Ricorso n. 56 del 27 aprile 2006 (Regione Emilia-Romagna)
RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 27 aprile 2006 , n. 56
Ricorso per questione di legittimita' costituzionale depositato in cancelleria il 27 aprile 2006 (della Regione Emilia-Romagna)
(GU n. 21 del 24-5-2006)
Ricorso della Regione Emilia-Romagna, in persona del presidente della giunta regionale pro tempore, autorizzato con deliberazione della giunta regionale n. 547 del 19 aprile 2006 (doc. 1), rappresentata e difesa - come da procura rogata dal notaio dott. Claudio Viapiana in data 21 aprile 2006, n. rep. 27738 (doc. 2) - dall'avv. prof. Giandomenico Falcon di Padova, dall'avv. prof. Franco Mastragostino di Bologna e dall'avv. Luigi Manzi di Roma, con domicilio eletto in Roma nello studio dell'avv. Manzi, via Gonfalonieri n. 5; Contro il Presidente del Consiglio dei ministri per la dichiarazione di illegittimita' costituzionale previa sospensione del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, "Norme in materia ambientale", pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 88 del 14 aprile 2006, supplemento ordinario n. 96/2006, con riferimento agli articoli: 63 e 64, concernenti le nuove Autorita' di bacino; 101, comma 7, concernente gli scarichi derivanti dalle imprese agricole; 154, concernente la tariffa del servizio idrico integrato; 155, concernente la tariffa del servizio fognatura e depurazione; 181, commi da 7 a 11, concernente il c.d. recupero dei rifiuti; 183, comma 1, concernente la definizione dei rifiuti; 186, concernente le terre e rocce da scavo; 189, comma 3, concernente gli obblighi di comunicazione relativi a certe categorie di rifiuti; 214, commi 3 e 5, concernenti le procedure semplificate per i rifiuti; per violazione degli artt. 76, 117, 118 Cost., del principio di leale collaborazione, del principio di ragionevolezza, nonche' dei principi e delle norme del diritto comunitario, nei modi e per i profili di seguito indicati. Si premette che il presente ricorso si riferisce unicamente alle disposizioni del decreto legislativo n. 152 del 2006 per le quali la Regione Emilia-Romagna ha deciso di richiedere altresi' la sospensione delle norme impugnate, e che la stessa Regione con la delibera sopra richiamata si e' espressamente riservata di impugnare, sempre nel rispetto dei termini costituzionali, altre disposizioni lesive delle competenze regionali contenute nello stesso decreto legislativo. F a t t o Il decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, "Norme in materia ambientale" costituisce attuazione della delega legislativa contenuta nella legge 15 dicembre 2004, n. 308, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 302 del 27 dicembre 2004, supplemento ordinario n. 187. Questa autorizzava il Governo ad emanare entro 18 mesi - quindi entro l'11 luglio 2006 - uno o piu' decreti "di riordino, coordinamento e integrazione delle disposizioni legislative nei seguenti settori e materie, anche mediante la redazione di testi unici". A norma dell'art. 1, comma 4, della legge, i decreti legislativi avrebbero dovuto essere adottati "sentito il parere della Conferenza unificata di cui all'art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281". Il comma 8 dello stesso articolo richiede ai decreti legislativi il "rispetto dei principi e delle norme comunitarie e delle competenze per materia delle amministrazioni statali, nonche' delle attribuzioni delle regioni e degli enti locali, come definite ai sensi dell'art. 117 della Costituzione, della legge 15 marzo 1997, n. 59, e del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, e fatte salve le norme statutarie e le relative norme di attuazione delle Regioni a statuto speciale e delle province autonome di Trento e di Bolzano, e dei principio di sussidiarieta". Lo schema di decreto e' stato approvato, a seguito dei pareri delle Commissioni parlamentari, nella seduta del Consiglio dei ministri del 18 novembre 2005. Nel corso della seduta della Conferenza unificata del 24 novembre 2005, i rappresentanti delle regioni e degli enti locali chiedevano di essere informati sullo stato di attuazione della delega legislativa: ed in risposta il Ministro La Loggia comunicava che, data la lunghezza, la Relazione al decreto non sarebbe stata illustrata oralmente ma depositata agli atti, "in modo che possa essere visionata e vi sia tutto il tempo necessario a fare eventuali osservazioni". Il testo del decreto legislativo e' stato trasmesso alle regioni con nota della Presidenza del Consiglio dei ministri in data 29 novembre 2005, cui ha fatto seguito una nota del successivo 7 dicembre che avvertiva che gli allegati tecnici, "a causa della loro voluminosita", venivano resi disponibili soltanto in rete (ed anche cio' su personale richiesta al Ministro da parte del presidente della Conferenza dei presidenti delle regioni). Nonostante la mole del testo e degli allegati, il parere sul decreto legislativo e' stato iscritto nell'ordine del giorno della seduta della Conferenza unificata del 15 dicembre 2005: ma gia' in vista della riunione in sede tecnica del 12 dicembre dello stesso anno il presidente della Conferenza delle regioni ne chiedeva la sospensione, in ragione dell'estrema complessita' della materia e dell'esiguita' del tempo concesso per l'esame, chiedendo il rinvio del termine per l'espressione del parere: alla riunione erano assenti le regioni, L'ANCI e l'UNCEM. Con telegramma del 13 dicembre il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio comunicava che "il Governo non intende concedere deroghe al termine fissato dalla legge per l'esame delle commissioni competenti, considerata la durata dei termini previsti dalla legge n. 308 del 2004 e valutato altresi' il periodo di attivita' residua del Parlamento". Nella seduta della Conferenza Unificata del 15 dicembre 2005 il rinvio del punto all'ordine del giorno e' oggetto di un "appello accorato" del Presidente Errani, a nome della Conferenza dei presidenti delle regioni, al quale si associano i rappresentanti degli altri enti locali: l'appello e' motivato dall'estrema complessita' della materia, "che non attiene solo alle questioni ambientali, ma anche alla difesa del suolo, ed altro", e che "tratta di una serie di politiche fondamentali che incrociano in modo forte, tutta l'articolazione legislativa delle regioni e le politiche amministrative degli enti locali" (punto 25 del verbale 13/05: doc. 3). Ma il Viceministro Nucara e' rigido nel rifiuto della proroga argomentando, da un lato, che la "tutela dell'ambiente" e' materia di competenza esclusiva dello Stato, dall'altro che la delega sarebbe scaduta - come dichiara esplicitamente - il giorno stesso, il 15 dicembre 2005, "desumendo cio' da quanto di sua conoscenza": dimostrando, in tal modo, che non solo le regioni e gli enti locali ma lui stesso non aveva fatto in tempo ad informarsi correttamente del punto all'ordine del giorno. Da un lato il Viceministro ignora - come gli viene fiuto osservare - quanto la giurisprudenza costituzionale aveva gia' ampiamente osservato attorno alla natura "trasversale" della materia e all'intreccio di competenze che su di essa si accentra; dall'altro ignora i termini stessi della delega, la cui scadenza era fissata nel giorno 11 luglio 2006, come del resto emergeva della stessa scheda elaborata dalla Presidenza del Consiglio, come gli faceva notare il Presidente Errani. Ma il Viceministro ribatte a questo punto che l'urgenza di adottare definitivamente il decreto non cambia, in ragione delle elezioni politiche previste per il 9 aprile 2006. Il Ministro La Loggia, che presiede la riunione, propone di rimandare il punto alla successiva seduta della Conferenza, prevista per il 20 gennaio 2006; ma il Viceministro si oppone. Il Presidente Errani fa presente che, sulla base di quanto affermato quel giorno stesso dalla Commissione parlamentare, senza il parere della Conferenza unificata il procedimento di emanazione non puo' essere proseguito, ma il Viceministro Nucara ribatte che la Conferenza era stata "sentita", e che non si trattava di un parere vincolante. Il Ministro La Loggia conclude "prendendo atto del mancato parere" e annunciando che il Viceministro "fara' le opportune valutazioni e continuera' la discussione con le regioni e le autonomie locali": "laddove si verificasse l'indispensabilita' di questo passaggio, sara' nuovamente iscritto il punto in argomento all'o.d.g. della prossima Conferenza" (tutto cio' emerge vividamente dal citato verbale: v. sempre doc. 3). Nella divergenza delle posizioni, il parere non pote' essere espresso. Ciononostante il