Ricorso n. 69 del 18 ottobre 2008 (Regione Emilia-Romagna)
RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 18 ottobre 2008 , n. 69
Ricorso per questione di legittimita' costituzionale depositato in cancelleria il 22 ottobre 2008 (della Regione Emilia-Romagna)
(GU n. 49 del 26-11-2008)
Ricorso della Regione Emilia-Romagna, in persona del Presidente della Giunta regionale pro-tempore, autorizzato con deliberazione della Giunta regionale 13 ottobre 2008, n. 1645, rappresentata e difesa, come da procura speciale n. rep. 51639 del 14 ottobre 2008, rogata dal notaio Federico Stame di Bologna, dall'avv. prof. Giandomenico Falcon di Padova e dall'avv. Luigi Manzi di Roma, con domicilio eletto in Roma presso lo studio dell'avv. Luigi Manzi, in via Confalonieri n. 5; Contro il Presidente del Consiglio dei ministri per la dichiarazione di illegittimita' costituzionale degli articoli: 2, comma 14; 4, comma 1; 6-quater, comma 2; 6-quinquies, commi 2 e 3; 7, comma 2; 8, comma 3; 9, comma 3; 10; 11, commi 1, 3, 4, 5, 8, 9, 11 e 12; 13, commi 1, 2, 3-bis e 3-quater; 23, comma 2; 23-bis, commi 7 e 10; 30, commi 1, 2 e 3; 35, comma 1; 38, comma 3; 43, comma 1; 58, commi 1 e 2; 61, commi 8, 9, 14, 16, 20 e 21; 64, commi 2 e 4 e 6-bis, introdotto da d.l. 7 ottobre 2008, n. 154, commi 29, 30, 32, 33, 34, 35, 36, 38 e 38-bis, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitivita', la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 195 del 21 agosto 2008; per violazione dell'art. 3, dell'art. 5, dell'art. 114, dell'art. 117, terzo, quarto e sesto comma, dell'art. 118, primo, secondo comma e quarto comma, dell'art. 119, comma 1, e dell'art. 136 della Costituzione, del principio di leale collaborazione e del principio di certezza del diritto, nei modi e per i profili di seguito illustrati. Fatto e diritto 1) Illegittimita' costituzionale dell'art. 2, comma 14. L'art. 2 (Banda larga) del d.l. n. 112/2008 contiene una serie di disposizioni volte nel loro complesso a favorire la diffusione della c.d. «banda larga», attraverso l'installazione di reti ed impianti in fibra ottica. La Regione Emilia-Romagna non contesta ovviamente ne' la finalita' generale di garantire la diffusione delle comunicazione elettroniche in banda larga, ne' la piu' parte delle singole disposizioni contenute nell'articolo in questione. Contesta invece specificamente, sotto molteplici profili, il comma 14 dell'art. 2, ai sensi del quale «i soggetti pubblici non possono opporsi alla installazione nella loro proprieta' di reti e impianti interrati di comunicazione elettronica in fibra ottica, ad eccezione del caso che si tratti di beni facenti parte del patrimonio indisponibile dello Stato, delle province e dei comuni e che tale attivita' possa arrecare concreta turbativa al pubblico servizio». Dalla lettura della disposizione emerge innanzitutto con evidenza come la clausola di salvaguardia prevista a favore del patrimonio indisponibile «dello Stato, delle province e dei comuni» non menzioni affatto le regioni. E' probabile che si sia trattato di una mera svista del legislatore: in ogni caso, tale mancanza rappresenta un'evidente violazione della disponibilita' patrimoniale che l'art. 119, ultimo comma, Cost., garantisce alle regioni. E' pur vero che lo stesso art. 119 citato prevede che l'attribuzione del patrimonio agli enti autonomi sia regolata da legge dello Stato: ma e' altresi' chiaro che questa non puo' essere abilitata a prevedere compressioni di tale patrimonio che - anziche' tenere conto della ovvia necessita' di bilanciamento di interessi contrapposti - determinino in via generale ed astratta la subordinazione, sempre e comunque, degli interessi regionali a quelli dell'installazione delle fibre ottiche: senza che si proceda ad accertare se, in concreto, il sacrificio di tali interessi sia proporzionato alla finalita' perseguita ovvero se (con riferimento alle singole installazioni) non siano praticabili diverse soluzioni che consentano di ugualmente garantire la finalita' di sviluppo delle comunicazioni elettroniche, senza per questo sacrificare ingiustificatamente gli interessi regionali. Sotto i medesimi profili, la disposizione appare altresi' lesiva dell'autonomia amministrativa garantita alle regioni dall'art. 118 Cost. Al contempo, per l'irragionevole trattamento deteriore riservato alle regioni rispetto a quelle delle altre autonomie territoriali (i cui patrimoni indisponibili risultano invece garantiti), la disposizione risulta altresi' illegittima per violazione dell'art. 3 cost. La regione e' abilitata a sollevare tale questione essendo la parte che direttamente subisce la discriminazione. Di qui, ad avviso della regione, un primo profilo di illegittimita' del comma impugnato, in quanto non include il patrimonio indisponibile della regione tra quello tutelato dalla norma. In secondo luogo, si osserva come gli stessi profili sopra indicati di violazione delle prerogative regionali garantite dagli artt. 118 e 119 Cost. risultino sussistenti anche in relazione ad interventi infrastrutturali su aree del patrimonio disponibile. Anche con riferimento a quest'ultima ipotesi, infatti, non pare accettabile la astratta precostituzione per legge di una generica ed apodittica affermazione di prevalenza - sempre e comunque - dell'interesse dello sviluppo della banda larga rispetto alle legittime pretese delle Regioni titolari di beni interessati da tale sviluppo: anche in questo caso, senza che possano avere rilievo la reale necessita' dell'utilizzo dei beni patrimoniali regionali e la concreta dimostrazione dell'assenza di alternative praticabili, ugualmente in grado di soddisfare l'interesse primario tutelato dalla disposizione. Infine, si osserva come la disposizione in oggetto si appalesi altresi' illegittima per violazione dell'autonomia patrimoniale e finanziaria della regione, garantito dall'art. 119 cost. (oltre che del principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost.), la' dove non prevede alcun compenso o canone per l'utilizzo di suolo pubblico. Per la medesima ragione, la disposizione viola anche il principio di uguaglianza, dal momento che irragionevolmente assoggetta gli enti pubblici ad un trattamento deteriore di quello dei soggetti privati, a favore dei quali e' assicurato comunque almeno un'indennita', nel caso in cui le installazioni siano tali da «impedire il libero uso della cosa secondo la sua destinazione» (come si ricava a contrario dall'art. 91, commi 3 e 5, d.lgs. n. 259/2003, espressamente richiamato dal comma 14 qui impugnato). 2) Illegittimita' costituzionale dell'art. 4, comma 1. L'art. 4 (Strumenti innovativi di investimento) del d.l. n. 112/2008 stabilisce che, «per lo sviluppo di programmi di investimento destinati alla realizzazione di iniziative produttive con elevato contenuto di innovazione, anche consentendo il coinvolgimento degli apporti dei soggetti pubblici e privati operanti nel territorio di riferimento, e alla valorizzazione delle risorse finanziarie destinate allo scopo, anche derivanti da cofinanziamenti europei ed internazionali, possono essere costituiti appositi fondi di investimento con la partecipazione di investitori pubblici e privati, articolati in un sistema integrato tra fondi di livello nazionale e rete di fondi locali». La disposizione aggiunge che «con decreto del Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, sono disciplinate le modalita' di costituzione e funzionamento dei fondi, di apporto agli stessi e le ulteriori disposizioni di attuazione». L'art. 4, comma. 1, incide indubbiamente su materie di competenza regionale, piena (come l'industria, dato che si fa riferimento alle «iniziative produttive») o concorrente (il sostegno all'innovazione per i settori produttivi). Inoltre, la disposizione non riguarda solo iniziative che attengono allo sviluppo dell'intero paese ma anche interventi sintonizzati sulle realta' produttive regionali, tanto che vi si parla espressamente di «fondi locali». In questo contesto, pare chiara la necessita' di un coinvolgimento regionale nel decreto di cui al secondo periodo del comma I (v., ad es., la sent. 63/2008); si chiede, dunque, la dichiarazione di illegittimita' costituzionale, per violazione del principio di leale collaborazione, dell'art. 4, comma 1, nella parte in cui non prevede un'intesa sul decreto di cui al secondo periodo. 3) Illegittimita' costituzionale dell'art. 6-quater, comma 2. All'interno del Titolo II, Sviluppo economico, semplificazione e competitivita', e' collocato il capo II, Impresa. L'art. 6-quater, Concentrazione strategica degli interventi del Fondo per le aree sotto utilizzate, dispone che, «al fine di rafforzare la concentrazione su interventi di rilevanza strategica nazionale delle risorse del Fondo per le aree sottoutilizzate di cui all'articolo 61 della legge 27 dicembre 2002, n. 289,. su indicazione dei Ministri competenti sono revocate le relative assegnazioni operate dal Comitato interministeriale per la programmazione economica (CIPE) per il periodo 2000-2006 in favore di amministrazioni centrali con le delibere adottate fino al 31 dicembre 2006, nel limite dell'ammontare delle risorse che entro la data del 31 maggio 2008 non sono state impegnate o programmate nell'ambito di accordi di programma quadro sottoscritti entro la medesima data, con esclusione delle assegnazioni per progetti di ricerca, anche sanitaria»; il comma 1 aggiunge che «in ogni caso e' fatta salva la ripartizione dell'85% delle risorse alle regioni del Mezzogiorno e del restante 15% alle regioni del Centro-Nord». Il comma 2 statuisce che «le disposizioni di cui al comma 1, per le analoghe risorse ad esse assegnate, costituiscono norme di principio per le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano», e che «il CIPE, su proposta del Ministro dello sviluppo economico, definisce, di concerto con i Ministri interessati, i criteri e le modalita' per la ripartizione delle risorse disponibili previa intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano». Oggetto di impugnazione e' il primo periodo del comma 2, il cui significato, peraltro, non e' del tutto chiaro. L'oscura formulazione della disposizione trova origine, forse, nel fatto che il legislatore non voleva disporre direttamente la revoca di risorse assegnate alle regioni, per non violare la loro autonomia finanziaria, ma voleva garantirsi in qualche modo il raggiungimento dell'obiettivo. Di qui l'«autoqualificazione» come norme di principio delle disposizioni di cui al comma 1: cio' significherebbe che le regioni dovrebbero in qualche modo «autorevocarsi» l'assegnazione, cioe' restituire le risorse al CIPE (nel limite dell'ammontare delle risorse che entro la data del 31 maggio 2008 non sono state impegnate o programmate), che poi dovrebbe provvedere al riparto delle risorse resesi disponibili ai sensi del secondo periodo del comma 2. Gia' in base a tale interpretazione il primo periodo del comma 2 risulta, ad avviso della ricorrente Regione, illegittimo e lesivo, perche' - dietro l'autoqualificazione di principio fondamentale - si cela in realta' una norma dettagliata: dato che - se le Regioni sono vincolate ad operare la revoca-restituzione - esse non hanno alcun margine di scelta ne' quanto alla «voce» da tagliare ne' quanto alle modalita' con cui operare il taglio. Il comma 2, dunque, e' in realta' una norma dettagliata (in base ai criteri applicati da codesta Corte in relazione alle leggi statali che pongono limiti alla spesa regionale) che solo richiede di essere «applicata» dalle Regioni. Di recente codesta Corte ha giudicato su una fattispecie analoga, ed ha annullato una disposizione che imponeva alle regioni l'obbligo di adeguare «ai principi di cui ai commi da 725 a 735 la disciplina dei compensi degli amministratori delle societa' da esse partecipate, e del numero massimo dei componenti del consiglio di amministrazione di dette societa'», precisando che «l'obbligo di cui al periodo che precede costituisce principio di coordinamento della finanza pubblica». Poiche' le disposizioni richiamate erano «particolareggiate» e non lasciavano spazio ad un adeguamento da parte della regione, la Corte ha annullato la norma, giudicando «palese che il legislatore statale, vincolando regioni e province autonome all'adozione di misure analitiche e di dettaglio, ne ha compresso illegittimamente l'autonomia finanziaria, esorbitando dal compito di formulare i soli principi fondamentali della materia» (cosi' la sentenza n. 159/2008). Di qui l'illegittimita' del comma 2, primo periodo, in quanto esorbita dai limiti di un principio di coordinamento della finanza pubblica e lede l'autonomia finanziaria regionale (art. 119 Cost.), vincolando l'uso delle risorse in materie di competenza regionale (quelle attinenti allo sviluppo economico: industria, commercio, artigianato, agricoltura ecc., tutte spettanti alla regione ex art. 117, quarto comma, Cost.). 4) Illegittimita' costituzionale dell'art. 6-quinquies, commi 2 e 3. L'art. 6-quinquies, Fondo per il finanziamento di interventi finalizzati al potenziamento della rete infrastrutturale di livello nazionale, istituisce - al comma 1 - «nello stato di previsione del Ministero dello sviluppo economico, a decorrere dall'anno 2009, un fondo per il finanziamento, in via prioritaria, di interventi finalizzati al potenziamento della rete infrastrutturale di livello nazionale, ivi comprese le reti di telecomunicazione e quelle energetiche, di cui e' riconosciuta la valenza strategica ai fini della competitivita' e della coesione del Paese». Il comma 2 dispone che, «con delibera del CIPE, su proposta del Ministero dello sviluppo economico d'intesa con il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, si provvede alla ripartizione del fondo di cui al comma 1, sentita la Conferenza unificata., fermo restando il vincolo di concentrare nelle regioni del Mezzogiorno almeno 1'85% degli stanziamenti nazionali per l'attuazione del Quadro strategico nazionale per il periodo 2007-2013». Il fondo istituito dal comma 1, riguardando gli interventi «finalizzati al potenziamento della rete infrastrutturale di livello nazionale, ivi comprese le reti di telecomunicazione e quelle energetiche», incide su materie di competenza concorrente (governo del territorio, porti e aeroporti, grandi reti di trasporto e di navigazione, produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia). La sent. n. 168/2008 di codesta Corte ha confermato che «l'art. 119 cost. vieta al legislatore statale di prevedere, in materie di competenza legislativa regionale residuale o concorrente, nuovi finanziamenti a destinazione vincolata, anche a favore di soggetti privati», precisando che «il titolo di competenza statale che permette l'istituzione di un fondo con vincolo di destinazione non deve necessariamente identificarsi con una delle materie espressamente elencate nel secondo comma dell'art. 117 Cost., ma puo' consistere anche nel fatto che detto fondo incida su materie oggetto di "chiamata in sussidiarieta'" da parte dello Stato, ai sensi dell'art. 118, primo comma, Cost.». Nel caso di specie, la previsione del fondo puo' giustificarsi ex art. 118, primo comma, cost. ma in questo caso il comma 2 risulta illegittimo (per violazione del principio di leale collaborazione) la' dove richiede in relazione alla delibera del Cipe il semplice parere della Conferenza unificata invece dell'intesa. La necessita' dell'intesa per i casi di «chiamata in sussidiarieta'» e' stata sancita sin dalla sent. n. 303/2003 ed e' stata ribadita, proprio per la materia dell'energia, dalla sent. n. 383/2005 («tali intese costituiscono condizione minima e imprescindibile per la legittimita' costituzionale della disciplina legislativa statale che effettui la "chiamata in sussidiarieta'" di una funzione amministrativa in materie affidate alla legislazione regionale, con la conseguenza che deve trattarsi di vere e proprie intese "in senso forte", ossia di atti a struttura necessariamente bilaterale, come tali non superabili con decisione unilaterale di una delle parti»). Il comma 3 dell'art. 6-quinquies dichiara che «costituisce un principio fondamentale... la concentrazione, da parte delle regioni, su infrastrutture di interesse strategico regionale delle risorse del Quadro strategico nazionale per il periodo 2007-2013 in sede di predisposizione dei programmi finanziati dal Fondo per le aree sottoutilizzate.... e di ridefinizione dei programmi finanziati dai Fondi strutturali comunitari». Tale norma si autoqualifica come principio fondamentale ma, in realta', esorbita dai limiti del potere statale di coordinamento della finanza pubblica (art. 117, terzo comma, Cost.), incidendo sulle concrete scelte di investimento effettuate dalle regioni. Essa pone un vincolo di destinazione all'uso delle risorse spettanti alle regioni, limitando l'autonomia finanziaria di spesa garantita alle regioni dall'art. 119, primo comma, cost. Si puo' ricordare che la sentenza n. 169/2007 ha annullato una norma che imponeva «una puntuale modalita' di utilizzo di risorse proprie delle regioni, cosi' da risolversi in una specifica prescrizione di destinazione di dette risorse». 