N. 6 RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 23 gennaio 2004.
Ricorso per questione di legittimita' costituzionale depositato in
cancelleria il 23 gennaio 2004 (della Regione Lazio)
(GU n. 6 dell'11-2-2004)

Ricorso della Regione Lazio in persona del presidente pro
tempore, on. Francesco Storace, rappresentata e difesa, giusta
mandato a margine e in virtu' delle deliberazioni della giunta
regionale del Lazio n. 1197 del 21 novembre 2003, e n. 34 del 16
gennaio 2004, dall'Avvocato Pietro Pesacane ed elettivamente
domiciliata presso lo studio legale associato Camaldo - Pesacane in
Roma, via Angelo Secchi, 3;

Contro il Presidente del Consiglio dei ministri pro tempore per
la dichiarazione di illegittimita' costituzionale dell'art. 32 in
toto della legge 24 novembre 2003 n. 326 (in G.U. n. 274 del 25
novembre 2003 - suppl. ord. n. 181), con cui e' stato convertito in
legge, con modificazioni, il decreto-legge 30 settembre 2003,
n. 269), recante «Misure per la riqualificazione urbanistica,
ambientale e paesaggistica, per l'incentivazione dell'attivita' di
repressione dell'abusivismo edilizio, nonche' per la definizione
degli illeciti edilizi e delle occupazioni delle aree demaniali», e,
in modo particolare, dei commi 1, 2, 3, 9, 14, 15, 16, 17, 18, 19,
l9-bis, 20, 21, 22, 23, 25, 26, 32, 33, 34, 35, 36, 37, 38, 41, 42.

F a t t o

Con la legge di conversione, meglio descritta in epigrafe, lo
Stato ha, in pratica, riaperto i termini del vecchio condono
edilizio, cosi' come disciplinato dalle leggi n. 47/1985 e
n. 724/1994. Cosi' procedendo, sia pure con le specificazioni di cui
ai commi XXV e XXVI dell'art. 32 della legge de qua, viene data ai
cittadini la possibilita' di sanare abusi perpetrati entro la data
del 31 marzo 2003.
La Regione Lazio, cosi' come meglio sara' specificato in seguito,
intende sottoporre al vaglio di codesta on. Corte il nuovo condono
edilizio 2003, per svariate ragioni che investono sia il momento
propriamente contenutistico dell'art. 32 in parola che aspetti
metodologici.
Quanto al primo aspetto, rinviando una analisi squisitamente
giuridica alle parti successive di questo ricorso, preme subito
mettere in evidenza che l'ennesimo provvedimento condonistico in
materia edilizia e' il terzo che si sussegue nell'arco di poco meno
di un ventennio.
Per conseguenza, inevitabilmente, esso si annuncia inidoneo a
perseguire «l'incentivazione dell'attivita' di repressione dell'abuso
edilizio», cosi' come testualmente recita il sommario dell'art. 32,
in quanto, come riferito dalla piu' autorevole ed avvertita dottrina,
nonche' da prestigiosi organismi esponenziali di vari interessi
(cosi' ad esempio Ance, ordini professionali e associazioni
ambientaliste), gia' l'annuncio stesso di un provvedimento di condono
edilizio avrebbe di per se' alimentato nuove forme di abuso.
Al riguardo, e' stato anche esattamente evidenziato come non
possa esistere un condono «leggero» in quanto i suoi effetti sul
territorio sono sempre devastanti. Non e' mancato chi ha individuato
una relazione diretta tra i vari condoni e una diffusa
antropizzazione dell'intero territorio nazionale, al punto di fare
dell'Italia il «Paese piu' antropizzato al mondo».
Deve, inoltre, essere rimarcato che un terzo condono, collocato
in un ambito temporale decisamente ristretto, frustra gli enti locali
ed in particolar modo le regioni, le quali vedono cosi' vanificati
tutti gli sforzi fatti in materia di programmazione e di controllo
del territorio locale.
Infatti, si finisce inevitabilmente con dare l'idea che le
regioni (e per la parte che interessa in modo precipuo la Regione
Lazio), sarebbero venute meno ad ogni forma di vigilanza, laddove il
sentimento diffuso di illegalita' viene alimentato dalle varie leggi
condonistiche, le quali si risolvono immancabilmente nell'aspettativa
da parte dei cittadini che altri provvedimenti di sanatoria potranno
essere emanati per futuri illeciti edilizi.
In punto di mero fatto, invece, deve essere stigmatizzato che la
Regione Lazio, nel preciso adempimento delle sue funzioni, con la
legge regionale n. 38 del 22 dicembre 1999, responsabilizzando in
materia urbanistica i Comuni, le Provincie e la stessa Regione, ha
favorito l'avvio e in taluni casi il completamento di opere di
demolizioni, nella logica di una inversione di tendenza, per giungere
a quel tanto auspicato anno zero da cui far decorrere una
inflessibile attivita' di prevenzione e di repressione.
Sul piano metodologico, invece, la legge sul condono edilizio
appare obiettivamente violatrice dei nuovi principi di cui al
novellato Titolo V della Carta costituzionale, e in modo particolare
di quelli della potesta' legislativa concorrente tra Stato e Regioni,
della potesta' esclusiva della Regione, della sussidiarieta', della
leale cooperazione e della ragionevolezza.

M o t i v i

1. - Violazione degli articoli 3, primo e secondo comma, 41, 42,
97 e 119, primo comma, della Costituzione.
1.1. - Perche' l'art. 32 della legge di cui in premessa debba
essere considerato incostituzionale per violazione del principio
della ragionevolezza.
Gia' nell'originario quadro costituzionale, poscia modificato
dalla riscrittura del nuovo Titolo V della Carta, costituzionale,
codesta ecc.ma Corte ha avuto modo di profondersi in significativi
arresti giurisprudenziali.
In particolar modo, con la sentenza del 28 luglio 1995 n. 416,
occupandosi ex professo dell'art. 39 della legge 23 dicembre 1994,
n. 724, concludeva per la legittimita' costituzionale del condono
edilizio previsto dalla citata legge.
Tuttavia, tale delibazione scaturiva dal riconoscimento di un
carattere del tutto eccezionale della norma de qua, volta a sopperire
a contingenti e straordinarie ragioni finanziarie e di recupero della
base impositiva dei fabbricati.
