordinaria possa impedire alle Regioni di fare quanto prescritto dalla
Costituzione;
dell'art. 119 cost. le cui varie disposizioni suppongono
anch'esse un ente dotato, al pari degli altri enti compositivi della
Repubblica, di funzioni proprie da finanziare in termini adeguati.
In definitiva, la eliminazione di qualunque funzione propria
della Provincia, e la sua riduzione ad un ente di presunto indirizzo
e di coordinamento dei comuni, contraddice sia le singole
disposizioni costituzionali citate, sia il disegno complessivo che da
esse emerge.
L'illegittimita' del comma 14 si riverbera sulla corrispondente
illegittimita' dei commi 18 e 19, che contengono in definitiva
disposizioni attuative del comma 14. Il comma 18 riguarda le funzioni
attualmente conferite alle Province dalla normativa vigente, che con
legge regionale dovrebbero essere riportate ai Comuni, oppure alla
stessa Regione, entro il 31 dicembre 2012.
In questo modo la legge statale chiama la legge regionale a fare
esattamente il contrario di quanto la Regione dovrebbe fare in base
alla Costituzione: anziche' attribuire alle Province le funzioni in
base ai principi di sussidiarieta' ed adeguatezza, togliere ad esse
le funzioni che in base a tali principi esse svolgono, per assegnarle
a livelli che si suppongono meno adatti.
Essendo illegittimo il dovere cosi imposto alle Regioni,
altrettanto illegittimo e' anche il potere sostitutivo previsto dal
secondo periodo del comma 18 per il "caso di mancato trasferimento
delle funzioni da parte delle Regioni" entro il termine.
La stessa illegittimita' colpisce poi il comma 19, che completa
il disegno di sottrazione delle funzioni sul piano delle "risorse
umane, finanziarie e strumentali". che ovviamente dovrebbero seguire
il trasferimento delle funzioni.
c. Illegittimita' costituzionale dei commi 15, 16 e 17.
I commi 15, 16 e 17 modificano gli organi delle Province, per
renderli coerenti con le funzioni che il comma 14 le chiama ad
esercitare.
In quanto questo ne e' lo scopo, ed in quanto essi completano sul
piano organizzativo il disegno perseguito sul piano delle funzioni,
l'illegittimita' della sottrazione delle funzioni colpisce anche il
disegno organizzativo che ne e' la conseguenza.
Ma gli stessi commi presentano anche autonome illegittimita', per
violazione diretta delle norme costituzionali.
La prima illegittimita' consiste ad avviso della ricorrente
Regione nella recisione da parte del comma 15 del legame tra
cittadini e istituzione provinciale, che si realizza attraverso la
soppressione della elezione popolare sia del Presidente che dello
stesso Consiglio provinciale.
Non sembra dubbio, infatti, che nel disegno costituzionale la
Provincia debba essere direttamente rappresentativa della propria
comunita' popolare di riferimento, e non soltanto delle istituzioni
comunali del suo territorio.
"Costituire" la Repubblica, ai sensi del primo comma dell'art.
114 Cost., significa che ciascuno di tali enti ne e' una "autonoma"
espressione, in base alle regole generali della autonomia. Cio'
risulta confermato dal comma secondo, secondo il quale esse sono enti
autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi
costituzionali). Esse sono parte della Repubblica, e godono di
autonomia, proprio in quanto condividono la natura di entita' che
rappresentano il popolo, per la relativa porzione di territorio.
Del resto, gia' la versione originaria del Titolo V della Parte
seconda della Costituzione aveva confermato la Provincia nella sua
configurazione storica di ente locale rappresentativo del popolo
insediato nel suo territorio.
Come si vedra', quanto qui considerato e' pienamente confermato,
sul piano internazionale, dalla Carta europea delle autonomie locali,
che risulta anch'essa violata.
Una volta ritenuta l'illegittimita' della derivazione indiretta
del Consiglio provinciale, risulta illegittimo, per violazione del
principio di ragionevolezza, sia l'individuazione in dieci del numero
massimo dei consiglieri - numero che rende impossibile una adeguata
rappresentanza del territorio provinciale - sia la mancata
individuazione, tra gli organi della Provincia, della Giunta
provinciale, dato che la soppressione puo' avere senso solo nel
quadro di un ente privo di funzioni.
d. Illegittimita' dei commi 14, 16 e 17 per violazione della
Carta europea delle autonomie locali.
Come e' ben noto, l'art. 117, primo comma, della Costituzione
sancisce che "la potesta' legislativa e' esercitata dallo Stato e
dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonche' dei vincoli
derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi
internazionali".
Tra gli atti che determinano obblighi internazionali vi e' la
Carta europea delle autonomie locali, resa esecutiva con 1. 439 del
1989.
Posto che non puo' essere messo in dubbio che la Provincia, per
come e' disegnata dalla Costituzione, costituisca "autonomia locale"
ai sensi della Carta europea, occorre qui ricordare che l'art. 3 di
essa sancisce, sul piano dell'azione, che "per autonomia locale,
s'intende il diritto e le capacita' effettiva, per le collettivita'
locali, di regolamentare ed amministrare nell'ambito della legge,
sotto la loro responsabilita', e a favore delle popolazioni, una
parte importante di affari pubblici".
Ne risulta che il comma 14, assegnando alle Provincia solo
funzioni di coordinamento dei Comuni, e nessuna funzione autonoma di
amministrazione, viola l'art. 3, comma 1, della Carta.
Inoltre, il comma 2 dell'art. 3 stabilisce che "tale diritto e'
esercitato da Consigli e Assemblee costituiti da membri eletti a
suffragio libero, segreto, paritario, diretto e universale, in grado
di disporre di organi esecutivi responsabili nei loro confronti". Ne
risulta che il comma 16, che stabilisce che i componenti del
Consiglio provinciale sono eletti dai Comuni, anziche' "a suffragio
libero, segreto, paritario, diretto e universale", viola l'art. 3,
comma 2, della Carta.
e. Violazione dell'art. 4, dell'art. 1l, dell'art. 54 e dell'art.
59 dello Statuto regionale; violazione dell'art. 2 d. lgs. 9/1997.
Il comma 20-bis dell'art. 23 riguarda - per quanto qui interessa
- la posizione delle Regioni a statuto speciale nei confronti delle
disposizioni dei commi da 14 a 20, e dispone che esse "adeguano i
propri ordinamenti alle disposizioni di cui ai commi da 14 a 20 entro
sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto".
Se, come sopra argomentato, tali disposizioni sono
costituzionalmente illegittime, e' ovviamente illegittimo anche il
dovere di adeguamento cosi' posto.
Ma il comma 20-bis appare illegittimo anche al di la' di questa
constatazione. Infatti, avendo la Regione Friuli-Venezia Giulia (come
del resto le altre Regioni speciali) potesta' legislativa primaria,
la sua legislazione e' soggetta soltanto ai limiti fissati dall'art.
4 dello Statuto, escluso ogni dovere di generico "adeguamento" a
specifiche disposizioni di legge ordinaria.
Risulta poi specificamente violato l'art. 11 dello stesso
Statuto, secondo il quale "la Regione esercita normalmente le sue
funzioni amministrative delegandole alle Province ed ai Comuni, ai
loro consorzi ed agli altri enti locali, o avvalendosi dei loro
uffici". E'evidente, infatti, che tale disposizione implica la
facolta' (e il dovere) della Regione di delegare "normalmente" alle
Province parte delle proprie funzioni amministrative, e che tale
facolta' di delega non puo' in alcun modo essere riferita alla sola
funzione di indirizzo e coordinamento dei comuni.
Ugualmente risulta violato l'art. 59 dello Statuto, secondo il
quale le Province (al pari dei Comuni) della Regione "sono Enti
autonomi ed hanno ordinamenti e funzioni stabilite dalle leggi dello
Stato e della Regione". Esso e' stato attuato con l'art. 2 d. lgs.
9/1997, in base al quale "la regione, nel rispetto degli articoli 5 e
128 della Costituzione, nonche' dell'articolo 4 dello statuto di
autonomia, fissa i principi dell'ordinamento locale e ne determina le
funzioni, per favorire la piena realizzazione dell'autonomia degli
enti locali". Tali disposizioni, che riprendono in parte le
definizioni costituzionali (con le loro implicazioni, che si sono
sopra esposte), comportano il potere della Regione di definire le
funzioni delle Province, al di fuori di ogni possibile limitazione al
solo ruolo di indirizzo e coordinamento dei Comuni.