Consiglio dei ministri, il 19 gennaio 2006 (n. 40), approvava "in via definitiva" il testo del decreto legislativo. Nella successiva riunione della Conferenza Unificata del 26 gennaio 2006, i presidenti delle regioni e delle province autonome, dell'ANCI, dell'UNPI e dell'UNCEM presentavano un ordine del giorno recante il parere negativo sullo schema di decreto (doc. 4), motivandolo sia nel merito che nel metodo, parere del quale il rappresentante del Governo si limitava a dichiarare di "prendere atto". Il 10 febbraio il Consiglio dei ministri riapprovava, di nuovo "in via definitiva" il decreto legislativo (Consiglio dei ministri n. 43); evidentemente senza alcun riesame di merito, stante l'asserita (ma inesistente) urgenza. Il 15 marzo 2006 il Presidente della Repubblica chiedeva al Governo alcuni chiarimenti nel merito e in relazione al procedimento di formazione del decreto legislativo sospendendo l'emanazione del provvedimento; a seguito di questa richiesta di chiarimenti, il decreto legislativo e' stato ulteriormente riapprovato con alcune modifiche dal Consiglio dei ministri il 29 marzo 2006 (anche se non se ne fa menzione nell'ordine del giorno della seduta n. 51 di quella data, ne' nel comunicato pubblicato nel sito del Governo a seguito della riunione). E' stato dunque approvato in un testo formalmente (sia pure parzialmente) diverso da quello sottoposto all'esame delle Commissioni parlamentari e della Conferenza Unificata. Esso e' stato poi emanato il 3 aprile e pubblicato il 14 aprile. Entrera' dunque in vigore il 29 aprile. Con il presente ricorso la Regione Emilia-Romagna contesta la legittimita' costituzionale delle disposizioni impugnate per ragioni che attengono da un lato al decreto legislativo nel suo complesso, dall'altro alle singole norme. Nel suo complesso il decreto appare viziato da gravi difetti di procedimento, attinenti in particolare alla violazione della procedura di "leale collaborazione". Come meglio si dira', il Governo non ha rispettato i contenuti minimi della garanzia di partecipazione della Conferenza unificata, rendendo consapevolmente impossibile un informato esame del nuovo testo normativo. La Conferenza unificata non ha avuto modo di esprimere formalmente il proprio parere, e sulle posizioni da essa assunte in merito al decreto legislativo il Governo non ha aperto alcuna discussione, violando quanto disposto dalla legge di delega e ribadito dalla Commissione parlamentare. Inoltre - benche' questo profilo non incida direttamente nelle attribuzioni regionali non puo' essere sottaciuto - anche formalmente il procedimento appare gravemente carente, essendo il testo emanato diverso da quello precedentemente adottato sulla base del parere della Commissione parlamentare. Nel merito, il decreto legislativo n. 152 del 2006 appare in molte parti eccedere la delega legislativa e porsi in contrasto con la disciplina comunitaria, con grave ricaduta sulle attribuzioni costituzionali delle regioni; inoltre e' direttamente lesivo delle competenze regionali in molte sue disposizioni. Come e' stato osservato nell'ordine del giorno presentato dalle regioni in sede di Conferenza unificata, il decreto "contrasta con diverse direttive comunitarie, viola, per eccesso di delega, la stessa legge delega n. 308/2004, stravolge l'assetto delle competenze definite dall'art. 117 e 118 Cost. e dal decreto legislativo n. 112/1998 consolidate da numerose pronunce della Corte costituzionale" (v. sempre doc. 4). L'opposizione che le regioni hanno manifestato nei confronti del decreto e' quindi motivata da ragioni assai gravi, sia in ordine al rispetto della normativa comunitaria, sia in ordine al mantenimento degli attuali presidi legislativi, anche regionali, posti a tutela dell'ambiente. Le disposizioni del decreto producono infatti - ad avviso delle regioni - il risultato "di indebolire le politiche ambientali nel nostro Paese e la loro coerenza con le direttive dell'Unione europea, nonche' quelle di determinare l'abbassamento dei livelli di tutela dell'ambiente e della salute a danno di tutti i cittadini senza, peraltro, che a questo possa corrispondere l'auspicata semplificazione delle procedure e dei processi attuativi per gli operatori e le imprese". Inoltre le nuove norme determinano "la totale paralisi dell'azione delle regioni e degli enti locali in campo ambientale data l'incompatibilita' delle norme regionali vigenti con quelle dello schema di decreto". Come sopra anticipato, trattandosi di un corpus normativo di ben 318 articoli, cui si aggiungono centinaia di pagine di allegati tecnici, la Regione Emilia-Romagna si riserva di proporre nei termini di legge un'impugnazione attenta e precisa di tutte le disposizioni viziate che non abbiano una decorrenza immediata, per le quali dunque la ricorrente regione non ravvisa l'esigenza di intervento cautelare. Infatti una consistente parte delle disposizioni ha un'efficacia differita di centoventi giorni dall'entrata in vigore del decreto stesso. Del resto, sono previsti almeno 41 decreti attuativi, con scadenze varie, la cui emanazione, pur non avendo ovviamente termini iniziali, richiedera' comunque una rilevante elaborazione. Le norme oggetto del presente ricorso hanno, invece, un'efficacia immediata: talvolta prevista con un termine preciso dallo stesso decreto, ma comunque in ogni caso ravvicinata. Cosi', per esempio, l'art. 63 sopprime "a far data dal 30 aprile 2006" le Autorita' di bacino istituite dalla legge n. 183/1989, trasferendone le funzioni alle istituende Autorita' di bacino distrettuale, senza precisare quale sia il regime transitorio, rinviato ad un atto amministrativo del Governo che ha un solo giorno per essere emanato, come poi si dira'. Come si vede, la frettolosita' di preparazione del testo normativo e la volonta' di ottenerne comunque l'immediata entrata in vigore comportano conseguenze paradossali in ordine alla possibilita' di dare, in sole 24 ore, un'attuazione ragionevole e congrua al decreto in presenza della notevolissima complessita' dei temi trattati. In altri casi - in particolare in materia di rifiuti - il decreto legislativo introduce una disciplina innovativa che ha l'effetto immediato di smantellare l'attuale normativa ambientale, rendendo meno rigorosa la normativa vigente e favorendo comportamenti che attualmente, anche per precisa richiesta delle norme comunitarie, costituirebbero un illecito amministrativo o penale. E' contro queste disposizioni che muove l'impugnazione proposta nel presente ricorso, rivolta, come detto, avverso le norme che hanno una decorrenza immediata e rischiano di provocare danni gravi e, irreparabili all'interesse pubblico alla tutela dell'ambiente, all'ordinamento giuridico nazionale e regionale nonche' ai diritti dei cittadini alla salute e alla salubrita' dell'ambiente: per queste ragioni la regione ricorrente avanza anche istanza di sospensione dell'esecuzione delle disposizioni stesse, in applicazione dell'art. 35 della legge n. 87/1953, come modificato dall'art. 9, comma 4, della legge n. 131/2003. D i r i t t o A) Illegittimita' costituzionale degli artt. 63, comma 3, e 64, relativi all'Autorita' di bacino, per violazione degli art. 117, comma terzo, 118 e 76 della Costituzione. 1) Illegittimita' costituzionale dell'accorpamento delle funzioni in macrodistretti e della sostituzione delle Autorita' di bacino con le nuove Autorita' di distretto. L'art. 63, comma 3, dispone: "Le autorita' di bacino previste dalla legge 18 maggio 1989, n. 183, sono soppresse a far data dal 30 aprile 2006 e le relative funzioni sono esercitate dalle Autorita' di Bacino distrettuale di cui alla parte terza del presente decreto". Il riferimento generico alla "terza parte" (alla quale in realta' la disposizione appartiene) e' in effetti curioso, dato che le autorita' distrettuali sono istituite dal comma 1 dello stesso articolo, in corrispondenza degli otto distretti idrografici individuati nel successivo art. 64. Tale norma riaccorpa in otto distretti i numerosi bacini che la legge n. 183/1989 istituiva, suddividendoli in bacini nazionali, interregionali e regionali. Tra gli otto distretti figurano il distretto della Sardegna, quello della Sicilia, ed il distretto idrografico pilota del Serchio, di ridottissime dimensioni. L'intero territorio nazionale e' dunque suddiviso grossolanamente nei rimanenti cinque distretti, vagamente corrispondenti a delle macro-regioni. Questa suddivisione e' decisa "dall'alto" senza alcuna partecipazione alla decisione da parte delle regioni. Gli organi dei nuovi distretti sono individuati dall'art. 63, comma 2, nella Conferenza