Inoltre, si rilevava che la diffusione, tutt'altro che isolata
del fenomeno dell'abusivismo edilizio e della persistenza delle
relative costruzioni, dovesse in qualche modo essere collegata non
solo ad un deficit di un'attivita' di polizia locale specializzata
sul controllo del territorio, ma anche alla «scarsa incisivita' e
tempestivita' dell'azione di controllo e di repressione degli enti
locali e delle regioni, che non e' valsa ad impedire tempestivamente
la suddetta attivita' abusiva o almeno a impedire il completamento e
a rimuovere i relativi manufatti».
In sostanza, se mal non si interpreta la ratio della citata
sentenza, la legittimita' costituzionale di quel condono poteva
essere desunta unicamente da eccezionali esigenze di cassa e dal
fatto che l'abusivismo fosse dilagante al punto da minare
l'effettivita' della «ordinaria legislazione».
Tuttavia, sempre nella citata sentenza, si avvertiva l'esigenza
di lanciare un monito al Parlamento, soprattutto specificando che
«ben diversa sarebbe, invece, la situazione in caso di altra
reiterazione di una norma del genere, soprattutto con ulteriore e
persistente spostamento dei termini temporali di riferimento del
commesso abusivismo edilizio».
Coerentemente e rigorosamente, il Giudice delle leggi ammoniva
che, in caso di una nuova legislazione condonistica, differenti
sarebbero risultati i criteri di valutazione sul piano della
ragionevolezza, venendo meno il carattere contingente e del tutto
eccezionale della norma (con le peculiari caratteristiche della
singolarita' ed ulteriore irripetibilita), in relazione ai valori in
giuoco «non solo sotto il profilo dell'esigenza di repressione dei
comportamenti che il legislatore considera illegali e di cui mantiene
la sanzionabilita' in via amministrativa e penale, ma soprattutto,
sotto il profilo della tutela del territorio e del correlato ambiente
in cui vive l'uomo.».
Cosi' ragionando, la Corte in nuce anticipava concetti che
sarebbero stati successivamente ripresi ed ampliati, intuendo che la
gestione del territorio sulla base di una necessaria programmazione
sarebbe risultata compromessa sul piano della ragionevolezza da una
ciclica e ricorrente possibilita' di condono-sanatoria, con
conseguente convinzione di impunita', «tanto piu' che l'abusivismo
edilizio comporta effetti permanenti (quando non segua la demolizione
o la rimessa in pristino), di modo che il semplice pagamento di
oblazione non restaura mai l'ordine giuridico violato, qualora non
comporti la perdita del bene abusivo o del suo equivalente almeno
approssimativo sul piano patrimoniale».
Alla luce dei succitati principi, davvero non puo' sorgere dubbio
alcuno circa il fatto che l'art.32 della legge de qua, riguardato
nella sua interezza, violi il dettato costituzionale e, per la parte
che qui interessa, all'art. 3 della Costituzione sotto il profilo del
principio della ragionevolezza. Va, inoltre, rivelato come ulteriore
censura di illegittimita' costituzionale, sotto il precitato profilo
della ragionevolezza, che la modifica dell'art. 32 della legge
n. 47/1995 da parte dell'art. 32 della legge de qua, cosi' come
formulato, trova immediata applicazione anche alle pratiche di
condono edilizio rimaste inevase sotto l'egida dei precedenti
condoni, con il risultato di un condono «open».
Infatti, gia' l'idea stessa di un terzo condono edilizio, con la
vasta portata di cui ai commi XXV e XXVI dell'articolo in esame, si
pone in rapporto di radicale conflitto con gli ammonimenti di cui
alla sentenza della Corte costituzionale sopra citata, la quale,
quindi, ben potra' pervenire ad un giudizio di incostituzionalita'
del condono in argomento semplicemente sviluppando quanto in nuce
gia' statuito con l'arresto giurisprudenziale cui teste' si e' fatto
menzione in maniera consequenziale ed automatica.
Tale precognizione e' sicuramente avvalorata dal fatto che il
nuovo condono sani anche i «grandi abusi», atteso che altrimenti non
potrebbero definirsi quelli di 3000 metri cubi, corrispondenti a una
palazzina composta da 10 appartamenti per tre piani.
1. 2. - Ulteriori censure sempre sotto il profilo della
ragionevolezza.
Codesta ecc.ma Corte con la predetta sentenza sopra richiamata,
ha ritenuto di dover cogliere un carattere di eccezionalita', sotteso
dal previgente condono, nella necessita' di dover far fronte «a
straordinarie ragioni finanziarie e di recupero della base impositiva
dei fabbricati».
All'uopo, richiamava la previsione di un introito effettivo di
quasi tremila miliardi limitato alla prima fase dei pagamenti.
In realta', ferma restando la decisivita' della eccezione di
incostituzionalita' di cui al precedente paragrafo, con il presente
ricorso si confida che, melius re perpensa, l'adita on.le Corte
convenga sulla irragionevolezza del provvedimento anche sotto
un'angolazione propriamente finanziaria.
Infatti, secondo quanto annunciato dal Governo statale, l'odierno
condono dovrebbe consentire di introitare tra i 2,5 e 4,2 miliardi di
euro. Tuttavia, secondo stime di settore effettuate da soggetti che
si sono occupati ex professo della materia, pubblicate recentemente
dai massimi organi di stampa nazionali, l'urbanizzazione primaria e
secondaria progettata in ogni dettaglio, dalle strade alle fognature
ed ai servizi essenziali costerebbe circa 22 mila euro per ogni
abitazione, di cui circa 15 mila gravanti sulla famiglia che compra o
costruisce secondo legge.
Nel caso in cui, invece, l'intervento non sia ne' coordinato, ne'
prefissato, come ad esempio accadra' per le borgate romane, il costo
di una urbanizzazione dovrebbe agevolmente superare l'importo di
trentamila euro per alloggio. Utilizzando al riguardo i dati
desumibili dal precedente condono, peraltro risultato essere meno
favorevole per l'erario rispetto a quello originario, si e' potuto
appurare che i fruitori del provvedimento condonistico pagarono, per
l'appunto per le opere primarie e secondarie, circa diecimila euro,
di cui furono versati nelle casse del Comune di Roma solo cinquemila
euro. Tuttavia, sempre secondo le relative stime ufficiali, mai
contraddette ne' contestate da alcuno, quella cifra si rivelo' essere
quattro volte piu' bassa di quella sostenuta dallo stesso comune per
realizzare le richiamate opere di urbanizzazione.
In conclusione, utilizzando i dati di cui sopra e rapportandoli
alla Regione Lazio e poi all'intera nazione, si annuncerebbe per gli
enti locali un vero e proprio tracollo finanziario, attesa la
necessita' di sopperire alle opere di urbanizzazione con una spesa
stimabile in circa nove miliardi di euro.