5) Illegittimita' costituzionale dell'art. 7, comma 2. L'art. 7, Strategia energetica nazionale, dispone che «il Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dello sviluppo economico, definisce la "Strategia energetica nazionale", che indica le priorita' per il breve ed il lungo periodo e reca la determinazione delle misure necessarie per conseguire, anche attraverso meccanismi di mercato», gli obiettivi di seguito indicati. Il comma 2 prevede che, «ai fini della elaborazione della proposta di cui al comma 1, il Ministro dello sviluppo economico convoca, d'intesa con il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, una Conferenza nazionale dell'energia e dell'ambiente». La composizione della Conferenza non e' indicata e, dunque, non e' dato riscontrare alcun esplicito coinvolgimento delle regioni. Il comma 2 risulta illegittimo, per violazione del principio di leale collaborazione, perche' attribuisce una competenza ad un organo statale in materia di competenza concorrente (energia) senza prevedere l'intesa della Conferenza Stato-regioni sulla proposta in questione. L'accentramento operato dal comma 2 si puo' giustificare in virtu' del principio di sussidiarieta', ma - come esposto nel punto precedente - in questi casi e' necessario prevedere l'intesa con le regioni. 6) Illegittimita' costituzionale dell'art. 8, comma 3. L'art. 8, Legge obiettivo per lo sfruttamento di giacimenti di idrocarburi, stabilisce - al comma 2 - che «i titolari di concessioni di coltivazione di idrocarburi nel cui ambito ricadono giacimenti di idrocarburi definiti marginali..., attualmente non produttivi e per i quali non sia stata presentata domanda per il riconoscimento della marginalita' economica, comunicano al Ministero dello sviluppo economico entro il termine di tre mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto l'elenco degli stessi giacimenti, mettendo a disposizione dello stesso Ministero i dati tecnici ad essi relativi». Il comma 3 dispone che «il Ministero dello sviluppo economico, entro i sei mesi successivi al termine di cui al comma 2, pubblica l'elenco dei giacimenti di cui al medesimo comma 2, ai fini della attribuzione mediante procedure competitive ad altro titolare, anche ai fini della produzione di energia elettrica, in base a modalita' stabilite con decreto dello stesso Ministero da emanare entro il medesimo termine». Il comma 3 interviene in materie di competenza concorrente (energia e governo del territorio: art. 117, terzo comma, Cost.) ed e' illegittimo (per violazione del principio di leale collaborazione) nella parte in cui non prevede l'intesa della Conferenza Stato-regioni sul decreto regolativo di cui all'ultimo periodo del comma e quella della regione interessata per l'atto di attribuzione del giacimento ad altro titolare, in base alla nota giurisprudenza costituzionale sui presupposti della «chiamata in sussidiarieta'». Si puo' ricordare che la sent. n. 1/2008 (in materia di concessioni di grandi derivazioni idroelettriche) ha sancito la necessita' del coinvolgimento regionale «un atto che, da un lato, e' riconducibile alla indicata competenza statale in materia di tutela della concorrenza, dall'altro, interferisce su aspetti organizzativi, programmatori e gestori della materia, di competenza concorrente, della produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia». 7) illegittimita' costituzionale dell'art. 9, comma 3. L'art. 9, Sterilizzazione dell'IVA sugli aumenti petroliferi, stabilisce che, «per fronteggiare la grave crisi dei settori dell'agricoltura, della pesca professionale e dell'autotrasporto conseguente all'aumento dei prezzi dei prodotti petroliferi, a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente provvedimento e fino al 31 dicembre 2008, l'Agenzia nazionale per l'attrazione degli investimenti e lo sviluppo d'impresa S.p.A. provvede con proprie risorse, nell'ambito dei compiti istituzionali, alle opportune misure di sostegno volte a consentire il mantenimento dei livelli di competitivita', previa apposita convenzione tra il Ministero dello sviluppo economico e l'Agenzia». Nel comma 3 si dispone che «con decreto del Ministro dello sviluppo economico di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, sentiti i Ministri delle infrastrutture e dei trasporti e delle politiche agricole alimentari e forestali e' approvata. la convenzione di cui al comma 2, che definisce altresi' le modalita' e le risorse per l'attuazione delle misure di cui al presente articolo». Tale disciplina incide su materie di competenza regionale piena (pesca, agricoltura e trasporti: art. 117, quarto comma, Cost.). Il comma 3, dunque, risulta anch'esso illegittimo (per violazione del principio di leale collaborazione) la' dove non prevede il coinvolgimento della Conferenza Stato-regioni sul decreto che approva la convenzione, per le stesse ragioni ricordate in relazione agli articoli 7, comma 2 ed 8, comma 3. 8) Illegittimita' costituzionale dell'art. 10. L'art. 10, Promozione degli interventi infrastrutturali strategici e nei settori dell'energia e delle telecomunicazioni, aggiunge una lettera al comma 355 dell'art. 1 della legge 30 dicembre 2004, n. 311, che prevede le modalita' di riparto del Fondo rotativo per il sostegno alle imprese e gli investimenti in ricerca»: il comma 10 qui impugnato aggiunge una nuova priorita' per l'individuazione degli interventi ammessi al finanziamento, ossia la considerazione di progetti d'investimento su infrastrutture nel settore energetico e delle reti di telecomunicazione, «sulla base di programmi predisposti dal Ministero dello sviluppo economico». Pur incidendo la norma su materie concorrenti (energia, governo del territorio e ordinamento della comunicazione: art. 117, terzo comma, Cost.), non e' prevista l'intesa con la Conferenza Stato-regioni sui programmi in questione, in violazione del principio di leale collaborazione. Si puo' ricordare che la sentenza n. 242/2005 ha fatto salvo un Fondo rotativo ma ha stabilito che il comma 110 dell'art. 4 della legge n. 350 del 2003 sia integrato dalla previsione che i poteri del CIPE in materia di determinazione delle condizioni e delle modalita' di attuazione degli interventi di gestione del Fondo rotativo nazionale per gli interventi nel capitale di rischio possano essere esercitati solo di intesa con la Conferenza Stato-regioni. Si richiamano altresi' le ragioni illustrate sopra in relazione agli articoli 7, comma 2, 8, comma 3 e 9, comma 3. 9) Illegittimita' costituzionale dell'art. 11, commi 1, 3, 4, 5, 8, 9, 11 e 12. L'art. 11, d.l. n. 112/2008 prevede che, «al fine di garantire su tutto il territorio nazionale i livelli minimi essenziali di fabbisogno abitativo per il pieno sviluppo della persona umana, e' approvato con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, previa delibera del Comitato interministeriale per la programmazione economica (CIPE) e d'intesa con la Conferenza unificata..., su proposta del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, un piano nazionale di edilizia abitativa» (comma 1). Il piano «e' rivolto all'incremento del patrimonio immobiliare ad uso abitativo attraverso l'offerta di abitazioni di edilizia residenziale, da realizzare nel rispetto dei criteri di efficienza energetica e di riduzione delle emissioni inquinanti, con il coinvolgimento di capitali pubblici e privati, destinate prioritariamente a prima casa» per determinate categorie di soggetti svantaggiati, indicati nel comma 2. In base al comma 3, «il piano nazionale di edilizia abitativa ha ad oggetto la costruzione di nuove abitazioni e la realizzazione di misure di recupero del patrimonio abitativo esistente ed e' articolato, sulla base di criteri oggettivi che tengano conto dell'effettivo bisogno abitativo presente nelle diverse realta' territoriali», attraverso gli interventi di seguito indicati, che comprendono la costituzione di fondi immobiliari (lettera a), «l'incremento del patrimonio abitativo di edilizia con le risorse anche derivanti dalla alienazione di alloggi di edilizia pubblica in favore degli occupanti muniti di titolo legittimo» (lettera b), la «promozione da parte di privati di interventi anche ai sensi della parte II, titolo III, capo III, del codice dei contratti pubblici» (lettera c); il capo III in questione riguarda il promotore finanziario, la societa' di progettazione e la disciplina della locazione finanziaria per i lavori pubblici), le «agevolazioni, anche amministrative, in favore di cooperative edilizie costituite tra i soggetti destinatari degli interventi», la «realizzazione di programmi integrati di promozione di edilizia residenziale anche sociale» (lettera e). Il comma 4 prevede che «il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti promuove la stipulazione di appositi accordi di programma, approvati con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, previa delibera del CIPE, d'intesa con la Conferenza unificata,... al fine di concentrare gli interventi sulla effettiva richiesta abitativa nei singoli contesti, rapportati alla dimensione fisica e demografica del territorio di riferimento, attraverso la realizzazione di programmi integrati di promozione di edilizia residenziale e di riqualificazione urbana». Sempre il comma 4 specifica che decorsi novanta giorni senza che sia stata raggiunta la predetta intesa, «gli accordi di programma possono essere comunque approvati». Il comma 5 dispone che «gli interventi di cui al comma 4 sono attuati anche attraverso le disposizioni di cui alla parte II, titolo III, capo III, del citato codice» dei contratti pubblici... mediante: a) il trasferimento di diritti edificatori in favore dei promotori degli interventi di incremento del patrimonio abitativo; b) incrementi premiali di diritti edificatori finalizzati alla dotazione di servizi, spazi pubblici e miglioramento della qualita' urbana...; c) provvedimenti mirati alla riduzione del prelievo fiscale di pertinenza comunale o degli oneri di costruzione; d) la costituzione di fondi immobiliari di cui al comma 3, lettera a), con la possibilita' di prevedere altresi' il conferimento al fondo dei canoni di locazione, al netto delle spese di gestione degli immobili; e) la cessione, in tutto o in parte, dei diritti edificatori come corrispettivo per la realizzazione anche di unita' abitative di proprieta' pubblica da destinare alla locazione a canone agevolato, ovvero da destinare alla alienazione in favore delle categorie sociali svantaggiate di cui al comma 2». Dal comma 8 risulta che, «in sede di attuazione dei programmi di cui al comma 4, sono appositamente disciplinati le modalita' e i termini per la verifica periodica delle fasi di realizzazione del piano, in base al cronoprogramma approvato e alle esigenze finanziarie, potendosi conseguentemente disporre, in caso di scostamenti, la diversa allocazione delle risorse finanziarie pubbliche verso modalita' di attuazione piu' efficienti». Inoltre, si aggiunge che le abitazioni realizzate o alienate nell'ambito delle procedure di cui al presente articolo possono essere oggetto di successiva alienazione decorsi dieci anni dall'acquisto originario. Il comma 9 precisa che «l'attuazione del piano nazionale puo' essere realizzata, in alternativa alle previsioni di cui al comma 4, con le modalita' approvative di cui alla parte II, titolo III, capo IV, del citato codice» dei contratti pubblici, concernente i lavori relativi a infrastrutture strategiche e a insediamenti produttivi. Il comma 11 dispone che, «per la migliore realizzazione dei programmi, i comuni e le province possono associarsi» ai sensi del d. lgs. n. 267/2000; che «i programmi integrati di cui al comma 4 sono dichiarati di interesse strategico nazionale» e che «alla loro attuazione si provvede con l'applicazione» dell'art. 81, d.P.R. n. 616/1977. Infine, il comma 12 stabilisce che «per l'attuazione degli interventi previsti dal presente articolo e' istituito un Fondo nello stato di previsione del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, nel quale confluiscono le risorse finanziarie di cui all'art. 1, comma 1154, legge. n. 296/2006, nonche' di cui agli articoli 21, 21-bis, ad eccezione di quelle gia' iscritte nei bilanci degli enti destinatari e impegnate, e 41 del decreto-legge n. 159/2007, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 222/2007». Il comma 12 aggiunge che «gli eventuali provvedimenti adottati in attuazione delle disposizioni legislative citate al primo periodo del presente comma, incompatibili con il presente articolo, restano privi di effetti». La disciplina sopra riportata risulta a volte imprecisa o oscura, In particolare, non e' precisato quali sono i soggetti che concludono gli «accordi di programma» di cui al comma 4. Inoltre, non e' agevole comprendere in che modo si configuri un'attivita' regolativa «in sede di attuazione dei programmi» (comma 8), ne' in che modo all'attuazione dei programmi di cui al comma 4 si provveda con l'applicazione dell'art. 81, d.P.R. n. 616/1977, che contiene norme di diversa natura, alcune delle quali abrogate. Nel complesso, pero', e' chiaro che l'art. 11, d.l. n. 112/2008 regola dettagliatamente gli interventi attraverso cui si articola il Piano casa e le procedure attuative, istituendo un apposito Fondo presso il Ministero delle infrastrutture ed una gestione centralizzata degli interventi. La potesta' legislativa regionale in materia di edilizia residenziale pubblica e' stata riconosciuta sin dagli anni '70 (v. ad es., la sent. n. 140/1976 di codesta Corte), anche se e' con il d.P.R. n. 616/1977 che e' stato attuato un rilevante trasferimento alle regioni delle competenze in materia di edilizia residenziale pubblica (v. gli artt. 87, 88, 93 e 94). In particolare, l'art. 93 di tale decreto trasferisce alle regioni le funzioni concernenti «la programmazione regionale, la localizzazione, le attivita' di costruzione e la gestione di interventi di edilizia residenziale e abitativa pubblica, di edilizia convenzionata, di edilizia agevolata, di edilizia sociale nonche' le funzioni connesse alle relative procedure di finanziamento». A seguito