RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 27  aprile 2006 , n. 56
Ricorso  per  questione  di legittimita' costituzionale depositato in
cancelleria il 27 aprile 2006 (della Regione Emilia-Romagna)

(GU n. 21 del 24-5-2006)
 
    Ricorso  della  Regione Emilia-Romagna, in persona del presidente
della  giunta  regionale  pro  tempore, autorizzato con deliberazione
della   giunta   regionale  n. 547  del  19  aprile  2006  (doc.  1),
rappresentata  e  difesa  -  come  da procura rogata dal notaio dott.
Claudio  Viapiana  in  data  21 aprile 2006, n. rep. 27738 (doc. 2) -
dall'avv. prof. Giandomenico Falcon di Padova, dall'avv. prof. Franco
Mastragostino  di  Bologna  e  dall'avv.  Luigi  Manzi  di  Roma, con
domicilio   eletto   in   Roma  nello  studio  dell'avv.  Manzi,  via
Gonfalonieri n. 5;

    Contro   il   Presidente   del  Consiglio  dei  ministri  per  la
dichiarazione di illegittimita' costituzionale previa sospensione del
decreto   legislativo  3  aprile  2006,  n. 152,  "Norme  in  materia
ambientale",  pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 88 del 14 aprile
2006,   supplemento   ordinario   n. 96/2006,  con  riferimento  agli
articoli:
        63 e 64, concernenti le nuove Autorita' di bacino;
        101,  comma  7,  concernente  gli  scarichi  derivanti  dalle
imprese agricole;
        154, concernente la tariffa del servizio idrico integrato;
        155,   concernente   la  tariffa  del  servizio  fognatura  e
depurazione;
        181,  commi  da  7  a  11,  concernente  il c.d. recupero dei
rifiuti;
        183, comma 1, concernente la definizione dei rifiuti;
        186, concernente le terre e rocce da scavo;
        189,  comma  3,  concernente  gli  obblighi  di comunicazione
relativi a certe categorie di rifiuti;
        214, commi 3 e 5, concernenti le procedure semplificate per i
rifiuti;
per violazione degli artt. 76, 117, 118 Cost., del principio di leale
collaborazione, del principio di ragionevolezza, nonche' dei principi
e  delle  norme  del diritto comunitario, nei modi e per i profili di
seguito indicati.
    Si  premette che il presente ricorso si riferisce unicamente alle
disposizioni  del decreto legislativo n. 152 del 2006 per le quali la
Regione   Emilia-Romagna   ha   deciso   di  richiedere  altresi'  la
sospensione  delle  norme  impugnate,  e che la stessa Regione con la
delibera sopra richiamata si e' espressamente riservata di impugnare,
sempre  nel  rispetto  dei termini costituzionali, altre disposizioni
lesive  delle  competenze  regionali  contenute  nello stesso decreto
legislativo.

                              F a t t o

    Il  decreto  legislativo 3 aprile 2006, n. 152, "Norme in materia
ambientale" costituisce attuazione della delega legislativa contenuta
nella  legge  15  dicembre  2004,  n. 308,  pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale  n. 302 del 27 dicembre 2004, supplemento ordinario n. 187.
Questa autorizzava il Governo ad emanare entro 18 mesi - quindi entro
l'11  luglio  2006 - uno o piu' decreti "di riordino, coordinamento e
integrazione  delle  disposizioni  legislative nei seguenti settori e
materie, anche mediante la redazione di testi unici".
    A  norma dell'art. 1, comma 4, della legge, i decreti legislativi
avrebbero  dovuto essere adottati "sentito il parere della Conferenza
unificata  di  cui all'art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997,
n. 281".
    Il  comma 8 dello stesso articolo richiede ai decreti legislativi
il   "rispetto  dei  principi  e  delle  norme  comunitarie  e  delle
competenze  per  materia delle amministrazioni statali, nonche' delle
attribuzioni  delle  regioni  e  degli  enti locali, come definite ai
sensi  dell'art.  117  della Costituzione, della legge 15 marzo 1997,
n. 59, e del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, e fatte salve
le norme statutarie e le relative norme di attuazione delle Regioni a
statuto  speciale e delle province autonome di Trento e di Bolzano, e
dei principio di sussidiarieta".
    Lo  schema  di  decreto  e' stato approvato, a seguito dei pareri
delle  Commissioni  parlamentari,  nella  seduta  del  Consiglio  dei
ministri   del  18  novembre  2005.  Nel  corso  della  seduta  della
Conferenza  unificata  del  24  novembre 2005, i rappresentanti delle
regioni  e  degli  enti  locali  chiedevano di essere informati sullo
stato  di  attuazione  della  delega  legislativa:  ed in risposta il
Ministro La Loggia comunicava che, data la lunghezza, la Relazione al
decreto  non  sarebbe  stata  illustrata oralmente ma depositata agli
atti,  "in  modo  che  possa essere visionata e vi sia tutto il tempo
necessario a fare eventuali osservazioni".
    Il  testo del decreto legislativo e' stato trasmesso alle regioni
con  nota  della  Presidenza  del  Consiglio  dei ministri in data 29
novembre  2005,  cui  ha  fatto  seguito  una  nota  del successivo 7
dicembre  che avvertiva che gli allegati tecnici, "a causa della loro
voluminosita",  venivano  resi disponibili soltanto in rete (ed anche
cio' su personale richiesta al Ministro da parte del presidente della
Conferenza dei presidenti delle regioni).
    Nonostante  la  mole  del  testo  e degli allegati, il parere sul
decreto  legislativo  e'  stato iscritto nell'ordine del giorno della
seduta  della  Conferenza  unificata del 15 dicembre 2005: ma gia' in
vista  della  riunione  in  sede tecnica del 12 dicembre dello stesso
anno  il  presidente  della  Conferenza  delle regioni ne chiedeva la
sospensione,  in  ragione  dell'estrema  complessita' della materia e
dell'esiguita'  del  tempo  concesso per l'esame, chiedendo il rinvio
del termine per l'espressione del parere: alla riunione erano assenti
le regioni, L'ANCI e l'UNCEM.
    Con  telegramma del 13 dicembre il Ministro dell'ambiente e della
tutela   del  territorio  comunicava  che  "il  Governo  non  intende
concedere  deroghe  al  termine fissato dalla legge per l'esame delle
commissioni  competenti,  considerata  la durata dei termini previsti
dalla  legge  n. 308  del  2004  e  valutato  altresi'  il periodo di
attivita' residua del Parlamento".
    Nella  seduta  della Conferenza Unificata del 15 dicembre 2005 il
rinvio  del  punto  all'ordine  del  giorno e' oggetto di un "appello
accorato"   del  Presidente  Errani,  a  nome  della  Conferenza  dei
presidenti  delle  regioni,  al  quale  si associano i rappresentanti
degli   altri   enti   locali:  l'appello  e'  motivato  dall'estrema
complessita'  della  materia,  "che  non  attiene solo alle questioni
ambientali,  ma anche alla difesa del suolo, ed altro", e che "tratta
di  una serie di politiche fondamentali che incrociano in modo forte,
tutta  l'articolazione  legislativa  delle  regioni  e  le  politiche
amministrative  degli  enti locali" (punto 25 del verbale 13/05: doc.
3).
    Ma  il  Viceministro  Nucara  e' rigido nel rifiuto della proroga
argomentando, da un lato, che la "tutela dell'ambiente" e' materia di
competenza  esclusiva  dello  Stato, dall'altro che la delega sarebbe
scaduta  -  come  dichiara  esplicitamente  - il giorno stesso, il 15
dicembre   2005,  "desumendo  cio'  da  quanto  di  sua  conoscenza":
dimostrando,  in  tal modo, che non solo le regioni e gli enti locali
ma  lui  stesso  non aveva fatto in tempo ad informarsi correttamente
del punto all'ordine del giorno.
    Da  un  lato  il  Viceministro  ignora  -  come  gli  viene fiuto
osservare  -  quanto  la  giurisprudenza  costituzionale  aveva  gia'
ampiamente  osservato attorno alla natura "trasversale" della materia
e  all'intreccio di competenze che su di essa si accentra; dall'altro
ignora i termini stessi della delega, la cui scadenza era fissata nel
giorno  11  luglio  2006, come del resto emergeva della stessa scheda
elaborata  dalla  Presidenza del Consiglio, come gli faceva notare il
Presidente Errani.
    Ma  il  Viceministro  ribatte  a  questo  punto  che l'urgenza di
adottare  definitivamente  il  decreto  non  cambia, in ragione delle
elezioni  politiche  previste  per  il  9 aprile 2006. Il Ministro La
Loggia,  che presiede la riunione, propone di rimandare il punto alla
successiva  seduta della Conferenza, prevista per il 20 gennaio 2006;
ma  il  Viceministro si oppone. Il Presidente Errani fa presente che,
sulla  base  di quanto affermato quel giorno stesso dalla Commissione
parlamentare,   senza   il   parere  della  Conferenza  unificata  il
procedimento   di  emanazione  non  puo'  essere  proseguito,  ma  il
Viceministro  Nucara ribatte che la Conferenza era stata "sentita", e
che  non  si  trattava di un parere vincolante. Il Ministro La Loggia
conclude  "prendendo  atto  del  mancato parere" e annunciando che il
Viceministro   "fara'  le  opportune  valutazioni  e  continuera'  la
discussione  con  le  regioni  e  le  autonomie  locali": "laddove si
verificasse l'indispensabilita' di questo passaggio, sara' nuovamente
iscritto  il punto in argomento all'o.d.g. della prossima Conferenza"
(tutto cio' emerge vividamente dal citato verbale: v. sempre doc. 3).
    Nella  divergenza  delle  posizioni,  il  parere non pote' essere
espresso. Ciononostante il Consiglio dei ministri, il 19 gennaio 2006
(n.   40),  approvava  "in  via  definitiva"  il  testo  del  decreto
legislativo.