Il tutto a non voler considerare che sui comuni ricadrebbe un
enorme carico di lavoro richiesto dalla necessita' di evadere le
relative pratiche di condono, con prevedibili oneri aggiuntivi assai
sostenuti per riordinare infrastrutture e servizi essenziali, per i
quali e' scontato immaginare aumenti delle imposte comunali,
finalizzate alla copertura dei detti costi per un periodo che si
annuncia tutt'altro che breve, cosi' come dimostrato dai precedenti
condoni.
Tutto cio' ha trovato autorevole conferma dalla Corte dei conti,
la quale, nella relazione sulla nuova legge finanziaria, ha espresso
«forti dubbi e preoccupazioni sulla reale fattibilita', sui tempi
indicati e sui gettiti previsti, concernenti il condono edilizio».
In conclusione, quindi, anche sotto l'aspetto squisitamente
finanziario, l'attuale normativa sul condono non puo' certo dirsi
ragionevole, risolvendosi in un illusorio vantaggio per lo Stato cui
fa da contrappeso un esborso incredibilmente superiore da parte degli
enti locali per garantire la realizzazione delle opere di
urbanizzazione che dovranno necessariamente essere eseguite, nonche'
in una violazione dell'autonomia finanziaria regionale,
costituzionalmente garantita dall'art. 119 Cost.
1.3. - Violazione del principio di eguaglianza e degli artt. 41 e
42 della Costituzione, posti a tutela della iniziativa economica
privata e della proprieta'. Violazione dell'art. 32, primo comma,
Cost. a tutela della salute.
Gli articoli teste' citati della Costituzione devono dirsi
violati anche in considerazione del fatto che il condono realizza un
sistema «ingiusto e discriminatorio proprio nei confronti dei
cittadini rispettosi delle leggi, che si vedono privare di quei beni
che anch'essi avrebbero potuto costruire violando le norme e che
dall'altro sarebbero costretti, soprattutto in mancanza delle
specifiche situazioni di diritto soggettivo, esse sole salvaguardate
dalla legislazione condonistica, a subire il degrado urbanistico
prodotto dalla illegalita' edilizia, riemersa con ostentazione e
legalizzata con rischio che in futuro si producano le condizioni per
un ulteriore degrado», cosi' come acutamente intuito dal Tribunale
amministrativo regionale Emilia-Romagna, sezione di Parma, con
l'ordinanza del 28 novembre 2003, n. 27, con cui e' stata ritenuta
d'ufficio rilevante e non manifestamente infondata la questione di
costituzionalita' dell'art. 32 del decreto legislativo del 30
settembre 2003, n. 269, per contrasto con gli artt. 3, 9, secondo
comma, 32, primo comma, 97, primo comma e 117, terzo comma, della
Costituzione. Il tutto a voler tacere del fatto che i cittadini,
ossequiosi della legalita', dovranno fare i conti con l'aumento delle
imposte comunali oltre che constatare la perdita di valore degli
immobili di proprieta', realizzati secondo legge, a causa
dell'immissione sul mercato di migliaia di edifici abusivi condonati.
Di contro, a fronte della eccepita illegittimita' costituzionale,
va colta anche la correlata violazione di cui all'art. 3 Cost., da
individuarsi nel fatto che i ripetuti abusi edilizi si risolvano
irragionevolmente in una situazione premiale che vieppiu' penalizza e
mortifica i cittadini rispettosi della legalita', costretti a subire
un continuo degrado ambientale e, quindi, inevitabilmente
l'esposizione a pericolo del bene supremo della salute pubblica,
solennemente tutelato dall'art. 32 Cost.
2. - Violazione degli articoli 3, 97, 114, primo comma, 117,
terzo comma, e 118, primo comma della Costituzione.
Lesione della potesta' legislativa delle regioni. Violazione del
principio di ragionevolezza, sussidiarieta' e leale cooperazione.
La riformulazione degli articoli 114, 117 e 118 ha comportato una
profonda e radicale riforma del Titolo V della Carta costituzionale.
Infatti, in conseguenza della emanazione della nuova disciplina, la
piu' attenta dottrina ha parlato, non a caso, di un profondo
sconvolgimento del sistema delle fonti che si sarebbe risolto in un
impianto costituzionale completamente «capovolto» rispetto a quello
anteriore. Il nuovo Titolo V ha, infatti, totalmente ripudiato le
antiche regole di riparto, relegando il legislatore statale in un
ambito di azione ben definito (le materie di cui al secondo comma
dell'art. 117 della Costituzione).
La attribuzione di competenza a carattere universale, gia' del
legislatore statale, e' oggi assegnata alle regioni, le quali, d'ora
innanzi, risultano investite di una provvista di competenza fondata
sulla stessa clausola attributiva in passato al legislatore statale
della competenza generale, di carattere residuale.
Tra due estremi (la competenza nominata statale e la competenza
generale regionale) si colloca, a mezza strada, la competenza
concorrente. Quest'ultima, come e' ormai noto, conduce ad una
gestione normativa frazionata tra due diverse fonti: lo Stato e la
regione.
Nelle materie di competenza concorrente, secondo quanto
testualmente affermato dal terzo comma del nuovo articolo 117, al
legislatore statale e' attribuita la formulazione dei principi e alla
normativa regionale la disciplina di attuazione.
Sempre con il citato comma, il legislatore costituzionale ha
tassativamente indicato le materie formanti oggetto della cosiddetta
potesta' legislativa concorrente, annoverando tra queste il «governo
del territorio».
Al riguardo, tralasciando talune voci isolate, secondo cui la
materia urbanistica sarebbe altro rispetto al governo del territorio
(tra cui Vincenzo Cerulli Irelli, in Atti del VI Convegno Nazionale
dell'Associazione Italiana di Diritto Urbanistico) ed aderendo,
invece, alla maggioritaria dottrina e soprattutto alla giurisprudenza
di codesta ecc.ma Corte (Sentenza n. 303 del 2003), tale concetto,
pur non potendosi identificare tout court con la materia urbanistica,
essendo rispetto a quest'ultima di piu' ampia portata, ingloba
senz'altro anche la disciplina sull'ambiente e quella urbanistica.
Alla luce della detta impostazione, vengono di seguito
specificate le eccezioni di incostituzionalita' dell'art. 32 de quo:
2.1. - Il comma 2 dell'art. 32 della legge n. 326/2003 chiarisce
che la relativa normativa e' disposta nelle more dell'adeguamento
della disciplina regionale ai principi contenuti nel Testo Unico
delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia,
specificando che, comunque, vengono fatte salve le competenze delle
autonomie locali sul governo del territorio.