del d.P.R. n. 616/1977, codesta Corte ha specificato, a proposito dell'edilizia residenziale pubblica, che «si verte in una materia attribuita in via generale alla competenza legislativa regionale» (sentenza n. 217 del 1988). Sempre con riferimento al quadro costituzionale anteriore alla riforma del Titolo V, la Corte ha statuito (sentenza n. 727 del 1988) che «al di fuori della formulazione dei "criteri generali" da osservare nelle assegnazioni, e' attribuita alle regioni la piu' ampia potesta' legislativa nella materia, e quindi la disciplina attinente alle assegnazioni e alle successive vicende dei relativi rapporti» (fra le quali, la trasformazione della locazione in proprieta': cio' rileva per l'art. 13, impugnato nel punto 2). La competenza legislativa regionale in materia di edilizia residenziale pubblica era pertanto «riconducibile all'art. 117, comma primo, Cost.» e gli Istituti autonomi delle case popolari dovevano essere «considerati come enti regionali» (sentenza n. 1115 del 1988). Gli artt. 59 ss. del d. lgs. n. 112/1998 hanno confermato l'ampiezza delle competenze regionali in materia di edilizia residenziale pubblica. L'art. 60 conferisce alle regioni, «in particolare», la «determinazione delle linee d'intervento e degli obiettivi nel settore», «la programmazione delle risorse finanziarie destinate al settore», la «gestione» e l'«attuazione degli interventi», nonche' la «definizione delle modalita' di incentivazione», la «determinazione delle tipologie di intervento anche attraverso programmi integrati, di recupero urbano e di riqualificazione urbana», la «fissazione dei criteri per l'assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale destinati all'assistenza abitativa», nonche' la «determinazione dei relativi canoni». La riforma del Titolo V ha introdotto due importanti elementi di novita': la «creazione» di una potesta' legislativa regionale piena e l'attribuzione allo Stato della competenza esclusiva di cui all'art. 117, comma 2, lettera m). A seguito di cio', la Corte - come noto - ha puntualizzato in questo modo l'attuale assetto delle competenze in materia di edilizia residenziale pubblica: «la materia dell'edilizia residenziale pubblica si estende su tre livelli normativi», il primo dei quali «riguarda la determinazione dell'offerta minima di alloggi destinati a soddisfare le esigenze dei ceti meno abbienti» («in tale determinazione - che, qualora esercitata, rientra nella competenza esclusiva dello Stato ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera m), cost. - si inserisce la fissazione di principi che valgano a garantire l'uniformita' dei criteri di assegnazione su tutto il territorio nazionale»); il secondo livello normativo «riguarda la programmazione degli insediamenti di edilizia residenziale pubblica, che ricade nella materia «governo del territorio», ai sensi del terzo comma dell'art. 117 Cost.»; il terzo livello normativo, «rientrante nel quarto comma dell'art. 117 Cost., riguarda la gestione del patrimonio immobiliare di edilizia residenziale pubblica di proprieta' degli Istituti autonomi per le case popolari o degli altri enti che a questi sono stati sostituiti ad opera della legislazione regionale» (cosi' la sent. 94/2007). Se ora si valutano le norme impugnate dell'art. 11 alla luce del riparto di competenze appena illustrato, emerge, ad avviso della ricorrente regione, che esse esorbitano dai limiti della competenza statale in materia di edilizia residenziale pubblica. Innanzi tutto, e' da precisare che non risulta pertinente il riferimento, contenuto al comma 1, ai «livelli minimi essenziali di fabbisogno abitativo»: l'art. 11 non determina «l'offerta minima di alloggi destinati a soddisfare le esigenze dei ceti meno abbienti» (per usare le espressioni della sent. n. 94/2007), non individua alcun «livello» di prestazione sociale, ma prevede solo un Piano per «incrementare» (comma 2) il patrimonio immobiliare ad uso abitativo. Fra l'altro, la destinazione degli immobili a prima casa per categorie svantaggiate e' «prioritaria» (comma 2) ma non esclusiva. Dunque, l'ambito principale di riferimento dell'art. 11 e' la programmazione degli interventi di edilizia residenziale pubblica, che ricade - come visto - nella competenza concorrente. Il riferimento ai «livelli minimi essenziali», lungi dal dare fondamento costituzionale all'art. 11, concorre ad inficiarlo perche' rivela l'intento del legislatore di «attrarre» la disciplina verso le materie di competenza esclusiva statale. Il comma 2 non e' oggetto di impugnazione in quanto fissa i criteri generali per individuare i beneficiari degli interventi e, quindi, rientra nel «primo livello normativo» di cui alla seni. n. 94/2007. I commi 3, 4, 5, 8 e 9 risultano lesivi perche' non si limitano a fissare obiettivi ed indirizzi per la programmazione regionale di edilizia residenziale pubblica o ad attribuire al Piano nazionale questo scopo (in questi limiti, esso avrebbe potuto essere giustificato ex art. 118, primo comma, Cost.) ma dettano una disciplina completa e dettagliata della tipologia di interventi (commi 3 e 5) e delle procedure di attuazione e verifica del piano (commi 4, 8 e 9), che sembrano svolgersi attraverso un «doppio livello» (accordi di programma e programmi integrati di promozione di edilizia residenziale). Si tenga presente che fin dall'art. 60, comma 1, lettera d) d. lgs. n. 112/1998 spetta alle regioni, come accennato, la «determinazione delle tipologie di intervento anche attraverso programmi integrati, di recupero urbano e di riqualificazione urbana». La disciplina dell'art. 11 pare destinata ad essere integrata da quanto sara' stabilito in sede di accordi di programma (ed «in sede di attuazione dei programmi», secondo l'oscura formula del comma 8) e non emergono spazi per una disciplina regionale di svolgimento dei principi statali. Dunque, i commi 3, 4, 5, 8 e 9 risultano illegittimi perche' non dettano i principi regolatori della programmazione regionale, lasciando spazio a leggi regionali regolatrici dei programmi regionali, ma prevedono una complessa procedura gestita dal centro, esaurendo gli spazi di normazione (salvo quanto saro' stabilito dagli accordi di programma). La giurisprudenza costituzionale ha piu' volte annullato norme legislative statali che non lasciavano un margine di scelta al legislatore regionale in materie concorrenti (v., ad es., la sent. n. 401/2007, punto 16, e la sent. n. 339/2007; d'altro canto, la sent. n. 387//2007 ha giustificato la legge statale impugnata perche' le "110MIC censurate sono molto ampie e richiedono... un'attivita' normativa di attuazione, precisazione e adattamento alle singole realta' territoriali, di competenza delle regioni»). Si noti che, nei termini sopra esposti, l'art. 11 risulta nettamente differente rispetto alle norme della legge n. 9/2007, fatte salve dalla sent. n. 166/2008. Infatti la legge n. 9/2007 prevede che le regioni predispongano piani straordinari (art. 3, comma 1), ed il programma nazionale di cui all'art. 4 contiene gli obiettivi e gli indirizzi per la programmazione regionale: dunque, l'art. 4, comma 2, sembra effettivamente una norma di principio in materia di programmazione dell'Erp (v. sent. n. 94/2007) ed il potere statale di predisporre il programma nazionale si puo' giustificare ex art. 118, primo comma, Cost.: non a caso, esso e' stato fatto salvo dalla Corte perche' «non interferisce nella predisposizione dei programmi regionali, ma si limita a fissare le linee generali indispensabili per l'armonizzazione dei programmi su scala nazionale» (cosi' la sent. n. 166/2008). Invece, l'art. 11 ha il contenuto dettagliato sopra illustrato e non prevede affatto programmi regionali. I commi 1 e 4 attribuiscono al Ministero delle infrastrutture, al Presidente del Consiglio ed al CIPE poteri non sorretti da esigenze unitarie, perche' non si traducono nella fissazione delle linee generali della programmazione regionale o in atti che richiedono una visione unitaria ma nell'adozione di criteri (comma 1) e, soprattutto, accordi (comma 4) gia' «calibrati» sulle diverse realta' territoriali (come risulta dal riferimento all'«effettivo bisogno abitativo presente nelle diverse realta' territoriali», all'«effettiva richiesta abitativa nei singoli contesti» e «alla dimensione fisica e demografica del territorio di riferimento»; quanto ai «programmi integrati», v. infra). Per tener conto delle particolari esigenze di determinati territori in termini costituzionalmente legittimi, lo Stato deve attivare «interventi speciali» ex art. 119, quinto comma, non accentrare la regolazione e la gestione di un piano nazionale di edilizia abitativa. Gli accordi di programma di cui al comma 4 sembrano gia' implicare la localizzazione degli insediamenti: il che risulta lesivo delle competenze regionali, considerato che gia' dal 1977 sono trasferite alle regioni «le funzioni amministrative statali concernenti la programmazione regionale, la localizzazione, le attivita' di costruzione e la gestione di interventi di edilizia residenziale e abitativa pubblica, di edilizia convenzionata, di edilizia agevolata, di edilizia sociale nonche' le funzioni connesse alle relative procedure di finanziamento» (art. 93, comma 1, d.P.R. n. 616/1977). Dunque, i commi 1 e 4 dell'art. 11 risultano illegittimi anche per violazione dell'art. 118, primo comma, cost. in quanto prevedono poteri amministrativi statali senza che sussistano esigenze unitarie idonee a giustificarli. E' inoltre da sottolineare che l'ultimo periodo del comma 4 precisa espressamente che gli accordi di programma possono essere approvati anche senza intesa con la Conferenza unificata; dunque, anche qualora - in denegata ipotesi - i poteri statali fossero considerati legittimi, sarebbe in ogni modo incostituzionale l'ultimo periodo del comma 4 per violazione del principio di leale collaborazione, dato che la forte incidenza degli accordi di programma su una materia di competenza regionale non puo' non richiedere un'intesa (appunto) «forte». Quanto al comma 11, esso dichiara i programmi integrati di cui al comma 4 «di interesse strategico nazionale» e cio' pare sottintendere che anche su di essi puo' esserci un potere codecisorio statale (il comma 4 non precisa da chi sono approvati questi programmi). In questi termini, il comma 11 viola l'art. 118, primo comma, cost. in quanto prevede un potere statale non sorretto da esigenze unitarie e gia' attribuito alle regioni dall'art. 93, d.P.R. n. 616/1977 e dall'art. 60, d. lgs. n. 112/1998 (v. soprattutto la lettera d). Infine, il comma 12 istituisce un fondo settoriale presso il Ministero delle infrastrutture, nel quale confluiscono risorse contemplate da altre leggi. Non e' precisato a chi saranno destinate le risorse. Ove dovesse intendersi che di tale fondo dispone direttamente il Ministero vi sarebbe violazione piena delle competenze legislative ed amministrative regionali, con violazione dell'art. 117, commi terzo e quarto, dell'art. 118, primo comma, oltre che dell'autonomia finanziaria regionale. Ma se anche si debba intendere - come la regione ritiene - che esse debbano «transitare» attraverso le regioni (dato che l'art. 93, d.P.R. n. 616/1977 attribuisce ad esse le «funzioni connesse alle relative procedure di finanziamento»), comunque, il comma 12 crea presso il Ministero un fondo settoriale a destinazione vincolata in materia di competenza regionale, invece di attribuire le corrispondenti risorse alle regioni (si ricordi che l'art. 60, lettera b), d. lgs. n. 112/1998 attribuisce alle regioni la «programmazione delle risorse finanziarie destinate al settore»). In tal modo, il comma 12 viola in ogni caso l'autonomia finanziaria regionale (art. 119 Cost.), come risulta ormai da consolidata giurisprudenza costituzionale; piu' volte codesta Corte ha colpito fondi istituiti proprio in materie «sociali», precisando che le risorse dovevano essere assegnate alle regioni per generiche finalita' sociali: v., ad es., le sentt. n. 168/2008 e n. 118/2006. 10) Illegittimita' dell'art. 13, commi 1, 2, 3-bis e 3-quater. L'art. 13 (Misure per valorizzare il patrimonio residenziale pubblico) del d.l. n. 112/2008 dispone al comma 1 che, «al fine di valorizzare gli immobili residenziali costituenti il patrimonio degli Istituti autonomi per le case popolari, comunque denominati, e di favorire il soddisfacimento dei fabbisogni abitativi, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti ed il Ministro per i rapporti con le regioni promuovono, in sede di Conferenza unificata,... la conclusione di accordi con regioni ed enti locali aventi ad oggetto la semplificazione delle procedure di alienazione degli immobili di proprieta' dei predetti Istituti». Il comma 2 fissa i criteri di cui «si tiene conto» «ai fini della conclusione degli accordi di cui al comma 1», nei seguenti termini: «a) determinazione del prezzo di vendita delle unita' immobiliari in proporzione al canone di locazione; b) riconoscimento del diritto di opzione all'acquisto, purche' i soggetti interessati non siano proprietari di un'altra abitazione, in favore dell'assegnatario non moroso nel pagamento del canone di locazione o degli oneri accessori unitamente al proprio coniuge, qualora risulti in regime di comunione dei beni, ovvero, in caso di rinunzia da parte dell'assegnatario, in favore del coniuge in regime di separazione dei beni, o, gradatamente, del convivente more uxorio, purche' la convivenza duri da almeno cinque anni, dei figli conviventi, dei figli non conviventi; c) destinazione dei proventi delle alienazioni alla realizzazione di interventi volti ad alleviare il disagio abitativo». Dunque, l'art. 13, commi 1 e 2, regola - sia dal punto di vista procedurale (attraverso il rinvio agli accordi in sede di Conferenza unificata) sia dal punto di vista sostanziale - la materia dell'alienazione degli immobili degli «Iacp», con il fine di valorizzare il patrimonio immobiliare di questi, di favorire l'acquisto in proprieta' da parte degli assegnatari e di acquisire risorse per realizzare nuovi interventi di edilizia residenziale pubblica. Nel punto 9 si e' gia' illustrata l'ampiezza delle competenze regionali in materia di edilizia residenziale pubblica. E' ora il caso di evidenziare alcune disposizioni che conferiscono alle regioni la competenza proprio in relazione alla vendita degli immobili degli Iacp. Innanzi tutto, l'art. 93, d.P.R. n. 616/1977 trasferisce alle regioni «le funzioni statali relative agli I.A.C.P. fermo restando il potere alle regioni di cui all'art. 13 di stabilire soluzioni organizzative diverse». Di particolare interesse, per la presente controversia, e' l'art. 94 che trasferisce «alle regioni le funzioni amministrative esercitate dall'amministrazione centrale e periferica dei lavori pubblici, in base al regio decreto 28 aprile 1938, n. 1165», e, inoltre, «la funzione relativa alla determinazione dei requisiti e dei prezzi massimi delle abitazioni, ai sensi dell'art. 8 del decreto-legge 6 settembre 1965, n. 1022, convertito nella legge 1° novembre 1965, n. 1179». Infatti, il r.d. n. 1165/1938 (ora abrogato proprio dall'art. 24 del d.l. n. 112/2008) concerneva - agli artt. 31, 34 e 35 - proprio la procedura di vendita delle case popolari, attribuendo al Ministro per i lavori pubblici il potere di autorizzare gli Iacp a vendere gli immobili agli inquilini e regolando il relativo prezzo di vendita. Quanto al d.l. n. 1022/1965, l'art. 8, comma 3, di esso stabilisce che «il Ministro dei lavori pubblici stabilira' con proprio decreto, con riferimento alle situazioni locali, il prezzo massimo, per metro quadrato o per metro cubo, degli alloggi da