    Nella  successiva  riunione  della  Conferenza  Unificata  del 26
gennaio  2006,  i presidenti delle regioni e delle province autonome,
dell'ANCI,  dell'UNPI  e dell'UNCEM presentavano un ordine del giorno
recante  il  parere  negativo  sullo  schema  di  decreto  (doc.  4),
motivandolo  sia  nel  merito  che  nel  metodo,  parere del quale il
rappresentante  del  Governo  si  limitava  a dichiarare di "prendere
atto". Il 10 febbraio il Consiglio dei ministri riapprovava, di nuovo
"in  via  definitiva"  il decreto legislativo (Consiglio dei ministri
n. 43);   evidentemente   senza   alcun  riesame  di  merito,  stante
l'asserita (ma inesistente) urgenza.
    Il  15  marzo  2006  il  Presidente  della Repubblica chiedeva al
Governo  alcuni chiarimenti nel merito e in relazione al procedimento
di  formazione  del  decreto legislativo sospendendo l'emanazione del
provvedimento;  a  seguito  di  questa  richiesta  di chiarimenti, il
decreto  legislativo  e'  stato  ulteriormente riapprovato con alcune
modifiche  dal  Consiglio dei ministri il 29 marzo 2006 (anche se non
se ne fa menzione nell'ordine del giorno della seduta n. 51 di quella
data,  ne'  nel  comunicato pubblicato nel sito del Governo a seguito
della  riunione).  E'  stato dunque approvato in un testo formalmente
(sia  pure parzialmente) diverso da quello sottoposto all'esame delle
Commissioni  parlamentari e della Conferenza Unificata. Esso e' stato
poi emanato il 3 aprile e pubblicato il 14 aprile. Entrera' dunque in
vigore il 29 aprile.
    Con  il  presente  ricorso  la Regione Emilia-Romagna contesta la
legittimita'  costituzionale delle disposizioni impugnate per ragioni
che  attengono  da  un lato al decreto legislativo nel suo complesso,
dall'altro alle singole norme.
    Nel  suo  complesso il decreto appare viziato da gravi difetti di
procedimento,   attinenti   in   particolare  alla  violazione  della
procedura di "leale collaborazione". Come meglio si dira', il Governo
non ha rispettato i contenuti minimi della garanzia di partecipazione
della  Conferenza  unificata, rendendo consapevolmente impossibile un
informato  esame  del  nuovo testo normativo. La Conferenza unificata
non ha avuto modo di esprimere formalmente il proprio parere, e sulle
posizioni da essa assunte in merito al decreto legislativo il Governo
non  ha  aperto  alcuna  discussione,  violando quanto disposto dalla
legge di delega e ribadito dalla Commissione parlamentare.
    Inoltre  -  benche'  questo profilo non incida direttamente nelle
attribuzioni regionali non puo' essere sottaciuto - anche formalmente
il  procedimento  appare gravemente carente, essendo il testo emanato
diverso  da  quello  precedentemente  adottato  sulla base del parere
della Commissione parlamentare.
    Nel  merito,  il  decreto  legislativo  n. 152 del 2006 appare in
molte  parti  eccedere la delega legislativa e porsi in contrasto con
la  disciplina  comunitaria,  con  grave  ricaduta sulle attribuzioni
costituzionali  delle  regioni;  inoltre e' direttamente lesivo delle
competenze regionali in molte sue disposizioni.
    Come  e'  stato osservato nell'ordine del giorno presentato dalle
regioni  in  sede  di Conferenza unificata, il decreto "contrasta con
diverse  direttive  comunitarie,  viola,  per  eccesso  di delega, la
stessa legge delega n. 308/2004, stravolge l'assetto delle competenze
definite   dall'art. 117  e  118  Cost.  e  dal  decreto  legislativo
n. 112/1998    consolidate   da   numerose   pronunce   della   Corte
costituzionale" (v. sempre doc. 4).
    L'opposizione  che le regioni hanno manifestato nei confronti del
decreto  e'  quindi motivata da ragioni assai gravi, sia in ordine al
rispetto  della  normativa comunitaria, sia in ordine al mantenimento
degli  attuali  presidi  legislativi, anche regionali, posti a tutela
dell'ambiente.  Le  disposizioni  del  decreto producono infatti - ad
avviso  delle  regioni  -  il  risultato  "di indebolire le politiche
ambientali  nel  nostro  Paese  e  la  loro coerenza con le direttive
dell'Unione europea, nonche' quelle di determinare l'abbassamento dei
livelli  di  tutela  dell'ambiente  e della salute a danno di tutti i
cittadini   senza,   peraltro,   che  a  questo  possa  corrispondere
l'auspicata  semplificazione delle procedure e dei processi attuativi
per  gli  operatori e le imprese". Inoltre le nuove norme determinano
"la  totale paralisi dell'azione delle regioni e degli enti locali in
campo   ambientale  data  l'incompatibilita'  delle  norme  regionali
vigenti con quelle dello schema di decreto".
    Come  sopra anticipato, trattandosi di un corpus normativo di ben
318  articoli,  cui  si  aggiungono  centinaia  di pagine di allegati
tecnici, la Regione Emilia-Romagna si riserva di proporre nei termini
di  legge  un'impugnazione attenta e precisa di tutte le disposizioni
viziate che non abbiano una decorrenza immediata, per le quali dunque
la ricorrente regione non ravvisa l'esigenza di intervento cautelare.
Infatti  una  consistente  parte  delle  disposizioni ha un'efficacia
differita  di  centoventi  giorni  dall'entrata in vigore del decreto
stesso.  Del  resto,  sono  previsti almeno 41 decreti attuativi, con
scadenze  varie, la cui emanazione, pur non avendo ovviamente termini
iniziali, richiedera' comunque una rilevante elaborazione.
    Le norme oggetto del presente ricorso hanno, invece, un'efficacia
immediata:  talvolta  prevista  con  un  termine preciso dallo stesso
decreto, ma comunque in ogni caso ravvicinata.
    Cosi',  per esempio, l'art. 63 sopprime "a far data dal 30 aprile
2006"  le  Autorita'  di  bacino  istituite  dalla legge n. 183/1989,
trasferendone   le  funzioni  alle  istituende  Autorita'  di  bacino
distrettuale,  senza  precisare  quale  sia  il  regime  transitorio,
rinviato  ad un atto amministrativo del Governo che ha un solo giorno
per essere emanato, come poi si dira'. Come si vede, la frettolosita'
di  preparazione  del  testo  normativo  e  la  volonta' di ottenerne
comunque   l'immediata   entrata  in  vigore  comportano  conseguenze
paradossali  in  ordine  alla  possibilita'  di dare, in sole 24 ore,
un'attuazione  ragionevole  e  congrua  al  decreto in presenza della
notevolissima complessita' dei temi trattati.
    In altri casi - in particolare in materia di rifiuti - il decreto
legislativo  introduce  una  disciplina  innovativa  che ha l'effetto
immediato  di  smantellare  l'attuale  normativa ambientale, rendendo
meno  rigorosa  la  normativa  vigente  e favorendo comportamenti che
attualmente,  anche  per  precisa  richiesta delle norme comunitarie,
costituirebbero un illecito amministrativo o penale.
    E'  contro  queste disposizioni che muove l'impugnazione proposta
nel presente ricorso, rivolta, come detto, avverso le norme che hanno
una  decorrenza  immediata  e  rischiano  di provocare danni gravi e,
irreparabili   all'interesse   pubblico  alla  tutela  dell'ambiente,
all'ordinamento  giuridico  nazionale  e regionale nonche' ai diritti
dei cittadini alla salute e alla salubrita' dell'ambiente: per queste
ragioni  la  regione  ricorrente  avanza anche istanza di sospensione
dell'esecuzione  delle disposizioni stesse, in applicazione dell'art.
35  della  legge  n. 87/1953,  come  modificato dall'art. 9, comma 4,
della legge n. 131/2003.

                            D i r i t t o

    A) Illegittimita'  costituzionale  degli artt. 63, comma 3, e 64,
relativi  all'Autorita'  di  bacino,  per  violazione degli art. 117,
comma terzo, 118 e 76 della Costituzione.
    1) Illegittimita' costituzionale dell'accorpamento delle funzioni
in  macrodistretti e della sostituzione delle Autorita' di bacino con
le nuove Autorita' di distretto.
    L'art. 63,  comma  3,  dispone:  "Le autorita' di bacino previste
dalla  legge 18 maggio 1989, n. 183, sono soppresse a far data dal 30
aprile 2006 e le relative funzioni sono esercitate dalle Autorita' di
Bacino distrettuale di cui alla parte terza del presente decreto". Il
riferimento  generico  alla  "terza  parte" (alla quale in realta' la
disposizione appartiene) e' in effetti curioso, dato che le autorita'
distrettuali  sono  istituite  dal  comma 1 dello stesso articolo, in
corrispondenza  degli  otto  distretti  idrografici  individuati  nel
successivo art. 64.
    Tale  norma  riaccorpa in otto distretti i numerosi bacini che la
legge  n. 183/1989  istituiva,  suddividendoli  in  bacini nazionali,
interregionali  e  regionali.  Tra  gli  otto  distretti  figurano il
distretto  della  Sardegna,  quello  della  Sicilia,  ed il distretto
idrografico pilota del Serchio, di ridottissime dimensioni.
    L'intero territorio nazionale e' dunque suddiviso grossolanamente
nei  rimanenti  cinque  distretti,  vagamente  corrispondenti a delle
macro-regioni. Questa suddivisione e' decisa "dall'alto" senza alcuna
partecipazione alla decisione da parte delle regioni.