Nel successivo comma 3 viene ancora detto, evidentemente ad
colorandum, che le condizioni, i limiti e le modalita' del rilascio
del predetto titolo abilitativo «sono stabilite dal presente articolo
e dalle normative regionali».
Tuttavia, l'intero impianto dell'art. 32 da' contezza del fatto
che la salvaguardia delle competenze delle autonomie locali
rappresenti un mero sofisma, risolvendosi, invece, nel piu' assoluto
svuotamento e depauperamento di esse.
Infatti, con la legge di conversione in argomento, il legislatore
statale dimostra di aver fatto propri i principi costituzionali della
leale collaborazione tra Stato e regioni e della esigenza
dell'effettiva partecipazione e di consultazione, volte a coordinare
l'esercizio delle rispettive competenze regionali e statali, cosi'
come enucleati con la sentenza n. 303/2003 di codesta ecc.ma Corte,
in maniera solo apparente e di facciata. Difatti, si e' limitato ad
emendare «i peccati di origine» di cui al decreto-legge 30 settembre
2003, n. 269, racchiusi ad esempio nei commi 9, 11, in cui era
contenuta la locuzione «sentita la Conferenza unificata», poscia
sostituita con locuzioni del tipo «l'intesa con ...» o «di concerto
con ...». Tuttavia, quei commi attenevano a parti non sostanziali,
ne' caratterizzanti dell'impianto normativo di cui all'art. 32,
poiche' si riferivano ad ipotesi di attivazione di programmi
nazionali di interventi rivolti alla riqualificazione di ambiti
territoriali caratterizzati da consistente degrado economico e
sociale, peraltro dotati di risorse finanziare assai limitate, ovvero
di programmi di messa in sicurezza del territorio nazionale dal
dissesto idrogeologico od ancora ad attivita' di monitoraggio e di
raccolta delle informazioni relative al fenomeno dell'abuso edilizio.
Per quanto concerne, invece, il condono edilizio propriamente
detto, dell'istituto costituzionale «dell'intesa» tra i diversi
livelli di governo interessati non vi e' traccia.
Il comma 1 dell'art. 32, infatti, sancisce in maniera
incontrovertibile che il fine per pervenire alla regolarizzazione del
settore debba essere perseguito mediante il condono, ineluttabile
prius per il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria
delle opere esistenti non conformi alla disciplina vigente, senza
lasciare in merito alcuno spazio per la concorrente potesta'
legislativa regionale.
Il successivo comma 2, con la specificazione che la normativa in
parola sia disposta nelle more dell'adeguamento della disciplina
regionale ai principi contenuti nel testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia edilizia, lascia chiaramente
intendere che quell'attivita' legislativa regionale debba avere un
valore ex nunc e non ex tunc, escludendo, quindi, in radice la
possibilita' delle regioni di dotarsi di una propria legislazione con
effetto retroattivo, che solo avrebbe potuto paralizzare gli effetti
devastanti del condono.
In questa impostazione, pertanto, l'affermazione, pur contenuta
nel citato comma 2, e nel successivo comma 3, secondo cui verrebbero
fatte salve le competenze delle autonomie locali sul Governo del
territorio, riveste la funzione di mero sofisma.
Il legislatore statale, infatti, dopo aver solennemente
affermato, nei commi da 5 a 13 come gia' riferito sopra, che la ratio
dell'art. 32 fosse quella di realizzare politiche di riqualificazione
urbanistica, peraltro, all'uopo fornendo assai limitate risorse
finanziarie, e quella di potenziare attivita' di monitoraggio e di
raccolta delle informazioni relative al fenomeno dell'abusivismo
edilizio, quindi, dopo aver cercato di dare un senso al fin troppo
impegnativo sommario del citato articolo («Misure per la
riqualificazione urbanistica, ambientale e paesaggistica, per
1'incentivazione dell'attivita' di repressione dell'abusivismo
edilizio, nonche' per la definizione degli illeciti edilizi e delle
occupazioni delle aree demaniali»), a partire dal comma 14, ha
introdotto norme puntuali ed esaustive, stabilendo in materia
articolata e tassativa tutte le fasi che dovranno scandire l'iter
amministrativo sino all'ottenimento del titolo abilitativo edilizio.
Infatti, ha contemplato limiti di volumetria (comma 25), le tipologie
di illecito (comma 26), le ipotesi di esclusione (comma 27), la
disciplina dei termini (comma 28), i riflessi penali della sanatoria
(commi 29 e 30), il rapporto con i terzi (comma 31), i termini e le
modalita' per la proposizione dell'istanza (comma 32), la
documentazione da allegare (comma 35), l'istituto del
silenzio-assenso (comma 37), l'entita' dell'oblazione da
corrispondere (comma 38).
La possibilita' per le regioni di prevedere un incremento
dell'oblazione viene circoscritta nella misura del 10% (comma 33).
L'art. 32 viene finanche accompagnato dal modello di domanda da
presentare alle autorita' competenti.
Esce, pertanto, confermato che la normativa sul condono non si e'
certo limitata alla determinazione di principi fondamentali,
riservando la potesta' legislativa propriamente detta alle regioni,
bensi' si e' articolata in una minuziosa descrizione del procedimento
di sanatoria, della sua conclusione e dei suoi effetti, con una
modifica della disciplina condonistica relativamente alle aree
vincolate (dal comma 25 al 49).
Da tali considerazioni, quindi, dovra' convenirsi la totale
violazione dell'art. 117 Cost., comma 3, in quanto lo Stato con il
predetto articolo 32 ha, di fatto, interdetto alle regioni di
esercitare in modo compiuto e pieno la propria potesta' legislativa,
imponendo a queste ultime, in pratica, di rinunciare alla tutela di
una corretta pianificazione.
Per poter argomentare in maniera diversa, dovrebbe affermarsi la
natura di norma di principio della disciplina sul condono. Tuttavia,
tale assunto e' smentito in maniera categorica proprio dal ripetuti
arresti giurisprudenziali dell'adita Corte costituzionale, con i
quali veniva, a contrariis, riconosciuto il carattere eccezionale e
temporaneo della normativa condonistica, con cio' automaticamente
escludendo la sua natura di norma di principio.