costruire con i benefici del presente decreto, nonche' l'incidenza massima del costo delle aree» (i commi 4 e 5 regolano poi la vendita). Dunque, sin dal 1977 alle regioni sono attribuite le competenze relative all'alienazione degli immobili degli Iacp, sia sotto il profilo procedurale sia sotto quello del prezzo di vendita. E' poi da ricordare che, in base alla sent. n. 94/2007, il terzo livello normativo, «rientrante nel quarto comma dell'art. 117 Cost., riguarda la gestione del patrimonio immobiliare di edilizia residenziale pubblica di proprieta' degli Istituti autonomi per le case popolari o degli altri enti che a questi sono stati sostituiti ad opera della legislazione regionale»; ancora gli Istituti autonomi delle case popolari devono essere «considerati come enti regionali» (sentenza n. 1115 del 1988). La sentenza n. 94 del 2007 e' interessante non solo per la precisazione relativa al riparto delle competenze in materia di Erp ma anche perche' ha annullato due disposizioni del tutto simili a quelle qui impugnate. Infatti il comma 597, legge n. 266/2005, cioe' della legge finanziaria per il 2006, prevedeva che, «ai fini della valorizzazione degli immobili costituenti il patrimonio degli Istituti autonomi per le case popolari, comunque denominati», un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri - da emanare previo accordo tra Governo e regioni - semplificasse le norme in materia di alienazione degli immobili di proprieta' degli Istituti medesimi. Dunque, rispetto all'art. 13, comma 1, d.l. n. 112/2008, l'accordo intercorreva solo con le regioni (e non anche con gli enti locali) e veniva recepito in un d.P.C.m.. Il comma 598 fissava i principi-guida per l'accordo tra Governo e regioni, praticamente uguali a quelli di cui all'art. 13, comma 2, d.l. n. 112/2008; anzi, quest'ultima disposizione risulta peggiorativa perche' - a proposito della determinazione del prezzo di vendita - non fa riferimento alle «vigenti leggi regionali» (come faceva, invece, l'art. 1, comma 598, legge. n. 266/2005). La Corte costituzionale ha annullato il comma 597 perche' «il fine della disposizione in esame non e' quello di dettare una disciplina generale in tema di assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica, di competenza dello Stato,... bensi' quello di regolare le procedure amministrative e organizzative per arrivare ad una piu' rapida e conveniente cessione degli immobili»: «si tratta quindi - continuava la Corte - di un intervento normativo dello Stato nella gestione degli alloggi di proprieta' degli I.A.C.P. (o di altri enti o strutture sostitutivi di questi), che esplicitamente viene motivato dalla legge statale con finalita' di valorizzazione di un patrimonio immobiliare non appartenente allo Stato, ma ad enti strumentali delle Regioni». La conclusione della Corte e' che «si profila, pertanto, una ingerenza nel terzo livello di normazione riguardante l'edilizia residenziale pubblica, sicuramente ricompreso nella potesta' legislativa residuale delle Regioni, ai sensi del quarto comma dell'art. 117 Cost.». Quanto al comma 598 (corrispondente, come detto, all'art. 13, comma 2), la Corte lo ha dichiarato illegittimo perche' esso «e' una logica conseguenza del comma precedente, giacche' fissa alcuni obiettivi al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri da emanarsi successivamente»; esso non pone «criteri uniformi di assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica in relazione alla soddisfazione del diritto sociale all'abitazione, ma... indirizzi e limiti» in un «ambito materiale riservato esclusivamente alle regioni: non vengono in rilevo, infatti, profili programmatori o progettuali idonei ad avere un qualsiasi impatto con il territorio». La Corte esclude anche che la materia possa essere ricondotta all'«ordinamento civile», «poiche' si tratta di criteri destinati ad incidere sulle procedure amministrative inerenti all'alienazione degli immobili di proprieta' di enti regionali e non gia' a regolare rapporti giuridici di natura privatistica». La sentenza n. 94/2007 conclude ricordando che «la competenza regionale in materia e' stata gia' riconosciuta dalla giurisprudenza di questa Corte (si veda, ad esempio, la sentenza n. 486 del 1995) e non v'e' spazio, pertanto, per una normativa statale che si sostituisca o si sovrapponga a quella delle Regioni, tuttora in vigore». L'alienazione degli alloggi deve essere considerata «indissolubilmente connessa con l'assegnazione degli stessi»: dunque, «se la "disciplina organica dell'assegnazione e cessione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica [...] costituisce, in linea di principio, espressione della competenza spettante alla regione in questa materia'' (ordinanza n. 104 del 2004), la disciplina delle procedure amministrative tendenti all'alienazione non rientra nell'ordinamento civile, ma deve essere ricondotta al potere di gestione dei propri beni e del proprio patrimonio, appartenente in via esclusiva alle Regioni ed ai loro enti strumentali». I passi appena citati possono essere agevolmente addotti al fine di argomentare l'illegittimita' dei commi 1 e 2 dell'art. 13 d.l. n. 112/2008. La somiglianza di tali norme con i commi 597 e 598 e' gia' stata illustrata, ma e' opportuno sottolineare che la presenza nel precedente testo di un regolamento governativo (cosi' la Corte ha qualificato il d.P.C.m. di cui al comma 597) non vale a differenziare il comma 597 dall'art. 13, comma 1: quel regolamento infatti presupponeva necessariamente l'accordo tra Governo e regioni, tanto e' vero che il comma 598 fissava i criteri che dovevano essere rispettati dall'accordo stesso. Dunque, era questo il vero atto regolatore della materia, mentre il d.P.C.m. aveva solo la funzione di recepire il contenuto dell'accordo e di formalizzarlo in un atto normativo tipico. Pertanto, l'unica differenza fra il comma 597 e l'art. 13, comma 1 (a parte il coinvolgimento degli enti locali), sta nel fatto che nel presente giudizio non ha ragione di essere invocato come parametro l'art. 117, sesto comma, Cost., mancando un atto regolamentare statale in materia regionale. Quanto sopra argomentato non potrebbe essere contraddetto dalla circostanza che la disciplina di recepimento dei criteri fissati dall'art. 13, comma, 2, avviene (ai sensi del comma 1) mediante «accordi», da stipulare «in sede di Conferenza unificata», con «regioni ed enti locali». Tali accordi, infatti, si porrebbero poi di necessita' come improprio condizionamento della potesta' legislativa regionale, da parte di un organismo e di un atto non legittimati a produrre tale condizionamento. Si noti che il lesivo condizionamento si verificherebbe persino se si supponesse che gli «accordi» in questione, benche' da stipulare in sede di Conferenza, intercorressero non con la Conferenza ma con la singola regione: dato che la potesta' legislativa spetta per Costituzione ad un organo diverso da quello che concluderebbe l'accordo e non puo' essere vincolata (come vorrebbe la legge statale) a previ accordi intercorsi tra soggetti privi di tale potesta'. Ancora piu' lesiva sarebbe poi l'ipotesi - anch'essa non impensabile sulla base dell'ambiguo testo dell'art. 13, comma 1 - di un accordo stipulato direttamente tra uno o piu' Ministri e singoli comuni: dai quali risulterebbe direttamente lesa la potesta' legislativa spettante alla regione. In definitiva, l'art. 13, commi 1 e 2, d.l. n. 112/2008, risulta lesivo della competenza legislativa regionale in quanto regola la materia della gestione del patrimonio immobiliare degli Iacp, rientrante nella potesta' regionale piena (art. 117, quarto comma, Cost.). Inoltre, il fatto che lo Stato abbia reiterato - in termini pressoche' identici - una disciplina annullata a distanza di soli tre anni fa si' che le norme impugnate siano illegittime, oltre che per violazione dell'art. 117, quarto comma, anche per violazione dell'art. 136 Cost., cioe' del giudicato costituzionale, in quanto l'art. 13, commi 1 e 2, rida' efficacia a norme gia' dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale. L'art. 13, comma 2, lettera e) prevede la «destinazione dei proventi delle alienazioni alla realizzazione di interventi volti ad alleviare il disagio abitativo». In questo modo, il legislatore statale pone un vincolo di destinazione all'uso delle risorse spettanti agli enti di gestione dell'edilizia residenziale pubblica, cioe' a enti para-regionali, limitando l'autonomia finanziaria di spesa garantita alle regioni dall'art. 119, primo comma, Cost. Si puo' ricordare che la sent. n. 169/2007 ha annullato una norma che imponeva «una puntuale modalita' di utilizzo di risorse proprie delle regioni, cosi' da risolversi in una specifica prescrizione di destinazione di dette risorse». Di qui un'ulteriore ragione di illegittimita' dell'art. 13, comma 2, lettera c), che si aggiunge a quelle derivanti dalla violazione degli artt. 117, quarto comma, e 136 Cost. Il comma 3-bis e' stato introdotto in sede di conversione e, in realta', detta norme non pertinenti con il titolo dell'art. 13 (Misure per valorizzare il patrimonio residenziale pubblico). Esso stabilisce che, «al fine di consentire alle giovani coppie di accedere a finanziamenti agevolati per sostenere le spese connesse all'acquisto della prima casa, a partire dal 1° settembre 2008 e' istituito, presso la Presidenza del Consiglio dei ministri - Dipartimento della gioventu', un Fondo speciale di garanzia per l'acquisto della prima casa da parte delle coppie o dei nuclei familiari monogenitoriali con figli minori, con priorita' per quelli i cui componenti non risultano occupati con rapporto di lavoro a tempo indeterminato». La complessiva dotazione del Fondo «e' pari a 4 milioni di euro per l'anno 2008 e 10 milioni di euro per ciascuno degli anni 2009 e 2010». Il comma 3-bis, poi, rimette ad un «decreto del Ministro della gioventu', di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze», il compito di disciplinare «le modalita' operative di funzionamento del Fondo (li cui al primo periodo». Siamo, dunque, di fronte ad una (purtroppo) «classica» norma che, incurante del riparto di competenze tra Stato e regioni stabilita dal Titolo V della parte seconda della Costituzione, istituisce un fondo settoriale in materia di competenza regionale (politiche sociali: art. 117, quarto comma, Cost.), prevedendo un successivo atto ministeriale al fine di dettare la disciplina attuativa. Si puo' presumere, data la mancanza di qualsiasi riferimento alle regioni, che il fondo sia destinato direttamente ai privati: ma codesta Corte ha da tempo dichiarato l'illegittimita' dei finanziamenti statali diretti ai privati in materie di competenza regionale (si veda ad esempio la sentenza n. 320/2004: «il tipo di ripartizione delle materie fra Stato e regioni di cui all'art. 117 Cost., vieta comunque che in una materia di competenza legislativa regionale, in linea generale, si prevedano interventi finanziari statali seppur destinati a soggetti privati, poiche' cio' equivarrebbe a riconoscere allo Stato potesta' legislative e amministrative sganciate dal sistema costituzionale di riparto delle rispettive competenze»; v. anche le sentt. nn. 423/2004, punto 7.6, 424/2004, punto 13, 51/2005, 77/2005, 50/2008). Particolarmente significativa e' la sentenza n. 137/2007, che ha deciso su una fattispecie analoga a quella in questione, annullando una norma che prevedeva «prestazioni direttamente fruibili da privati, mediante una garanzia di ultima istanza, per consentire ai meno abbienti - e specificamente ai giovani che non sono in possesso di un contratto di lavoro a tempo indeterminato - di coprire, al di la' delle usuali garanzie ipotecarie, l'intero prezzo dell'immobile da acquistare». Si veda anche la sentenza n. 118/2006, che ha colpito un «fondo per il sostegno finanziario all'acquisto di unita' immobiliari da adibire ad abitazione principale in regime di edilizia convenzionata da cooperative edilizie, aziende territoriali di edilizia residenziale pubbliche ed imprese private», dichiarandolo lesivo «dell'autonomia finanziaria e amministrativa delle regioni, alle quali la quota parte del fondo cosi' istituito, a ciascuna spettante, dovra' essere assegnata genericamente per finalita' sociali senza il suindicato vincolo di destinazione specifica». Ne' il comma 3-bis potrebbe essere giustificato invocando il principio di sussidiarieta' (non esistendo ragioni unitarie per la gestione accentrata del fondo e per la regolazione delle «modalita' operative di funzionamento» di esso) o i livelli essenziali delle prestazioni, dato che esso non fissa alcun livello di prestazione ma si limita a prevedere una spesa e dato che l'acquisto di una casa non e' necessario per soddisfare il diritto all'abitazione; inoltre, esso non pone requisiti di reddito per le coppie. Di qui l'illegittimita' del comma 3-bis per violazione dell'autonomia legislativa, amministrativa (in relazione all'attivita' di erogazione dei benefici) e finanziaria di cui all'art. 117, quarto comma, all'art. 118, commi 1 e 2, e all'art. 119 Cost., in quanto istituisce un fondo settoriale nella materia delle politiche sociali a gestione centralizzata invece di attribuire le corrispondenti risorse alle regioni e di lasciare a queste le conseguenti scelte in materia di regolazione degli interventi e di allocazione delle funzioni amministrative. Si chiede, dunque, che codesta Corte dichiari l'illegittimita' del comma 3-bis precisando che le risorse vanno assegnate alle regioni per generiche finalita' sociali (v., ad es., le sentt. n. 168/2008 e n. 118/2006). In subordine, si chiede che codesta Corte dichiari l'illegittimita' del comma 3-bis (per violazione del principio di leale collaborazione) nella parte in cui non prevede l'intesa con la Conferenza Stato-regioni sul decreto previsto dall'ultimo periodo della disposizione. Il comma 3-quater dispone che «presso il Ministero dell'economia e delle finanze e' istituito il Fondo per la tutela dell'ambiente e la promozione dello sviluppo del territorio». La dotazione di tale fondo «e' stabilita in 60 milioni di euro per l'anno 2009, 30 milioni di euro per l'anno 2010 e 30 milioni di euro per l'anno 2011». A valere sulle risorse del fondo «sono concessi contributi statali per interventi realizzati dagli enti destinatari nei rispettivi territori per il risanamento e il recupero dell'ambiente e lo sviluppo economico dei territori stessi». La norma stabilisce poi che «alla ripartizione delle risorse e all'individuazione degli enti beneficiari si provvede con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze in coerenza con apposito atto di indirizzo delle Commissioni parlamentari competenti per i profili finanziari». Il fondo sembra destinato agli enti territoriali e, dunque, la norma contemplerebbe un fondo settoriale a destinazione vincolata. Almeno in parte, le materie coinvolte rientrano nella competenza regionale piena, dato che lo «sviluppo economico dei territori» riguarda l'industria, il commercio, l'artigianato, l'agricoltura, il turismo ecc., tutte materie rientranti nell'art. 117, quarto comma, Cost. Data l'incidenza del fondo sulle competenze regionali, il comma 3-quater si pone in contrasto con il principio di leale collaborazione, nella parte in cui non prevede un'intesa con la Conferenza Stato-regioni sul decreto di cui al quarto periodo del comma per ragioni corrispondenti a quelle sopra enunciate in relazione alle disposizioni di cui agli articoli 7 comma 2, 8 comma 3, 9 comma 3 e 10. 