E'violato poi anche l'art. 54 St. ("Allo scopo di adeguare le
finanze delle Province e dei Comuni al raggiungimento delle finalita'
ed all'esercizio delle funzioni stabilite dalle leggi, il Consiglio
regionale puo' assegnare ad essi annualmente una quota delle entrate
della Regione"), dal quale risulta che alle Province devono spettare
anche funzioni gestionali e non solo di coordinamento.
f. Violazione dell'art. 54 St. e dell'art. 9 d. lgs. 9/1997
Le norme in questione (in particolare, i commi 14, 15 e 16) sono,
infine, illegittime per ragioni analoghe a quelle esposte alla fine
del punto precedente, cioe' per violazione delle norme statutarie e
di attuazione che attribuiscono alla Regione il compito di finanziare
gli enti locali, cosi' come integrate dall'art. 1, co. 154 e 155, 1.
220/2010. In sintesi (e rinviando al punto 5, ultima parte), e'
illegittimo che lo Stato vada direttamente a limitare la spesa degli
enti locali, laddove il finanziamento di questi e' a carico del
bilancio regionale.
7) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23, comma 22
L'art. 23, co. 22, dispone che "la titolarita' di qualsiasi
carica, ufficio o organo di natura elettiva di un ente territoriale
non previsto dalla Costituzione e' a titolo esclusivamente onorifico
e non puo' essere fonte di alcuna forma di remunerazione, indennita'
o gettone di presenza, con esclusione dei comuni di cui all'articolo
2, comma 186, lettera b), della legge 23 dicembre 2009, n. 191, e
successive modificazioni". In sede di conversione, dunque,
l'applicazione della norma e' stata esclusa per i "comuni di cui
all'articolo 2, comma 186, lettera b) della legge 23 dicembre 2009,
n. 191, e successive modificazioni". Si tratta delle circoscrizioni
nei Comuni di dimensione superiore ai 250.000 abitanti.
Per l'assenza di una clausola di salvaguardia, il comma 22
potrebbe essere inteso nel senso di volersi applicare anche nelle
regioni speciali. In tal caso, esso sarebbe lesivo delle competenze
costituzionali della Regione in materia di ordinamento degli enti
locali e di finanza locale, per ragioni analoghe a quelle gia'
esposte con riferimento all'art. 23, co. 4.
La norma, infatti, rientra prevalentemente nella materia
"ordinamento degli enti locali" e, poi, incide anche sulla materia
"finanza locale", avendo come scopo la razionalizzazione della spesa
degli enti locali. Nella prima materia la Regione Friuli-Venezia
Giulia e' dotata di potesta' legislativa primaria ai sensi dell'art.
4, n. 1-bis, dello Statuto. Le norme di attuazione adottate nella
stessa materia hanno poi precisato che "spetta alla regione
disciplinare lo status degli amministratori locali" (art. 14 d. lgs.
9/1997).
Con l'art. 3, co. 13, 1.r. 13/2002 la Regione ha disposto che "la
misura delle indennita' e dei gettoni di presenza degli
amministratori degli Enti locali e' determinata con deliberazione
della Giunta regionale, su proposta dell'Assessore per le autonomie
locali, d'intesa con il Consiglio delle autonomie locali". L'art. 12,
co. 2,1.r. 22/2010 ha poi stabilito (a fini di chiarezza, dopo
l'emanazione del d.l. 78/2010) che "la misura delle indennita' e dei
gettoni di presenza previsti a favore degli amministratori degli enti
locali continua ad essere disciplinata secondo quanto previsto dal
comma 13 dell'articolo 3 della legge regionale 15 maggio 2002, n.
13". Tale disposizione non e' stata impugnata dal Governo.
Anche nella materia della finanza locale la Regione e' titolare
di ampia competenza statutaria in base agli artt. 51 e 54 dello
Statuto e all'art. 9 d. lgs. 9/1997. In particolare, il comma 1 di
questa disposizione statuisce che "spetta alla regione disciplinare
la finanza locale, l'ordinamento finanziario e contabile,
l'amministrazione del patrimonio e i contratti degli enti locali".
La norma censurata, per il suo carattere dettagliato, non puo'
rappresentare un limite alle competenze regionali appena illustrate
e, percio', essa sarebbe illegittima qualora pretendesse di
applicarsi nella regione Friuli-Venezia Giulia. Essa, infatti, non
solo non e' idonea a concretare uno dei limiti alla potesta'
legislativa primaria ma pone un limite puntuale, autoapplicativo e
stabile ad una voce minuta di spesa e, percio', non possiede nessuno
dei caratteri che, in base alla giurisprudenza costituzionale, sono
requisiti necessari dei "principi fondamentali di coordinamento della
finanza pubblica". L'art. 23, co. 22, dunque, non pone un vincolo
legittimo neppure in relazione alle Regioni ordinarie (con
conseguente violazione dell'art. 117, co. 3, Cost.) e tanto meno puo'
condizionare la potesta' primaria della Regione in materia di
ordinamento degli enti locali e l'ampia potesta' in materia di
finanza locale.
Inoltre, e' da osservare che, in base all'art. 9, co. 2, d. lgs.
9/1997 (attuativo dell'art. 54 St), "la regione finanzia gli enti
locali con oneri a carico del proprio bilancio". L'art. 1, co. 154,
1. 220/2010 ha statuito quanto segue: "la regione autonoma
Friuli-Venezia Giulia, gli enti locali del territorio, i suoi enti e
organismi strumentali, le aziende sanitarie e gli altri enti e
organismi il cui funzionamento e' finanziato dalla regione medesima
in via ordinaria e prevalente costituiscono nel loro complesso il
«sistema regionale integrato». Gli obiettivi sui saldi di finanza
pubblica complessivamente concordati tra lo Stato e la regione sono
realizzati attraverso il sistema regionale integrato. La regione
risponde nei confronti dello Stato del mancato rispetto degli
obiettivi di' cui al periodo precedente". Il comma 155 ha poi
aggiunto che "spetta alla regione individuare, con riferimento agli
enti locali costituenti il sistema regionale integrato, gli obiettivi
per ciascun ente e le modalita' necessarie al raggiungimento degli
obiettivi complessivi di volta in volta concordati con lo Stato per
il periodo di riferimento, compreso il sistema sanzionatorio", e che
"le disposizioni statali relative al patto di stabilita' interno non
trovano applicazione con riferimento agli enti locali costituenti il
sistema regionale integrato".
Da tali norme risulta che lo Stato deve limitarsi a concordare
con la Regione i vincoli finanziari, lasciando alla Regione il
compito di regolare i rispettivi obblighi finanziari propri e degli
enti locali del proprio territorio.
E' illegittimo, in altre parole, che lo Stato vada direttamente a
limitare una voce di spesa degli enti locali, laddove il
finanziamento di questi e' a carico del bilancio regionale (v. sent.
341/2009, punto 6).
8) Illegittimita' costituzionale dell'art. 28, comma 3
L'art. 28 ha ad oggetto il Concorso alla manovra degli Enti
territoriali e ulteriori riduzioni di spese. Il comma 3 stabilisce
quanto segue: "Con le procedure previste dall'articolo 27, della
legge 5 maggio 2009, n. 42, le Regioni a statuto speciale e le
Province autonome di Trento e Bolzano assicurano, a decorrere
dall'anno 2012, un concorso alla finanza pubblica di curo 860 milioni
annui. Con le medesime procedure le Regioni Valle d'Aosta e
Friuli-Venezia Giulia e le Province autonome di Trento e Bolzano
assicurano, a decorrere dall'anno 2012, un concorso alla finanza
pubblica di 60 milioni di euro annui, da parte dei Comuni ricadenti
nel proprio territorio. Fino all'emanazione delle norme di attuazione
di cui al predetto articolo 27, l'importo complessivo di 920 milioni
e' accantonato, proporzionalmente alla media degli impegni finali
registrata per ciascuna autonomia nel triennio 2007-2009, a valere
sulle quote di compartecipazione ai tributi erariali".
Siamo, dunque, di fronte ad una ulteriore rilevante sottrazione
di risorse alle Regioni speciali, che si aggiunge a quelle previsti
dall'art. 14 d.l. 78/2010, dall'art. 20, co. 5, di. 98/2011,
dall'art. 1, co. 8, d.l. 138/2011 e, per questa Regione, dalla 1.
220/2010. In piu', viene disposto un concorso anche "da parte dei
comuni" situati nei territori delle autonomie speciali dotate di
competenza in materia di finanza locale. Quest'ultimo concorso, in
realta', incide in sostanza sempre sulla Regione, e comunque anche il
concorso dei comuni inciderebbe pur sempre sulla Regione, in forza
dell'art. 54 dello Statuto e dell'art. 9 del d. lgs. n. 9 del 1997.