istituzionale permanente, nel Segretario generale, nella Segreteria tecnico-operativa e nella Conferenza operativa di servizi. La stessa disposizione rinvia la definizione dei criteri e delle modalita' per l'attribuzione di trasferimento del personale e delle risorse patrimoniali e finanziarie ad un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, da emanarsi suproposta del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze e con il Ministro per la funzione pubblica, "sentita la Conferenza permanente Stato-Regioni", entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto. Ancora, lo stesso d.P.C.m. "disciplina il trasferimento di funzioni e regolamenta il periodo transitorio". Le disposizioni impugnate appaiono da un lato gravemente lesive delle attribuzioni regionali, dall'altro - e proprio percio' - lesive dell'oggetto e dei principi e criteri direttivi della delega. Sotto il primo profilo va osservato che la Sezione in cui trovano collocazione le disposizioni impugnate evoca con chiarezza sin dal titolo - "Norme in materia di difesa del suolo e lotta alla desertificazione" - che la disciplina contenuta insiste sulla materia "governo del territorio", che l'art. 117, comma terzo, Cost., assegna alla competenza concorrente. Come codesta ecc.ma Corte ha ripetutamente affermato, nelle materie concorrenti lo Stato puo' intervenire esclusivamente con norme legislative di principio, e non puo' riservare a se' e alle proprie strutture decentrate funzioni amministrative che non siano giustificate dalla "chiamata in sussidiarieta"; e che, anche qualora l'attrazione al centro di funzioni "unitarie" possa essere giustificato in nome del principio di sussidiarieta' o qualora il particolare intreccio di competenze (coinvolgente anche competenze esclusive dello Stato, ex art. 117, comma 2, Cost.) consentisse allo Stato di esercitare determinate funzioni amministrative incidenti in materie di competenza regionale, tuttavia cio' non puo' avvenire che nel rispetto del principio di leale collaborazione, inteso in senso "forte" (e quindi attraverso procedure di codecisione, non semplicemente "sentendo" la Conferenza Stato-regioni), e del principio di proporzionalita'. Commisurate a tali parametri, le norme che sopprimono le Autorita' di bacino e istituiscono le nuove Autorita' distrettuali si rivelano affette da illegittimita' costituzionale sotto diversi profili. In primo luogo, l'unificazione sotto un'unica Autorita' di bacini che non hanno in realta' alcuna correlazione realizza un accentramento privo di qualunque giustificazione ed espropria le regioni delle proprie naturali competenze, in violazione sia della competenza legislativa di cui all'art. 117 Cost. che del principio di sussidiarieta'. In secondo luogo, i distretti stessi sono configurati come enti amministrativi sovraregionali, distorcendo completamente la fisionomia delle Autorita' di bacino, cosi' come impostate dalla legge n. 183/1989. Queste infatti erano modellate con riferimento a dimensioni idrogeografiche "naturali", che ne giustificavano la competenza pianificatoria e decisionale, mentre le Autorita' distrettuali istituite dalle disposizioni impugnate rappresentano delle semplici articolazioni burocratico-amministrative, che costituiscono in realta' una sorta di amministrazione decentrata dello Stato in cui la centralizzazione amministrativa e' appena temperata da elementi di partecipazione minoritaria delle regioni. Si consideri che, ai sensi della legge n. 183/1989, le regioni erano contitolari del governo dei bacini nazionali (configurati come organismi a partecipazione mista Stato-regioni) e titolari esclusive delle funzioni relative ai bacini regionali e interregionali. Oggi, all'opposto, rappresentanti delle regioni sono presenti in netta minoranza nel fondamentale organo decisionale, la Conferenza istituzionale permanente (che nomina anche il Segretario generale), nonche' nella Conferenza operativa, le cui competenze sono peraltro piuttosto oscure. La regola secondo la quale si decide a maggioranza, espressamente enunciata al comma 4, data la composizione sperequata dell'organo (in cui il numero dei rappresentanti dello Stato e' sempre sette, mentre quello dei rappresentanti delle regioni dipende da quante regioni sono concretamente coinvolte, ma queste non sono mai pari a sette), appare espropriare le regioni da qualsiasi garanzia giuridica delle loro prerogative. Infine, se pure fosse giustificata secondo il principio di sussidiarieta' la suddivisione del territorio in distretti privi di corrispondenza con precisi bacini fluviali interconnessi, le regioni non sono state chiamate ad esercitare alcun ruolo nella determinazione dell'ambito dei distretti. Va considerato che, sotto questo profilo, il decreto legislativo non contiene norme generali ed astratte, ma opera come legge provvedimento, in materia di competenza regionale. Secondo la stessa giurisprudenza di codesta Corte, l'assunzione in legge di decisioni concrete non puo' privare delle garanzie previste dalla Costituzione: il che vale ugualmente, ed a maggiore ragione, per le competenze delle regioni, alle quali viene cosi' sottratta ogni possibilita' di codecisione. 2) Specifica illegittimita' del potere normativo attribuito al decreto del Presidente del Consiglio dall'art. 63, commi 2 e 3. Si deve poi specificamente evidenziare, come detto, che al d.P.C.m. e' attribuita anche una funzione regolamentare (v. art. 63, commi 2 e 3). Innanzitutto, si tratta di un'attribuzione connessa all'accorpamento dei distretti, illegittima per le stesse ragioni sopra esposte. Se essa potesse essere giustificata in nome del principio di sussidiarieta', il corrispondente potere andrebbe comunque esercitato d'intesa con la Conferenza Stato-Regioni, la quale non puo' semplicemente essere "sentita". 3) Specifica illegittimita' della soppressione delle Autorita' di bacino a partire dal 30 aprile, in relazione all'impossibilita' dl dettare entro tale termine la disciplina transitoria. Inoltre, tale potere normativo risulta dover essere esercitato ... in un solo giorno: non prima del 29 aprile 2006, perche' la norma autorizzativa del decreto legislativo non sarebbe ancora in vigore, ma neppure dopo il 30 aprile, perche' le norme transitorie interverrebbero ... ad Autorita' di bacino gia' venute meno ai sensi del comma 3. Dietro tale assurdita', tuttavia, si cela la ben piu' sostanziale illegittimita' della norma che prevede la soppressione delle Autorita' di bacino a partire dal 30 aprile, prima che possano essere definite le fasi di transizione, se pure il nuovo sistema fosse legittimo. Da qui il pericolo di un irreparabile pregiudizio all'interesse pubblico, ed il rischio di un pregiudizio grave ed irreparabile per i diritti dei cittadini, che induce la Regione Emilia-Romagna a chiedere la sospensione della esecuzione della norma: la soppressione delle Autorita' di bacino decorre dallo stesso 30 aprile, per cui e' evidente che l'emanazione di una normativa transitoria diviene pressoche' impossibile, dato che l'emanazione del d.P.C.m. e' soggetta ad una procedura complessa, descritta dall'art. 63, comma 2, nel corso della quale deve essere sentita la Conferenza permanente Stato-Regioni. A prescindere dalla gia' lamentata insufficienza di una forma cosi' tenue di "cooperazione", vi e' il rischio - ma si dovrebbe dire la certezza - che la soppressione immediata delle Autorita' di bacino, in assenza di una regolazione transitoria - apra un periodo di incertezza sulle competenze ad emanare gli atti e a svolgere le funzioni di gestione, vigilanza e controllo che le autorita' svolgono da tempo a tutela degli interessi pubblici fondamentali che hanno in cura. Attualmente le Autorita' di bacino regionali operano in base a diverse leggi della Regione Emilia-Romagna: la l.r. 24 marzo 2000, n. 21, "Norme per il funzionamento dell'Autorita' di bacino del Marecchia e del Conca"; la l.r. 25 maggio 1992, n. 25, "Norme per il funzionamento dell'Autorita' di bacino del Reno"; la l.r. 29 marzo 1993, n. 14, "Istituzione dell'Autorita' dei bacini regionali". Esse verrebbero abrogate a decorrere dal termine del 30 aprile, paralizzando le attivita' delle Autorita' di bacino. Proprio per evitare che insorgano situazioni di paralisi amministrativa o di grave rottura dell'ordinamento costituzionale, che si rifletterebbero immediatamente sull'esercizio delle funzioni attribuite alla Regione e sulla tutela degli interessi urbanistici, ambientali e di governo del territorio che la Regione ha in cura, si chiede a codesta ecc.ma Corte di intervenire in fase cautelare ordinando la sospensione dell'esecuzione di queste disposizioni, in attesa del definitivo giudizio sulla loro illegittimita' costituzionale, che la ricorrente Regione confida di avere illustrato. 