11) Illegittimita' dell'art. 23, comma 2. Come sopra esposto l'art. 23, d.l. n. 112/2008 reca Modifiche alla disciplina del contratto di apprendistato. Esso, in particolare, al comma 2, inserisce il comma 5-ter nell'art. 49 d. lgs. n. 276/2003. In base alla nuova disposizione, in caso di formazione esclusivamente aziendale, «non opera quanto previsto dal comma 5»; in questa ipotesi, invece, «i profili formativi dell'apprendistato professionalizzante sono rimessi integralmente ai contratti collettivi di lavoro stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale. ovvero agli enti bilaterali» (cioe', a quegli organismi previsti dai contratti collettivi e composti da esponenti delle associazioni dei datori di lavoro e dei sindacati), che «definiscono la nozione di formazione aziendale e determinano, per ciascun profilo formativo, la durata e le modalita' di erogazione della formazione, le modalita' di riconoscimento della qualifica professionale ai fini contrattuali e la registrazione nel libretto formativo». Il comma 5 dell'art. 49 - chiamato ora a «non operare» - stabilisce che «la regolamentazione dei profili formativi dell'apprendistato professionalizzante e' rimessa alle regioni e alle province autonome di Trento e Bolzano, d'intesa con le associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente piu' rappresentative sul piano regionale e nel rispetto dei seguenti criteri e principi direttivi», che riguardano sia la formazione interna che quella esterna alla azienda (v. la lettera a) e la lettera c). In questo modo, l'art. 23, comma 2, sottrae una competenza normativa gia' riconosciuta alle regioni e la attribuisce alla fonte contrattuale, destinata a regolare i profili formativi dell'apprendistato professionalizzante in relazione a tutte le imprese e a tutti gli apprendisti: ivi compresi, si noti, quelli non iscritti ad alcun sindacato. A prescindere da valutazioni sull'opportunita' di una disciplina del genere (nei settori dove il c.c.l. e' solo nazionale - come il commercio - i profili formativi saranno rimessi agli enti bilaterali, che si trovano in grossa difficolta' per adempiere il compito affidato dall'art. 23), tale circostanza (cioe', l'efficacia normativa del c.c.l.) determina un problema di compatibilita' con l'art. 39 cost. che, come noto, ammette l'efficacia generale del c.c.l. solo se il sindacato e' registrato e, quindi, non l'ammette, data l'inattuazione dell'art. 39. Naturalmente, la questione si e' gia' posta (non essendo una novita' che il legislatore rinvii ai c.c.l. per l'integrazione della propria disciplina) e, in passato, la Corte ha sottolineato l'illegittimita' di leggi del genere (v. la sent. n. 106/1962 e la sent. n. 344/1996), e le ha giustificate solo «quando si tratta di materie del rapporto di lavoro che esigono uniformita' di disciplina in funzione di interessi generali connessi al mercato del lavoro, come il lavoro a tempo parziale..., i contratti di solidarieta'., la definizione di nuove ipotesi di assunzione a termine» (sent. 344/1996). Poiche' i profili formativi dell'apprendistato professionalizzante di certo non rappresentano una materia che esige una disciplina uniforme per gli interessi del mercato del lavoro, la «delega di funzioni paralegislative» (per usare un'espressione della sent. n. 344/1996) ai contratti collettivi - operata dall'art. 23, comma 2 - costituisce una palese violazione dell'art. 39 cost. e trasforma i contratti stessi (o gli accordi conclusi in sede di ente bilaterale) in una fonte extra-ordinem. Poiche' attraverso questa violazione si produce una menomazione delle competenze regionali (dato che la regione viene privata di una potesta' normativa che prima aveva, anche in relazione alla formazione aziendale, come risulta dall'art. 49, comma 5, d. lgs. n. 276/2003) e poiche' si verte in materia di competenza regionale, esistono tutti gli elementi della lesione di competenza indiretta, nel senso che la violazione dell'art. 117, quarto comma, cost. si determina attraverso la violazione dell'art. 39 cost. (si tratta di una connessione che codesta ecc.ma Corte ha in molti casi ammesso, ammettendo le relative censure: v., ad es., le sentt. nn. 503/2000, 206/2001, punti 15, 16 e 34, 110/2001, 303/2003, punto 35, 280/2004, 355/1993). Di qui la legittimazione regionale a far valere la violazione dell'art. 39 e, tramite questa, della propria potesta' legislativa in materia di formazione professionale. Del resto, gia' in un'occasione codesta Corte ha mostrato di non escludere a priori il riferimento all'art. 39 cost. in un ricorso regionale (v. sent. n. 219/1984). Fra l'altro, l'assegnazione alla contrattazione collettiva della funzione di fonte esclusiva, in luogo di quella regionale, viola il principio di certezza del diritto perche' si istituisce una fonte extra-ordinem i cui rapporti con le previgenti leggi regionali non sono chiari; anche tale violazione si riflette in una lesione della competenza regionale dato che incide sull'applicabilita' delle leggi regionali. Inoltre, come noto, la formazione professionale rientra nella competenza regionale piena, come risulta dall'espressa clausola di esclusione di cui all'art. 117, terzo comma, cost. Pur se codesta Corte ha ritenuto che la formazione aziendale non rientri nella competenza regionale ma nel sinallagma contrattuale e, quindi, nelle competenze dello Stato in materia di ordinamento civile (sent. n. 50/2005), tuttavia «le modalita' di riconoscimento della qualifica professionale ai fini contrattuali» e «la registrazione nel libretto formativo» (menzionate nell'ultimo periodo della disposizione impugnata) non attengono propriamente allo svolgimento della formazione aziendale (cioe', alla prestazione spettante al datore di lavoro) ma a profili diversi, rientranti nella competenza regionale in materia di formazione (art. 117, quarto comma) e di professioni (art. 117, terzo comma, Cost.). Dunque, in relazione a tali profili, l'eliminazione della competenza regionale risulta lesiva delle prerogative costituzionali della regione. E' dunque illegittima, almeno per questi profili, la sottrazione della materia alla disciplina generale di cui al comma 5 che, fra l'altro, gia' si occupa del «"riconoscimento sulla base dei risultati conseguiti all'interno del percorso di formazione, esterna e interna alla impresa, della qualifica professionale ai fini contrattuali». In relazione a tali profili, in ogni modo, se anche non si volesse riconoscere una competenza regionale piena, sembra evidente l'esigenza di un coordinamento con la disciplina generale dell'apprendistato, e dunque la necessita' di un raccordo con le Regioni, che la norma impugnata completamente pretermette. 12) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23-bis, commi 7, 10 nonche' 10 lettera b). a) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23-bis, comma 7. L'art. 23-bis e' dedicato alla disciplina dei Servizi pubblici locali di rilevanza economica. Conviene ricordare che i servizi pubblici, in quanto tali, non ricadono in alcuna potesta' legislativa statale, ma che lo Stato puo' intervenire in essa, come codesta ecc.ma Corte costituzionale ha stabilito con la sentenza n. 272 del 2004 a titolo di tutela della concorrenza, ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera e) della Costituzione, e che pertanto non sono censurabili tutte quelle norme «che garantiscono, in forme adeguate e proporzionate, la piu' ampia liberta' di concorrenza nell'ambito di rapporti - come quelli relativi al regime delle gare o delle modalita' di gestione e conferimento dei servizi - i quali per la loro diretta incidenza sul mercato appaiono piu' meritevoli di essere preservati da pratiche anticoncorrenziali» (punto 3 in diritto). La presente impugnazione non intende mettere in discussione questo principio. Il comma 7 dell'art. 23-bis dispone che «le regioni e gli enti locali, nell'ambito delle rispettive competenze e d'intesa con la Conferenza unificata di cui all'art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, possono definire, nel rispetto delle normative settoriali, i bacini di gara per i diversi servizi, in maniera da consentire lo sfruttamento delle economie di scala e di scopo e favorire una maggiore efficienza ed efficacia nell'espletamento dei servizi, nonche' l'integrazione di servizi a domanda debole nel quadro di servizi piu' redditizi, garantendo il raggiungimento della dimensione minima efficiente a livello di impianto per piu' soggetti gestori e la copertura degli obblighi di servizio universale». Tale disposizione, sotto una apparenza meramente facoltizzante, vincola in realta' le regioni e gli enti locali ad assumere le proprie decisioni relative ai bacini di gara (che diverranno poi bacini di esercizio dei servizi pubblici) «d'intesa con la Conferenza unificata», in violazione dell'art. 117, quarto comma, nonche' dell'art. 118, primo e secondo comma della Costituzione. Da una parte, infatti, la disciplina della dimensione di esercizio dei servizi pubblici rientra nella potesta' legislativa della regione, dall'altra il condizionare l'esercizio di tale potesta' e delle scelte amministrative che essa esprime viola sia la potesta' legislativa in se' considerata - a prescindere dal suo carattere concorrente o pieno, sia il principio di sussidiarieta', non potendosi vedere alcuna ragione di centralizzazione di tali scelte. Si noti che la lesione non viene meno per il fatto che si tratti dell'intesa con un organismo espressivo delle autonomie: sia perche' in realta' l'intesa con la Conferenza richiede necessariamente anche l'intesa con lo Stato (parte esso stesso della Conferenza), sia perche' si tratterebbe in ogni caso di un condizionamento delle scelte della Regione da parte di altre regioni ed enti locali, che non hanno alcun potere da esercitare in relazione al territorio di una specifica regione. b) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23-bis, comma 10. Il comma 10 dell'art. 23-bis dispone che il Governo, su proposta del Ministro per i rapporti con le regioni «sentita la Conferenza unificata di cui all'art. 8 del d. lgs. 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, nonche' le competenti Commissioni parlamentari, emana uno o piu' regolamenti, ai sensi dell'art. 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400», al fine di disciplinare una pluralita' di oggetti. La previsione di una disciplina regolamentare puo' essere giustificata, secondo l'art. 117, comma sesto, ed i principi enunciati dalla giurisprudenza costituzionale, in quanto essa abbia ad oggetto materie rientranti nella competenza esclusiva dello Stato. Tuttavia, la materia che forma oggetto di tali regolamenti ai sensi del comma 10, nelle diverse lettere da a) ad l), presenta un inestricabile intreccio con le materie oggetto di potesta' concorrente (come il coordinamento della finanza pubblica, fondamento della lettera a) o esclusiva delle regioni (come nel caso della gestione associata dei servizi locali, oggetto della lettera c). In tale situazione, il solo modo di contemperare le competenze rispettive dello Stato e delle regioni consiste nel sottoporre il regolamento all'intesa della Conferenza Stato-regioni o della Conferenza unificata, in luogo del semplice parere previsto dalla disposizione impugnata. Diversamente, non potrebbe evitarsi l'affermazione della illegittimita' costituzionale dell'uso dello strumento regolamentare, in violazione dell'art. 117, comma sesto, per tutti gli oggetti che - come quelli sopra indicati - non rientrano nelle materie di potesta' legislativa esclusiva dello Stato. c) Specifica illegittimita' costituzionale dell'art. 23-bis, comma 10, lettera b). Tra le materie che dovrebbero formare oggetto del regolamento di cui al comma 10, la lettera b) include il «prevedere, in attuazione dei principi di proporzionalita' e di adeguatezza di cui all'art. 118 della Costituzione, che i comuni con un limitato numero di residenti possano svolgere le funzioni relative alla gestione dei servizi pubblici locali in forma associata». Sembra evidente che tale oggetto e' del tutto estraneo ai profili di tutela della concorrenza, e che non esiste in relazione ad esso alcun titolo di competenza normativa statale. Benche' il criterio espresso dalla legge sia del tutto ragionevole, e' invece illegittima la previsione che vi sia una disciplina con regolamento statale, spettando la materia alla competenza legislativa residuale delle regioni. 13) Illegittimita' costituzionale dell'art. 30, commi 1, 2 e 3. L'art. 30 (Semplificazione dei controlli amministrativi a carico delle imprese soggette a certificazione) stabilisce al comma 1 che «per le imprese soggette a certificazione ambientale o di qualita' rilasciata da un soggetto certificatore accreditato in conformita' a norme tecniche europee ed internazionali, i controlli periodici svolti dagli enti certificatori sostituiscono i controlli amministrativi o le ulteriori attivita' amministrative di verifica, anche ai fini dell'eventuale rinnovo o aggiornamento delle autorizzazioni per l'esercizio dell'attivita'», e che «le verifiche dei competenti organi amministrativi hanno ad oggetto, in questo caso, esclusivamente l'attualita' e la completezza della certificazione», con il solo limite del «rispetto della disciplina comunitaria». Il comma 2 contiene una «declaratoria» che vorrebbe fondare la competenza statale, affermando che «la disposizione di cui al comma 1 e' espressione di un principio generale di sussidiarieta' orizzontale ed attiene ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione». Tuttavia, si precisa che «resta ferma la potesta' delle regioni e degli enti locali, nell'ambito delle rispettive competenze, di garantire livelli ulteriori di tutela». Il comma 3 prevede che «con regolamento, da emanarsi ai sensi dell'art. 