Comunque, in base alla giurisprudenza costituzionale le Regioni
sono legittimate a difendere davanti alla Corte anche l'autonomia
finanziaria dei comuni (v. sentt. 298/2009, 278/10, punto 14.1,
169/2007, punto 3, 95/2007, 417/2005, 196/2004, 533/2002).
La sottrazione di' risorse qui contestata non ha in effetti
alcuna base statutaria.
Al contrario, le disposizioni dello Statuto, a partire dal
fondamentale art. 49, sono rivolte ad assicurare alla Regione le
finanze necessarie all'esercizio delle funzioni: ed e' chiaro che la
devoluzione statutaria di importanti percentuali dei tributi riscossi
nella regione non avrebbe alcun senso, se poi fosse consentito alla
legge ordinaria dello Stato di riportare all'erario tali risorse, per
di piu' con determinazione unilaterale e meramente potestativa.
Per di piu', come gia' ricordato, lo Stato ha gia' definito (con
l'art. 1, commi 152 ss. 1. 220/2010) i modi in cui la Regione
Friuli-Venezia Giulia concorre al risanamento della finanza pubblica,
con norme che hanno recepito l'Accordo di Roma del 29 ottobre 2010.
I commi 154 e 155 dell'art. 1 l. 220/2010 attribuiscono alla
Regione poteri di coordinamento finanziario con riferimento agli enti
locali, nel quadro della generale competenza legislativa regionale in
materia di finanza locale prevista dagli artt. 51 e 54 St. e
dall'art. 9 d. lgs. 9/1997.
Con le disposizioni statutarie sopra ricordate l'impugnato art.
28, comma 3, si pone in insanabile conflitto.
Le risorse spettanti alla Regione non possono essere
semplicemente "acquisite" dallo Stato.
Del resto, tutto il regime dei rapporti finanziari fra Stato e
Regioni speciali e' dominato dal principio dell'accordo, pienamente
riconosciuto nella giurisprudenza costituzionale: v. le sentt.
82/2007, 353/2004, 39/1984, 98/2000, 133/2010.
L'illegittimita' della disposizione impugnata non puo' essere
nascosta dal rinvio alle norme di attuazione dello Statuto.
In primo luogo, l'accantonamento previsto in attesa delle norme
di attuazione e' gia' autonomamente lesivo, traducendosi in una
sottrazione delle risorse disponibili per la Regione (v. anche
argomenti esposti sopra).
In secondo luogo, quanto alle stesse norme di attuazione, l'art.
49 e' modificabile solo con la procedura di cui all'art. 104 St. e
non in sede di attuazione. In terzo luogo, l'art. 28, co. 3,
determina (illegittimamente) un vincolo di contenuto per le norme di
attuazione, per cui il rinvio alla fonte "concertata" appare
fittizio. Inoltre, "fino all'emanazione delle norme di attuazione.
l'importo complessivo di 920 milioni e' accantonato. a valere sulle
quote di compartecipazione ai tributi erariali". Dunque, la riduzione
delle risorse e' operata direttamente e unilateralmente dal
legislatore statale, in contrasto con lo Statuto e con il principio
consensuale che domina i rapporti tra Stato e Regioni speciali in
materia finanziaria (v. le sentt. sopra citate).
In definitiva, come detto, l'art. 28, co. 3, viola l'art. 49 St.,
perche' diminuisce l'importo spettante alla Regione a titolo di
compartecipazioni, in base alla suddetta norma statutaria.
Corrispondentemente, e' violato l'art. 63, quinto comma, St., che
richiede il consenso della Regione per la modifica delle norme del
Titolo VI dello Statuto.
Infine, e' violato l'art. 65 St., perche' una fonte primaria
pretende di vincolare il contenuto delle norme di attuazione.
Si noti che le censure sopra svolte valgono ugualmente alla quota
di 60 milioni di euro che lo Stato esige dalla Regione come "da parte
dei Comuni ricadenti nel proprio territorio".
Se la Regione, come esposto, ha il dovere di contribuire con le
proprie risorse alla finanza dei propri comuni, non fa certo invece
parte dei suoi compiti di fungere in relazione ad essi da esattore
per conto dello Stato. Ne' lo Stato ha alcun titolo per esigere dalla
Regione Friuli-Venezia Giulia somme che esso ritenga a qualunque
titolo dovute dai comuni. Si tratta di risorse che spettano alla
Regione per Statuto, e che non possono essere destinate se non
secondo le previsioni statutarie, che non sono suscettibili di essere
alterate dalla legge ordinaria dello Stato.
E', poi, ulteriormente e specificamente illegittimo e lesivo il
terzo periodo dell'art. 28, co. 3, la' dove prevede il criterio del
riparto dell'accantonamento ("proporzionalmente alla media degli
impegni finali registrata per ciascuna autonomia nel triennio
2007-2009"). Infatti, tale criterio non risulta in alcun modo
pariteticamente concordato tra Stato e Regioni speciali, in contrasto
con il principio consensuale che - accanto allo Statuto ed in via
integrativa - regola le relazioni finanziarie tra lo Stato e la
Regione.
Infine, risulta illegittimo il quarto periodo dell'art. 28, co.
3, secondo il quale, in relazione al riparto della sottrazione
complessiva di risorse tra le diverse autonomie speciali, "per la
Regione Siciliana si tiene conto della rideterminazione del fondo
sanitario nazionale per effetto del comma 2".
Posto che il richiamato comma 2 stabilisce che "l'aliquota di cui
al comma 1" (cioe' l'aumento dell'aliquota di base dell'addizionale
regionale all'IRPEF, regolata dall'art. 6 d. lgs. 68/2011, da 0,9 a
1,23 ) "si applica anche alle Regioni a statuto speciale e alle
Province autonome di Trento e Bolzano", la disposizione appare
particolarmente oscura.
Tuttavia, essa sembra interpretabile nel senso che la quota del
taglio previsto nell'art. 28, co. 3 (? 860 milioni), che dovrebbe
essere addossata alla Regione Siciliana, deve essere ridotta in
corrispondenza alle minori risorse del Fondo sanitario destinate alla
Regione stessa.
Posto che di cio' si tratti, e' chiaro che, in questo modo, si
altererebbe addirittura in peggio per la ricorrente Regione il
criterio proporzionale fissato dal terzo periodo del comma 3 e si
addosserebbe irragionevolmente alle altre autonomie speciali una
quota parte del finanziamento della spesa sanitaria della Regione
Siciliana.
Ne risulterebbe la violazione dell'art. 3 cost. e la lesione
dell'autonomia finanziaria e amministrativa della Regione, perche'
essa - oltre a finanziare la propria sanita' con il proprio bilancio
- verrebbe chiamata a contribuire al finanziamento parziale di quella
siciliana (v., per l'ammissibilita' di una censura ex art. 3 Cost.,
ad es., la sent. 16/2010, punto 5.1), con inevitabili ripercussioni
sulle proprie funzioni amministrative e sulla propria autonomia di
spesa.
La mancanza di base statutaria del contributo richiesti alla
Regione e' base sufficiente per la richiesta di declatatoria di
illegittimita' costituzionale della disposizione impugnata.
Per tuziorismo, la ricorrente Regione fa valere in subordine
anche le seguenti considerazioni, fondate sul diverso parametro del
principio di corrispondenza tra autonomia finanziaria ed esercizio
delle funzioni e su altri parametri.
In effetti, anche se la autonomia finanziaria intesa come
disponibilita' di risorse sufficienti ad esercitare le proprie
attribuzioni costituzionali, e come effettiva capacita' di spesa, va
valutata nel complesso, e che "contenimenti" transitori delle spese
non sono necessariamente incostituzionali (secondo quanto risulta ad
esempio, in ordine ai vincoli derivanti dal patto di stabilita',
dalla sent. 284/2009), tuttavia, se non si vuole privare l'articolo
119 cost. e, per il Friuli-Venezia Giulia, l'articolo 48 Statuto,
della capacita' di fungere da parametri di costituzionalita', occorre
riconoscere che singoli provvedimenti normativi (gli unici contro i
quali - ex articolo 127 cost. - la Regione puo' reagire, ed entro
termini tassativi) possano essere sindacati e, se del caso,
censurati, anche alla luce di altri singoli provvedimenti, l'insieme
dei quali si dimostra lesivo dell'autonomia finanziaria regionale.