4) Illegittimita' costituzionale degli articoli 63 e 64 sotto il profilo della violazione della legge di delega. Va altresi' evidenziato l'eccesso di delega in relazione sia all'oggetto di essa che ai principi e criteri direttivi fissati dalla legge di delega. Infatti, quanto all'oggetto, va sottolineato che la dizione "riordino, coordinamento e integrazione delle disposizioni legislative..., anche mediante la redazione di testi unici" (art. 1, comma. 1, legge n. 308/2004), fa riferimento alle classiche funzioni di coordinamento normativo, preordinate ad una mera razionalizzazione della legislazione vigente. Come codesta ecc.ma Corte ha sistematicamente ripetuto (cfr. da ultimo le sent. nn. 303/2005, 66/2005, 280/2004), "la revisione e il riordino, ove comportino l'introduzione di norme aventi contenuto innovativo rispetto alla disciplina previgente, necessitano della indicazione di principi e di criteri direttivi idonei a circoscrivere le diverse scelte discrezionali dell'esecutivo, mentre tale specifica indicazione puo' anche mancare allorche' le nuove disposizioni abbiano carattere di sostanziale conferma delle precedenti" (sent. n. 66/2005, che cita il precedente della sent. n. 354/1998). Nel presente caso l'oggetto della delega prevede solo il "riordino", neppure la "revisione", per cui la massima espressa dalla giurisprudenza costituzionale va applicata con ancora maggiore rigore. Accanto a cio', nel definire i contorni del potere legislativo delegato, la legge n. 308 (art. 1, comma 8) indica innanzi ad ogni altro criterio "il rispetto... delle competenze per materia delle amministrazioni statali, nonche' delle attribuzioni delle regioni e degli enti locali, come definite ai sensi dell'art. 117 della Costituzione, della legge 15 marzo 1997, n. 59, e del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112": e' percio' evidente che il legislatore delegato era tenuto a non modificare il quadro delle attribuzioni regionali - quadro che invece, come si e' visto, risulta gravemente compromesso dalle scelte compiute dalle disposizioni censurate. D'altro canto, nessuno dei "principi e criteri direttivi" poi elencati dall'art. 1, comma 8, autorizza un'innovazione legislativa e amministrativa come quella apportata dalla sovversione del sistema delle Autorita' di bacino. Tra i principi e criteri direttivi piu' specifici dettati dal comma 9 si trova invece questa indicazione: "c) rimuovere i problemi di carattere organizzativo, procedurale e finanziario che ostacolino il conseguimento della piena operativita' degli organi amministrativi e tecnici preposti alla tutela e al risanamento del suolo e del sottosuolo, superando la sovrapposizione tra i diversi piani settoriali di rilievo ambientale e coordinandoli con i piani urbanistici; valorizzare il ruolo e le competenze svolti dagli organismi a composizione mista statale e regionale; adeguare la disciplina sostanziale e procedurale dell'attivita' di pianificazione, programmazione e attuazione di interventi di risanamento idrogeologico del territorio e della messa in sicurezza delle situazioni a rischio; prevedere meccanismi premiali a favore dei proprietari delle zone agricole e dei boschi che investono per prevenire fenomeni di dissesto idrogeologico, nel rispetto delle linee direttrici del piano di bacino; adeguare la disciplina sostanziale e procedurale della normativa e delle iniziative finalizzate a combattere la desertificazione, anche mediante l'individuazione di programmi utili a garantire maggiore disponibilita' della risorsa idrica e il riuso della stessa; semplificare il procedimento di adozione e approvazione degli strumenti di pianificazione con la garanzia della partecipazione di tutti i soggetti istituzionali coinvolti e la certezza dei tempi di conclusione dell'iter procedimentale". Come si vede, la legge di delega presuppone piuttosto il mantenimento ed il miglioramento della funzionalita' degli organismi esistenti, fondati sull'unita' dei bacini idrografici, senza prevederne o consentirne affatto la soppressione e la sostituzione con un sistema radicalmente diverso, ispirato a principi divergenti, che avrebbero dovuto in ogni caso essere enunciati. La legge di delega, dunque, non consente una legislazione delegata che sovverte l'ordinamento amministrativo introdotto dalla legge n. 183/l989 e lo sostituisce con un sistema centralistico di gestione delle politiche di tutela idrogeologica del territorio, per lo piu' causando un periodo di grave incertezza nella fase transitoria e esautorando le regioni, sostituendo il sistema della Autorita' di bacino con una "zonizzazione" del territorio nazionale dominata da un sistema di gestione affidato ad un complesso di organi collegiali inediti e sperequanti. Si consideri che la violazione della legge di delega si identifica in questo caso con la lesione delle prerogative regionali, e che il motivo e' dunque perfettamente ammissibile. B) Illegittimita' costituzionale degli artt. 181, commi 7-11, 183, comma 1, lettere g), h), m), 186, 189, comma 3, per violazione degli artt. 117, comma primo, terzo e quinto, 118, 11 e 76 Cost. La parte quarta del decreto legislativo, che detta "Norme in materia di gestione dei rifiuti e di bonifica dei siti inquinati", reca ad avviso della ricorrente regione numerose deviazioni dagli obblighi assunti in sede comunitaria, che la regione si riserva di censurare in un successivo ricorso, la' dove incidano anche sulle attribuzioni regionali. Nel presente ricorso urgente, l'impugnazione e' invece circoscritta alle sole disposizioni che producono effetti immediati pregiudizievoli per le attribuzioni regionali e costituiscono un pericolo grave e immediato per gli interessi pubblici che la regione ha in cura. 1) Illegittimita' costituzionale dell'art. 181, commi da 7 a 11, e dell'art. 183, comma 1, lettere g), h), m), n), q), ed u). Illegittimita' costituzionale per le stesse ragioni dell'art. 214, commi 3 e 5. Illegittimita' costituzionale dell'art. 186. L'art. 181, settimo comma, prevede che "soggetti economici" non meglio identificati (ma potenzialmente comprensivi di chiunque gestisca attivita' d'impresa) o le associazioni di categoria rappresentative dei settori interessati, anche con riferimento ad interi settori economici e produttivi, possano "stipulare con il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio... appositi accordi di programma ...per definire i metodi di recupero dei rifiuti destinati all'ottenimento di materie prime secondarie, di combustibili o di prodotti". Secondo la stessa disposizione tali accordi "fissano le modalita' e gli adempimenti amministrativi per la raccolta, per la messa in riserva, per il trasporto dei rifiuti, per la loro commercializzazione, anche tramite il mercato telematico, con particolare riferimento a quello del recupero realizzato dalle Camere di commercio, e per i controlli delle caratteristiche e i relativi metodi di prova"; gli accordi "fissano altresi' le caratteristiche delle materie prime secondarie, dei combustibili o dei prodotti ottenuti, nonche' le modalita' per assicurare in ogni caso la loro tracciabilita' fino all'ingresso nell'impianto di effettivo impiego". I commi successivi, dall'8 all'11, disciplinano le modalita' procedurali per la stipulazione, l'approvazione e la pubblicazione di tali accordi di programma. Le parole utilizzate dalla disposizione ora richiamata trovano il loro significato nelle definizioni dettate dall'art. 183, comma primo. In particolare, vengono in considerazione le definizioni dei termini: g) ("smaltimento"); h) ("recupero"); m) ("deposito temporaneo"); n) ("sottoprodotto"); q) "materia prima secondaria", definita con riferimento alle caratteristiche stabilite ai sensi dell'art.181); u) ("materia prima secondaria per attivita' siderurgiche e metallurgiche", al cui proposito la disciplina sara' integrata da un decreto ministeriale "senza valore regolamentare"). Tali disposizioni, considerate nella loro sostanza, operano una deregolamentazione "mascherata" del settore, in pieno contrasto con le normative europee, piu' volte ribadite dalle decisioni della Corte di giustizia. In particolare, si introducono definizioni di smaltimento e recupero non completamente conformi con quanto indicato nella direttiva 75/442/CEE art. 1, lettere e) e f), nonche' definizioni di sottoprodotto e di materia prima secondaria (MPS) non coerenti con le indicazioni fornite dalle sentenze della