    Gli  organi  dei  nuovi  distretti sono individuati dall'art. 63,
comma  2,  nella  Conferenza istituzionale permanente, nel Segretario
generale,  nella  Segreteria  tecnico-operativa  e  nella  Conferenza
operativa  di  servizi.  La stessa disposizione rinvia la definizione
dei criteri e delle modalita' per l'attribuzione di trasferimento del
personale  e  delle  risorse patrimoniali e finanziarie ad un decreto
del Presidente del Consiglio dei ministri, da emanarsi suproposta del
Ministro  dell'ambiente e della tutela del territorio di concerto con
il  Ministro  dell'economia  e delle finanze e con il Ministro per la
funzione  pubblica, "sentita la Conferenza permanente Stato-Regioni",
entro  trenta  giorni  dalla  data  di entrata in vigore del decreto.
Ancora, lo stesso d.P.C.m. "disciplina il trasferimento di funzioni e
regolamenta il periodo transitorio".
    Le  disposizioni  impugnate appaiono da un lato gravemente lesive
delle attribuzioni regionali, dall'altro - e proprio percio' - lesive
dell'oggetto e dei principi e criteri direttivi della delega.
    Sotto il primo profilo va osservato che la Sezione in cui trovano
collocazione  le  disposizioni  impugnate evoca con chiarezza sin dal
titolo  -  "Norme  in  materia  di  difesa  del  suolo  e  lotta alla
desertificazione" - che la disciplina contenuta insiste sulla materia
"governo del territorio", che l'art. 117, comma terzo, Cost., assegna
alla competenza concorrente.
    Come  codesta  ecc.ma  Corte  ha  ripetutamente  affermato, nelle
materie  concorrenti  lo  Stato  puo'  intervenire esclusivamente con
norme  legislative  di  principio,  e non puo' riservare a se' e alle
proprie  strutture  decentrate  funzioni amministrative che non siano
giustificate  dalla "chiamata in sussidiarieta"; e che, anche qualora
l'attrazione   al   centro   di   funzioni  "unitarie"  possa  essere
giustificato  in  nome  del  principio di sussidiarieta' o qualora il
particolare  intreccio  di  competenze (coinvolgente anche competenze
esclusive  dello Stato, ex art. 117, comma 2, Cost.) consentisse allo
Stato  di esercitare determinate funzioni amministrative incidenti in
materie  di competenza regionale, tuttavia cio' non puo' avvenire che
nel  rispetto  del principio di leale collaborazione, inteso in senso
"forte"   (e   quindi   attraverso   procedure  di  codecisione,  non
semplicemente   "sentendo"   la   Conferenza  Stato-regioni),  e  del
principio di proporzionalita'.
    Commisurate   a  tali  parametri,  le  norme  che  sopprimono  le
Autorita' di bacino e istituiscono le nuove Autorita' distrettuali si
rivelano  affette  da  illegittimita'  costituzionale  sotto  diversi
profili.
    In primo luogo, l'unificazione sotto un'unica Autorita' di bacini
che   non   hanno   in   realta'   alcuna  correlazione  realizza  un
accentramento  privo  di  qualunque  giustificazione  ed espropria le
regioni  delle  proprie  naturali competenze, in violazione sia della
competenza legislativa di cui all'art. 117 Cost. che del principio di
sussidiarieta'.
    In  secondo  luogo, i distretti stessi sono configurati come enti
amministrativi    sovraregionali,    distorcendo   completamente   la
fisionomia  delle  Autorita'  di  bacino,  cosi' come impostate dalla
legge  n. 183/1989.  Queste infatti erano modellate con riferimento a
dimensioni  idrogeografiche  "naturali",  che  ne  giustificavano  la
competenza   pianificatoria   e   decisionale,  mentre  le  Autorita'
distrettuali  istituite  dalle  disposizioni  impugnate rappresentano
delle    semplici   articolazioni   burocratico-amministrative,   che
costituiscono  in  realta'  una  sorta  di amministrazione decentrata
dello  Stato  in  cui  la  centralizzazione  amministrativa e' appena
temperata da elementi di partecipazione minoritaria delle regioni.
    Si  consideri  che,  ai sensi della legge n. 183/1989, le regioni
erano  contitolari del governo dei bacini nazionali (configurati come
organismi  a partecipazione mista Stato-regioni) e titolari esclusive
delle  funzioni  relative ai bacini regionali e interregionali. Oggi,
all'opposto,  rappresentanti  delle  regioni  sono  presenti in netta
minoranza   nel   fondamentale   organo  decisionale,  la  Conferenza
istituzionale  permanente  (che nomina anche il Segretario generale),
nonche'  nella  Conferenza operativa, le cui competenze sono peraltro
piuttosto oscure.
    La regola secondo la quale si decide a maggioranza, espressamente
enunciata al comma 4, data la composizione sperequata dell'organo (in
cui  il numero dei rappresentanti dello Stato e' sempre sette, mentre
quello  dei  rappresentanti  delle  regioni dipende da quante regioni
sono  concretamente  coinvolte, ma queste non sono mai pari a sette),
appare  espropriare  le regioni da qualsiasi garanzia giuridica delle
loro prerogative.
      Infine,  se  pure  fosse  giustificata  secondo il principio di
sussidiarieta'  la  suddivisione del territorio in distretti privi di
corrispondenza  con precisi bacini fluviali interconnessi, le regioni
non   sono   state   chiamate   ad   esercitare   alcun  ruolo  nella
determinazione  dell'ambito  dei distretti. Va considerato che, sotto
questo profilo, il decreto legislativo non contiene norme generali ed
astratte, ma opera come legge provvedimento, in materia di competenza
regionale.   Secondo  la  stessa  giurisprudenza  di  codesta  Corte,
l'assunzione  in  legge  di decisioni concrete non puo' privare delle
garanzie  previste  dalla  Costituzione: il che vale ugualmente, ed a
maggiore  ragione,  per le competenze delle regioni, alle quali viene
cosi' sottratta ogni possibilita' di codecisione.
    2) Specifica  illegittimita'  del  potere normativo attribuito al
decreto del Presidente del Consiglio dall'art. 63, commi 2 e 3.
    Si  deve  poi  specificamente  evidenziare,  come  detto,  che al
d.P.C.m.  e' attribuita anche una funzione regolamentare (v. art. 63,
commi 2 e 3).
    Innanzitutto,    si    tratta    di    un'attribuzione   connessa
all'accorpamento  dei  distretti,  illegittima  per le stesse ragioni
sopra esposte.
    Se  essa  potesse  essere  giustificata  in nome del principio di
sussidiarieta', il corrispondente potere andrebbe comunque esercitato
d'intesa   con   la  Conferenza  Stato-Regioni,  la  quale  non  puo'
semplicemente essere "sentita".
    3) Specifica illegittimita' della soppressione delle Autorita' di
bacino  a  partire  dal 30 aprile, in relazione all'impossibilita' dl
dettare entro tale termine la disciplina transitoria.
    Inoltre,  tale  potere  normativo risulta dover essere esercitato
... in un solo giorno: non prima del 29 aprile 2006, perche' la norma
autorizzativa  del  decreto legislativo non sarebbe ancora in vigore,
ma   neppure   dopo  il  30  aprile,  perche'  le  norme  transitorie
interverrebbero  ... ad Autorita' di bacino gia' venute meno ai sensi
del  comma 3.  Dietro  tale assurdita', tuttavia, si cela la ben piu'
sostanziale  illegittimita'  della  norma che prevede la soppressione
delle  Autorita' di bacino a partire dal 30 aprile, prima che possano
essere  definite  le  fasi  di  transizione, se pure il nuovo sistema
fosse legittimo.
    Da  qui  il pericolo di un irreparabile pregiudizio all'interesse
pubblico, ed il rischio di un pregiudizio grave ed irreparabile per i
diritti  dei  cittadini,  che  induce  la  Regione  Emilia-Romagna  a
chiedere la sospensione della esecuzione della norma: la soppressione
delle  Autorita' di bacino decorre dallo stesso 30 aprile, per cui e'
evidente  che  l'emanazione  di  una  normativa  transitoria  diviene
pressoche'   impossibile,  dato  che  l'emanazione  del  d.P.C.m.  e'
soggetta ad una procedura complessa, descritta dall'art. 63, comma 2,
nel  corso  della  quale deve essere sentita la Conferenza permanente
Stato-Regioni.
    A  prescindere  dalla  gia'  lamentata insufficienza di una forma
cosi' tenue di "cooperazione", vi e' il rischio - ma si dovrebbe dire
la  certezza  -  che  la  soppressione  immediata  delle Autorita' di
bacino,  in  assenza di una regolazione transitoria - apra un periodo
di  incertezza  sulle  competenze ad emanare gli atti e a svolgere le
funzioni di gestione, vigilanza e controllo che le autorita' svolgono
da  tempo a tutela degli interessi pubblici fondamentali che hanno in
cura.
    Attualmente  le  Autorita'  di bacino regionali operano in base a
diverse  leggi  della  Regione Emilia-Romagna: la l.r. 24 marzo 2000,
n. 21,  "Norme  per  il  funzionamento  dell'Autorita'  di bacino del
Marecchia  e del Conca"; la l.r. 25 maggio 1992, n. 25, "Norme per il
funzionamento  dell'Autorita'  di  bacino del Reno"; la l.r. 29 marzo
1993,  n. 14, "Istituzione dell'Autorita' dei bacini regionali". Esse
verrebbero   abrogate   a   decorrere  dal  termine  del  30  aprile,
paralizzando le attivita' delle Autorita' di bacino.
    Proprio   per   evitare  che  insorgano  situazioni  di  paralisi
amministrativa  o  di  grave rottura dell'ordinamento costituzionale,
che  si  rifletterebbero immediatamente sull'esercizio delle funzioni
attribuite  alla  Regione e sulla tutela degli interessi urbanistici,
ambientali  e di governo del territorio che la Regione ha in cura, si
chiede  a  codesta  ecc.ma  Corte  di  intervenire  in fase cautelare
ordinando  la  sospensione dell'esecuzione di queste disposizioni, in
attesa    del   definitivo   giudizio   sulla   loro   illegittimita'
costituzionale,   che   la   ricorrente   Regione  confida  di  avere
illustrato.