Nel caso, la Regione si trova nella condizione di affermare che
l'ulteriore "taglio" di risorse, in una con le riduzioni della legge
220/2010, determina la incostituzionalita' dell'articolo 28, comma 3,
anche in quanto impone riduzioni consistenti alla spesa, tali da
pregiudicare l'assolvimento delle funzioni pubbliche ad essa
attribuite, in violazione dell'articolo 119 cost. (v. soprattutto il
principio di corrispondenza tra risorse e funzioni di cui al comma 4:
"Le risorse derivanti dalle fonti di cui ai commi precedenti
consentono ai Comuni, alle Province, alle Citta' metropolitane e alle
Regioni di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro
attribuite") e dell'articolo 48 Statuto, la cui portata si precisa
anche attraverso la considerazione sistematica di tutte le norme
costituzionali e statutarie rilevanti ai fini dell'autonomia
finanziaria. In questo senso, la lesione di altri parametri - che
subito si illustra - concorre a dimostrare anche la violazione degli
articolo 119 cost. e 48 Statuto.
Violato e' in primo luogo l'articolo 116, comma 1, Cost., il
quale riconosce alle Regioni speciali forme e condizioni particolari
di autonomia, che non possono non riguardare - data la formulazione
della disposizione - anche la autonomia finanziaria (seni. 82/2007).
L'art. 28, co. 3, lede la disposizione in quanto riserva alle
Regioni speciali - e, per quanto interessa qui, alla Regione
Friuli-Venezia Giulia - un trattamento deteriore rispetto a quanto
vale per le Regioni ordinarie.
L'irragionevolezza del trattamento deteriore si apprezza
considerando che queste differenziazioni operano in un contesto
normativo stabile, quanto alle funzioni, per le Regioni ordinarie,
mentre e' aumentato il concorso specifico della Regione
Friuli-Venezia Giulia al conseguimento degli obiettivi di
perequazione e di solidarieta' e all'assolvimento degli obblighi
derivanti dall'ordinamento europeo e dal patto di stabilita' interno.
Si rammenta qui il comma 152 dell'articolo 1 della legge di
stabilita' per il 2011 (1. 220/2010), secondo cui "nel rispetto dei
principi indicati nella legge 5 maggio 2009, n. 42, a decorrere
dall'anno 2011, la regione autonoma Friuli-Venezia Giulia
contribuisce all'attuazione del federalismo fiscale, nella misura di
370 milioni di euro annui, mediante: a) il pagamento di una somma in
favore dello Stato; b) ovvero la rinuncia alle assegnazioni statali
derivanti dalle leggi di settore, individuate nell'ambito del tavolo
di confronto di cui all'articolo 27, comma 7, della citata legge n.
42 del 2009; c) ovvero l'attribuzione di funzioni amministrative
attualmente esercitate dallo Stato, individuate mediante accordo tra
il Governo e la regione, con oneri a carico della regione. Con le
modalita' previste dagli articoli 10 e 65 dello Statuto speciale
della regione Friuli-Venezia Giulia, di cui alla legge costituzionale
31 gennaio 1963, n. 1, lo Stato e la regione definiscono le funzioni
da attribuire". Il trattamento gravoso riservato alle autonomie
speciali, e tra esse alla ricorrente Regione, non puo' essere
giustificato sulla base della considerazione della relativa maggiore
ampiezza - rispetto alle Regioni ordinarie - delle risorse ad esse
riservate. Tale maggiore ampiezza infatti e' il frutto delle
valutazioni dell'ordinamento costituzionale dello Stato, e non puo'
essere alterata se non seguendo le vie costituzionalmente prescritte:
le quali, del resto, esistono, come tra breve verra' illustrato.
L'articolo 49 Statuto garantisce alla Regione certezza di
entrate, finalizzate ad assicurarle la possibilita' di esercizio
delle proprie funzioni. Ad avviso della ricorrente Regione le
disposizioni censurate ledono - in via indiretta ma sicura - anche
tale parametro: non ha senso logico che vi sia per la Regione
garanzia costituzionale di determinate entrate (una garanzia che la
ricorrente Regione ha potuto far valere con successo, ad esempio,
nella controversia definita con la sent. 74/2009), se poi fosse
consentito allo Stato di imporre con legge ordinaria massicce
riduzioni della spesa, alla quale le entrate garantite sono
finalizzate!
Di fronte a tali sostanziali violazioni dei parametri
costituzionali, non varrebbe certo obiettare che tutte le autonomie
territoriali - Regioni speciali comprese - sono soggette ai principi
di coordinamento della finanza pubblica, inevitabilmente fissati a
livello nazionale, anche in adempimento di obblighi europei (sent.
82/2007); che la attribuzione di quote fisse di tributi erariali puo'
condurre ad un incremento delle risorse regionali, in funzione di
manovre tributarie statali, senza che vi sia necessita' - da parte
della Regione - di nuove risorse per nuove funzioni, o per un
migliore assolvimento di compiti precedenti (ma le entrate potrebbero
anche diminuire, per l'andamento negativo del ciclo economico.); che
lo stesso articolo 49 Statuto, nel momento in cui riconosce alla
Regione autonomia finanziaria, aggiunge subito che essa si svolge (si
deve svolgere) "in armonia con i principi della solidarieta'
nazionale".
Infatti, la considerazione di tali valori deve essa stessa
manifestarsi mediante strumenti costituzionalmente ammissibili
nell'ordinamento.
Cosi, anzitutto, le stesse norme di attuazione statutaria -
radicate direttamente nel principio di solidarieta' nazionale (sent.
75/1967) - consentono di eccettuare dalla attribuzione alla Regione
le nuove entrate tributarie statali il cui gettito sia destinato con
apposite leggi alla copertura di oneri diretti a soddisfare
particolari finalita' contingenti o continuative dello Stato,
specificate nelle leggi medesime, a termini dell'articolo 4 d.P.R. 23
gennaio 1965, n. 114. Ma la legittimita' costituzionale della riserva
e' subordinata alla corretta destinazione di tali risorse in base
alla citata disposizione: il che nel caso presente non avviene, come
si illustrera' oltre, in sede di contestazione dell'art. 48.
Inoltre, le stesse disposizioni statutarie sulla autonomia
finanziaria (articolo 49 compreso) possono sempre essere modificate
(come varie volte e' gia' accaduto) senza ricorrere alla revisione
con legge costituzionale, purche' vi sia il coinvolgimento della
Regione (articolo 63, comma 5, Statuto).
In termini generali, poi, i rapporti finanziari Stato-Regione
sono ispirati al principio della determinazione consensuale.
L'"obbligo generale di partecipazione di tutte le Regioni, ivi
comprese quelle a statuto speciale, all'azione di risanamento della
finanza pubblica" - puntualizza la Corte con la sent. 82/2007 - "deve
essere contemperato e coordinato con la speciale autonomia in materia
finanziaria di cui godono le predette Regioni, in forza dei loro
statuti. In tale prospettiva, come questa Corte ha avuto occasione di
affermare, la previsione normativa del metodo dell'accordo tra le
Regioni a statuto speciale e il Ministero dell'economia e delle
finanze, per la determinazione delle spese correnti e in conto
capitale, nonche' dei relativi pagamenti, deve considerarsi
un'espressione della descritta autonomia finanziaria e del
contemperamento di tale principio con quello del rispetto dei limiti
alla spesa imposti dal cosiddetto "patto di stabilita'" (sentenza n.
353 del 2004)".
Questo principio, sul piano della legislazione ordinaria, ha
trovato fino ad ora varie concretizzazioni. E'sufficiente richiamare
qui, per la sua portata sistematica, l'articolo 27, 1.42/2009, che
rimette alle norme di attuazione statutaria la attuazione dei
principi del c.d. federalismo fiscale (tra i quali vi e' il rispetto
del patto di stabilita' e dei vincoli finanziari europei), tenendo
"conto della dimensione della finanza delle [...] regioni e province
autonome rispetto alla finanza pubblica complessiva, delle funzioni
da esse effettivamente esercitate e dei relativi oneri...". Le stesse
misure particolari dei ricordati commi 152 e 156 dell'articolo 1 1.
220/2010, specificamente concernenti l'apporto della Regione
Friuli-Venezia Giulia al risanamento delle finanze pubbliche, sono
state oggetto di confronto e discussione tra Governo e Regione.
Con il principio costituzionale di collaborazione si pongono in
contrasto le disposizioni impugnate. L'art. 28, co. 3, deroga
unilateralmente all'Accordo di Roma del 2010, fra l'altro
penalizzando irragionevolmente quelle Regioni speciali che nel 2009 e
nel 2010 avevano gia' concordato il loro contributo al risanamento
finanziario, privandosi di notevoli risorse, rispetto a quelle che
non hanno mai assunto simili impegni.
Ne risulta anche sotto questo ulteriore profilo l'illegittimita'
costituzionale della disposizione impugnata.