In ogni caso, depone nel senso sopra indicato la costante
giurisprudenza del Giudice delle leggi, secondo cui la normativa
statale per poter essere qualificata come legge di principio, deve
possedere sia caratteri sostanziali (quali la natura di norme
espressive di scelte politico legislative fondamentali o, quantomeno,
di criteri o modalita' generali tali da costituire un saldo punto di
riferimento costante nel tempo e in grado di orientare l'esercizio
del potere legislativo regionale), sia caratteri strutturali (quali
l'assenza di statuizioni ad un basso livello di astrattezza che, per
il carattere di estremo dettaglio, richiedono ai fini della loro
concreta applicazione soltanto un'attivita' di materiale esecuzione).
Orbene, nel caso di specie, anche a non voler considerare il
carattere temporaneo ed eccezionale della disciplina, di per se'
incompatibile con la natura di norma di principio, in ogni caso,
l'estrema concretezza della normativa in esame deve indurre
necessariamente a ritenerla norma di dettaglio.
Sul punto, non marginale appare la citazione di quella parte
della dottrina che ha evidenziato, assai opportunamente, che la
legittimita' costituzionale dei precedenti condoni era stata desunta
dal presupposto della loro eccezionalita' e non certo dalla loro
natura di principio.
Dai principi sopra esposti, pertanto, dovra' necessariamente
convenirsi che l'art. 32 in esame contrasti fortemente con il nuovo
Titolo V della Costituzione, anche perche' altrimenti davvero non si
intenderebbe quale ambito ulteriore possa occupare la concorrente
legislazione regionale, una volta che il legislatore statale,
invadendo campi altrui si sia profuso, come sopra spiegato, in una
normazione sin troppo specificata e dettagliata.
2.2. - Perche' devono dirsi violati i principi della
sussidiarieta' e della leale collaborazione.
Il principio della sussidiarieta', come e' noto, e' di
derivazione comunitaria. In base ad esso, veniva data la possibilita'
alla comunita' di intervenire in determinate materie solo allorquando
e nella misura in cui, gli obiettivi prefissati non potevano essere
conseguiti in materia soddisfacente dai singoli Stati membri.
Nel senso sopra indicato, quindi, ogni ente sovraordinato svolge
una funzione «sussidiaria» rispetto all'ente locale piu' vicino al
cittadino, secondo una scala di attribuzione di funzione che inizia
dal comune e, passando attraverso la provincia, la regione e lo
Stato, termina con la ritenzione delle funzioni comuni di interesse
sovranazionale alla Unione europea.
Il principio in parola e', dunque, un criterio regolatore di
competenze, volto ad assicurare sia l'efficacia che l'efficienza
dell'organizzazione dei pubblici poteri e, in definitiva, il buon
andamento della funzione amministrativa (art. 97 Cost.).
In particolare, l'art. 118 Cost. attribuisce ai comuni le
funzioni amministrative «salvo che, per assicurarne l'esercizio
unitario, siano conferite a provincie citta' metropolitane, regioni e
Stato, sulla base dei principi di sussidiarieta', differenziazione ed
adeguatezza».
Il principio della sussidiarieta', quindi, nel nuovo Titolo V
della Costituzione assume valore e dignita' di principio
costituzionale, quale formula organizzatoria dei pubblici poteri.
Codesta Corte, recentemente, con la piu' volte citata sentenza
n. 303/2003, dovendo compulsare l'art. 1 comma 1 della c.d. Legge
Obiettivo, ha chiarito che il detto principio della sussidiarieta',
la' dove dispone che le funzioni amministrative, generalmente
attribuite ai comuni, possano essere allocate ad un diverso livello
di governo per assicurarne l'esercizio unitario, introduce un
meccanismo dinamico che rende meno rigido non solo l'originario
assetto delle funzioni amministrative, ma, nel contempo, la stessa
distribuzione delle competenze legislative.
Cio' in quanto il principio di legalita' (che impone che anche le
funzioni assunte per sussidiarieta' siano organizzare e regolate
dalla legge), porta necessariamente ad escludere che le singole
regioni, con discipline differenziate, possano regolare e organizzare
funzioni amministrative attratte a livello nazionale.
Con la sentenza precitata si e' tuttavia specificato che, ai fini
di una legittima esplicazione del principio della sussidiarieta', e'
imprenscindibile che si perfezioni una «intesa» tra i diversi livelli
di governo interessati.
Ne scaturisce una concezione «procedimentale e consensuale», nel
senso che la sussidiarieta' puo' concretarsi solo attraverso una
«procedimentalizzazione» che prefiguri «un iter in cui assumano il
dovuto risalto le attivita' concertative e di coordinamento
orizzontale, ovvero le intese, da perfezionarsi secondo il canone
della leale collaborazione».
Il principio della intesa o dell'accordo assurge, quindi, a
valore costituzionale complementare. La leale collaborazione
soddisfa, invece, esigenze di partecipazione e di consultazione,
attraverso strumenti di collaborazione e di dialogo, mentre l'intesa
e l'accordo sono veri e propri strumenti di codecisione.
Dalle argomentazioni espresse dalla Consulta discende in maniera
perentoria ed indiscutibile che l'attrazione allo Stato di competenze
di altri livelli di governo, puo' verificarsi in virtu' di una previa
intesa con l'ente interessato o di un accordo stipulato con la
regione o con le regioni coinvolte.
In buona sostanza, il ruolo delle regioni non puo' essere
meramente consultivo, bensi' codecisionale.
Con i principi richiamati si e' indicata anche la necessita' di
interpretare il nuovo art. 117, terzo comma, Cost., in combinato
disposto con l'art. 118 Cost.
Infatti, pur affermando che, in via di principio, l'inversione
della tecnica di riparto delle potesta' legislative e l'enumerazione
tassativa delle competenze dello Stato avrebbe dovuto portare ad
escludere la possibilita' di dettare norme suppletive statali in
materia di legislazione concorrente, cio' nondimeno si e' evidenziato
che una simile interpretazione dell'art. 1 17, terzo comma, Cost.,
sempre secondo codesta Corte, avrebbe svalutato la portata precettiva
dell'art. l 18 Cost.
In sostanza, una retta interpretazione dell'art. 118 Cost.
consentirebbe allo Stato di emanare norme di carattere suppletivo,
determinando una temporanea compressione della competenza legislativa
regionale, tutte le volte in cui deve ragionevolmente assicurarsi
l'immediato svolgersi di funzioni amministrative che lo Stato deve
attrarre per esigenze unitarie e che non possono essere esposte ai
rischi dell'ineffettivita'.