    4)  Illegittimita' costituzionale degli articoli 63 e 64 sotto il
profilo della violazione della legge di delega.
    Va  altresi'  evidenziato  l'eccesso  di  delega in relazione sia
all'oggetto di essa che ai principi e criteri direttivi fissati dalla
legge di delega.
    Infatti,  quanto  all'oggetto,  va  sottolineato  che  la dizione
"riordino,    coordinamento   e   integrazione   delle   disposizioni
legislative...,  anche mediante la redazione di testi unici" (art. 1,
comma.  1, legge n. 308/2004), fa riferimento alle classiche funzioni
di coordinamento normativo, preordinate ad una mera razionalizzazione
della   legislazione   vigente.   Come   codesta   ecc.ma   Corte  ha
sistematicamente  ripetuto  (cfr.  da  ultimo  le sent. nn. 303/2005,
66/2005,  280/2004),  "la  revisione  e  il  riordino, ove comportino
l'introduzione  di  norme  aventi  contenuto innovativo rispetto alla
disciplina previgente, necessitano della indicazione di principi e di
criteri   direttivi   idonei   a   circoscrivere  le  diverse  scelte
discrezionali  dell'esecutivo, mentre tale specifica indicazione puo'
anche  mancare  allorche'  le nuove disposizioni abbiano carattere di
sostanziale conferma delle precedenti" (sent. n. 66/2005, che cita il
precedente  della  sent.  n. 354/1998).  Nel  presente caso l'oggetto
della  delega prevede solo il "riordino", neppure la "revisione", per
cui  la  massima  espressa  dalla  giurisprudenza  costituzionale  va
applicata con ancora maggiore rigore.
    Accanto  a  cio',  nel definire i contorni del potere legislativo
delegato,  la  legge  n. 308 (art. 1, comma 8) indica innanzi ad ogni
altro  criterio  "il  rispetto...  delle competenze per materia delle
amministrazioni  statali,  nonche' delle attribuzioni delle regioni e
degli  enti  locali,  come  definite  ai  sensi  dell'art. 117  della
Costituzione,  della  legge  15  marzo  1997,  n. 59,  e  del decreto
legislativo  31  marzo  1998,  n. 112":  e'  percio'  evidente che il
legislatore  delegato  era  tenuto  a  non modificare il quadro delle
attribuzioni regionali - quadro che invece, come si e' visto, risulta
gravemente  compromesso  dalle  scelte  compiute  dalle  disposizioni
censurate.
    D'altro  canto,  nessuno  dei  "principi e criteri direttivi" poi
elencati dall'art. 1, comma 8, autorizza un'innovazione legislativa e
amministrativa  come  quella  apportata dalla sovversione del sistema
delle  Autorita'  di  bacino. Tra i principi e criteri direttivi piu'
specifici dettati dal comma 9 si trova invece questa indicazione:
        "c) rimuovere   i   problemi   di   carattere  organizzativo,
procedurale e finanziario che ostacolino il conseguimento della piena
operativita'  degli  organi  amministrativi  e  tecnici preposti alla
tutela  e  al  risanamento  del  suolo e del sottosuolo, superando la
sovrapposizione  tra i diversi piani settoriali di rilievo ambientale
e  coordinandoli  con  i piani urbanistici; valorizzare il ruolo e le
competenze  svolti  dagli  organismi  a  composizione mista statale e
regionale;   adeguare   la   disciplina   sostanziale  e  procedurale
dell'attivita'  di  pianificazione,  programmazione  e  attuazione di
interventi  di risanamento idrogeologico del territorio e della messa
in   sicurezza  delle  situazioni  a  rischio;  prevedere  meccanismi
premiali  a  favore  dei proprietari delle zone agricole e dei boschi
che  investono  per prevenire fenomeni di dissesto idrogeologico, nel
rispetto  delle  linee  direttrici  del  piano di bacino; adeguare la
disciplina   sostanziale   e  procedurale  della  normativa  e  delle
iniziative   finalizzate  a  combattere  la  desertificazione,  anche
mediante  l'individuazione  di  programmi  utili a garantire maggiore
disponibilita'   della  risorsa  idrica  e  il  riuso  della  stessa;
semplificare   il  procedimento  di  adozione  e  approvazione  degli
strumenti  di  pianificazione con la garanzia della partecipazione di
tutti  i  soggetti istituzionali coinvolti e la certezza dei tempi di
conclusione dell'iter procedimentale".
    Come  si  vede,  la  legge  di  delega  presuppone  piuttosto  il
mantenimento  ed il miglioramento della funzionalita' degli organismi
esistenti,   fondati   sull'unita'   dei  bacini  idrografici,  senza
prevederne  o  consentirne  affatto la soppressione e la sostituzione
con  un sistema radicalmente diverso, ispirato a principi divergenti,
che avrebbero dovuto in ogni caso essere enunciati.
    La  legge  di  delega,  dunque,  non  consente  una  legislazione
delegata  che  sovverte l'ordinamento amministrativo introdotto dalla
legge  n. 183/l989  e  lo sostituisce con un sistema centralistico di
gestione  delle politiche di tutela idrogeologica del territorio, per
lo   piu'   causando  un  periodo  di  grave  incertezza  nella  fase
transitoria  e  esautorando  le regioni, sostituendo il sistema della
Autorita'  di  bacino con una "zonizzazione" del territorio nazionale
dominata da un sistema di gestione affidato ad un complesso di organi
collegiali inediti e sperequanti.
    Si   consideri  che  la  violazione  della  legge  di  delega  si
identifica in questo caso con la lesione delle prerogative regionali,
e che il motivo e' dunque perfettamente ammissibile.
    B) Illegittimita'  costituzionale  degli  artt.  181, commi 7-11,
183,  comma  1, lettere g), h), m), 186, 189, comma 3, per violazione
degli artt. 117, comma primo, terzo e quinto, 118, 11 e 76 Cost.
    La  parte  quarta  del  decreto  legislativo, che detta "Norme in
materia  di  gestione  dei rifiuti e di bonifica dei siti inquinati",
reca  ad  avviso  della  ricorrente regione numerose deviazioni dagli
obblighi  assunti  in  sede comunitaria, che la regione si riserva di
censurare  in  un  successivo  ricorso, la' dove incidano anche sulle
attribuzioni regionali.
    Nel   presente   ricorso   urgente,   l'impugnazione   e'  invece
circoscritta  alle  sole disposizioni che producono effetti immediati
pregiudizievoli  per  le  attribuzioni  regionali  e costituiscono un
pericolo  grave e immediato per gli interessi pubblici che la regione
ha in cura.
    1) Illegittimita'  costituzionale dell'art. 181, commi da 7 a 11,
e  dell'art. 183,  comma  1,  lettere  g),  h),  m),  n),  q), ed u).
Illegittimita'  costituzionale  per  le stesse ragioni dell'art. 214,
commi 3 e 5. Illegittimita' costituzionale dell'art. 186.
    L'art. 181,  settimo  comma, prevede che "soggetti economici" non
meglio   identificati  (ma  potenzialmente  comprensivi  di  chiunque
gestisca   attivita'   d'impresa)  o  le  associazioni  di  categoria
rappresentative  dei  settori  interessati,  anche con riferimento ad
interi  settori  economici  e  produttivi,  possano "stipulare con il
Ministro  dell'ambiente  e  della  tutela  del territorio... appositi
accordi di programma ...per definire i metodi di recupero dei rifiuti
destinati   all'ottenimento   di   materie   prime   secondarie,   di
combustibili  o  di  prodotti".  Secondo  la stessa disposizione tali
accordi "fissano le modalita' e gli adempimenti amministrativi per la
raccolta,  per la messa in riserva, per il trasporto dei rifiuti, per
la loro commercializzazione, anche tramite il mercato telematico, con
particolare riferimento a quello del recupero realizzato dalle Camere
di  commercio,  e  per i controlli delle caratteristiche e i relativi
metodi  di  prova";  gli accordi "fissano altresi' le caratteristiche
delle  materie  prime  secondarie,  dei  combustibili  o dei prodotti
ottenuti,  nonche'  le  modalita' per assicurare in ogni caso la loro
tracciabilita' fino all'ingresso nell'impianto di effettivo impiego".
I   commi   successivi,  dall'8  all'11,  disciplinano  le  modalita'
procedurali per la stipulazione, l'approvazione e la pubblicazione di
tali accordi di programma.
    Le parole utilizzate dalla disposizione ora richiamata trovano il
loro  significato  nelle  definizioni  dettate  dall'art. 183,  comma
primo.  In  particolare, vengono in considerazione le definizioni dei
termini:    g)    ("smaltimento");   h) ("recupero");   m) ("deposito
temporaneo");  n) ("sottoprodotto");  q) "materia  prima secondaria",
definita  con  riferimento  alle  caratteristiche  stabilite ai sensi
dell'art.181);    u) ("materia   prima   secondaria   per   attivita'
siderurgiche  e  metallurgiche", al cui proposito la disciplina sara'
integrata da un decreto ministeriale "senza valore regolamentare").
    Tali  disposizioni,  considerate nella loro sostanza, operano una
deregolamentazione  "mascherata"  del settore, in pieno contrasto con
le normative europee, piu' volte ribadite dalle decisioni della Corte
di giustizia.
    In  particolare,  si  introducono  definizioni  di  smaltimento e
recupero   non  completamente  conformi  con  quanto  indicato  nella
direttiva  75/442/CEE art. 1, lettere e) e f), nonche' definizioni di
sottoprodotto e di materia prima secondaria (MPS) non coerenti con le
indicazioni  fornite  dalle sentenze della Corte di giustizia europea
(sentenze  C-418/1997  e  C-419/1997  -  "Arco";  C-9/2000  -  "Palim
Granit";  C-1  14/2001,  "AvestaPolarit  Chrome";  e  in  particolare
C-457/2002, "Niselli").