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, previo parere della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, sono individuati le tipologie dei controlli e gli ambiti nei quali trova applicazione la disposizione di cui al comma 1, con l'obiettivo di evitare duplicazioni e sovrapposizioni di controlli, nonche' le modalita' necessarie per la compiuta attuazione della disposizione medesima». Il comma 4 dispone che «le prescrizioni di cui ai commi 1 e 2 entrano in vigore all'atto di emanazione del regolamento di cui al comma 3». Le disposizioni in questione riguardano le imprese certificate in generale, quindi, le materie del commercio, dell'industria, dell'agricoltura e le altre di interesse economico, tutte di competenza regionale. Del resto, che le disposizioni incidano su materie regionali e' esplicito nella stessa disposizione del comma 2, che giustifica la competenza statale mediante il richiamo ai «livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali»: i quali, appunto, incidono normalmente nelle materie regionali. E' palese pero', ad avviso della ricorrente regione, che si tratta di una giustificazione fallace: non si vede infatti alcun riferimento ad alcuna «prestazione»: e sia consentito ricordare che, «come piu' volte ormai questa Corte ha affermato, tale titolo di legittimazione legislativa non puo' essere invocato se non in relazione a specifiche prestazioni delle quali la normativa statale definisca il livello essenziale di erogazione» (sentenza n. 285 del 2005, punto 3 in diritto). Tuttavia, quanto al comma 1, la regione non contesta il principio base dello svolgimento dei controlli amministrativi da parte degli enti certificatori. Contesta invece la seguente limitazione in virtu' della quale «le verifiche dei competenti organi amministrativi hanno ad oggetto, in questo caso, esclusivamente l'attualita' e la completezza della certificazione». Siffatta limitazione viola la potesta' legislativa ed amministrativa della regione, espropriandola della funzione pubblica ad essa attribuita dalla Costituzione: non puo' infatti che spettare alla regione, nella specifica situazione, di valutare in quali casi e per quali ragioni l'autorita' pubblica deve intervenire per valutare la legittimita' e l'appropriatezza del modo in cui gli enti certificatori svolgono le funzioni di interesse pubblico ad essi affidate. Come si deduce dallo stesso art. 118, quarto comma, della Costituzione, in relazione al primo comma dello stesso articolo, il principio di sussidiarieta' orizzontale consente l'assegnazione di funzioni di interesse generale a soggetti privati, ma non consente che la responsabilita' ultima della funzione amministrativa e della cura degli interessi pubblici sia sottratta agli enti responsabili, costitutivi della Repubblica (art. 114 Cost.). La censura cosi' formulata potrebbe venire meno solo ove si intendesse che la disposizione del secondo comma, in base alla quale «resta ferma la potesta' delle regioni e degli enti locali, nell'ambito delle rispettive competenze, di garantire livelli ulteriori di tutela» - di per se' oscura nel contesto in cui e' posta-- dovesse essere intesa come facolta' per le Regioni di graduare con propria legge la responsabilita' delle amministrazioni in relazione all'attivita' degli enti certificatori, prevedendo i rispettivi compiti e i relativi controlli. Trattandosi di disciplina di materie regionali, attinenti alla attivita' delle imprese, risulta radicalmente illegittima la pretesa di affidare la disciplina della materia ad un regolamento statale, in violazione dell'art. 117, sesto comma, della Costituzione. Gia' si e' infatti argomentato come la competenza statale non possa affermarsi in relazione ad una presunta disciplina dei livelli delle prestazioni sociali: e la materia affidata al regolamento (le tipologie dei controlli e gli ambiti nei quali trova applicazione la disposizione di cui al comma 1) conferma che non si tratta di prestazione alcuna, ma della disciplina stessa delle attivita' e dei relativi controlli. Oltre che illegittima per invasione di materie regionali, la disposizione che prevede la disciplina regolamentare e' altresi' illegittima per violazione del principio di legalita' sostanziale. Premesso che le regioni possono far valere tale violazione dato che il principio di legalita' «costituisce un aspetto della loro stessa posizione che queste ultime sono abilitate a difendere nel giudizio costituzionale» (v. le sentt. nn. 425/2004, 425/1999, 355/1992 e 150/1982), si deve rilevare che il comma 3 opera una totale delegificazione, senza stabilire regola alcuna della materia, e senza individuare neppure l'ambito nel quale il regolamento dovrebbe intervenire, ne' quali norme legislative in quali settori dovrebbero essere abrogate a seguito dell'emanazione del regolamento. Addirittura, spetterebbe al regolamento di individuare gli ambiti in cui il vago principio di cui al comma 1 si applica: mentre al contrario spetta alla legge di definire gli ambiti e le regole di base, al regolamento (nelle materie in cui puo' intervenire, e ferma la censura di invasione delle materie regionali) il solo potere di disciplinare all'interno di quegli ambiti. In estremo subordine, nella denegata ipotesi che si dovesse ritenere legittimo il conferimento di potere regolamentare allo Stato, nei termini in cui e' disposto, risulterebbe comunque illegittima la previsione del semplice parere della Conferenza Stato-regioni, anziche' dell'intesa sul regolamento attuativo. Sembra infatti evidente che la compressione dei poteri legislativi regionali che l'attrazione al centro della disciplina dei controlli sulle imprese comporta - se pure fosse giustificata in forza del principio di sussidiarieta' - dovrebbe necessariamente trovare la «compensazione» della necessaria intesa con le regioni, secondo i principi stabiliti sin dalla sentenza n. 303 del 2003. 14) Illegittimita' costituzionale dell'art. 35, comma 1. Nel capo VIL, Semplificazioni, e' collocato l'art. 35, Semplificazione della disciplina per l'installazione degli impianti all'interno degli edifici. Il comma 1 stabilisce che «entro il 31 dicembre 2008 il Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro per la semplificazione normativa, emana uno o piu' decreti, ai sensi dell'art. 17 della legge 23 agosto 1988, n. 400, volti a disciplinare: a) il complesso delle disposizioni in materia di attivita' di installazione degli impianti all'interno degli edifici prevedendo semplificazioni di adempimenti per i proprietari di abitazioni ad uso privato e per le imprese; b) la definizione di un reale sistema di verifiche di impianti di cui alla lettera a) con l'obiettivo primario di tutelare gli utilizzatori degli impianti garantendo una effettiva sicurezza; c) la revisione della disciplina sanzionatoria in caso di violazioni di obblighi stabiliti dai provvedimenti previsti alle lettere a) e b)». La disposizione si applica a tutti gli impianti posti all'interno degli edifici: impianti elettrici, radiotelevisivi, di riscaldamento, ecc. Esso prevede una normativa generale che si estende a tutti gli aspetti di progettazione, realizzazione, installazione, certificazione di conformita' e manutenzione degli impianti stessi. A parte le imprecisioni linguistiche (il decreto deve «disciplinare. le disposizioni»), il comma 1 dell'art. 35 risulta lesivo delle competenze regionali: infatti, la lettera a) e' riconducibile all'edilizia ("governo del territorio") e la lett. b) alla tutela della salute. Ne' a sostegno di una competenza statale esclusiva potrebbe essere invocato il comma 2, lettera m), dell'art. 117 Cost., perche' l'art. 35, comma 1, si limita a prevedere alle lettere a) e b) la disciplina delle attivita' di installazione e dei sistemi di verifica, ma non si occupa affatto dei requisiti di sicurezza degli impianti (e, dunque, neppure dei requisiti minimi di sicurezza). Quanto alla lett. c), essa accede alla materia cui afferiscono le altre due norme (v., da ultimo, sent. n. 240/2007). Il comma 1 prevede, in sostanza, una delegificazione «clandestina», fatta con d.m. invece che con regolamento governativo e con «norme generali» assai vaghe e decisamente insufficienti. Di illegittimita', per violazione del principio di legalita' sostanziale (che le regioni possono far valere dato che «tale principio... costituisce un aspetto della loro stessa posizione che queste ultime sono abilitate a difendere nel giudizio costituzionale»: v. le sentt. nn. 425/2004, 425/1999, 355/1992 e 150/1982). Esso, inoltre, risulta lesivo delle competenze regionali perche' prevede un regolamento ministeriale in materie regionali (governo del territorio e tutela della salute), con conseguente violazione dell'art. 117, commi terzo e sesto, cost. Le disposizioni di cui alle lettere a), b) e c) dovrebbero essere dettate con legge regionale, nel rispetto dei principi statali e degli standard minimi di sicurezza. In estremo subordine, la disposizione risulterebbe comunque illegittima per difetto di qualunque coinvolgimento delle regioni, ed in particolare per difetto dell'intesa con la Conferenza Stato-regioni, in violazione del principio di leale collaborazione. 15) Illegittimita' costituzionale dell'art. 38, comma 3. L'art. 38, Impresa in un giorno, statuisce che, «al fine di garantire il diritto di iniziativa economica privata., l'avvio di attivita' imprenditoriale, per il soggetto in possesso dei requisiti di legge, e' tutelato sin dalla presentazione della dichiarazione di inizio attivita' o dalla richiesta del titolo autorizzatorio» (comma 1). Il comma 2 contiene una «declaratoria» rivolta a ricondurre la disciplina dell'art. 38 a materie di competenza esclusiva statale («livelli essenziali» e tutela della concorrenza). Cio' fatto, il comma 3 dispone che con regolamento di delegificazione, adottato su proposta del Ministro dello sviluppo economico e del Ministro per la semplificazione normativa, sentita la Conferenza unificata, «si procede alla semplificazione e al riordino della disciplina dello sportello unico per le attivita' produttive di cui al regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 20 ottobre 1998, n. 447», in base ai criteri di seguito indicati. Nonostante l'«autoqualificazione» di cui al comma 2, il comma 3 incide su materie di competenza regionale piena (quelle attinenti alle attivita' produttive: industria, commercio, agricoltura, artigianato, turismo ecc.: art. 117, quarto comma, Cost.) e, pertanto, esso risulta illegittimo, per violazione del principio di leale collaborazione, nella parte in cui prevede il mero parere della Conferenza unificata anziche' l'intesa, per ragioni corrispondenti a quelle fatte valere in relazione agli articoli 7, comma 2, 8, comma 3, 9, comma 3, 10 e 13, comma 3-quater. Comunque, se anche si dovesse ritenere che il comma 3 riguardi materie di competenza statale esclusiva, sarebbe pur sempre innegabile l'interferenza con le materie regionali sopra menzionate e, dunque, sarebbe pur sempre necessaria la previsione dell'intesa, secondo il principio stabilito dalla sentenza di codesta Corte n. 31/2005, che ha dichiarato illegittima la previsione di un parere anziche' dell'intesa anche se la norma rientrava in una materia di competenza esclusiva statale). 16) Illegittimita' dell'art. 43, comma 1. L'art. 43, Semplificazione degli strumenti di attrazione degli investimenti e di sviluppo d'impresa, stabilisce che, «per favorire l'attrazione degli investimenti e la realizzazione di progetti di sviluppo di impresa rilevanti per il rafforzamento della struttura produttiva del Paese, con particolare riferimento alle aree del Mezzogiorno, con decreto di natura non regolamentare del Ministro dello sviluppo economico, sono stabiliti i criteri, le condizioni e le modalita' per la concessione di agevolazioni finanziarie a sostegno degli investimenti privati e per la realizzazione di interventi ad essi complementari e funzionali». Il decreto deve essere adottato «di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, con il Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, per quanto riguarda le attivita' della filiera agricola e della pesca e acquacoltura, e con il Ministro per la semplificazione normativa», sentita la Conferenza Stato-regioni. La disposizione riguarda le imprese in generale e, dunque, incide su materie di competenza regionale piena (quelle attinenti alle attivita' produttive: industria, commercio, agricoltura, artigianato, turismo ecc.: art. 117, quarto comma, Cost.). Essa, pertanto, risulta illegittima, per violazione del principio di leale collaborazione, nella parte in cui prevede il mero parere della Conferenza Stato-regioni anziche' l'intesa, in base alla nota giurisprudenza costituzionale sulla «chiamata in sussidiarieta'». Si puo' ricordare che la sent. n. 63/2008 ha introdotto l'intesa con la Conferenza per il fondo statale per aiutare imprese in difficolta', cosi' come la sent. n. 242/2005 ha introdotto un'intesa per il Fondo rotativo nazionale alla crescita e allo sviluppo' del tessuto produttivo nazionale. Si richiamano altresi' le ragioni fatte valere in relazione agli articoli 7, comma 2, 8, comma 3, 9, comma 3, 10, 13 comma 3-quater e 38, comma 3. 17) Illegittimita' costituzionale dell'art. 58, commi 1 e 2. L'art. 58 prevede da parte di regioni ed enti locali la predisposizione di un «piano della alienazioni e valorizzazioni immobiliari», che deve essere presentato in relazione agli immobili non strumentali all'esercizio delle funzioni istituzionali degli enti. Precisamente, il comma 1 dispone che «per procedere al riordino, gestione e valorizzazione del patrimonio immobiliare di regioni, province, comuni e altri enti locali, ciascun ente con delibera dell'organo di Governo individua, redigendo apposito elenco, sulla base e nei limiti della documentazione esistente presso i propri archivi e uffici, i singoli beni immobili ricadenti nel territorio di competenza, non strumentali all'esercizio delle proprie funzioni istituzionali, suscettibili di valorizzazione ovvero di dismissione», e che «viene cosi' redatto il piano delle alienazioni e valorizzazioni immobiliari allegato al bilancio di previsione». Il comma secondo dispone che «l'inserimento degli immobili nel piano ne determina la conseguente classificazione come patrimonio disponibile e ne dispone espressamente la destinazione urbanistica»; che «la deliberazione del consiglio comunale di approvazione del piano delle alienazioni e valorizzazioni costituisce variante allo strumento urbanistico generale»; che «tale variante, in quanto relativa a singoli immobili, non necessita di verifiche di conformita' agli eventuali atti di pianificazione sovraordinata di competenza delle province e delle regioni» ma che «la verifica di conformita' ecomunque richiesta e deve essere effettuata entro il termine perentorio di trenta giorni dalla data di ricevimento della richiesta, nei casi di varianti relative a terreni classificati come agricoli dallo strumento urbanistico generale vigente, ovvero nei casi che comportano variazioni volumetriche superiori al 10 per cento dei volumi previsti dal medesimo strumento urbanistico vigente». La ricorrente regione ritiene che la disciplina cosi' dettata sia di competenza statale per i soli profili civilistici evidenziati dal comma 3 e seguenti. Oltre tali profili, la disciplina dettata e' ad avviso della ricorrente Regione costituzionalmente illegittima. Illegittima e' in primo luogo la precisazione nel comma 1 che il piano debba essere approvato «dall'organo di Governo», anziche' dall'organo competente in base alle regole organizzative dell'ente, ed in particolare in base allo Statuto o alle leggi regionali che dispongano o vengano a disporre in materia. A sua volta, il comma 2 risulta illegittimo laddove stabilisce che «la deliberazione del consiglio comunale di approvazione del piano delle alienazioni e valorizzazioni costituisce variante allo strumento urbanistico generale». Tale previsione, infatti, trascende i limiti delle potesta' normative statali concorrenti in materia di coordinamento della finanza pubblica e di governo del territorio: poiche' si tratta con evidenza di disposizioni di dettaglio e non di principio. La situazione infatti e' analoga a quella decisa da codesta Corte costituzionale con la sentenza n. 401/2007. In tale occasione la Corte ha ritenuto che «la norma impugnata, stabilendo che "l'approvazione dei progetti definitivi da parte del consiglio comunale costituisce variante urbanistica a tutti gli effetti''... afferisce, avendo riguardo al suo peculiare oggetto, prevalentemente all'ambito materiale del governo del territorio di competenza ripartita Stato-regioni» e che «da questa qualificazione discende che lo Stato ha soltanto il potere di fissare i principi fondamentali in tali materie, spettando alle Regioni il potere di emanare la normativa di dettaglio, secondo quanto stabilito dall'art. 117, terzo comma, ultimo periodo, della Costituzione». Di conseguenza, secondo la Corte, «ne deriva la illegittimita' costituzionale della norma in esame, in quanto essa, per il, suo contenuto precettivo del tutto puntuale, non lascia alcuno spazio di intervento alle regioni». Infatti «l'affermazione, infatti, secondo cui "l'approvazione dei progetti definitivi costituisce variante urbanistica a tutti gli effetti'' non e' passibile di ulteriore svolgimento da parte del legislatore regionale con conseguente compromissione delle competenze che alle regioni spettano in materia di urbanistica e quindi di assetto del territorio». Di qui, la violazione dell'art. 117, terzo comma, Cost. Ugualmente illegittima - per il suo carattere dettagliato nella materia urbanistica, e per violazione dei poteri e doveri di controllo spettanti alle regioni, e' la norma secondo cui «tale variante, in quanto relativa a singoli immobili, non necessita di verifiche di conformita' agli eventuali atti di pianificazione sovraordinata di competenza delle province e delle regioni» ma che «la verifica di conformita' e' comunque richiesta e deve essere effettuata entro il termine perentorio di trenta giorni dalla data di ricevimento della richiesta, nei casi di varianti relative a terreni classificati come agricoli dallo strumento urbanistico generale vigente, ovvero nei casi che comportano variazioni volumetriche superiori al 10 per cento dei volumi previsti dal medesimo strumento urbanistico vigente». Da una parte, infatti, e' evidente il carattere dettagliato della regola; dall'altra proprio per il fatto che si tratta di vicende che involgono singoli immobili risulta evidente che non vi e' un interesse unitario che possa giustificare un intervento statale e la sottrazione alla disciplina urbanistica regionale dei casi in cui sia opportuno o non opportuno procedere ad una verifica di conformita'. 