9) Illegittimita' costituzionale dell'art. 31, comma 1.
Violazione degli artcoli 3 (Principio di ragionevolezza), 117,
secondo, terzo e quarto comma, nonche' 118, primo comma, Cost.
L'art. 31, comma 1, dispone quanto segue:
"In materia di esercizi commerciali, all'articolo 3, comma 1,
lettera d-bis, del decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito,
con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, sono soppresse
le parole: "in via sperimentale" e dopo le parole "dell'esercizio"
sono soppresse le seguenti "ubicato nei comuni inclusi negli elenchi
regionali delle localita' turistiche o citta' d'arte".
Cosi' facendo, esso da un lato rende permanente (e non piu'
"sperimentale") la liberalizzazione degli orari degli esercizi
commerciali, dall'altro - sopprimendo la limitazione ai comuni a
vocazione turistica - estende la liberalizzazione agli esercizi
commerciali di tutti i Comuni, e dunque di tutto il territorio
nazionale.
A seguito della modifica introdotta, il testo dell'articolo 3,
comma 1, del decreto-legge n. 223 del 2006 e' quindi ora - per quanto
qui interessa - il seguente:
"Ai sensi delle disposizioni dell'ordinamento comunitario in
materia di tutela della concorrenza e libera circolazione delle merci
e dei servizi ed al fine di garantire la liberta' di concorrenza
secondo condizioni di pari opportunita' ed il corretto ed uniforme
funzionamento del mercato, nonche' di assicurare ai consumatori
finali un livello minimo ed uniforme di condizioni di accessibilita'
all'acquisto di prodotti e servizi sul territorio nazionale, ai sensi
dell'articolo 117, comma secondo, lettere e) ed m), della
Costituzione, le attivita' commerciali, come individuate dal decreto
legislativo 31 marzo 1998, n. 114, e di somministrazione di alimenti
e bevande, sono svolte senza i seguenti limiti e prescrizioni:
d-bis) il rispetto degli orari di apertura e di chiusura, l'obbligo
della chiusura domenicale e festiva, nonche' quello della mezza
giornata di chiusura infrasettimanale dell'esercizio".
L'art. 1, co. 1-bis, d.l. 223/2006 dispone che "le disposizioni
di cui al presente decreto si applicano alle regioni a statuto
speciale e alle province autonome di Trento e di Bolzano in
conformita' agli statuti speciali e alle relative norme di
attuazione", ma dalla prima parte del comma l si puo' ricavare la
pretesa della norma di vincolare anche le Regioni speciali.
Si noti che ne' il d.l. n. 223 del 2006 ne' il d.l. n. 201 del
2011 - pur prevalendo sulle precedenti disposizioni incompatibili -
abrogano specificamente le disposizioni precedentemente dettate dal
decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114, recante Riforma della
disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell'articolo
4, comma 4, della L. 15 marzo 1997, n. 59.
Le regole generali, valide per tutti gli esercizi commerciali,
erano dettate all'articolo 11, orari di vendita:
"1. Gli orari di apertura e di chiusura al pubblico degli
esercizi di vendita al dettaglio sono rimessi alla libera
determinazione degli esercenti nel rispetto delle disposizioni del
presente articolo e dei criteri emanati dai comuni, sentite le
organizzazioni locali dei consumatori, delle imprese del commercio e
dei lavoratori dipendenti, in esecuzione di quanto disposto
dall'articolo 36. comma 3, della legge 8 giugno 1990, n. 142.
2. Fatto salvo quanto disposto al comma 4, gli esercizi
commerciali di vendita al dettaglio possono restare aperti al
pubblico in tutti i giorni della settimana dalle ore sette alle ore
ventidue. Nel rispetto di tali limiti l'esercente puo' liberamente
determinare l'orario di apertura e di chiusura del proprio esercizio
non superando comunque il limite delle tredici ore giornaliere.
3. L'esercente e' tenuto a rendere noto al pubblico l'orario
di effettiva apertura e chiusura del proprio esercizio mediante
cartelli o altri mezzi idonei di informazione.
4. Gli esercizi di vendita al dettaglio Osservano la chiusura
domenicale e festiva dell'esercizio e, nei casi stabiliti dai comuni,
sentite le organizzazioni di cui al comma 1, la mezza giornata di
chiusura infrasettimanale.
5. Il comune, sentite le organizzazioni di cui al comma 1,
individua i giorni e le zone del territorio nei quali gli esercenti
possono derogare all'obbligo di chiusura domenicale e festiva. Detti
giorni comprendono comunque quelli del mese di dicembre, nonche'
ulteriori otto domeniche o festivita' nel corso degli altri mesi
dell'anno".
Nella regolamentazione degli orari di apertura e chiusura al
pubblico erano dunque fortemente coinvolti, da un lato i Comuni e
dall'altro le associazioni di categoria: e la libera determinazione
da parte dell'esercente - che pure era enunciata come principio - era
temperata da limiti direttamente derivanti dalla legge statale, che
in parte potevano essere derogati dai Comuni, sentite le associazioni
di categoria.
Una disciplina specifica era invece dettata per le localita'
turistiche e le citta' d'arte dall'articolo 12, comma 1, il quale
disponeva (o dispone, non essendo stato espressamente abrogato) che
"nei comuni ad economia prevalentemente turistica, nelle citta'
d'arte o nelle zone del territorio dei medesimi, gli esercenti
determinano liberamente gli orari di apertura e di chiusura e possono
derogare dall'obbligo di cui all'articolo 11, comma 4".
Dopo la riforma del Titolo V, divenuta la materia del commercio
di competenza residuale delle Regioni, la legislazione regionale
aveva apportato rilevanti modifiche al sistema del d. lgs. n. 114 del
1998, nel senso di una piu' ampia liberta' degli esercenti nella
determinazione degli orari.
In particolare, la Regione Friuli-Venezia Giulia ha dettato una
disciplina completa della materia con la 1. r. 5 dicembre 2005, n.
29, recante Normativa organica in materia di attivita' commerciali e
di somministrazione di alimenti e bevande. Modifica alla legge
regionale 16 gennaio 2002, n. 2, Disciplina organica del turismo: la
quale disciplina gli orari al Capo IV del Titolo II, dedicato al
Commercio in sede fissa.
Tuttavia, la disciplina regionale ha sempre mantenuto un quadro
normativo di favore per la libera determinazione dell'esercente,
bilanciato pero' dalla considerazione anche degli altri valori in
gioco, che anch'essi godono di tutela costituzionale: tutela dei
lavoratori (artt. 4, 35 e 117, comma terzo), tutela della salute
(artt. 32 e 117, co. 3), tutela di una ordinata convivenza (art. 2)
e, sia consentito, tutela anche della liberta' religiosa (art. 19) e
dell'interesse delle popolazioni - e degli stessi lavoratori del
settore commerciale - a vivere certe giornate e certi momenti della
giornata in quel particolare clima civile e spirituale che deriva
dalla sospensione delle attivita' commerciali, e che costituisce esso
stesso un valore protetto. Tali valori rientrano nelle competenze
regionali, o espressamente (v. la sanita' e la tutela del lavoro:
art. 117, co. 3, Cost.) o in via residuale, o come generali valori
costituzionali da rispettare in tutte le materie di competenza, a
partire ovviamente dalla disciplina del commercio.
Sia consentito di ricordare fin d'ora che in altri paesi europei
tali valori hanno trovato riconoscimento in esplicite regole, talora
addirittura al livello costituzionale: l'art. 140 Grundgesetz -
attraverso il richiamo dell'art. 139 della Costituzione dell'11
agosto 1919 (Costituzione di Weimar) - sancisce che "la domenica e i
giorni festivi riconosciuti dallo Stato rimangono protetti come
giorni di riposo lavorativo e di elevazione spirituale" (Der Sonntag
und die staatlich anerkannten Feiertage bleiben als Tage der
Arbeitsruhe und der seelischen Erhebung gesetzlich geschutzt), e su
tale base la Corte costituzionale tedesca ha fondato la legittimita'
e la necessita' di una regolazione restrittiva dell'apertura dei
negozi (sentenza del 9 giugno 2004).
La Commissione europea poi ha rilevato che «le choix d'un jour de
fermeture des commerces fait intervenir des considerations de nature
historique, culturelle, touristique, sociale et religieuse relevant
de l'appreciation de chaque Etat membre» (citato nel progetto di
legge presentato alla Presidenza dell'Assemblee nationale francese
con il n. 3262 il 6 luglio 2006, consultabile al sito
http://www.assemblee-nationale.fr/12/propositions/pion3262.asp).