    Viene  infatti riproposto ancora una volta l'"approccio normativo
italiano",  consistente  nella  sottrazione dei sottoprodotti e delle
cosiddette materie prime secondarie alla disciplina dei rifiuti. Tale
"approccio" e' gia' stato oggetto di una prima sentenza di condanna a
seguito  di  procedura d'infrazione che ha colpito il d.m. 5 febbraio
1998,  che  invece  l'art. 181,  comma  6,  del  decreto  legislativo
impugnato  mantiene transitoriamente ma illegittimamente in vigore in
attesa  di un nuovo decreto ministeriale che fissi le caratteristiche
dei materiali ottenuti come materie secondarie: la sentenza 7 ottobre
2004   (C-103/2002)  ha  espressamente  sancito  che  "la  Repubblica
italiana,   non   avendo  stabilito  nel  decreto  5  febbraio  1998,
sull'individuazione   dei  rifiuti  non  pericolosi  sottoposti  alle
procedure  semplificate  di recupero ai sensi degli artt. 31 e 33 del
decreto  legislativo  5  febbraio  1997,  n. 22, quantita' massime di
rifiuti,  per tipo di rifiuti, che possano essere oggetto di recupero
in  regime  di  dispensa  dall'autorizzazione,  e'  venuta  meno agli
obblighi  che  ad  essa incombono in forza degli artt. 10 e 11, n. 1,
della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, relativa ai
rifiuti,  come  modifica dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991,
91/156/CEE".
    Ulteriore  sentenza negativa e' stata poi pronunciata, in sede di
rinvio  pregiudiziale,  dalla  Corte  di  giustizia,  con particolare
riferimento all'art. 14 della legge n. 178/2002 (C457/2002).
    La violazione del diritto comunitario e' confermata dal fatto che
i  sottoprodotti e le MPS vengono si' inclusi nella "definizione" dei
rifiuti,  ma  in  realta'  la norma che cosi' li classifica restringe
fortemente  l'ambito di applicazione della disciplina (stabilendo che
"non  sono  soggetti  alle  disposizioni di cui alla parte quarta del
presente  decreto  i sottoprodotti di cui l'impresa non si disfi, non
sia  obbligata  a  disfarsi  e  non  abbia  deciso  di disfarsi ed in
particolare..."),   al   punto   di  costituire  una  vasta  area  di
sottoprodotti  esentati  dalla disciplina, pur senza includerli tra i
materiali per i quali valgono specifiche esclusioni dall'applicazione
del  decreto,  ai  sensi  del  successivo  art. 185.  E'  un evidente
artifizio  formale  teso  ad evitare che appaia evidente il conflitto
con le norme europee.
    In   realta',   attraverso  la  previsione  di  appositi  decreti
ministeriali  e  degli  accordi  di  programma  di  cui all'art. 181,
vengono   sottratti   al   regime   dei   rifiuti,  e  alle  relative
autorizzazioni,  adempimenti  e controlli, molte sostanze o materiali
che nella legislazione vigente invece vi sono assoggettati.
    Anche  la  Corte  di cassazione, con sentenza n. 47269/2005 e con
ordinanza  n. 1414/2006,  ha appena ora sancito invece che la nozione
di  rifiuto  - in coerenza con la normativa comunitaria - deve essere
intesa  in  senso  estensivo  (e  non  restrittivo  quale  e'  invece
l'approccio della pregressa normativa italiana, ripreso in modo ancor
piu'  evidente  dal  decreto  delegato),  riportandola  percio'  alla
disciplina dei sottoprodotti e materie prime secondarie dettata dalle
disposizioni    comunitarie,    cosi'    come    interpretate   dalla
giurisprudenza della Corte di giustizia.
    Con  il pretesto della semplificazione amministrativa non vengono
in  realta'  limitati gli oneri amministrativi, bensi' ridotta l'area
di   applicazione   della  disciplina  dei  rifiuti  ed  eliminati  i
controlli,  quale  risultato vuoi di una ridefinizione delle sostanze
soggette    a    regolamentazione    restrittiva,    vuoi    di   una
"deregolamentazione"  della  disciplina  dei  metodi  di recupero dei
rifiuti, sostituita da procedure "contrattate".
    Il  ricorso  allo  strumento  di accordi e contratti di programma
previsti  dall'art. 181  eccede  i  limiti  propri  dell'istituto, in
quanto   si  sostituisce  una  "fonte"  contrattata  alla  disciplina
normativa,   alterando   la   gerarchia   delle  fonti  del  diritto.
Sostituendo  alla  disciplina  generale  una  serie  indeterminata di
accordi  applicabili  soltanto agli aderenti, si ledono i principi di
certezza  del  diritto,  uguaglianza, generalita' e astrattezza delle
norme.
    Davvero  paradossale e' poi che l'impugnato art. 181, al comma 7,
richiami  (rinviando  al  precedente  comma 5) la comunicazione della
Commissione  al  Parlamento europeo, al Consiglio e al Comitato delle
regioni,  Com  (2002) 412, del 17 luglio 2002, quale "modello" cui si
devono ispirare gli accordi di programma previsti: si tratta infatti,
come  si  legge  nella  comunicazione,  di  accordi  "in cui le parti
interessate  si  impegnano  ad  ottenere una riduzione dei livelli di
inquinamento,  come  sancito  dal  diritto ambientale, o obiettivi di
carattere  ambientale,  di  cui  all'art. 174 del trattato", quali ad
esempio   gli   accordi  comunitari  in  materia  ambientale  con  le
associazioni  di  produttori  di  automobili  europea,  giapponese  e
coreana  sulla  riduzione progressiva delle emissioni di CO2 prodotte
dalle autovetture.
    Gli  accordi  previsti  dalle  disposizioni  censurate, diretti a
"deregolamentare"  e  "privatizare"  la  disciplina  dei rifiuti, non
corrispondono  affatto  a  quanto  ipotizzato  (ed  auspicato)  nella
comunicazione della Commissione ossia alla possibilita' che - tramite
moduli  convenzionali  e  non  "imposti"  -  si raggiungano obiettivi
ambientali  ulterioi  rispetto  a  quelli  gia'  fissati dalle regole
comunitarie.
    Il  contrasto  con  le direttive n. 75/442/CEE e n. 91/156/CEE si
manifesta  anche nel fatto che le norme europee non consentono che le
attivita' di recupero possano essere completamente escluse dal regime
autorizzatorio.   Infatti   l'art. 11  della  direttiva  n. 75/442/CE
prevede  che  la  dispensa  dall'autorizzazione  sia  possibile  solo
fissando  norme generali che fissano i tipi e le quantita' di rifiuti
(va  ricordato  che  proprio  per  tale  motivo  lo Stato italiano e'
incorso in una procedura di infrazione comunitaria per il citato d.m.
5 febbraio 1998).
    Il  decreto  legislativo  impugnato fa al contrario venir meno il
quadro   normativo   generale   richiesto  dalle  direttive  europee,
sostituendolo  con  una  vasta contrattualizzazione della disciplina;
mentre,   per   altro  verso,  la  normativa  europea  richiede,  per
"escludere"  un  rifiuto  dal  campo  di applicazione della direttiva
n. 75/442,  che  (eccezion fatta per gli effluenti gassosi immessi in
atmosfera  per  cui  vale  l'esenzione  diretta)  le  esenzioni siano
ammissibili  soltanto  se  disciplinate  da specifica norma speciale,
cio'  che  non avviene con la disciplina generale di esenzione che le
norme impugnate prevedono per MPS e sottoprodotti.
    Per le stesse ragioni ora illustrate risultano costituzionalmente
illegittimi i commi 3 e 5 dell'art. 214, nella parte in cui ammettono
rispettivamente  lo  sfrumento  dell'accordo  "deregolatorio"  per le
procedure semplificate di smaltimento di rifiuti e richiamano il d.m.
5  febbraio  1988 per la fase transitoria, in attesa della fissazione
delle nuove regole.
    L'art. 186  introduce  inoltre  una ipotesi generale dl esenzione
per  le  terre  e rocce da scavo ed i residui della lavorazione della
pietra  destinati  all'effettivo  utilizzo per reinterri, riempimenti
ecc.,  i  quali,  secondo  la citata disposizione, "non costituiscono
rifiuti  e  sono,  percio', esclusi dall'ambito di applicazione della
parte  quarta del presente decreto solo nel caso in cui, anche quando
contaminati,  durante  il  ciclo  produttivo,  da sostanze inquinanti
derivanti  dalle attivita' di escavazione, perforazione e costruzione
siano   utilizzati,  senza  trasformazioni  preliminari,  secondo  le
modalita'  previste  nel progetto sottoposto a valutazione di impatto
ambientale   ovvero,   qualora  il  progetto  non  sia  sottoposto  a
valutazione  di impatto ambientale, secondo le modalita' previste nel
progetto approvato dall'autorita' amministrativa competente, ove cio'
sia  espressamente  previsto, previo parere delle Agenzie regionali e
delle  province  autonome per la protezione dell'ambiente, sempreche'
la   composizione   media   dell'intera   massa   non   presenti  una
concentrazione  di  inquinanti  superiore  ai limiti massimi previsti
dalle norme vigenti e dal decreto di cui al comma 3".
    Anche in questo caso il contrasto con la normativa comunitaria e'
evidente, trattandosi di un'esclusione disposta in via generale al di
fuori del quadro normativo europeo. Basta ricordare che una specifica
procedura d'infrazione e' stata avviata contro la Repubblica italiana
a causa di una disposizione analoga contenuta nella legge n. 443/2001
(art. 1, comma l5).
    Le  norme impugnate non contrastano dunque solo con le richiamate
norme  comunitarie,  e,  per  cio' stesso, con l'art. 11 e con l'art.