18) Illegittimita' costituzionale dell'art. 61, commi 8, 9, 14, 16, 20 e 21. Nel Titolo III, Stabilizzazione della finanza pubblica, all'interno del Capo I, Bilancio dello Stato, e' collocato l'art. 61. Ulteriori misure di riduzione della spesa ed abolizione della quota di partecipazione al costo per le prestazioni di assistenza specialistica. Il comma 8 stabilisce che, «a decorrere dal l° gennaio 2009, la percentuale prevista dall'art. 92, comma 5, del codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, e' destinata nella misura dello 0,5 per cento alle finalita' di cui alla medesima disposizione e, nella misura dell'1,5 per cento, e' versata ad apposito capitolo dell'entrata del bilancio dello Stato». Il richiamato art. 92, comma 5, del d. lgs. n. 163/2006 dispone che «una somma non superiore al due per cento dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un lavoro, comprensiva anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione,... e' ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con le modalita' e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonche' tra i loro collaboratori». Il comma 5 aggiunge che «la percentuale effettiva, nel limite massimo del due per cento, e' stabilita dal regolamento in rapporto all'entita' e alla complessita' dell'opera da realizzare», che «la ripartizione tiene conto delle responsabilita' professionali connesse alle specifiche prestazioni da svolgere» e che «le quote parti della predetta somma corrispondenti a prestazioni che non sono svolte dai predetti dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, costituiscono economie». Il comma 9 dell'art. 61 statuisce che «il 50 per cento del compenso spettante al dipendente pubblico per l'attivita' di componente o di segretario del collegio arbitrale e' versato direttamente ad apposito capitolo del bilancio dello Stato», per essere destinato alle finalita' di seguito indicate; la medesima disposizione «si applica al compenso spettante al dipendente pubblico per i collaudi svolti in relazione a contratti pubblici di lavori, servizi e forniture». Dunque, i commi 8 e 9 dell'art. 61 sono accomunati dal fatto di «avocare» allo Stato una parte delle somme spettanti (ai sensi dell'art. 92, comma 5, d. lgs. n. 163/2006) ai dipendenti pubblici per le attivita' connesse ai lavori pubblici ed una parte delle somme spettanti ai dipendenti pubblici per l'attivita' svolta nell'ambito di un arbitrato o di un collaudo. Le due disposizioni si rivolgono genericamente ai dipendenti pubblici e, dunque, sembrano comprendere anche quelli regionali e degli enti pararegionali; naturalmente, qualora codesta Corte ritenesse possibile un'interpretazione adeguatrice, tale da limitare l'ambito di applicazione dei commi 8 e 9 ai dipendenti statali, verrebbero meno le ragioni di doglianza. Invece, se (come risulta dalla lettera) i commi 8 e 9 valgono per i dipendenti pubblici in genere, essi risultano palesemente lesivi dell'autonomia finanziaria regionale. Le norme in questione fanno riferimento al caso in cui un dipendente regionale svolga, per conto della regione, un'attivita' relativa ad un lavoro pubblico aggiudicato dalla regione stessa. Nel caso del comma 8 le somme spettanti al dipendente provengono dalla regione aggiudicatrice; nel caso del comma 9 almeno possono provenire dalla Regione che sia parte di un giudizio arbitrale sorto in relazione ad un'opera pubblica aggiudicata dalla Regione. In entrambi i casi si tratta comunque di somme collegate ad attivita' regionali, svolte da dipendenti regionali. In questa situazione - e pur ammesso che la legge possa privare il dipendente delle somme in questione o di parte di esse per acquisirle alle risorse pubbliche (questione sulla quale la regione non ha titolo ad intervenire in questa sede) - sembra evidente che tali risorse debbono spettare alle stesse regioni, anziche' allo Stato: dato che l'attivita' e' stata svolta dal dipendente per conto della Regione, in luogo dell'ordinaria attivita' lavorativa, e la somma proveniva (o nel caso degli arbitrati puo' eventualmente provenire) dalla regione. Se la legge statale non puo' condizionare l'uso che la regione fa delle proprie risorse (tranne i vincoli derivanti dai principi di coordinamento della finanza pubblica; si puo' ricordare che la sent. n. 169/2007 ha annullato una norma che imponeva «una puntuale modalita' di utilizzo di risorse proprie delle regioni, cosi' da risolversi in una specifica prescrizione di destinazione di dette risorse»), essa a maggior ragione non puo' avocare al bilancio statale compensi che la Regione ha dato ai propri dipendenti per attivita' svolte per conto della regione. La stranezza, prima ancora che l'illegittimita' dei commi 8 e 9, cosi' intesi, rende concepibile l'interpretazione adeguatrice sopra ipotizzata ma, qualora essi fossero ritenuti non limitati ai dipendenti statali, sarebbero chiaramente lesivi dell'autonomia finanziaria regionale (art. 119 Cost.). Se lo Stato ritiene di rinforzare le finanze pubbliche togliendo ai dipendenti pubblici quello che a loro spetta a termini di legge, deve almeno farlo rispettando il principio di ragionevolezza e l'autonomia finanziaria degli enti territoriali: dunque, i compensi erogati dalla regione a fronte di attivita' svolte da dipendenti regionali in luogo dell'ordinaria attivita' lavorativa devono restare nell'ambito del sistema regionale. Di qui l'illegittimita' dei commi 8 e 9 nella parte in cui prevedono che le somme ivi contemplate affluiscano al bilancio statale invece che a quello regionale, qualora si tratti di dipendenti regionali e di enti pararegionali. Il comma 14 dell'art. 61 stabilisce che, «a decorrere dalla data di conferimento o di rinnovo degli incarichi i trattamenti economici complessivi spettanti ai direttori generali, ai direttori sanitari, ai direttori amministrativi, ed i compensi spettanti ai componenti dei collegi sindacali delle aziende sanitarie locali, delle aziende ospedaliere, delle aziende ospedaliero universitarie, degli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico e degli istituti zooprofilattici sono rideterminati con una riduzione del 20 per cento rispetto all'ammontare risultante alla data del 30 giugno 2008». La limitazione di spesa contenuta in tale disposizione risulta illegittima. Con tutta evidenza, infatti, essa rappresenta un limite puntuale ad una specifica voce di spesa: e contrasta dunque con l'autonomia finanziaria della scrivente regione, come codesta Corte costituzionale ha avuto piu' volte occasione di precisare. Particolarmente interessante, per l'analogia della fattispecie, e' la sent. n. 157/2007, che ha dichiarato illegittimo il comma 54 della legge n. 266/2005, che riduceva del 10% le indennita' corrisposte ai titolari degli organi politici regionali (v., poi, le sentt.nn. 95/2007, 89/2007, 88/2006, 449/2905 e 417/2005). Il comma 14 non possiede alcuno dei caratteri che, secondo la giurisprudenza costituzionale, devono possedere i principi di coordinamento della finanza pubblica, in quanto non ha carattere transitorio, colpisce una voce minuta di spesa e non lascia margine di scelta alle regioni per il conseguimento dell'obiettivo di risparmio. Di qui la violazione dell'art. 117, terzo comma, e dell'art. 119 Cost., in quanto lo Stato lede con norma di dettaglio l'autonomia finanziaria regionale. Il comma 16 dispone che, «ai fini del contenimento della spesa pubblica, le regioni, entro il 31 dicembre 2008, adottano disposizioni, normative o amministrative, finalizzate ad assicurare la riduzione degli oneri degli organismi politici e degli apparati amministrativi, con particolare riferimento alla diminuzione dell'ammontare dei compensi e delle indennita' dei componenti degli organi rappresentativi e del numero di questi ultimi, alla soppressione degli enti inutili, alla fusione delle societa' partecipate, al ridimensionamento delle strutture organizzative ed all'adozione di misure analoghe a quelle previste nel presente articolo». Esso inoltre afferma che «la disposizione di cui al presente comma costituisce principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica, ai fini del rispetto dei parametri stabiliti dal patto di stabilita' e crescita dell'Unione europea», e dispone ancora che «i risparmi di spesa derivanti dall'attuazione del presente comma, aggiuntivi rispetto a quelli previsti dal patto di stabilita' interno, concorrono alla copertura degli oneri derivanti dall'attuazione del comma 19» (che abolisce il ticket per gli anni 2009, 2010 e 2011). In questi termini, il comma 16 si autoqualifica come principio di coordinamento della finanza pubblica ma, in realta', ha - almeno in parte - contenuto dettagliato, in quanto «la riduzione degli oneri degli organismi politici e degli apparati amministrativi, con particolare riferimento alla diminuzione dell'ammontare dei compensi e delle indennita' dei componenti degli organi rappresentativi e del numero di questi ultimi» non puo' essere assicurata che con... la diminuzione dei compensi e del numero dei componenti degli organi rappresentativi. Dunque, la legge statale sembra lasciare spazio alle regioni ma, in realta', detta una norma dettagliata che le regioni devono solo recepire. In altre parole, il comma 16 e', in questa parte, affetto dai medesimi vizi sopra illustrati a proposito del comma 14 e non e' diverso dalla norma gia' annullata da codesta Corte con la sent. n. 157/2007, che ha dichiarato illegittimo il comma 54 della legge n. 266/2005, che riduceva del 10% le indennita' corrisposte ai titolari degli organi politici regionali. Ne' sostanzialmente diverso e' il contenuto del comma 16 la' dove prevede la soppressione degli enti inutili, la fusione delle societa' partecipate ed il ridimensionamento delle strutture organizzative. E' chiaro che qui la regione ha un minimo margine di scelta perche' deve individuare gli enti inutili, le societa' da fondere e le strutture da ridimensionare ma si tratta di un margine irrisorio (che implica valutazioni «tecniche» piu' che politiche) e, comunque, il comma 16 impone sempre «tagli» a specifiche voci di spesa, non transitori. Di qui l'illegittimita' del comma 16, anche in questa parte, per violazione dell'art. 117, commi 3 e 4, e dell'art. 119 Cost., in quanto si dettano norme di dettaglio in materia di coordinamento finanziario, lesive dell'autonomia organizzativa e finanziaria regionale. Infine, anche l'ultima parte del comma 16 risulta illegittima, la' dove destina i risparmi derivanti dall'attuazione del comma 16 «alla copertura degli oneri derivanti dall'attuazione del comma 19». Lo Stato non puo' condizionare l'uso che la regione fa delle proprie risorse imponendo di destinarle ad un certo settore (nel caso di specie, la sanita') in quanto, in questo modo, si eccede dai limiti dei principi di coordinamento finanziario (art. 117, terzo comma) e si pone un vincolo all'autonomia regionale di spesa (art. 119 Cost.). La sent. n. 169/2007 ha annullato una norma che imponeva «una puntuale modalita' di utilizzo di risorse proprie delle regioni, cosi da risolversi in una specifica prescrizione di destinazione di dette risorse». Per le medesime ragioni e' illegittimo il comma 20, lettera b), dell'art. 61, in base al quale «ai fini della copertura degli oneri derivanti dall'attuazione del comma 19... le regioni: 1) destinano, ciascuna al proprio servizio sanitario regionale, le risorse provenienti dalle disposizioni di cui ai commi 14 e 16; 2) adottano ulteriori misure di incremento dell'efficienza e di razionalizzazione della spesa, dirette a realizzare la parte residuale della copertura degli oneri derivanti dall'attuazione del comma 19». Il comma 20 condiziona l'uso di risorse in parte gia' definite (quelle risparmiate ex comma 14), in parte non definite con precisione (quelle risparmiate ex comma 16) o non definite affatto (quelle di cui al n. 2 del comma 20). In tutti i casi, pero', resta il condizionamento all'uso di risorse regionali, illegittimo per le ragioni sopra viste. Quanto infine al comma 21, esso stabilisce che «le regioni, comunque, in luogo della completa adozione delle misure di cui ai commi 14 e 16 ed al numero 2) della lettera b) del comma 20 possono decidere di applicare, in misura integrale o ridotta, la quota di partecipazione abolita ai sensi del comma 19, ovvero altre forme di partecipazione dei cittadini alla spesa sanitaria di effetto finanziario equivalente», aggiungendo che, «ai fini dell'attuazione di quanto previsto al comma 20, lettera b), e al primo periodo del presente comma, il Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali, di concerto con il Ministero dell'economia e delle finanze, comunica alle regioni, entro il 30 settembre 2008, l'importo che ciascuna di esse deve garantire ai fini dell'equivalenza finanziaria». I commi 16, 20 e 21 rivelano la chiara consapevolezza dello squilibrio che l'abolizione del ticket (disposta dal comma 19) produce per la finanza regionale, in quanto si preoccupano di prevedere risorse alternative. Il punto e' che, pero', essi prevedono solo in parte risorse statali (comma 20, lettera a), «scaricando» invece sulle regioni la maggior parte delle conseguenze dell'abolizione del ticket. Sulle regioni, quindi, vengono addossate le conseguenze della scelta politica statale, potendo esse solo diminuire i «tagli» di cui ai commi 14, 16 e 20, reintroducendo il ticket: esse, cioe', dovrebbero «togliere» ai cittadini il beneficio che il legislatore statale ha espressamente voluto dare loro. In questo modo, pero', la legge statale viola il principio di leale collaborazione e l'art. 119, quarto comma, Cost., cioe' il principio di corrispondenza fra funzioni e risorse, perche' dalle norme impugnate risulta chiaramente che il ticket e' considerato dallo Stato stesso essenziale per il funzionamento del S.S.N. ma la legge statale lo abolisce senza preoccuparsi di fornire le risorse alternative. Dica la legge statale - nel definire le prestazioni del servizio sanitario nazionale - se il ticket e' dovuto o meno. Se lo ritiene non dovuto, tuttavia, non puo' imporre alle regioni di «risparmiare» in specifici settori da esso indicati, ma deve comunque consentire alla regioni di far fronte alle necessita' del servizio sanitario con risorse adeguate: che non possono tuttavia consistere... nella reintroduzione di un ticket che lo Stato ritiene di sopprimere proprio a titolo di livello essenziale delle prestazioni sociali. Di qui l'illegittimita' anche del comma 21, in quanto rientrante nel sistema di norme con le quali lo Stato elude la propria responsabilita' derivante dall'abolizione del ticket, addossando alle regioni le conseguenze negative in termini finanziari. 