La Regione Friuli-Venezia Giulia e' dotata di competenza
regionale piena in materia di commercio, ai sensi dell'art. 4, n. 6,
dello Statuto speciale o, qualora ritenuto piu' favorevole, dell'art.
117, co. 4, cost. (ex art. 10 1. cost. 3/2001): in quest'ultimo senso
v., proprio in relazione al Friuli-Venezia Giulia, la sent. 165/2007,
punto 4.3.
Essa ritiene che la totale liberalizzazione degli orari, senza
alcuna considerazione dei valori costituzionali concorrenti, ecceda i
limiti della potesta' legislativa statale in materia di tutela della
concorrenza, violi i principi di proporzionalita' e i valori
costituzionali cosi' trascurati ed invada invece l'ambito in cui
spetta alla Regione di' dettare una disciplina degli orari
commerciali che tenga conto anche dei predetti valori concorrenti.
L'illustrazione di questo assunto richiede una ordinata
esposizione dei diversi punti. Che la materia degli orari dei negozi
rientri nella potesta' legislativa delle Regioni non richiede
particolari dimostrazioni, avendolo piu' volte espressamente
confermato codesta ecc.ma Corte costituzionale. Con la sentenza n.
150 del 2011, ad esempio, e' stato ricordato che "di recente, in piu'
occasioni, questa Corte ha affermato che la disciplina degli orari
degli esercizi commerciali rientra nella materia «commercio»
(sentenze n. 288 del 2010 e n. 350 del 2008), di competenza esclusiva
residuale delle Regioni, ai sensi del quarto comma dell'art. 117
Cost., e che «il decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 (Riforma
della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell'art.
4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59), [.], si applica, ai
sensi dell'art. 1, comma 2, della legge 5 giugno 2003, n. 131
(Disposizioni per l'adeguamento dell'ordinamento della Repubblica
alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), soltanto alle
Regioni che non abbiano emanato una propria legislazione nella
suddetta materia» (sentenze n. 288 e n. 247 del 2010, ordinanza n.
199 del 2006)" (punto 5 in diritto).
La ricorrente Regione e' tuttavia consapevole che questa sola
constatazione non basta a fondare l'illegittimita' costituzionale
della normativa impugnata, in quanto occorre ancora dimostrare che lo
Stato non possiede, in relazione ad essa, un legittimo titolo
costituzionale di intervento.
Ed i titoli che vengono in considerazione sono espressamente
enunciati dal testo in cui l'impugnata disposizione e' inserita,
cioe' nell'art. 3, comma 1, del decreto-legge n. 223 del 2006,
secondo il quale gli oggetti ai quali tale comma si riferisce sono
disciplinati "ai sensi delle disposizioni dell'ordinamento
comunitario in materia di tutela della concorrenza e libera
circolazione delle merci e dei servizi ed al fine di garantire la
liberta' di concorrenza secondo condizioni di pari opportunita' ed il
corretto ed uniforme funzionamento del mercato, nonche' di assicurare
ai consumatori finali un livello minimo ed uniforme di condizioni di
accessibilita' all'acquisto di prodotti e servizi sul territorio
nazionale, ai sensi dell'articolo 117, comma secondo, lettere e) ed
m)".
Si noti che l'inserimento degli orari in questo contesto
normativo e' frutto di un ripensamento: tanto e' vero che proprio
dalla assenza di esso aveva tratto argomento la Corte nella sentenza
n. 150 per confermare a contrario l'appartenenza della materia alla
disciplina del commercio.
In ogni modo, come la constatazione che la disciplina degli orari
appartiene alla materia del commercio non chiudeva il problema del
rapporto con la tutela della concorrenza (avendo tale materia, "dato
il suo carattere «finalistico», anche una portata piu' generale e
trasversale, non preventivamente delimitabile, che deve essere
valutata in concreto al momento dell'esercizio della potesta'
legislativa sia dello Stato che delle Regioni nelle materie di loro
rispettiva competenza": ancora sent. 150/2011, punto 5), cosi'
l'attrazione degli orari tra le materie "influenzate" dalla
concorrenza non assolve automaticamente ogni intervento statale nella
materia del commercio.
Intanto, la stessa sentenza n. 150, gia' piu' volte ricordata,
nel valutare la legge regionale abruzzese allora sottoposta a
scrutinio, ricordava (al punto piu' volte citato) che, "nel caso di
specie, la normativa regionale sull'apertura domenicale e festiva
degli esercizi commerciali per la vendita al dettaglio non solo
persegue il medesimo obiettivo di apertura al mercato e di
eliminazione di barriere e vincoli al libero esplicarsi
dell'attivita' economica che ha ispirato il d.lgs. n. 114 del 1998,
ma ne amplia la portata liberalizzatrice, aumentando, rispetto a
quanto prevede l'art. 11 di tale decreto, il numero di giornate in
cui e' consentita l'apertura domenicale e festiva, contribuendo,
quindi, ad estendere l'area di libera scelta sia dei consumatori che
delle imprese". E concludeva nel senso che la Regione Abruzzo, con le
norme impugnate, avesse "esercitato la propria competenza in materia
di commercio, dettando una normativa che non solo non si pone in
contrasto con gli obiettivi delle norme statali che disciplinano il
mercato, tutelano e promuovono la concorrenza, ma che produce anche
effetti pro-concorrenziali, sia pure in via marginale e indiretta".
Il punto che si vuole sottolineare, ai fini del giudizio
sull'art. 31, comma 1, e' che codesta stessa Corte costituzionale,
nel valutare l'effetto della sostituzione di una disciplina che
consentiva una piu' ampia apertura domenicale rispetto ad una
disciplina piu' restrittiva, ne ha bensi' riconosciuto un effetto
proconcorrenziale, ma lo ha al tempo stesso qualificato che marginale
e indiretto.
In effetti, non si puo' negare che la totale liberalizzazione
degli orari dei negozi, e la sostanziale interdizione per le Regioni
di dettare in relazione ad essi qualunque regola limitativa, non
abbia nulla a che fare con la tutela della concorrenza intesa come
parita' di condizione tra imprese nell'accesso al mercato: dato che
la disciplina degli orari vale allo stesso modo per tutte le imprese
che si trovino nelle situazioni indicate dalle norme.
Proprio percio', del resto, e' pacifico che il diritto
dell'Unione europea non esclude affatto una ragionevole disciplina
degli orari, che viene rimessa alla sensibilita' ed alle esigenze
degli Stati membri. Negli stati articolati le relative decisioni sono
in genere di competenza locale (in Svizzera, ad esempio, a livello
cantonale, in Germania a livello di Lander, ferma restando la
limitazione costituzionale sopra ricordata).
Semmai, supponendosi che ad un maggiore orario di apertura
corrisponda un maggior volume di commercio, l'orario dei negozi puo'
avere a che fare con la "concorrenza" in quel senso traslato ed
indiretto per il quale - se la concorrenza promuove lo sviluppo - la
promozione dello sviluppo diviene anche tutela della concorrenza.
E' evidente tuttavia che - come notato da codesta Corte, la
connessione con la concorrenza e' comunque scarsa: appunto, marginale
ed indiretta. Come si deduce in modo evidente dallo stesso
disinteresse dell'Unione europea per la questione, rimandata ai
singoli Stati membri, e dalla circostanza stessa che negli Stati
Uniti, provvisti di apposita commerce clause nella Costituzione e
pionieri nella tutela della concorrenza, sarebbero inimmaginabili sia
una regolazione federale dell'orario dei negozi, sia una interdizione
federale della possibilita' che gli Stati stabiliscano una propria
disciplina.
E' dunque accertato che il collegamento tra orari dei negozi e
tutela della concorrenza - se pure se ne ritenga l'esistenza - e'
debole, e riguarda in realta' non la concorrenza in senso proprio ma
l'espansione delle attivita' economiche.
E' vero invece che, misurata sul terreno vero della concorrenza,
la supposta misura di tutela, per il suo effetto di totale
deregolazione, si traduce in un fattore distorsivo della concorrenza,
in quanto scorrettamente avvantaggia gli operatori maggiori, che per
la ampiezza e complessita' della loro organizzazione sono in grado di
mantenere l'apertura per sette giorni su sette e per un orario non
limitato se non dalla convenienza, rispetto agli operatori familiari
o comunque minori, che per limiti di personale non potrebbero
competere neppure sottoponendosi ad un regime di autosfruttamento,
che del resto contraddirebbe il diritto costituzionale al riposo.