117,  comma  primo,  Cost.;  esse contrastano inoltre con la legge di
delega  - e quindi indirettamente con l'art. 76 Cost. - che fissa tra
i criteri direttivi (art. 1, comma 8) la "piena e coerente attuazione
delle  direttive comunitarie, al fine di garantire elevati livelli di
tutela   dell'ambiente   e   di   contribuire   in   tale  modo  alla
competitivita'  dei  sistemi  territoriali  e delle imprese, evitando
fenomeni    di   distorsione   della   concorrenza   (lettera e),   e
l'"affermazione   dei   principi   comunitari   di   prevenzione,  di
precauzione, di correzione e riduzione degli inquinamenti e dei danni
ambientali  e  del  principio  "chi  inquina  paga" (lettera f). Tali
illegittimita'  si  ripercuotono,  ovviamente,  in  modo lesivo sulle
competenze   costituzionali   della  regione  in  materia  di  tutela
dell'ambiente,   tutela   della  salute  e  governo  del  territorio,
pregiudicando  il  corretto  svolgimento  delle funzioni regionali in
quelle materie, come si illustra piu' ampiamente nel punto seguente.
    2) Illegittimita'  costituzionale  delle  stesse  norme di cui al
punto 1) per diretta violazione delle competenze regionali.
    Le  stesse  norme  censurate  al  punto  precedente costituiscono
altresi' diretta violazione delle attribuzioni regionali.
    La   materia   "rifiuti"  si  colloca  in  una  zona  in  cui  si
sovrappongono  gli  interessi  ambientali  con  quelli  di tutela del
territorio,  nonche'  della  tutela igienico-sanitaria e di sicurezza
della  popolazione.  Ma  anche  a  ritenere  che, in applicazione del
"criterio  di  prevalenza"  elaborato  dalla giurisprudenza di questa
ecc.ma Corte, debba riconoscersi allo Stato il titolo a legiferare in
base   alla   competenza  riconosciutagli  dall'art.  117,  comma  2,
lettera s), cio' non significa che la legge statale possa intervenire
senza precisi limiti.
    La  legislazione  vigente  -  a partire dal c.d. "decreto Ronchi"
(d.lgs.  n. 22/1997)  e  dall'art. 85  del  d.lgs.  n. 112/1998,  che
espressamente  lo  richiama  -  ha riconosciuto il ruolo fondamentale
delle   Regioni   nell'attuazione  del  quadro  normativo  nazionale,
finalmente  riportato  ad  una  disciplina  organica  e  unitaria, in
considerazione  della "vocazione" regionale - in base al principio di
sussidiarieta'  -  sia  nella  politica di tutela del territorio, sia
nell'applicazione in loco della disciplina generale, organizzando gli
apparati  e le procedure amministrative necessarie e "incrociando" la
disciplina  di  settore  con  il  complesso  fascio  delle competenze
regionali, spettanti a pieno titolo o quali potesta' concorrenti, che
incidono   sull'ambiente   (come  e'  pacifico  nella  giurisprudenza
costituzionale sin dalla sent. n. 407/2002).
    Va  da  se'  che  rimane  allo  Stato  il  potere  legislativo di
disciplinare  in  via  generale  la "materia" e i suoi settori, cosi'
come pure di introdurre quegli snellimenti amministrativi che fissino
un  nuovo  equilibrio  tra gli interessi costituzionali di protezione
dell'ambiente,  da  un  lato,  e  la  liberta' d'iniziativa economica
dall'altro (sentt. nn. 116/2006, 331/2003, 307/2003). Tuttavia, se la
riforma  legislativa  operata  dal  legislatore  statale  - incidendo
profondamente  nelle funzioni gia' attribuite alla regione e che essa
ha  gia'  esercitato  disciplinandole  con  legge  e con strumenti di
pianificazione  generale  e  particolare  (cfr. la l.r. n. 27/1994, e
successive   modifiche,   nonche'   il  Piano  di  Azione  ambientale
2004-2006)  -  risulta  viziata  sia per violazione della delega (che
vincola    il   legislatore   delegato   al   rispetto   dell'assetto
amministrativo e al riparto di competenze vigente), che per contrasto
con il diritto comunitario, essa deve poter essere contrastata con il
ricorso  per  illegittimita' costituzionale: infatti, se essa dovesse
essere   applicata,   ne  risulterebbe  sconvolto  l'attento  assetto
normativo  e  amministrativo  disegnato dalla legislazione regionale,
che  verrebbe  in  molte  parti  abrogata  dall'atto  legislativo  in
questione, creando uno stato di grave precarieta' normativa.
    Va  infatti  sottolineato che la regione, a tenore dell'art. 117,
comma  5,  Cost., ha il compito di dare attuazione diretta alle norme
comunitarie;  per  principio  fondamentale  del  diritto comunitario,
confortato  dalla  sent.  n. 170/1984 di codesta Corte, la supremazia
del  diritto comunitario va assicurata dai soggetti dell'applicazione
del  diritto  anche  attraverso  la  "non  applicazione"  delle norme
legislative  interne  contrastanti  con  le  norme  comunitarie  self
executing.  La  conseguenza  di  queste  premesse  e'  che la Regione
Emilia-Romagna  sara'  tenuta  -  per  un  preciso obbligo giuridico,
dunque,   ora  rafforzato  dall'art. 117,  comma 1,  Cost.  -  a  non
applicare  nel  proprio territorio le norme del decreto impugnato che
risultino  in  contrasto  con le norme "ad effetto diretto" poste dal
diritto   comunitario  derivato  e  dalle  sentenze  della  Corte  di
giustizia   che  di  esso  forniscono  l'interpretazione  (cfr. sent.
n. 389/1989 di codesta ecc.ma Corte). Il risultato, quindi, non sara'
affatto  la  "semplificazione" promessa dalle disposizioni impugnate,
ma  uno  stato  di  gravissima  incertezza  normativa,  non  privo di
preoccupanti  riflessi  sulla repressione penale dei reati ambientali
legati  alla  disciplina  dei  rifiuti,  con  conseguente contenzioso
destinato  a  coinvolgere  nuovamente  - come gia' capitato nel "caso
Niselli", sia la Corte di giustizia che codesta Corte costituzionale.
     Tutto cio' avra', ancora una volta, gravissime conseguenze sugli
interessi  pubblici  alla  tutela dell'ambiente, della salute e della
sicurezza  pubblica, anche perche', eluse le norme generali in vigore
e  aggirate  le  definizioni  e  le procedure fissate dalla normativa
comunitaria,  diventera'  difficile  e  talvolta  impossibile  per le
strutture  regionali  rintracciare  le  sostanze  "derubricate" dalle
disposizioni   impugnate.   Con   l'entrata  in  vigore  del  decreto
legislativo   si  produrra'  infatti  una  derubricazione  di  talune
categorie  di  rifiuti,  i quali non saranno piu' considerati tali ma
verranno qualificati come sottoprodotti o combustibili o MPS, venendo
in  tal  modo  sottratti  al regime vincolistico e garantistico della
normativa  sui rifiuti. La gravita' e l'irreparabilita' del danno per
gli  interessi  pubblici e per la salute e la sicurezza dei cittadini
appaiono percio' innegabili.
    3) Illegittimita' costituzionale dell'art. 189, comma 3.
    Considerazioni  in tutto analoghe a quelle svolte subito sopra ai
punti  1)  e  2)  valgono  per l'art. 189, comma terzo: esso riguarda
l'obbligo  di  comunicare  annualmente  alle  Camere  di commercio le
quantita'  e  le  caratteristiche  qualitative dei rifiuti oggetto di
attivita'  di  raccolta, trasporto, recupero e smaltimento di rifiuti
(c.d.   MUD,   ossia   il  "modello  unico"  introdotto  dalla  legge
n. 70/1994).  L'ambito  di  applicazione  di  tale  obbligo viene ora
delimitato  restrittivamente,  esentandone  le imprese e gli enti che
producono  rifiuti  non  pericolosi.  Si produrra' di conseguenza una
preoccupante  perdita  di informazioni per quanto riguarda molteplici
categorie  di  rifiuti  che  potranno  circolare  liberamente,  senza
consentire  alle strutture chiamate a svolgere i controlli ambientali
di  conoscere  i  dati  relativi  alla  produzione  che  sono base di
conoscenza  per  seguire  il  percorso dei rifiuti. Alla gravita' del
danno  si  aggiunge la sua imminenza: infatti, entro il 30 aprile - e
quindi il giorno dopo l'entrata in vigore del decreto legislativo - i
produttori  di  rifiuti  non  pericolosi  devono  predisporre il MUD;
l'entrata  in  vigore  della  disposizione censurata produrra' quindi
l'immediato effetto di esentare i soggetti precedentemente gravati da
tale obbligo per l'anno 2006.
    C) Illegittimita'  costituzionale  dell'art.  101,  comma  7, per
violazione degli artt. 117, terzo comma, e 76 Cost.
    L'art. 101,  comma  7, derogando ad un criterio consolidato da un
trentennio,  assimila  alle  acque  reflue  domestiche  gli  scarichi
derivanti dalle imprese agricole, includendo in esse anche quelle che
svolgono  attivita'  di  trasformazione o valorizzazione dei prodotti
agricoli,   purche'   tale   attivita',  inserita  con  carattere  di
normalita'   e  complementarieta'  funzionale  nel  ciclo  produttivo
aziendale,  riguardi  materia  prima  lavorata  proveniente in misura
prevalente dall'attivita' di coltivazione dei terreni di cui si abbia
a qualunque titolo la disponibilita'.
    Si   tratta   di   attivita'   i  cui  reflui  possono  avere  un
considerevole  impatto  ambientale:  si  considerino,  ad esempio, le
cantine vinicole o i caseifici che producono su scala industriale.