Corte di giustizia europea (sentenze C-418/1997 e C-419/1997 - "Arco"; C-9/2000 - "Palim Granit"; C-1 14/2001, "AvestaPolarit Chrome"; e in particolare C-457/2002, "Niselli"). Viene infatti riproposto ancora una volta l'"approccio normativo italiano", consistente nella sottrazione dei sottoprodotti e delle cosiddette materie prime secondarie alla disciplina dei rifiuti. Tale "approccio" e' gia' stato oggetto di una prima sentenza di condanna a seguito di procedura d'infrazione che ha colpito il d.m. 5 febbraio 1998, che invece l'art. 181, comma 6, del decreto legislativo impugnato mantiene transitoriamente ma illegittimamente in vigore in attesa di un nuovo decreto ministeriale che fissi le caratteristiche dei materiali ottenuti come materie secondarie: la sentenza 7 ottobre 2004 (C-103/2002) ha espressamente sancito che "la Repubblica italiana, non avendo stabilito nel decreto 5 febbraio 1998, sull'individuazione dei rifiuti non pericolosi sottoposti alle procedure semplificate di recupero ai sensi degli artt. 31 e 33 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, quantita' massime di rifiuti, per tipo di rifiuti, che possano essere oggetto di recupero in regime di dispensa dall'autorizzazione, e' venuta meno agli obblighi che ad essa incombono in forza degli artt. 10 e 11, n. 1, della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, relativa ai rifiuti, come modifica dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CEE". Ulteriore sentenza negativa e' stata poi pronunciata, in sede di rinvio pregiudiziale, dalla Corte di giustizia, con particolare riferimento all'art. 14 della legge n. 178/2002 (C457/2002). La violazione del diritto comunitario e' confermata dal fatto che i sottoprodotti e le MPS vengono si' inclusi nella "definizione" dei rifiuti, ma in realta' la norma che cosi' li classifica restringe fortemente l'ambito di applicazione della disciplina (stabilendo che "non sono soggetti alle disposizioni di cui alla parte quarta del presente decreto i sottoprodotti di cui l'impresa non si disfi, non sia obbligata a disfarsi e non abbia deciso di disfarsi ed in particolare..."), al punto di costituire una vasta area di sottoprodotti esentati dalla disciplina, pur senza includerli tra i materiali per i quali valgono specifiche esclusioni dall'applicazione del decreto, ai sensi del successivo art. 185. E' un evidente artifizio formale teso ad evitare che appaia evidente il conflitto con le norme europee. In realta', attraverso la previsione di appositi decreti ministeriali e degli accordi di programma di cui all'art. 181, vengono sottratti al regime dei rifiuti, e alle relative autorizzazioni, adempimenti e controlli, molte sostanze o materiali che nella legislazione vigente invece vi sono assoggettati. Anche la Corte di cassazione, con sentenza n. 47269/2005 e con ordinanza n. 1414/2006, ha appena ora sancito invece che la nozione di rifiuto - in coerenza con la normativa comunitaria - deve essere intesa in senso estensivo (e non restrittivo quale e' invece l'approccio della pregressa normativa italiana, ripreso in modo ancor piu' evidente dal decreto delegato), riportandola percio' alla disciplina dei sottoprodotti e materie prime secondarie dettata dalle disposizioni comunitarie, cosi' come interpretate dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. Con il pretesto della semplificazione amministrativa non vengono in realta' limitati gli oneri amministrativi, bensi' ridotta l'area di applicazione della disciplina dei rifiuti ed eliminati i controlli, quale risultato vuoi di una ridefinizione delle sostanze soggette a regolamentazione restrittiva, vuoi di una "deregolamentazione" della disciplina dei metodi di recupero dei rifiuti, sostituita da procedure "contrattate". Il ricorso allo strumento di accordi e contratti di programma previsti dall'art. 181 eccede i limiti propri dell'istituto, in quanto si sostituisce una "fonte" contrattata alla disciplina normativa, alterando la gerarchia delle fonti del diritto. Sostituendo alla disciplina generale una serie indeterminata di accordi applicabili soltanto agli aderenti, si ledono i principi di certezza del diritto, uguaglianza, generalita' e astrattezza delle norme. Davvero paradossale e' poi che l'impugnato art. 181, al comma 7, richiami (rinviando al precedente comma 5) la comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio e al Comitato delle regioni, Com (2002) 412, del 17 luglio 2002, quale "modello" cui si devono ispirare gli accordi di programma previsti: si tratta infatti, come si legge nella comunicazione, di accordi "in cui le parti interessate si impegnano ad ottenere una riduzione dei livelli di inquinamento, come sancito dal diritto ambientale, o obiettivi di carattere ambientale, di cui all'art. 174 del trattato", quali ad esempio gli accordi comunitari in materia ambientale con le associazioni di produttori di automobili europea, giapponese e coreana sulla riduzione progressiva delle emissioni di CO2 prodotte dalle autovetture. Gli accordi previsti dalle disposizioni censurate, diretti a "deregolamentare" e "privatizare" la disciplina dei rifiuti, non corrispondono affatto a quanto ipotizzato (ed auspicato) nella comunicazione della Commissione ossia alla possibilita' che - tramite moduli convenzionali e non "imposti" - si raggiungano obiettivi ambientali ulterioi rispetto a quelli gia' fissati dalle regole comunitarie. Il contrasto con le direttive n. 75/442/CEE e n. 91/156/CEE si manifesta anche nel fatto che le norme europee non consentono che le attivita' di recupero possano essere completamente escluse dal regime autorizzatorio. Infatti l'art. 11 della direttiva n. 75/442/CE prevede che la dispensa dall'autorizzazione sia possibile solo fissando norme generali che fissano i tipi e le quantita' di rifiuti (va ricordato che proprio per tale motivo lo Stato italiano e' incorso in una procedura di infrazione comunitaria per il citato d.m. 5 febbraio 1998). Il decreto legislativo impugnato fa al contrario venir meno il quadro normativo generale richiesto dalle direttive europee, sostituendolo con una vasta contrattualizzazione della disciplina; mentre, per altro verso, la normativa europea richiede, per "escludere" un rifiuto dal campo di applicazione della direttiva n. 75/442, che (eccezion fatta per gli effluenti gassosi immessi in atmosfera per cui vale l'esenzione diretta) le esenzioni siano ammissibili soltanto se disciplinate da specifica norma speciale, cio' che non avviene con la disciplina generale di esenzione che le norme impugnate prevedono per MPS e sottoprodotti. Per le stesse ragioni ora illustrate risultano costituzionalmente illegittimi i commi 3 e 5 dell'art. 214, nella parte in cui ammettono rispettivamente lo sfrumento dell'accordo "deregolatorio" per le procedure semplificate di smaltimento di rifiuti e richiamano il d.m. 5 febbraio 1988 per la fase transitoria, in attesa della fissazione delle nuove regole. L'art. 186 introduce inoltre una ipotesi generale dl esenzione per le terre e rocce da scavo ed i residui della lavorazione della pietra destinati all'effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti ecc., i quali, secondo la citata disposizione, "non costituiscono rifiuti e sono, percio', esclusi dall'ambito di applicazione della parte quarta del presente decreto solo nel caso in cui, anche quando contaminati, durante il ciclo produttivo, da sostanze inquinanti derivanti dalle attivita' di escavazione, perforazione e costruzione siano utilizzati, senza trasformazioni preliminari, secondo le modalita' previste nel progetto sottoposto a valutazione di impatto ambientale ovvero, qualora il progetto non sia sottoposto a valutazione di impatto ambientale, secondo le modalita' previste nel progetto approvato dall'autorita' amministrativa competente, ove cio' sia espressamente previsto, previo parere delle Agenzie regionali e delle province autonome per la protezione dell'ambiente, sempreche' la composizione media dell'intera massa non presenti una concentrazione di inquinanti superiore ai limiti massimi previsti dalle norme vigenti e dal decreto di cui al comma 3". Anche in questo caso il contrasto con la normativa comunitaria e' evidente, trattandosi di un'esclusione disposta in via generale al di fuori del quadro normativo europeo. Basta ricordare che una specifica procedura d'infrazione e' stata avviata contro la Repubblica italiana a causa di una disposizione analoga contenuta nella legge n. 443/2001 (art. 1, comma l5). Le norme impugnate non contrastano dunque solo con le richiamate norme comunitarie, e, per cio' stesso, con l'art. 11 e con l'art. 117, comma primo, Cost.; esse contrastano inoltre con la legge di delega - e quindi indirettamente con l'art. 76 Cost. - che fissa tra i criteri direttivi (art. 1, comma 8) la "piena e coerente attuazione delle direttive comunitarie, al fine di garantire elevati livelli di tutela dell'ambiente e di contribuire in tale modo alla competitivita' dei sistemi territoriali e delle imprese, evitando fenomeni di distorsione della concorrenza (lettera e), e l'"affermazione dei principi comunitari di prevenzione, di precauzione, di correzione e riduzione degli inquinamenti e dei danni ambientali e del principio "chi inquina paga" (lettera f). Tali illegittimita' si ripercuotono, ovviamente, in modo lesivo sulle competenze costituzionali della regione in materia di tutela dell'ambiente, tutela della salute e governo del territorio, pregiudicando il corretto svolgimento delle funzioni regionali in quelle materie, come si illustra piu' ampiamente nel punto seguente. 