Tuttavia, seguendo proprio l'impostazione di cui sopra, con
ragionamento a contrariis, dovra' gioco forza affermarsi che la detta
attrazione, giusto l'art. 118, primo comma, Cost., non potra' operare
allorquando non vi sia l'esigenza di soddisfare quei momenti unitari.
Nel caso di specie, in effetti, lo Stato non ha affatto percepito
l'esigenza di attrarre funzioni amministrative, cui si sarebbero
dovute necessariamente correlare funzioni legislative, avendo, al
contrario ribadito e confermato le prerogative amministrative delle
regioni, delle provincie e, soprattutto, dei comuni.
Infatti, l'art. 32 in parola, al comma 32 prevede che la domanda
per la definizione dell'illecito edilizio deve essere regolarmente
presentata al comune competente, al comma 33 che le regioni debbano
emanare norme per la definizione del procedimento amministrativo
relativo al rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria, al
comma 34 che l'istruttoria delle relative pratiche spetti alle
amministrazioni comunali ed al comma 37 che la potesta' di rilasciare
il titolo abilitativo appartenga sempre ai comuni interessati.
Ne', del resto, sarebbe potuto essere altrimenti, atteso che il
fenomeno dell'abusivismo, cosi' connesso come e' con il territorio,
e' inscindibilmente intrecciato con la funzione di «governo del
territorio», appartenente per definizione alla potesta' legislativa
concorrente.
In effetti gli abusi edilizi, pur presenti nelle varie aree
geografiche del Paese, acquistano una loro particolare connotazione
in rapporto al luogo in cui sono stati perpetrati e sfuggono, quindi,
ad una categoria di piu' larga generalizzazione.
Da tanto discende che il controllo del territorio, per essere
davvero efficace ed efficiente, non puo' non essere demandato a
quegli Enti locali, piu' direttamente lesi da attivita' edilizie
illegali, che piu' velocemente e meglio possono reprimere quei
fenomeni, attraverso l'adozione di provvedimenti atti a valorizzare
la sensibilita', gli usi e le tradizioni delle popolazioni
amministrate.
Pertanto, venendo meno i presupposti della particolare
interpretazione dell'art. 117 Cost. (sussidiarieta' ed adeguatezza),
offerta dalla ecc.ma Corte, da cogliersi necessariamente in combinato
disposto con l'art. 118, primo comma, Cost., resta fermo il
principio, in linea di massima ribadito nella citata sentenza,
secondo cui allo Stato non puo' piu' essere consentita la
possibilita' di dettare proprie norme suppletive in materia di
legislazione concorrente, dovendosi oramai ritenere inammissibile una
normativa statale di dettaglio, sia legislativa che regolamentare,
indipendentemente dalla sua cedevolezza a fronte dell'entrata in
vigore della corrispondente normativa regionale.
3. - Violazione degli articoli 114, primo comma, 117 terzo comma,
e 118, primo comma, Costituzione da parte dei commi 9 e 42
dell'art. 32.
Altro profilo di illegittimita' costituzionale emerge dal
combinato disposto di cui ai commi 9 e 42 dell'art. 32 della legge
citata, in rapporto ai detti parametri costituzionali.
Infatti, il comma 9 prevede che il Ministro delle infrastrutture
e trasporti, con proprio decreto, «individui gli ambiti di rilevanza
ed interesse nazionale oggetto di riqualificazione urbanistica
ambientale e culturale», attribuendo priorita' alle aree oggetto di
programmi di riqualificazione gia' approvati di cui al decreto del
Ministro dei LL.PP. dell'8 ottobre 1998.
Su tali aree, il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti
«predispone un programma di interventi anche in riferimento a quanto
previsto dall'art. 29, comma 4 della legge 28 febbraio 1985 n. 47,
come sostituito dal comma 42 del presente articolo» (per l'appunto
l'art. 32 in esame).
Cosi' statuendo, e' stata introdotta una disciplina statale di
recupero urbanistico, laddove lo stesso legislatore statale del 1985
opto' per lasciare alle regioni il potere di prevedere e
regolamentare la conseguente disciplina di recupero urbanistico.
Inoltre, si e' consentito al Ministro di individuare aree di
interesse nazionale, sulle quali intervenire tramite le suddette
varianti.
Pertanto, dovra' convenirsi sulla illegittimita' costituzionale
dell'art. 32 ed in parte qua dei commi 9 e 42, in quanto lo Stato si
e' arbitrato di dettare una disciplina propria anche in una materia
di competenza concorrente, andando ben oltre il limite dei principi.
La lesione della potesta' regionale in materia di governo del
territorio, sotto l'angolazione teste' prospettata, ma anche piu' in
generale alla stregua del terzo comma dell'art. 117 Cost., appare in
tutta la sua concreta evidenza, anche considerando che la Regione
Lazio, sin dal 1999, con propria legge regionale n. 38 del 22
dicembre 1999, recante «norme sul governo del territorio», ha
aggiornato il proprio dispositivo nella materia de qua,
finalizzandolo alla regolazione della tutela, degli assetti, delle
trasformazioni e delle utilizzazioni del territorio stesso e degli
immobili che lo compongono, nel rispetto dei principi di
sussidiarieta' e di partecipazione.
Nell'art. 2 della legge in commento, ha, altresi', specificato
che le attivita' di governo del territorio sono finalizzate alla
realizzazione della tutela dell'integrita' fisica (con cio'
intendendo la tutela dei connotati materiali essenziali del
territorio e delle sue componenti: sottosuolo, suolo, soprassuolo
naturale, corpi idrici, atmosfera e la loro preservazione da fenomeni
di alterazione irreversibile e di intrinseco degrado), e
dell'identita' culturale del territorio stesso (intendendosi con cio'
il mantenimento dei connotati conferiti all'insieme del territorio
stesso e alle sue componenti, dalla vicenda storica naturale ed
antropica), nonche' al miglioramento qualitativo del sistema
insediativo e alla eliminazione di squilibri sociali, territoriali e
di settore, in modo da garantire uno sviluppo sostenibile della
regione.
All'art. 3, ha dettato i principi generali in materia di
pianificazione territoriale ed urbanistica regionale, ispirati dalle
regole della flessibilita' e della concertazione.
Ha, soprattutto, istituzionalizzato ante litteras l'attivita' di
monitoraggio della pianificazione, prevedendo un sistema informativo
territoriale regionale (art. 17).
Non a caso e' stata unanimemente apprezzata e giudicata come una
legge di alto profilo, oltre che sollecita, in quanto la Regione
Lazio e' stata la terza regione in ordine temporale che ha adeguato
la propria legislazione ai nuovi indirizzi maturati negli ultimi
anni.