    In  precedenza  il decreto legislativo n. 152/1999 ("Disposizioni
sulla  tutela  delle  acque  dall'inquinamento  e  recepimento  della
direttiva  91/271/CEE  concernente  il trattamento delle acque reflue
urbane  e  della  direttiva 91/676/CEE relativa alla protezione delle
acque  dall'inquinamento  provocato  dai nitrati provenienti da fonti
agricole")  fissava  allart. 28,  comma  7,  lettera  c), un criterio
certo,  che  imponeva  un  preciso  rapporto minimo tra materia prima
derivante  dalla  propria  produzione  e  materia  prima derivante da
produzioni  altrui:  ora,  la  disposizione  impugnata sostituisce il
limite minimo di 2/3 con il concetto elastico di "misura prevalente".
Si  tratta  di  un criterio discrezionale, che nella pratica corrente
favorisce  comportamenti  della PA che possono determinare disparita'
di trattamento.
    In  mancanza  di criteri certi e verificabili, l'incoerente o non
appropriata classificazione degli scarichi delle imprese agricole che
esercitano  anche  attivita' di trasformazione dei prodotti agricoli,
di  norma  caratterizzati  da  carichi  inquinanti elevati, determina
l'applicazione  di  livelli di trattamento meno rigorosi, in quanto -
ad  esempio  -  i  reflui  vengano  classificati domestici invece che
industriali:  con  conseguenti effetti negativi sulle caratteristiche
di  qualita'  delle  acque  del  corpo recettore (ad esempio il corso
d'acqua),  il  mancato  raggiungimento  degli  obiettivi  di qualita'
fissati dalle norme comunitarie e il conseguente danno all'ambiente.
    La  disposizione  impugnata  provoca  dunque  una  riduzione  del
livello  di  tutela  delle  acque  e contraddice percio' i principi e
criteri   direttivi   fissati  dalla  legge  di  delega:  quello  del
"miglioramento  della  qualita' dell'ambiente, della protezione della
salute  umana,  dell'utilizzazione  accorta e razionale delle risorse
naturali"  (lettera  a),  dell'art. 1,  comma 8), ma anche quello del
"pianificare, programmare e attuare interventi diretti a garantire la
tutela  e il risanamento dei corpi idrici superficiali e sotterranei,
previa  ricognizione  degli  stessi" (lettera b) del successivo comma
9).
    Essa  inoltre incide negativamente sulle funzioni attribuite alla
regione  gia' dalla legislazione di settore e dal decreto legislativo
n. 112/1998,  e  cio'  ancora una volta si riflette in violazione del
preciso vincolo posto dalla legge di delega.
    Inoltre - e da questa considerazione trae origine la richiesta di
sospenderne  l'esecuzione  -  la  disposizione  censurata minaccia di
provocare  effetti  irreversibili  sul  controllo  dei reflui e sulla
qualita'  delle  acque, gravemente minacciando gli interessi pubblici
ambientali  che  la  regione  ha  in  carico,  sia  pure  non  in via
esclusiva,  nonche' della tutela del territorio e della salute umana,
che  rientrano  nelle  competenze  concorrenti fissate dall'art. 117,
comma 3, Cost.
    D) Illegittimita'   cotituzionale  degli  artt. 154  e  155,  per
violazione degli artt. 117, quarto comma, 119 e 76 Cost.
    L'art. 154  istituisce la "Tariffa per il servizio idrico", quale
"corrispettivo  del  servizio  idrico integrato", e fissa i parametri
con  cui essa deve essere determinata, prescrivendo che debba tenersi
conto  "della  qualita'  della risorsa idrica e del servizio fornito,
delle  opere e degli adeguamenti necessari, dell'entita' dei costi di
gestione   delle  opere,  dell'adeguatezza  della  remunerazione  del
capitale   investito   e   dei   costi  di  gestione  delle  aree  di
salvaguardia,  nonche'  di una quota parte dei costi di funzionamento
dell'autotita'  d'ambito,  in  modo  che  sia assicurata la copertura
integrale  dei  costi  di  investimento  e  di  esercizio  secondo il
principio  del recupero dei costi e secondo il principio "chi inquina
paga"".
    Di  seguito  la  disposizione  determina le competenze attuative,
attribuendo: al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio,
su  proposta  dell'autorita' di vigilanza sulle risorse idriche e sui
rifiuti,  il  compito di definire con decreto "le componenti di costo
per  la determinazione della tariffa relativa ai servizi idrici per i
vari  settori  di  impiego  dell'acqua";  al Ministro dell'economia e
delle  finanze,  di  concerto  con  il Ministro dell'ambiente e della
tutela  del territorio, "al fine di assicurare un'omogenea disciplina
sul  territorio  nazionale",  il  compito  di  stabilire  "i  criteri
generali per la determinazione, da parte delle regioni, dei canoni di
concessione  per  l'utenza di acqua pubblica, tenendo conto dei costi
ambientali  e dei costi della risorsa e prevedendo altresi' riduzioni
del canone nell'ipotesi in cui il concessionario attui un riuso delle
acque   reimpiegando   le  acque  risultanti  a  valle  del  processo
produttivo  o  di  una  parte  dello stesso o, ancora, restituisca le
acque  di  scarico  con  le  medesime  caratteristiche qualitative di
quelle prelevate".
    Vengono  cosi'  previsti  diversi  poteri  normativi ministeriali
sovraordinati  a quello delle regioni, in violazione della competenza
legislativa  propria  spettante alle regioni a termini dell'art. 117,
quarto comma, della Costituzione.
    Sorprende  che  il  legislatore delegato abbia ignorato i rilievi
della  Commissione  della  Camera, che avvertiva dell'esigenza di non
ignorare il potere normativo regionale.
    A   conferma   della  competenza  legislativa  regionale  va  qui
richiamata  la  sentenza  di  codesta  ecc.ma  Corte n. 335 del 2005,
occasionata  da un ricorso governativo avverso la legge della Regione
Emilia-Romagna  n. 7/2004.  In  tale  sentenza  la Corte - pur avendo
affermato  che  il "tributo speciale per il deposito in discarica dei
rifiuti  solidi",  benche'  devoluto  alle regioni, dovesse ritenersi
rientrante   nella  legislazione  esclusiva  in  materia  di  sistema
tributario e contabile dello Stato (salvo che la stessa legge statale
non  ne rimandi la quantificazione alla regione), in quanto istituito
con   legge   dello  Stato,  in  base  alla  costante  giurisprudenza
costituzionale in merito al regime transitorio dei tributi (in attesa
della tanto auspicata attuazione dell'art. 119 Cost.) - ha dichiarato
invece  inammissibile  il  ricorso governativo contro l'art. 47 della
suddetta  legge  regionale,  che  istituiva e disciplinava la tariffa
relativa  al  servizio  integrato  ed  alla  gestione dei rifiuti, in
quanto   il   ricorrente   non  aveva  ritrovato  basi  argomentative
sufficienti a suffragare la competenza statale.
    Il  fatto  e'  che  la  legge  regionale  citata ha introdotto in
Emilia-Romagna  un  metodo di tariffazione partecipato ed innovativo,
la  cui  sperimentazione  sta  dando  risultati  lusinghieri, perche'
basato   su   meccanismi  incentivanti  il  risparmio  delle  risorse
ambientali  per  la sostenibilita' dello sviluppo, sulla qualita' del
servizio fornito e sul suo sviluppo.
    In particolare, il metodo tariffario regionale ha superato le due
piu' importanti limitazioni presenti nel metodo tariffario nazionale:
        la  prima  era costituita dall'impossibilita' di sostenere le
politiche  ambientali,  attraverso  una  tariffa  che  almeno  non le
penalizzi  (es. il risparmio idrico non e' incentivato, in quanto gli
introiti  del  gestore sono esclusivamente parametrizzati sul consumo
d'acqua);
          la  seconda  e'  costituita  dall'assenza  di  strumenti di
incentivazione  o  di  disincentivazione  legati  alla  qualita'  del
servizio reso agli utenti.
    Il  metodo  regionale  consente  invece  di  ritrovare margini di
efficienza  senza  necessariamente incrementare l'attuale tariffa, di
non  agire  solo  sul fronte della domanda, ma incentivare il sistema
dell'offerta nei comportamenti virtuosi di risparmio e conservazione,
di  includere  nella  tariffa  di riferimento strumenti di promozione
della qualita' del servizio e dell'efficienza, infine di allineare la
regolazione tariffaria agli indirizzi e obiettivi del Piano di tutela
delle  acque  in  termini  soprattutto di risparmio idrico e qualita'
degli  scarichi.  Inoltre,  le  norme regionali prevedono elementi di
"calmierazione"  tariffaria  per le famiglie numerose, per i soggetti
svantaggiati economicamente.
    Invece,  la disposizione impugnata, al contrario, si ingerisce in
materia di servizi pubblici locali, riservata alla potesta' residuale
delle   regioni  (sentt.  nn. 272/2004  e  29/2006),  delineando  una
normativa  che per di piu' si profila nel merito non affatto coerente
con    l'evoluzione    della    stessa   legislazione   statale:   e'
incomprensibile  ad  esempio l'omissione tra i criteri di quanto gia'
contenuto   nell'art.  13  della  legge  n. 36/1994,  concernente  la
necessita'  di  tener  conto  "degli obiettivi di miglioramento della
produttivita".  Una  tale  carenza  - rinunciando all'utilizzo di uno
degli   strumenti   piu'   efficaci  per  favorire  il  miglioramento
dell'efficienza  delle  gestioni,  ovvero  della  leva  tariffaria  -
configura  una  tariffa  priva  del controllo sui costi di gestione e
puo'  implicare il riconoscimento a pie' di lista dei costi operativi
del  gestore,  eliminando  il miglioramento progressivo in termini di
efficienza previsto dalla normativa precedente.
    Tali  norme  violano  il  riparto  della potesta' legislativa tra
Stato  e  regioni,  fissato  dall'art. 117  (e,  in  particolare,  la
competenza  residuale  ex art. 117, comma 4, in materia di disciplina
dei  servizi pubblici locali), e l'autonomia finanziaria e tributaria
delle regioni, garantita dall'art. 119, commi 1 e 2, Cost., in quanto
incidono  su  un'entrata  la  cui  disciplina ricade nella competenza
regionale.