2) Illegittimita' costituzionale delle stesse norme di cui al punto 1) per diretta violazione delle competenze regionali. Le stesse norme censurate al punto precedente costituiscono altresi' diretta violazione delle attribuzioni regionali. La materia "rifiuti" si colloca in una zona in cui si sovrappongono gli interessi ambientali con quelli di tutela del territorio, nonche' della tutela igienico-sanitaria e di sicurezza della popolazione. Ma anche a ritenere che, in applicazione del "criterio di prevalenza" elaborato dalla giurisprudenza di questa ecc.ma Corte, debba riconoscersi allo Stato il titolo a legiferare in base alla competenza riconosciutagli dall'art. 117, comma 2, lettera s), cio' non significa che la legge statale possa intervenire senza precisi limiti. La legislazione vigente - a partire dal c.d. "decreto Ronchi" (d.lgs. n. 22/1997) e dall'art. 85 del d.lgs. n. 112/1998, che espressamente lo richiama - ha riconosciuto il ruolo fondamentale delle Regioni nell'attuazione del quadro normativo nazionale, finalmente riportato ad una disciplina organica e unitaria, in considerazione della "vocazione" regionale - in base al principio di sussidiarieta' - sia nella politica di tutela del territorio, sia nell'applicazione in loco della disciplina generale, organizzando gli apparati e le procedure amministrative necessarie e "incrociando" la disciplina di settore con il complesso fascio delle competenze regionali, spettanti a pieno titolo o quali potesta' concorrenti, che incidono sull'ambiente (come e' pacifico nella giurisprudenza costituzionale sin dalla sent. n. 407/2002). Va da se' che rimane allo Stato il potere legislativo di disciplinare in via generale la "materia" e i suoi settori, cosi' come pure di introdurre quegli snellimenti amministrativi che fissino un nuovo equilibrio tra gli interessi costituzionali di protezione dell'ambiente, da un lato, e la liberta' d'iniziativa economica dall'altro (sentt. nn. 116/2006, 331/2003, 307/2003). Tuttavia, se la riforma legislativa operata dal legislatore statale - incidendo profondamente nelle funzioni gia' attribuite alla regione e che essa ha gia' esercitato disciplinandole con legge e con strumenti di pianificazione generale e particolare (cfr. la l.r. n. 27/1994, e successive modifiche, nonche' il Piano di Azione ambientale 2004-2006) - risulta viziata sia per violazione della delega (che vincola il legislatore delegato al rispetto dell'assetto amministrativo e al riparto di competenze vigente), che per contrasto con il diritto comunitario, essa deve poter essere contrastata con il ricorso per illegittimita' costituzionale: infatti, se essa dovesse essere applicata, ne risulterebbe sconvolto l'attento assetto normativo e amministrativo disegnato dalla legislazione regionale, che verrebbe in molte parti abrogata dall'atto legislativo in questione, creando uno stato di grave precarieta' normativa. Va infatti sottolineato che la regione, a tenore dell'art. 117, comma 5, Cost., ha il compito di dare attuazione diretta alle norme comunitarie; per principio fondamentale del diritto comunitario, confortato dalla sent. n. 170/1984 di codesta Corte, la supremazia del diritto comunitario va assicurata dai soggetti dell'applicazione del diritto anche attraverso la "non applicazione" delle norme legislative interne contrastanti con le norme comunitarie self executing. La conseguenza di queste premesse e' che la Regione Emilia-Romagna sara' tenuta - per un preciso obbligo giuridico, dunque, ora rafforzato dall'art. 117, comma 1, Cost. - a non applicare nel proprio territorio le norme del decreto impugnato che risultino in contrasto con le norme "ad effetto diretto" poste dal diritto comunitario derivato e dalle sentenze della Corte di giustizia che di esso forniscono l'interpretazione (cfr. sent. n. 389/1989 di codesta ecc.ma Corte). Il risultato, quindi, non sara' affatto la "semplificazione" promessa dalle disposizioni impugnate, ma uno stato di gravissima incertezza normativa, non privo di preoccupanti riflessi sulla repressione penale dei reati ambientali legati alla disciplina dei rifiuti, con conseguente contenzioso destinato a coinvolgere nuovamente - come gia' capitato nel "caso Niselli", sia la Corte di giustizia che codesta Corte costituzionale. Tutto cio' avra', ancora una volta, gravissime conseguenze sugli interessi pubblici alla tutela dell'ambiente, della salute e della sicurezza pubblica, anche perche', eluse le norme generali in vigore e aggirate le definizioni e le procedure fissate dalla normativa comunitaria, diventera' difficile e talvolta impossibile per le strutture regionali rintracciare le sostanze "derubricate" dalle disposizioni impugnate. Con l'entrata in vigore del decreto legislativo si produrra' infatti una derubricazione di talune categorie di rifiuti, i quali non saranno piu' considerati tali ma verranno qualificati come sottoprodotti o combustibili o MPS, venendo in tal modo sottratti al regime vincolistico e garantistico della normativa sui rifiuti. La gravita' e l'irreparabilita' del danno per gli interessi pubblici e per la salute e la sicurezza dei cittadini appaiono percio' innegabili. 3) Illegittimita' costituzionale dell'art. 189, comma 3. Considerazioni in tutto analoghe a quelle svolte subito sopra ai punti 1) e 2) valgono per l'art. 189, comma terzo: esso riguarda l'obbligo di comunicare annualmente alle Camere di commercio le quantita' e le caratteristiche qualitative dei rifiuti oggetto di attivita' di raccolta, trasporto, recupero e smaltimento di rifiuti (c.d. MUD, ossia il "modello unico" introdotto dalla legge n. 70/1994). L'ambito di applicazione di tale obbligo viene ora delimitato restrittivamente, esentandone le imprese e gli enti che producono rifiuti non pericolosi. Si produrra' di conseguenza una preoccupante perdita di informazioni per quanto riguarda molteplici categorie di rifiuti che potranno circolare liberamente, senza consentire alle strutture chiamate a svolgere i controlli ambientali di conoscere i dati relativi alla produzione che sono base di conoscenza per seguire il percorso dei rifiuti. Alla gravita' del danno si aggiunge la sua imminenza: infatti, entro il 30 aprile - e quindi il giorno dopo l'entrata in vigore del decreto legislativo - i produttori di rifiuti non pericolosi devono predisporre il MUD; l'entrata in vigore della disposizione censurata produrra' quindi l'immediato effetto di esentare i soggetti precedentemente gravati da tale obbligo per l'anno 2006. C) Illegittimita' costituzionale dell'art. 101, comma 7, per violazione degli artt. 117, terzo comma, e 76 Cost. L'art. 101, comma 7, derogando ad un criterio consolidato da un trentennio, assimila alle acque reflue domestiche gli scarichi derivanti dalle imprese agricole, includendo in esse anche quelle che svolgono attivita' di trasformazione o valorizzazione dei prodotti agricoli, purche' tale attivita', inserita con carattere di normalita' e complementarieta' funzionale nel ciclo produttivo aziendale, riguardi materia prima lavorata proveniente in misura prevalente dall'attivita' di coltivazione dei terreni di cui si abbia a qualunque titolo la disponibilita'. Si tratta di attivita' i cui reflui possono avere un considerevole impatto ambientale: si considerino, ad esempio, le cantine vinicole o i caseifici che producono su scala industriale. In precedenza il decreto legislativo n. 152/1999 ("Disposizioni sulla tutela delle acque dall'inquinamento e recepimento della direttiva 91/271/CEE concernente il trattamento delle acque reflue urbane e della direttiva 91/676/CEE relativa alla protezione delle acque dall'inquinamento provocato dai nitrati provenienti da fonti agricole") fissava allart. 