La citata legge ha rigorosamente previsto:
a) pianificazione territoriale regionale generale (art. 8);
b) pianificazione territoriale provinciale (art. 18);
c) pianificazione territoriale della Citta' metropolitana di
Roma (art. 27);
d) pianificazione urbanistica comunale (art. 28).
Pertanto, non possono dirsi sussistenti i presupposti, anche
fattuali (almeno per quanto concerne la Regione Lazio), da cui muove
l'art. 32: l'inerzia delle regioni nell'adeguare la propria
disciplina ai principi contenuti nel testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia edilizia e la mancata
attivita' di controllo sugli abusi edilizi.
Per quanto concerne il primo aspetto, la sopra richiamata
legislazione regionale comprova la violazione, da parte dello Stato,
non solo degli ambiti formanti oggetto di potesta' legislativa
regionale concorrente, ma anche del principio di leale cooperazione.
Infatti, ove ci fosse stato un perfetto ossequio al canone
costituzionale teste' citato, coinvolgendo a tempo debito la Regione
Lazio, si sarebbe tosto rilevata l'assoluta incompatibilita' di una
legislazione condonistica con quanto l'odierna ricorrente si era
andata prefiggendo con gli obiettivi di cui alla piu' volte citata
legge regionale n. 38/1999 cosi' come modificata dalla legge
regionale n. 8 del 17 marzo 2003 (B.U.R. Lazio del 29 marzo 2003), ma
anche di cui la legge regionale n. 40 del 22 dicembre 1999, recante
norme sulla «Programmazione integrata per la valorizzazione
ambientale culturale e turistica del territorio», nonche' di cui alle
leggi del 6 luglio 1998 n. 24 e successive modificazioni sulla
pianificazione paesistica e tutela dei beni e delle aree sottoposte a
vincolo paesistico (B.U.R. Lazio n. 21 del 30 luglio 1998) e del 26
giugno 1997 n. 22, recante «Norme in materia di programmi integrati
di intervento per la riqualificazione urbanistica, edilizia ed
ambientale del territorio della regione».
Con riguardo al discorso della vigilanza attiva sul territorio,
le diverse attivita' di ripristino della legalita', posta in essere
dai vari enti territoriali competenti, di cui gli organi di stampa
nazionali hanno dato vasta eco, resa possibile proprio da precise
norme impartite dall'ente regione, dimostrano che, anche sotto il
profilo della ragionevolezza, non vi poteva essere diritto di
cittadinanza per una ennesima apertura nei confronti dei cittadini
che avevano violato le normative urbanistiche. Peraltro, cosi'
procedendo, si e' caduti in una insanabile contraddizione affermando,
in via generale, il principio di legalita' e di conformita'
urbanistica di tutte le trasformazioni urbanistico-edilizie, che e'
sotteso alla sanatoria ordinaria e a tutta la disciplina
urbanistico-edilizia, e al tempo stesso continuamente derogarlo negli
anni, introducendo la perenne reiterazione di sanatorie
straordinarie.
4. - Violazione degli articoli 9, secondo comma 32, primo comma,
e 117, terzo comma, Costituzione.
4.1. - La disciplina contenuta nell'art. 32 della legge de qua
presenta ulteriori profili di illegittimita' costituzionale in
relazione ai precitati parametri costituzionali.
In effetti, l'art. 9 Cost., posto tra i principi fondamentali,
testualmente recita: «la Repubblica promuove lo sviluppo della
cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio ed il
patrimonio storico ed artistico».
Come affermato da autorevole dottrina, la norma in esame «ha
vissuto una straordinaria evoluzione interpretativa; invero,
considerata come superflua da alcuni deputati dell'Assemblea
Costituente, ha assunto, invece, sempre piu' importanza e spessore».
Con questa norma il Costituente ha sancito l'impegno dello Stato
alla tutela attiva del paesaggio e del patrimonio artistico e
storico, richiamando l'idea stessa di ambiente naturale.
L'altra norma di rango costituzionale rilevante per il tema che
occupa il presente ricorso e' l'art. 32, primo comma della
Costituzione, il quale riconosce la salute come diritto fondamentale
del singolo, nonche' interesse della collettivita'.
E' di palmare evidenza che il perseguimento di una tutela
sistematica della salute dei cittadini (sia in termini preventivi che
di interventi a posteriori), passa inevitabilmente attraverso il
riconoscimento e la tutela di un diritto ad un ambiente salubre.
L'ambiente, alla cui tutela mediatamente tenderebbe la precitata
norma costituzionale nell'assicurare la salute dei cittadini, si
identifica con i luoghi fisici in cui si svolge l'esistenza umana
(suolo, aria, suoni, colori ecc.).
Infatti, gli elementi costitutivi del bene giuridico ambiente
hanno trovato pieno riconoscimento e disciplina nelle leggi e nei
regolamenti settoriali a tutela del diritto ambientale.
Orbene, proprio dallo stretto collegamento tra diritto alla
salute e tutela ambientale, codesta on.le Corte ha contribuito
fortemente a rivoluzionare la materia con le ormai note pronunce
210/1987, 617/1987 e 641/1987, con la nascita e l'affermazione di un
vero e proprio diritto ambientale.
Infatti, con la sentenza 210/1987, la Consulta ha voluto superare
l'idea di una tutela riflessa o indiretta che dir si voglia
dell'ambiente, sottolineando «lo sforzo in atto di dare
riconoscimento specifico alla salvaguardia dell'ambiente come diritto
fondamentale della persona ed interesse fondamentale della
collettivita».
Nella stessa sentenza, codesta on.le Corte ha delineato anche i
tratti del bene ambiente che comprende «la conservazione, la
razionale gestione ed il miglioramento delle condizioni naturali
(aria, acque, suolo e territorio in tutte le sue componenti),
l'esistenza e la preservazione dei patrimoni genetici terrestri e
marini», con la conseguenza che e' necessario procedere alla
«repressione del danno ambientale, vale a dire del pregiudizio
arrecato da qualsiasi attivita' volontaria o colposa, alla persona,
agli animali, alle piante e alle risorse naturali (acqua, aria,
suolo, mare)».
Con la sentenza n. 641/1987, codesta on.le Corte ha
definitivamente riconosciuto all'ambiente la natura di bene
giuridico, con la conseguenza che esso deve essere necessariamente
protetto in quanto elemento determinativo della qualita' della vita.