In questa situazione, la forzosa deregolamentazione operata dallo
Stato e la connessa interdizione di dettare qualunque disciplina che
in termini di ragionevolezza bilanci il valore della promozione delle
attivita' commerciali con gli altri valori concorrenti e
costituzionalmente tutelati, come sopra enunciati e come riconosciuti
anche in sede europea (e rientranti nelle competenze regionali, come
sopra visto), viola al tempo stesso i principi e le regole
costituzionali che custodiscono tali valori, i principi di autonomia
delle Regioni e delle comunita', come espressi dall'art. 117, co. 3 e
4, e dal principio di sussidiarieta' (dato che si impedisce al
livello istituzionale piu' adeguato, che e' senz'altro quello locale,
di valutare caso per caso e periodo per periodo quale sia la migliore
regolazione degli orari), e la competenza legislativa delle Regioni
nella disciplina del commercio, che viene espropriata ed annullata in
una parte rilevante, senza una ragione di cogente e proporzionata
tutela del bene affidato alla competenza statale, ed impedita di
svolgere la propria funzione di bilanciamento del valore della
massima dilatazione delle contrattazioni commerciali con gli altri
valori in gioco.
La norma in questione viola persino la competenza finalistica
statale in materia di tutela della concorrenza, se e' vero che
compito di tale tutela e' di produrre una regolazione che consenta
una competizione corretta tra le diverse imprese, e di impedire che
la mancanza di qualunque regola produca la sopravvivenza dei soli
operatori maggiori, a prescindere dalla qualita' della loro offerta
commerciale.
Sono dunque violati il principio di ragionevolezza di cui
all'art. 3 Cost., gli articoli 117, secondo, terzo e quarto comma,
nonche' l'art. 118, primo comma, Cost.
Illustrata l'illegittimita' costituzionale della disposizione
impugnata sotto il profilo del rapporto tra competenza legislativa
regionale nella disciplina del commercio e competenza legislativa
statale nella tutela della concorrenza, rimane da osservare che la
normativa qui contestata non potrebbe essere giustificata neppure ai
sensi dell'art. 117, comma secondo, lett. m), cioe' come presunto
"livello essenziale" delle "prestazioni concernenti i diritti civili
e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio
nazionale".
Non si tratta infatti di alcuna "prestazione", piu' di quanto non
lo sia qualunque altra regolazione; ed e' inoltre evidente che i
diritti civili e sociali dei cittadini e degli interessati non
subiscono alcuna lesione da una ragionevole disciplina dell'orario
dei negozi, mentre al contrario li puo' ledere una situazione di
totale deregolamentazione, che semmai preclude una razionale
organizzazione dei tempi dei propri acquisti.
10) Illegittimita' costituzionale dell'art. 48
L'art. 48 contiene una generale "clausola di finalizzazione".
In base al comma 1, "le maggiori entrate erariali derivanti dal
presente decreto sono riservate all'Erario, per un periodo di cinque
anni, per essere destinate alle esigenze prioritarie di
raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede
europea, anche alla luce della eccezionalita' della situazione
economica internazionale". Si prevede poi che "con apposito decreto
del Ministero dell'economia e delle finanze. sono stabilite le
modalita' di individuazione del maggior gettito, attraverso separata
contabilizzazione".
Il comma 1-bis aggiunge che, "ferme restando le disposizioni
previste dagli articoli 13, 14 e 28, nonche' quelle recate dal
presente articolo, con le norme di attuazione statutaria. sono
definiti le modalita' di applicazione e gli effetti finanziari del
presente decreto per le regioni a statuto speciale e per le province
autonome di Trento e di Bolzano".
Tale comma 1-bis, con il suo "rinvio" alle norme di attuazione
dello statuto, ha l'apparenza di una clausola di salvaguardia delle
autonomie speciali e delle loro regole statutarie: ma al tempo stesso
la disposizione ribadisce la diretta applicazione non solo degli
articoli 13, 14 e 28, ma anche delle disposizioni "recate dal
presente articolo": dunque, il regime di cui all'art. 48, co. 1, si
riferisce anche alle entrate percepite nella regione Friuli-Venezia
Giulia.
Maggiori entrate erariali deriveranno, ad esempio, dall'art. 10
(a seguito dell'emersione della base imponibile), dall'art. 15 (che
aumenta le aliquote di accisa sui carburanti), dall'art. 16 (che
aumenta la tassa automobilistica per le auto di lusso e istituisce la
tassa annuale di stazionamento sulle imbarcazioni e l'imposta
erariale sugli aeromobili privati), dall'art. 18 (che aumenta le
aliquote Iva), dall'art. 19 (che aumenta l'imposta di bollo relativa
a conti correnti e strumenti finanziari, introduce un'imposta di
bollo speciale annuale sulle attivita' finanziarie che hanno
beneficiato del c.d. scudo fiscale e un'imposta straordinaria per le
stesse attivita' se gia' prelevate dal rapporto di deposito,
istituisce un'imposta sul valore degli immobili situati all'estero e
istituisce un'imposta sul valore delle attivita' finanziarie detenute
all'estero dalle persone fisiche residenti nel territorio dello
Stato), dall'art. 20 (in materia di riallineamento delle
partecipazioni) e dall'art. 24 (il cui comma 31 regola la tassazione
delle indennita' di fine rapporto di importo complessivamente
eccedente curo 1.000.000 e dei compensi e indennita' a qualsiasi
titolo erogati agli amministratori delle societa' di capitali, ed il
cui comma 31-bis aumenta il contributo di solidarieta' sulle c.d.
pensioni d'oro).
Ad avviso della ricorrente Regione la riserva di tali maggiori
entrate all'erario e' illegittima per le ragioni di seguito esposte.
L'art. 49 dello Statuto attribuisce alla Regione "le seguenti
quote fisse delle sottoindicate entrate tributarie erariali riscosse
nel territorio della Regione stessa: 1) sei decimi del gettito
dell'imposta sul reddito delle persone fisiche; 2) quattro decimi e
mezzo del gettito dell'imposta sul reddito delle persone giuridiche;
3) sei decimi del gettito delle ritenute alla fonte di cui agli artt.
23, 24, 25 e 29 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, ed all'art.
25-bis aggiunto allo stesso decreto del Presidente della Repubblica
con l'art. 2, primo comma, del D.L. 30 dicembre 1982, n. 953.; 4) 9,1
decimi del gettito dell'imposta sul valore aggiunto, esclusa quella
relativa all'importazione, al netto dei rimborsi effettuati ai sensi
dell'articolo 38-bis del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, e successive
modificazioni; 5) nove decimi del gettito dell'imposta erariale
sull'energia elettrica, consumata nella regione; 6) nove decimi del
gettito dei canoni per le concessioni idroelettriche; 7) nove decimi
del gettito della quota fiscale dell'imposta erariale di consumo
relativa ai prodotti dei monopoli dei tabacchi consumati nella
regione; 7-bis) il 29,75 per cento del gettito dell'accisa sulle
benzine ed il 30,34 per cento del gettito dell'accisa sul gasolio
consumati nella regione per uso autotrazione".
L'art. 48, co. 1, dunque, riservando all'Erario le "maggiori
entrate erariali derivanti dal presente decreto", risulta
contrastante con l'art. 49 dello Statuto, che garantisce alla Regione
ben precise compartecipazioni a diversi tributi erariali (ad es.,
Irpef, Iva, accisa sulla benzina).
Ne' varrebbe replicare che, in base all'art. 4, co. 1, d.P.R.
114/1965, a certe condizioni e' ammessa la riserva all'erario del
"gettito derivante da maggiorazioni di aliquote o da altre
modificazioni in ordine ai tributi devoluti alla regione".
Tali condizioni, infatti, non ricorrono nella clausola di
finalizzazione prevista dall'art. 48.
Infatti, i requisiti sono: a) la destinazione per legge "alla
copertura di nuove specifiche spese di carattere non continuativo,
che non rientrano nelle materie di competenza della regione, ivi
comprese quelle relative a calamita' naturali"»; b) la delimitazione
temporale del gettito; c) la contabilizzazione distinta nel bilancio
statale e la quantificabilita'.
Ora, ad avviso della Regione ricorrente risulta evidente che e'
assente il primo requisito sopra indicato, in quanto l'art. 48 non
destina le maggiori entrate a "nuove specifiche spese": nel caso in
questione, infatti, ne' si tratta di "spese", ne' le situazioni alle
quali si vuole far fronte sono "nuove" ne' "specifiche".