28, comma 7, lettera c), un criterio certo, che imponeva un preciso rapporto minimo tra materia prima derivante dalla propria produzione e materia prima derivante da produzioni altrui: ora, la disposizione impugnata sostituisce il limite minimo di 2/3 con il concetto elastico di "misura prevalente". Si tratta di un criterio discrezionale, che nella pratica corrente favorisce comportamenti della PA che possono determinare disparita' di trattamento. In mancanza di criteri certi e verificabili, l'incoerente o non appropriata classificazione degli scarichi delle imprese agricole che esercitano anche attivita' di trasformazione dei prodotti agricoli, di norma caratterizzati da carichi inquinanti elevati, determina l'applicazione di livelli di trattamento meno rigorosi, in quanto - ad esempio - i reflui vengano classificati domestici invece che industriali: con conseguenti effetti negativi sulle caratteristiche di qualita' delle acque del corpo recettore (ad esempio il corso d'acqua), il mancato raggiungimento degli obiettivi di qualita' fissati dalle norme comunitarie e il conseguente danno all'ambiente. La disposizione impugnata provoca dunque una riduzione del livello di tutela delle acque e contraddice percio' i principi e criteri direttivi fissati dalla legge di delega: quello del "miglioramento della qualita' dell'ambiente, della protezione della salute umana, dell'utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali" (lettera a), dell'art. 1, comma 8), ma anche quello del "pianificare, programmare e attuare interventi diretti a garantire la tutela e il risanamento dei corpi idrici superficiali e sotterranei, previa ricognizione degli stessi" (lettera b) del successivo comma 9). Essa inoltre incide negativamente sulle funzioni attribuite alla regione gia' dalla legislazione di settore e dal decreto legislativo n. 112/1998, e cio' ancora una volta si riflette in violazione del preciso vincolo posto dalla legge di delega. Inoltre - e da questa considerazione trae origine la richiesta di sospenderne l'esecuzione - la disposizione censurata minaccia di provocare effetti irreversibili sul controllo dei reflui e sulla qualita' delle acque, gravemente minacciando gli interessi pubblici ambientali che la regione ha in carico, sia pure non in via esclusiva, nonche' della tutela del territorio e della salute umana, che rientrano nelle competenze concorrenti fissate dall'art. 117, comma 3, Cost. D) Illegittimita' cotituzionale degli artt. 154 e 155, per violazione degli artt. 117, quarto comma, 119 e 76 Cost. L'art. 154 istituisce la "Tariffa per il servizio idrico", quale "corrispettivo del servizio idrico integrato", e fissa i parametri con cui essa deve essere determinata, prescrivendo che debba tenersi conto "della qualita' della risorsa idrica e del servizio fornito, delle opere e degli adeguamenti necessari, dell'entita' dei costi di gestione delle opere, dell'adeguatezza della remunerazione del capitale investito e dei costi di gestione delle aree di salvaguardia, nonche' di una quota parte dei costi di funzionamento dell'autotita' d'ambito, in modo che sia assicurata la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio secondo il principio del recupero dei costi e secondo il principio "chi inquina paga"". Di seguito la disposizione determina le competenze attuative, attribuendo: al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, su proposta dell'autorita' di vigilanza sulle risorse idriche e sui rifiuti, il compito di definire con decreto "le componenti di costo per la determinazione della tariffa relativa ai servizi idrici per i vari settori di impiego dell'acqua"; al Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, "al fine di assicurare un'omogenea disciplina sul territorio nazionale", il compito di stabilire "i criteri generali per la determinazione, da parte delle regioni, dei canoni di concessione per l'utenza di acqua pubblica, tenendo conto dei costi ambientali e dei costi della risorsa e prevedendo altresi' riduzioni del canone nell'ipotesi in cui il concessionario attui un riuso delle acque reimpiegando le acque risultanti a valle del processo produttivo o di una parte dello stesso o, ancora, restituisca le acque di scarico con le medesime caratteristiche qualitative di quelle prelevate". Vengono cosi' previsti diversi poteri normativi ministeriali sovraordinati a quello delle regioni, in violazione della competenza legislativa propria spettante alle regioni a termini dell'art. 117, quarto comma, della Costituzione. Sorprende che il legislatore delegato abbia ignorato i rilievi della Commissione della Camera, che avvertiva dell'esigenza di non ignorare il potere normativo regionale. A conferma della competenza legislativa regionale va qui richiamata la sentenza di codesta ecc.ma Corte n. 335 del 2005, occasionata da un ricorso governativo avverso la legge della Regione Emilia-Romagna n. 7/2004. In tale sentenza la Corte - pur avendo affermato che il "tributo speciale per il deposito in discarica dei rifiuti solidi", benche' devoluto alle regioni, dovesse ritenersi rientrante nella legislazione esclusiva in materia di sistema tributario e contabile dello Stato (salvo che la stessa legge statale non ne rimandi la quantificazione alla regione), in quanto istituito con legge dello Stato, in base alla costante giurisprudenza costituzionale in merito al regime transitorio dei tributi (in attesa della tanto auspicata attuazione dell'art. 119 Cost.) - ha dichiarato invece inammissibile il ricorso governativo contro l'art. 47 della suddetta legge regionale, che istituiva e disciplinava la tariffa relativa al servizio integrato ed alla gestione dei rifiuti, in quanto il ricorrente non aveva ritrovato basi argomentative sufficienti a suffragare la competenza statale. Il fatto e' che la legge regionale citata ha introdotto in Emilia-Romagna un metodo di tariffazione partecipato ed innovativo, la cui sperimentazione sta dando risultati lusinghieri, perche' basato su meccanismi incentivanti il risparmio delle risorse ambientali per la sostenibilita' dello sviluppo, sulla qualita' del servizio fornito e sul suo sviluppo. In particolare, il metodo tariffario regionale ha superato le due piu' importanti limitazioni presenti nel metodo tariffario nazionale: la prima era costituita dall'impossibilita' di sostenere le politiche ambientali, attraverso una tariffa che almeno non le penalizzi (es. il risparmio idrico non e' incentivato, in quanto gli introiti del gestore sono esclusivamente parametrizzati sul consumo d'acqua); la seconda e' costituita dall'assenza di strumenti di incentivazione o di disincentivazione legati alla qualita' del servizio reso agli utenti. Il metodo regionale consente invece di ritrovare margini di efficienza senza necessariamente incrementare l'attuale tariffa, di non agire solo sul fronte della domanda, ma incentivare il sistema dell'offerta nei comportamenti virtuosi di risparmio e conservazione, di includere nella tariffa di riferimento strumenti di promozione della qualita' del servizio e dell'efficienza, infine di allineare la regolazione tariffaria agli indirizzi e obiettivi del Piano di tutela delle acque in termini soprattutto di risparmio idrico e qualita' degli scarichi. Inoltre, le norme regionali prevedono elementi di "calmierazione" tariffaria per le famiglie numerose, per i soggetti svantaggiati economicamente. Invece, la disposizione impugnata, al contrario, si ingerisce in materia di servizi pubblici locali, riservata alla potesta' residuale delle regioni (sentt. nn. 272/2004 e 29/2006), delineando una normativa che per di piu' si profila nel merito non affatto coerente con l'evoluzione della stessa legislazione statale: e' incomprensibile ad esempio l'omissione tra i criteri di quanto gia' contenuto nell'art. 13 della legge n. 36/1994, concernente la necessita' di tener conto "degli obiettivi di miglioramento della produttivita". Una tale carenza - rinunciando all'utilizzo di uno degli strumenti piu' efficaci per favorire il miglioramento dell'efficienza delle gestioni, ovvero della leva tariffaria - configura una tariffa priva del controllo sui costi di gestione e puo' implicare il riconoscimento a pie' di lista dei costi operativi del gestore, eliminando il miglioramento progressivo in termini di efficienza previsto dalla normativa precedente. Tali norme violano il riparto della potesta' legislativa tra Stato e regioni, fissato dall'art. 117 (e, in particolare, la competenza residuale ex art. 117, comma 4, in materia di disciplina dei servizi