    Inoltre,  le  norme  impugnate  contrastano  anche con gli stessi
criteri  della  delega  legislativa,  almeno la' dove essa vincola il
legislatore  delegato:  a)  al  rispetto  "delle  attribuzioni  delle
regioni  e  degli  enti  locali, come definite ai sensi dell'art. 117
della  Costituzione,  della legge 15 marzo l997, n. 59, e del decreto
legislativo  31  marzo  1998,  n. 112"  (art. 1,  comma  8);  b) allo
"sviluppo e coordinamento, con l'invarianza del gettito, delle misure
e degli interventi che prevedono incentivi e disincentivi, finanziari
o   fiscali,   volti   a  sostenere,  ai  fini  della  compatibilita'
ambientale,  l'introduzione  e  l'adozione  delle migliori tecnologie
disponibili,  come definite dalla direttiva 96/61/CE del 24 settembre
1996 del Consiglio, nonche' il risparmio e l'efficienza energetica, e
a  rendere  piu'  efficienti  le  azioni di tutela dell'ambiente e di
sostenibilita'  dello sviluppo, anche attraverso strumenti economici,
finanziari e fiscali" (art. 1, comma 8, lettera d); mentre, per altro
verso,  essa non appare neppure rientrare negli oggetti della delega,
non  essendo previsto tra essi l'introduzione ex novo dell'imposta in
questione.
    A  giustificare la richiesta di sospensione dell'esecuzione della
disposizione  in  questione  milita  un  argomento evidente: la norma
impugnata  tenderebbe  a  sostituirsi alla disciplina regionale sulla
tariffa  relativa  al servizio integrato ed alla gestione dei rifiuti
dettata   dalla   legge   regionale   n. 7/2004,   interrompendo   la
sperimentazione  avviata e ingenerando incertezza rispetto agli oneri
tributari  da assolvere, con grave danno per la certezza dei rapporti
giuridici e per i bilanci degli enti coinvolti.
    Per  le stesse ragioni appare illegittimo altresi' l'art. 155, in
relazione alla quota di tariffa riferite ai servizi di fognatura e di
depurazione.
    E) Illegittimita'  costituzionale  delle norme impugnate per vizi
procedurali  che  inficiano  l'intero decreto legislativo. Violazione
della legge di delega e del principio di leale collaborazione.
    Nel  suo  complesso il decreto appare viziato da gravi difetti di
procedimento,   attinenti   in   particolare  alla  violazione  della
procedura di "leale collaborazione". Come emerge da quanto esposto in
narrativa,  infatti,  il Governo non ha rispettato i contenuti minimi
della  garanzia di partecipazione della Conferenza unificata. Esso ha
richiesto  il  parere  della  Conferenza in termini temporali tali da
renderne  impossibile  l'espressione,  ed  ha  rifiutato la legittima
richiesta  di  disporre  del  tempo  necessario  allegando ragioni di
urgenza  inesistenti - dato che la delega veniva a scadenza oltre sei
mesi  piu'  tardi  -  e persino inducendo in errore (non si vuole qui
dire  volontariamente)  la  Conferenza  circa  gli  effettivi termini
temporali della delega.
    Si   noti   che  l'ordine  del  giorno  negativo  successivamente
approvato dalla Conferenza non puo' essere considerato un equivalente
di un parere effettivamente articolato e reso nel merito a seguito di
un  corretto  procedimento:  ma  del  resto  neppure  esso  e'  stato
effettivamente preso in considerazione.
    La   Conferenza   unificata   non  ha  avuto  modo  di  esprimere
formalmente  il  proprio parere, e sulle posizioni da essa assunte in
merito  al  decreto  legislativo  il  Governo  non  ha  aperto alcuna
discussione,  violando  quanto  disposto  dalla  legge  di  delega  e
ribadito dalla Commissione parlamentare. Come dispone l'art. 2, comma
3,   del   decreto  legislativo  n. 281/1997,  quando  la  Conferenza
Stato-Regioni e' obbligatoriamente sentita ("in ordine agli schemi di
disegni  di  legge  e  di  decreto  legislativo  o di regolamento del
Governo  nelle  materie  di competenza delle Regioni o delle Province
autonome  di  Trento  e  di  Bolzano") essa "si pronunzia entro venti
giorni".  Per l'espressione del parere della Conferenza unificata non
e' indicato un termine preciso, ma certo non si puo' ritenere che per
essa   -   che   ha   una   struttura  ancora  piu'  complessa  della
"Stato-Regioni" - possa valere un termine ancora piu' breve.
    Se  la  legge di delega prevede l'obbligo del Governo delegato di
acquisire  il parere della Conferenza, la Conferenza deve disporre di
un termine adeguato.
    Ma  tutto  il comportamento tenuto dai rappresentanti del Governo
in  questa  vicenda - in una vicenda cosi' complessa sotto il profilo
tecnico-normativo  e  tanto delicata per i molteplici riflessi che il
"Codice  dell'ambiente"  esercita  non  solo  sulle  attribuzioni "in
astratto" delle regioni, ma sulla legislazione, a sua volta complessa
e  articolata, che esse hanno prodotto - e' improntato ad uno spirito
autoritario  e  ostruzionistico  che  e' in palese con i canoni della
leale collaborazione.
    "Quando  si  abbia  a  che  fare con competenze necessariamente e
inestricabilmente  connesse  -  ha  osservato  codesta  ecc.ma  Corte
costituzionale - il principio di "leale collaborazione" - che proprio
in  materia  di  protezione  di  beni  ambientali  e  di  assetto del
territorio trova un suo campo privilegiato di applicazione - richiede
la  messa  in  opera  di  procedimenti  nei  quali  tutte  le istanze
costituzionalmente rilevanti possano trovare rappresentazione" (sent.
n. 422/2002).
    E' vero che tale principio e' "suscettibile di essere organizzato
in  modi  diversi,  per  forme  e  intensita'  della  pur  necessaria
collaborazione"  (sent.  n. 308/2003),  ma e' anche vero che esso non
puo'  essere  ridotto  ad una ritualita' meramente formale: una delle
"sedi  piu'  qualificate  per  l'elaborazione  di regole destinate ad
integrare  il  parametro della leale collaborazione e' attualmente il
sistema  delle  Conferenze  Stato-Regioni e autonomie locali", al cui
interno   "si   sviluppa  il  confronto  tra  i  due  grandi  sistemi
ordinamentali  della  Repubblica,  in  esito  al quale si individuano
soluzioni concordate di questioni controverse" (sent. n. 31/2006). Ma
di  "confronto"  deve  trattarsi,  appunto,  basato  su comportamenti
corretti  e  "leali"  delle parti, non dell'imposizione unilaterale e
della chiusura totale a qualsiasi possibilita' di dialogo.
    Tale  violazione  della  legge  di  delega (e dunque dell'art. 76
Cost.)   e   del  principio  di  leale  collaborazione  si  traducono
direttamente in lesione delle competenze e prerogative costituzionali
delle  regioni, e costituiscono percio' illegittimita' costituzionali
che le regioni sono legittimate a fare valere.
    Sulla richiesta di sospensione delle norme impugnate.
    Come  esposto  in  premessa, il presente ricorso e' presentato in
via  di  urgenza  avverso  solo alcune delle disposizioni del decreto
legislativo  n. 152  del  2006  che  la  ricorrente  regione  ritiene
illegittime ed invasive, e con riserva di far valere l'illegittimita'
costituzionale di altre norme dello stesso decreto mediante ulteriore
separato  ricorso  presentato nei termini di impugnazione, allo scopo
di potere presentare a codesta ecc.ma Corte costituzionale tempestiva
richiesta di sospensione delle norme qui impugnate.
    Le  ragioni  per  tale  richiesta sono state puntualmente esposte
nelle   relative   argomentazioni   in  diritto.  Qui  si  puo'  solo
sinteticamente  aggiungere  che  tali  ragioni  consistono  - secondo
quanto  richiesto  dall'art. 9  della  legge  n. 131  del  2003 - nel
pericolo di un irreparabile pregiudizio all'interesse pubblico, e nel
rischio  di  un  pregiudizio  grave ed irreparabile per i diritti dei
cittadini.  Tale pericolo e' connesso alla distruzione del patrimonio
di  buona  amministrazione  dovuto  al  sovrapporsi  -  a volte senza
neppure  un  minimo  di  norme  transitorie  -  dei nuovi illegittimi
istituti  a  quelli  legittimamente  da  anni  messi  in  atto  dalla
ricorrente  regione,  nel pieno rispetto dei vincoli costituzionali o
legislativi.  Cio'  sia  in riferimento alla soppressione inopinata e
repentina  delle  Autorita' di bacino, sia in relazione alla gestione
dei  rifiuti,  sia in relazione al sistema tariffario per il servizio
idrico.
    Vi  e'  dunque  il  rischio che, se pure le illegittimita' che la
regione  lamenta  venissero  nel  corso  del  tempo rimosse - il loro
provvisorio  vigore  produca  quel  danno  irrimediabile cui solo una
tempestiva misura cautelare potrebbe rimediare.

        
      
                              P. Q. M.
    Voglia    codesta    ecc.ma   Corte   costituzionale   dichiarare
costituzionalmente    illegittime   e   previamente   sospendere   le
disposizioni  qui impugnate - con riserva di ulteriore impugnazione -
del  decreto  legislativo  3 aprile  2006,  n. 152, "Norme in materia
ambientale",  per  le  ragioni e sotto i profili esposti nel presente
ricorso.
Padova-Bologna-Roma, addi' 21 aprile 2006
Avv.  prof.  Giandomenico  Falcon - Avv. prof. Franco Mastragostino -
                          Avv. Luigi Manzi

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