E' da ricordare che la sent. 182/2010 fece salva la norma
impugnata in quell'occasione (l'art. 13-bis, comma 8, del
decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78) proprio in quanto essa destinava
il gettito dell'imposta "al finanziamento della ripresa economica,
quali: il sostegno alle imprese, anche attraverso il finanziamento
del fondo di garanzia e l'alleggerimento del carico fiscale...; gli
interventi sul mercato del lavoro, anche attraverso il finanziamento
del fondo per l'occupazione...; il finanziamento degli investimenti
pubblici, con particolare riguardo alle infrastrutture e alle
attivita' di ricerca e sviluppo...; il supporto alle famiglie, con
misure di salvaguardia del potere d'acquisto, di tutela dei piccoli
risparmiatori, di risposta all'emergenza abitativa...; il
finanziamento della cooperazione internazionale allo sviluppo.; il
finanziamento delle opere di ricostruzione dell'Abruzzo". Si tratta,
come si puo' vedere, di spese e finalita' ben diverse dal mero e
generale "raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica
concordati in sede europea": e non puo' essere dubbio che i requisiti
posti dall'art. 4, co. 1, d.P.R. 114/1965, sono requisiti essenziali,
il cui rispetto non puo' essere legittimamente pretermesso.
Escluso che l'art. 48 possa trovare fondamento nell'art. 4 dPR
114/1965, e' anche da escludere che esso possa ricondursi all'art. 6,
co. 2, d. lgs. 8/1997, in base al quale, "nelle more del
completamento del processo di trasferimento e di delega di funzioni
dallo Stato alla regione, qualora la quota delle spese relative
all'esercizio delle funzioni delegate eventualmente a carico della
regione ai sensi dell'articolo 4, comma 2, lettera b)[dPR 114/1965],
fosse insufficiente al raggiungimento degli obiettivi di risanamento
della finanza pubblica, una quota del previsto incremento del gettito
tributario spettante alla regione - ad esclusione in ogni caso degli
incrementi derivanti dall'evoluzione tendenziale ed al netto delle
eventuali previsioni di riduzioni di gettito - derivante dalle
manovre correttive di finanza pubblica previste dalla legge
finanziaria e dai relativi provvedimenti collegati, nonche' dagli
altri provvedimenti legislativi aventi le medesime finalita', non
considerati ai fini della determinazione dell'accordo relativo
all'esercizio finanziario precedente, puo' essere destinata al
raggiungimento degli obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica
previsti dai predetti provvedimenti, tenuto conto altresi' delle
spese a carico della regione per funzioni trasferite in data
successiva al 1° gennaio 1997".
Ad avviso della ricorrente Regione questa norma non e'
applicabile alla disciplina qui contestata, in quanto essa non ha
portata generale ma opera in relazione allo specifico accordo
annuale, tra Governo e Regione, che determinava "l'eventuale quota
che rimane a carico del bilancio della regione - per l'esercizio
oggetto dell'accordo - delle spese derivanti dall'esercizio delle
funzioni statali delegate alla medesima, in relazione alle manovre
correttive di finanza pubblica previste dalla legge finanziaria e dai
relativi provvedimenti collegati, nonche' dagli altri provvedimenti
legislativi aventi le medesime finalita', da determinarsi nei limiti
del previsto incremento del gettito tributario derivante dalle
manovre medesime, ad esclusione in ogni caso degli incrementi
derivanti dall'evoluzione tendenziale ed al netto delle eventuali
previsioni di riduzione del gettito" (art. 4, co. 2, lett. b) dPR
114/1965).
In ogni modo, anche qualora la disposizione di cui all'art. 6,
co. 2, d. lgs. 8/1997 fosse ritenuta applicabile, l'art. 48 non vi
corrisponderebbe sia per l'unilateralita' della riserva (essendo
chiaro che l'art. 6, co. 2, presuppone l'accordo: v. anche l'art. 6,
co. 3) sia perche' riserva all'Erario tutte le maggiori entrare e non
solo "una quota del previsto incremento del gettito tributario
spettante alla regione".
Dunque, nella denegata ipotesi dell'applicabilita' dell'art. 6,
co. 2, d. lgs. 8/1997, lo Stato avrebbe pur sempre dovuto cercare
l'accordo con la Regione, non potendo unilateralmente alterare le
regole sulle compartecipazioni. L'art. 48, dunque, violerebbe pur
sempre il principio di leale collaborazione e, in particolare, il
principio consensuale che domina le relazioni finanziarie fra lo
Stato e le Regioni speciali (v. le sentt. 82/2007, 353/2004, 39/1984,
98/2000, 74/2009 e 133/2010).
In effetti, e' chiaramente illegittimo che lo Stato, con una
fonte primaria unilateralmente adottata, alteri in modo cosi'
rilevante l'assetto dei rapporti finanziari tra Stato e Regione,
laddove il principio consensuale e' da tempo riconosciuto in questa
materia.
Infine, proprio perche' agli artt. 48 e 49 St. si e' derogato con
una fonte primaria "ordinaria" (nella specie, un decreto-legge
convertito), l'art. 48 viola anche gli artt. 63, commi 1 e 5 (che
prevedono il procedimento di revisione costituzionale per le
modifiche dello Statuto e la possibilita' di modificare "le
disposizioni contenute nel titolo IV. con leggi ordinarie, su
proposta di ciascun membro delle Camere, del Governo e della Regione,
e, in ogni caso, sentita la Regione") e l'art. 65 (che disciplina la
speciale procedura per l'adozione delle norme di attuazione dello
Statuto) dello Statuto speciale.
L'art. 48 altera gravemente e unilateralmente la relazione
strutturale che intercorre tra il tributo erariale e la
compartecipazione statutaria regionale. Il legislatore costituzionale
ha posto a presidio dell'autonomia finanziaria della Regione il
meccanismo della compartecipazione ai tributi erariali che garantisce
l'approvvigionamento finanziario dell'ente in via del tutto
automatica. L'attribuzione del gettito e' rimessa, infatti,
esclusivamente all'operare della percentuale di spettanza
statutariamente prevista, applicata al gettito riscosso nel
territorio regionale
L'art. 48 viola la struttura automatica della compartecipazione
escludendo che talune innovazioni fiscali possano tradursi in
beneficio per l'entrata della Regione, con cio' incidendo
sull'autonomia che di tale automatismo costituisce il portato.
La sent. 155/2006 di codesta Corte ha statuito che la Regione
Friuli-Venezia Giulia non puo' contestare nuove norme tributarie
statali che, incidendo su tributi erariali ai quali la Regione
compartecipa, comportino una riduzione del gettito per la Regione.
Proprio l'automatismo insito nella compartecipazione implica che la
Regione debba subire gli effetti - entro certi limiti - delle novita'
normative statali che hanno riflessi finanziari riduttivi (e infatti
anche il d.l. 201/2011 contiene norme che, indirettamente, incidono
negativamente sulla finanza regionale, come visto nel punto 1). Se
cosi' e', allora e' evidente che anche i vantaggi economici che
derivano dalla modifica di aliquote o da altre novita' normative
concernenti i tributi erariali devono andare, pro quota, a beneficio
della Regione, cosi' come prevede lo Statuto.
Il secondo periodo dell'art. 48, co. 1, dispone che "con apposito
decreto del Ministero dell'economia e delle finanze, da emanare entro
sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di
conversione del presente decreto..., sono stabilite le modalita' di
individuazione del maggior gettito, attraverso separata
contabilizzazione". Si tratta dunque di una norma volta a regolare
l'attuazione del primo periodo: la quale, pertanto, e' affetta dai
medesimi vizi sopra illustrati.
In subordine, essa e' poi censurabile specificamente ed
autonomamente sotto un ulteriore aspetto, cioe' per la mancata
previsione dell'intesa con questa Regione in relazione al decreto che
stabilisce le modalita' di individuazione del maggior gettito.
infatti, poiche' si tratta di intervenire in relazione a risorse che
spetterebbero alla Regione, in una materia dominata dal principio
consensuale, risulta specificamente illegittima, per violazione del
principio di leale collaborazione, la previsione di un decreto
ministeriale, senza intesa con questa Regione.
P.Q.M
Voglia codesta ecc.ma Corte costituzionale accogliere il ricorso,
dichiarando l'illegittimita' costituzionale degli articoli 1, commi
da 1 a 8; 2, commi 1 e 2; 13, commi 11, 14, lett. a), e 17, terzo,
quarto e quinto periodo; 14, comma 13-bis, terzo e quarto periodo;
16, commi da 2 a 10; 23, commi 4, da 14 a 20-bis e 22; 28, comma 3;
31, comma 1; 48 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201,
Disposizioni urgenti per la crescita, l'equita' e il consolidamento
dei conti pubblici, convertito, con modificazioni, nella legge 22
dicembre 2011, n. 214, nelle parti, nei termini e sotto i profili
esposti nel presente ricorso.
Padova, 23 febbraio 2012
Prof. Avv. Falcon