pubblici locali), e l'autonomia finanziaria e tributaria delle regioni, garantita dall'art. 119, commi 1 e 2, Cost., in quanto incidono su un'entrata la cui disciplina ricade nella competenza regionale. Inoltre, le norme impugnate contrastano anche con gli stessi criteri della delega legislativa, almeno la' dove essa vincola il legislatore delegato: a) al rispetto "delle attribuzioni delle regioni e degli enti locali, come definite ai sensi dell'art. 117 della Costituzione, della legge 15 marzo l997, n. 59, e del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112" (art. 1, comma 8); b) allo "sviluppo e coordinamento, con l'invarianza del gettito, delle misure e degli interventi che prevedono incentivi e disincentivi, finanziari o fiscali, volti a sostenere, ai fini della compatibilita' ambientale, l'introduzione e l'adozione delle migliori tecnologie disponibili, come definite dalla direttiva 96/61/CE del 24 settembre 1996 del Consiglio, nonche' il risparmio e l'efficienza energetica, e a rendere piu' efficienti le azioni di tutela dell'ambiente e di sostenibilita' dello sviluppo, anche attraverso strumenti economici, finanziari e fiscali" (art. 1, comma 8, lettera d); mentre, per altro verso, essa non appare neppure rientrare negli oggetti della delega, non essendo previsto tra essi l'introduzione ex novo dell'imposta in questione. A giustificare la richiesta di sospensione dell'esecuzione della disposizione in questione milita un argomento evidente: la norma impugnata tenderebbe a sostituirsi alla disciplina regionale sulla tariffa relativa al servizio integrato ed alla gestione dei rifiuti dettata dalla legge regionale n. 7/2004, interrompendo la sperimentazione avviata e ingenerando incertezza rispetto agli oneri tributari da assolvere, con grave danno per la certezza dei rapporti giuridici e per i bilanci degli enti coinvolti. Per le stesse ragioni appare illegittimo altresi' l'art. 155, in relazione alla quota di tariffa riferite ai servizi di fognatura e di depurazione. E) Illegittimita' costituzionale delle norme impugnate per vizi procedurali che inficiano l'intero decreto legislativo. Violazione della legge di delega e del principio di leale collaborazione. Nel suo complesso il decreto appare viziato da gravi difetti di procedimento, attinenti in particolare alla violazione della procedura di "leale collaborazione". Come emerge da quanto esposto in narrativa, infatti, il Governo non ha rispettato i contenuti minimi della garanzia di partecipazione della Conferenza unificata. Esso ha richiesto il parere della Conferenza in termini temporali tali da renderne impossibile l'espressione, ed ha rifiutato la legittima richiesta di disporre del tempo necessario allegando ragioni di urgenza inesistenti - dato che la delega veniva a scadenza oltre sei mesi piu' tardi - e persino inducendo in errore (non si vuole qui dire volontariamente) la Conferenza circa gli effettivi termini temporali della delega. Si noti che l'ordine del giorno negativo successivamente approvato dalla Conferenza non puo' essere considerato un equivalente di un parere effettivamente articolato e reso nel merito a seguito di un corretto procedimento: ma del resto neppure esso e' stato effettivamente preso in considerazione. La Conferenza unificata non ha avuto modo di esprimere formalmente il proprio parere, e sulle posizioni da essa assunte in merito al decreto legislativo il Governo non ha aperto alcuna discussione, violando quanto disposto dalla legge di delega e ribadito dalla Commissione parlamentare. Come dispone l'art. 2, comma 3, del decreto legislativo n. 281/1997, quando la Conferenza Stato-Regioni e' obbligatoriamente sentita ("in ordine agli schemi di disegni di legge e di decreto legislativo o di regolamento del Governo nelle materie di competenza delle Regioni o delle Province autonome di Trento e di Bolzano") essa "si pronunzia entro venti giorni". Per l'espressione del parere della Conferenza unificata non e' indicato un termine preciso, ma certo non si puo' ritenere che per essa - che ha una struttura ancora piu' complessa della "Stato-Regioni" - possa valere un termine ancora piu' breve. Se la legge di delega prevede l'obbligo del Governo delegato di acquisire il parere della Conferenza, la Conferenza deve disporre di un termine adeguato. Ma tutto il comportamento tenuto dai rappresentanti del Governo in questa vicenda - in una vicenda cosi' complessa sotto il profilo tecnico-normativo e tanto delicata per i molteplici riflessi che il "Codice dell'ambiente" esercita non solo sulle attribuzioni "in astratto" delle regioni, ma sulla legislazione, a sua volta complessa e articolata, che esse hanno prodotto - e' improntato ad uno spirito autoritario e ostruzionistico che e' in palese con i canoni della leale collaborazione. "Quando si abbia a che fare con competenze necessariamente e inestricabilmente connesse - ha osservato codesta ecc.ma Corte costituzionale - il principio di "leale collaborazione" - che proprio in materia di protezione di beni ambientali e di assetto del territorio trova un suo campo privilegiato di applicazione - richiede la messa in opera di procedimenti nei quali tutte le istanze costituzionalmente rilevanti possano trovare rappresentazione" (sent. n. 422/2002). E' vero che tale principio e' "suscettibile di essere organizzato in modi diversi, per forme e intensita' della pur necessaria collaborazione" (sent. n. 308/2003), ma e' anche vero che esso non puo' essere ridotto ad una ritualita' meramente formale: una delle "sedi piu' qualificate per l'elaborazione di regole destinate ad integrare il parametro della leale collaborazione e' attualmente il sistema delle Conferenze Stato-Regioni e autonomie locali", al cui interno "si sviluppa il confronto tra i due grandi sistemi ordinamentali della Repubblica, in esito al quale si individuano soluzioni concordate di questioni controverse" (sent. n. 31/2006). Ma di "confronto" deve trattarsi, appunto, basato su comportamenti corretti e "leali" delle parti, non dell'imposizione unilaterale e della chiusura totale a qualsiasi possibilita' di dialogo. Tale violazione della legge di delega (e dunque dell'art. 76 Cost.) e del principio di leale collaborazione si traducono direttamente in lesione delle competenze e prerogative costituzionali delle regioni, e costituiscono percio' illegittimita' costituzionali che le regioni sono legittimate a fare valere. Sulla richiesta di sospensione delle norme impugnate. Come esposto in premessa, il presente ricorso e' presentato in via di urgenza avverso solo alcune delle disposizioni del decreto legislativo n. 152 del 2006 che la ricorrente regione ritiene illegittime ed invasive, e con riserva di far valere l'illegittimita' costituzionale di altre norme dello stesso decreto mediante ulteriore separato ricorso presentato nei termini di impugnazione, allo scopo di potere presentare a codesta ecc.ma Corte costituzionale tempestiva richiesta di sospensione delle norme qui impugnate. Le ragioni per tale richiesta sono state puntualmente esposte nelle relative argomentazioni in diritto. Qui si puo' solo sinteticamente aggiungere che tali ragioni consistono - secondo quanto richiesto dall'art. 9 della legge n. 131 del 2003 - nel pericolo di un irreparabile pregiudizio all'interesse pubblico, e nel rischio di un pregiudizio grave ed irreparabile per i diritti dei cittadini. Tale pericolo e' connesso alla distruzione del patrimonio di buona amministrazione dovuto al sovrapporsi - a volte senza neppure un minimo di norme transitorie - dei nuovi illegittimi istituti a quelli legittimamente da anni messi in atto dalla ricorrente regione, nel pieno rispetto dei vincoli costituzionali o legislativi. Cio' sia in riferimento alla soppressione inopinata e repentina delle Autorita' di bacino, sia in relazione alla gestione dei rifiuti, sia in relazione al sistema tariffario per il servizio idrico. Vi e' dunque il rischio che, se pure le illegittimita' che la regione lamenta venissero nel corso del tempo rimosse - il loro provvisorio vigore produca quel danno irrimediabile cui solo una tempestiva misura cautelare potrebbe rimediare.
P. Q. M. Voglia codesta ecc.ma Corte costituzionale dichiarare costituzionalmente illegittime e previamente sospendere le disposizioni qui impugnate - con riserva di ulteriore impugnazione - del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, "Norme in materia ambientale", per le ragioni e sotto i profili esposti nel presente ricorso. Padova-Bologna-Roma, addi' 21 aprile 2006 Avv. prof. Giandomenico Falcon - Avv. prof. Franco Mastragostino - Avv. Luigi Manzi