Tale impostazione e' stata, peraltro, estesa dalla giurisprudenza
amministrativa, e, segnatamente, dalla sentenza del Consiglio di
Stato, sez. IV, 9 ottobre 2002, n. 5365, nella quale e' stata accolta
un'interpretazione estensiva del concetto di «bene ambientale», non
piu' inteso in senso restrittivo e coincidente con la tutela degli
aspetti fisico-naturalistici del territorio, ma «espanso» fino a
comprendere gli aspetti architettonici e del paesaggio urbano, quali
monumenti, vie ed elementi architettonici tipici dell'ambiente
cittadino in cui si vive, capaci di caratterizzare l'abito
territoriale locale.
Con questa formula, quindi, il giudice amministrativo e' giunto a
proteggere non solo il «bene ambientale» propriamente detto, ma anche
l'identita' cittadina e culturale in cui si esplica la vita
quotidiana.
In parte qua all'odierna ricorrente pare opportuno stigmatizzare
che i principi di cui sopra non sono rimasti mere enunciazioni
teoriche, essendosi, invece, fatta carico del problema a tal punto
che, con la legge regionale n. 24 del 6 luglio 1998 e s.m. ha
approvato i piani territoriali paesistici, previsti dalla legge
n. 431/1990. Con la detta normativa e' stata prevista una tutela piu'
efficace e rigorosa per il paesaggio del Lazio, la cui gran parte e'
preservata da tentativi di speculazione e da ulteriori aggressioni.
Orbene, alla luce della legge de qua, la normativa regionale
teste' richiamata dovra' essere ritenuta di rango cedevole? Se cosi'
fosse, la censurata illegittimita' costituzionale del detto articolo
dovra' essere ritenuta manifesta, in quanto, si ripete, il
legislatore statale, cosi' procedendo, ha svilito del tutto il
concetto della leale e mutua cooperazione. Ne' varrebbe richiamare il
comma 43 dell'art. 32, in quanto con il medesimo la partecipazione
regionale e' stata relegata in un ambito angusto, in quanto a
quest'ultima viene garantito, al piu', un «mero diritto di veto»,
senza alcuna concreta possibilita' di incidere fortemente nella
individuazione della tutela paesaggistica.
Da cio' discende in maniera difficilmente controvertibile che la
normativa concernente la sanatoria degli abusi edilizi prevista dal
nuovo condono edilizio, nelle applicazioni pratiche ivi previste,
viola illegittimamente le norme costituzionali precitate,
danneggiando pesantemente ed irreversibilmente il bene ambiente, come
esattamente individuato dalla giurisprudenza di codesta on.le Corte,
sopra richiamata, e non tutelando in modo adeguato il diritto alla
salute costituzionalmente riconosciuto.
4.2. - Per quanto concerne, invece, il novellato art. 117, terzo
comma, che attribuisce alle regioni, nelle materie di legislazione
concorrente, la valorizzazione dei beni culturali e ambientali,
proprio in ragione della grande rilevanza dell'interesse
paesaggistico, si deve ritenere superata la tradizionale dialettica
Stato-regioni, costruita nei termini di tendenziale separazione, per
aderire a quel modello sopra tratteggiato dalla sentenza di codesta
on. Corte (sentenza n. 303/2003), nel quale i pubblici poteri
cooperano per la salvaguardia del rilevante valore paesaggistico.
A questo proposito autorevole dottrina afferma che «la tutela
paesaggistica - in cui non a caso la Carta costituzionale pretende si
faccia carico la Repubblica in tutte le sue articolazioni - e'
questione che riguarda tutti i soggetti dell'ordinamento, dovendo
l'interesse ambientale ritenersi afferente all'ordinamento nel suo
complesso ed ai suoi vari livelli, al fine ultimo di garantire la
migliore tutela possibile».
In effetti, codesta on.le Corte ha gia' ritenuto che il modello
prescelto dalla legge Galasso, per la realizzazione e la protezione
dell'interesse paesaggistico perseguito, e' caratterizzato dalla
concorrenza fra la competenza statale e quella regionale, secondo un
rapporto improntato nel suo svolgimento al principio di leale
cooperazione, unico a poter assicurare la migliore conservazione
dell'ambito protetto. (Sentenza n. 359/1985 e sent. n. 302/1988).
Al riguardo, sembra utile segnalare in proposito l'Accordo del 19
aprile 2001 tra il Ministro per i beni e le attivita' culturali e i
residenti delle Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano
sull'esercizio dei poteri in materia di paesaggio, nel quale si
afferma che: «ritenuto necessario attivare processi di collaborazione
costruttiva fra le pubbliche amministrazioni di ogni livello aventi
competenza istituzionale in materia di tutela e valorizzazione
paesistica».
Infatti, il sopra citato accordo deve dirsi perfettamente
conformato ai principi costituzionali sopra richiamati.
Per converso, la disciplina contenuta nella normativa concernente
il nuovo condono edilizio, e segnatamente, la separazione nella
gestione dei vincoli cosi' come stabilita dal comma 43 della legge de
qua, e' oggettivamente contrastante non solo con la precitata
elaborazione giurisprudenziale di codesta on.le Corte (vedi sentenza
n. 302/1988), ma anche con il principio di leale collaborazione tra i
poteri dello Stato come sopra tratteggiato. Conseguentemente, la
delineata illegittima invasione delle competenze regionali in materia
di governo del territorio, incide direttamente sulle scelte di tutela
paesaggistica, come stabilite dal novellato art. 117 Cost., III
comma, che la Regione Lazio non potra' piu' effettuare se non verra'
dichiarata l'illegittimita' costituzionale dell'art. 32 della legge
sul nuovo condono edilizio.


P. Q. M.
Chiede che l'onorevole Corte costituzionale voglia dichiarare, in
accoglimento del presente ricorso, l'illegittimita' costituzionale
dell'art. 32 della legge n. 326 del 24 novembre 2003, pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale n. 274 del 25 novembre 2003 - Suppl. ord.
n. 181, con cui e' stato convertito il d.l. n. 269 del 30 settembre
2003, per violazione degli articoli 3, 9, 32, 41, 42, 97, 114,
117,118 e 119, riguardati sotto il profilo della ragionevolezza,
della sussidiarieta', della leale cooperazione tra Stato e regioni e
per lesione della sfera di potesta' legislativa concorrente della
regione, per la violazione del diritto di uguaglianza, per la lesione
del diritto alla salute, per la lesione della tutela paesaggistica,
per violazione del diritto di proprieta' e della libera iniziativa
economica, e per la lesione dell'autonomia finanziaria delle regioni.
Roma, addi' 19 gennaio 2004
Avv. Pietro Pesacane

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