19) Illegittimita' costituzionale dell'art. 64, commi 3, 4, 4, lettera f-bis), nonche' illegittimita' costituzionale dell'art. 3 del decreto-legge 7 ottobre 2008, n. 154. a) Illegittimita' costituzionale dell'art. 64, comma 3. Dopo avere formulato una disposizione di grande principio al comma 1, e posto al comma 2 l'obbiettivo programmatico di «conseguire, nel triennio 2009-2011 una riduzione complessiva del 17 per cento della consistenza numerica della dotazione organica determinata per l'anno scolastico 2007/2008» il comma 3 stabilisce che «per la realizzazione delle finalita' previste dal presente articolo, il Ministro dell'istruzione, dell'universita' e della ricerca di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, sentita la Conferenza unificata di cui all'art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e previo parere delle Commissioni Parlamentari competenti per materia e per le conseguenze di carattere finanziario, predispone, entro quarantacinque giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, un piano programmatico di interventi volti ad una maggiore razionalizzazione dell'utilizzo delle risorse umane e strumentali disponibili, che conferiscano una maggiore efficacia ed efficienza al sistema scolastico». Tale Piano programmatico di interventi non rientra, come sembra ovvio, tra le «norme generali sull'istruzione», di cui all'art. 117, comma secondo, lettera n), bensi' nella generale materia istruzione, che l'art. 117, comma terzo, affida alla potesta' legislativa regionale, salva la determinazione dei principi fondamentali con legge statale. Il Piano programmatico di interventi, che evidentemente non e' ne' legge, ne' enunciazione di principi fondamentali, non puo' che trovare fondamento nella «chiamata in sussidiarieta'» dello Stato, per il conseguimento di obiettivi che - nell'attuale situazione di sostanziale inattuazione della dovuta regionalizzazione delle scuole - non potrebbero essere rimessi alle sole regioni. Tuttavia, secondo gli insegnamenti di codesta ecc.ma Corte costituzionale, la chiamata in sussidiarieta' non puo' non accompagnarsi al pieno coinvolgimento dei soggetti costituzionalmente titolari del potere legislativo in materia, cioe' delle regioni. Tale pieno coinvolgimento non e' realizzato dal semplice «parere», previsto dal comma 3, ma deve necessariamente consistere nell'intesa, nella quale si esprime non la mera «partecipazione» alla decisione, ma la sua necessaria condivisione (sent. n. 303 del 2003). Di qui l'illegittimita' della previsione del semplice parere della Conferenza unificata, per violazione dei principi di competenza legislativa, sussidiarieta' e leale cooperazione di cui agli artt. 117, comma terzo e 118 comma primo della Costituzione. b) Illegittimita' costituzionale dell'articolo 64, comma 4. Specifica illegittimita' costituzionale del comma 4, lettera f-bis). Il comma 4 dell'articolo 64 dispone che «per l'attuazione del piano di cui al comma 3, con uno o piu' regolamenti da adottare entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto ed in modo da assicurare comunque la puntuale attuazione del piano di cui al comma 3, in relazione agli interventi annuali ivi previsti, ai sensi dell'art. 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta del Ministro dell'istruzione, dell'universita' e della ricerca di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, sentita la Conferenza unificata di cui al citato decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, anche modificando le disposizioni legislative vigenti, si provvede ad una revisione dell'attuale assetto ordinamentale, organizzativo e didattico del sistema scolastico». Di seguito, tale comma enuncia con le lettere da a) a f-ter) i «criteri» che la disciplina regolamentare dovra' rispettare. Ora, gia' dalla destinazione legislativa dei regolamenti in questione alla «revisione dell'attuale assetto ordinamentale, organizzativo e didattico del sistema scolastico» risulta evidente che essi non si riferiscono alla sola area assegnabile alle norme generali sull'istruzione, ma riguardano l'intero assetto del sistema scolastico, e dunque la materia concorrente istruzione. In particolare, l'assetto organizzativo del sistema scolastico non puo' essere ricondotto alle «norme generali sull'istruzione». Esso non puo' dunque essere disciplinato con regolamento statale, dato che, ai sensi dell'art. 117, comma sesto, della Costituzione, il potere regolamentare dello Stato esiste soltanto nelle materie di sua potesta' legislativa esclusiva. Ove per qualunque ragione qui non preveduta (posto che la «chiamata in sussidiarieta'» non puo' valere a fondare poteri regolamentari - sentenza n. 303 del 2003) dovesse risultare ammissibile un regolamento statale al di fuori delle materie di legislazione esclusiva, in subordine la procedura di emanazione sarebbe comunque illegittima, in quanto prevede un semplice parere, anziche' l'intesa della Conferenza unificata. In effetti, ogni atto statale al di fuori della legislazione di principio ad esso spettante non potrebbe che essere assunto con il consenso delle regioni. Inoltre, la disciplina degli aspetti organizzativi del sistema scolastico (ed in realta' anche quella degli aspetti ordinamentali e didattici) mediante regolamento altera anche su un piano generale il sistema costituzionale delle fonti. Si tratterebbe, infatti, di regolamenti detti «di delegificazione», come e' reso esplicito dal richiamo all'art. 17, comma secondo, della legge n. 400 del 1988, e dalla circostanza che essi sono abilitati ad intervenire «modificando le disposizioni legislative vigenti». Per vero, tale formulazione e' essa stessa il sintomo dell'alterazione del sistema delle fonti, dal momento che nella logica di tale sistema costituzionale il regolamento non e' mai esso a modificare la legislazione vigente: supponendosi invece che sia la legge ad abrogare la precedente disciplina legislativa, a partire dal momento dell'entrata in vigore del regolamento. Laddove invece la modifica della legge ad opera del regolamento viola uno degli elementi essenziali del valore e forza di legge, che consiste appunto nella impossibilita' di modifica da parte di fonti inferiori. Ancor piu' grave, tuttavia, e' la completa assenza di quella disciplina legislativa delle «norme generali regolatrici della materia» (oltre che di quelle che «dispongono l'abrogazione delle norme vigenti») previste dalla predetta legge statale, in attuazione del precetto costituzionale. Lo stesso comma 4, dopo avere demandato al regolamento le materie di cui si e' detto, provvede a dettare alcuni criteri che la disciplina di tali materie dovra' rispettare. La maggiore parte di tali criteri si riferiscono ad oggetti facenti parte delle norme generali sull'istruzione. Tuttavia, in sede di conversione e' stata aggiunto in tale elenco di criteri la lettera f-bis), la quale non specifica alcun criterio, ma piuttosto affida al regolamento del Governo un nuovo oggetto: la «definizione di criteri, tempi e modalita' per la determinazione e l'articolazione dell'azione di ridimensionamento della rete scolastica prevedendo, nell'ambito delle risorse disponibili a legislazione vigente, l'attivazione di servizi qualificati per la migliore fruizione dell'offerta formativa». La previsione della disciplina regolamentare statale di tali oggetti e' illegittima per violazione dell'art. 117, sesto comma. Non puo' infatti essere dubbio che la materia sia di competenza regionale, come codesta ecc.ma Corte costituzionale ha gia' avuto modo di stabilire con la sentenza n. 34/2005, occasionata dall'impugnazione statale della legge di questa regione n. 12 del 2003, recante Norme per l'uguaglianza delle opportunita' di accesso al sapere, per ognuno e per tutto l'arco della vita, attraverso il rafforzamento dell'istruzione e della formazione professionale, anche in integrazione tra loro. L'art. 44, comma 1, lettera c), di tale legge affidava al Consiglio regionale il compito di approvare, tra l'altro, i «criteri per la definizione dell'organizzazione della rete scolastica, ivi compresi i parametri dimensionali delle istituzioni scolastiche». Tale sentenza, nel respingere la censura di violazione dell'art. 117, secondo comma, lettera n), Cost., ha espressamente affermato che tra le funzioni spettanti alle regioni va annoverato «anzitutto quelle di programmazione dell'offerta formativa integrata tra istruzione e formazione professionale (art. 138, comma 1, lettera a), e di programmazione della rete scolastica (art. 138, comma 1, lettera b)». La Corte ha anche rilevato che tale funzione era stata assegnata alle regioni sin dal d.P.R. del 18 giugno 1998, n. 233 (art. 3, comma 1), e che «e' da escludersi che il legislatore costituzionale del 2001 "abbia voluto spogliare le regioni di una funzione che era gia' ad esse conferita''» (cosi' la sentenza, riprendendo la precedente n. 13 del 2004). Tale materia, dunque, non puo' essere assegnata alla competenza regolamentare dello Stato, tanto piu' in assenza di una procedura di intesa con la regione. Di qui la specifica illegittimita' costituzionale del comma 4, lettera f-bis). c) Illegittimita' costituzionale dell'art. 3 del decreto-legge 7 ottobre 2008, n. 154, recante Disposizioni urgenti per il contenimento della spesa sanitaria e in materia di regolazioni contabili con le autonomie locali. A poche settimane di distanza dalla approvazione della legge di conversione n. 133 del 2008, il Governo ha ritenuto necessario ritornare sulla materia, e cio' ha fatto tuttavia in modo del tutto estemporaneo, approfittando della «occasione» offerta dall'emanazione del decreto-legge 7 ottobre 2008, n. 154, recante Disposizioni urgenti per il contenimento della spesa sanitaria e in materia di regolazioni contabili con le autonomie locali. In esso e' stato infatti inserito l'art. 3, che cosi' dispone: 1. All'articolo 64 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, dopo il comma 6 e' inserito il seguente: «6-bis. I piani di ridimensionamento delle istituzioni scolastiche, rientranti nelle competenze delle regioni e degli enti locali, devono essere in ogni caso ultimati in tempo utile per assicurare il conseguimento degli obiettivi di razionalizzazione della rete scolastica previsti dal presente comma, gia' a decorrere dall'anno scolastico 2009/2010 e comunque non oltre il 30 novembre di ogni anno. Il Presidente del Consiglio dei Ministri, con la procedura di cui all'art. 8, comma 1, della legge 5 giugno 2003, n. 131, su proposta del Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con il Ministro dell'istruzione, dell'universita' e della ricerca, sentito il Ministro per i rapporti con le regioni, diffida le regioni e gli enti locali inadempienti ad adottare, entro quindici giorni, tutti gli atti amministrativi, organizzativi e gestionali idonei a garantire il conseguimento degli obiettivi di ridimensionamento della rete scolastica. Ove le regioni e gli enti locali competenti non adempiano alla predetta diffida, il Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con il Ministro dell'istruzione, dell'universita' e della ricerca, sentito il Ministro per i rapporti con le regioni, nomina un commissario ad acta. Gli eventuali oneri derivanti da tale nomina sono a carico delle regioni e degli enti locali.». Senonche', tale art. 3 del decreto-legge, ed il comma 6bis da esso inserito, sono costituzionalmente illegittimi. E' agevole osservare, in primo luogo, che la materia del decreto-legge non ha nulla a che vedere con l'istruzione, e che dunque risultano violate le regole di emanazione dei decreti-legge stabilite, in attuazione della Costituzione, dall'art. 15, comma 3, della legge n. 400 del 1988, secondo cui «i decreti devono contenere misure di immediata applicazione e il loro contenuto deve essere specifico, omogeneo e corrispondente al titolo». Mancano infatti ad evidenza tutti requisiti: non si tratta di misure di immediata applicazione (dato che la programmazione riguarda l'anno scolastico 2009/2010 e i seguenti - non si tratta di misure omogenee al resto del decreto, l'art. 3 non corrisponde al titolo. Tuttavia, la mancata corrispondenza ai requisiti posti dalla legge n. 400 del 1988 potrebbe ancora considerarsi un vizio minore (nonostante il carattere attuativo della Costituzione proprio di tale legge), di fronte all'evidente mancanza del piu' importante dei requisiti posti dalla stessa Costituzione: l'esistenza di una situazione di necessita' e di urgenza (la Costituzione, addirittura, richiederebbe - come ben noto - casi straordinari di necessita' ed urgenza). Nel caso dell'art. 3 del decreto-legge n. 154 del 2008 il difetto di necessita' ed urgenza e' da un lato evidente sulla base della disciplina dettata: la quale - come sopra detto - si riferisce non all'anno scolastico che e' appena iniziato, ma a quelle che iniziera' nel settembre del 2009: con sufficiente tempo a disposizione per l'approvazione di norme di legge mediante il procedimento legislativo ordinario, e con le relative garanzie (ivi compresa la partecipazione - pur non attuata ancora - delle regioni attraverso la Commissione integrata di cui all'art. 11 della legge cost. n. 3 del 2001). D'altro lato, nel caso dell'art. 3 una situazione di necessita' ed urgenza non solo non esiste, ma non e' neppure dichiarata dal Governo. Infatti, nel preambolo del decreto si legge che il Governo ha ritenuto «la straordinaria necessita' ed urgenza di adottare disposizioni in materia di gestione commissariale delle regioni che non rispettino gli adempimenti previsti dai piani di rientro dai deficit sanitari»; e che esso ha ritenuto, altresi', «la straordinaria necessita' ed urgenza di adottare disposizioni in materia di contabilita' degli enti locali per consentire l'ordinaria gestione contabile in considerazione della scadenza del termine per l'approvazione del bilancio di assestamento dei medesimi enti»; e che esso ha «infine» ravvisato «la necessita' e l'urgenza di provvedere alla riprogrammazione delle risorse di cui alla delibera CIPE del 30 settembre 2008». Come si vede, neppure il Governo dichiara la minima necessita' ed urgenza di provvedere in materia di dimensionamento della rete scolastica. Pacifico che il difetto di necessita' ed urgenza rende irrimediabilmente illegittima la disciplina emanata per decreto-legge (v. sentenze n. 171 del 2007 e n. 128 del 2008), la regione e' legittimata a lamentare la violazione sia in ragione del contenuto del decreto-legge, che in tale forma addirittura dispone un potere sostitutivo dello Stato, sia in ragione della circostanza che anche in suo favore sono stabilite dalla Costituzione le garanzie del procedimento legislativo ordinario. Illegittimo in quanto impropriamente approvato con decreto-legge, l'art. 3 e' costituzionalmente illegittimo anche quanto al suo contenuto: sia in quanto pone norme di dettaglio per l'approvazione dei piani di dimensionamento (che la legge chiama ora - curiosamente - piani di «ridimensionamento») previsti dall'art. 21 della legge n. 59 del 2007 e dal d.P.R. n. 233 del 1998, sia in quanto, in assenza di esigenze cogenti di carattere unitario, prevede un potere del Governo di sostituirsi alle regioni che non rispettino il termine posto dalla legge statale. Sotto il primo profilo, infatti, e' evidente il carattere dettagliato ed arbitrario della fissazione del termine al «30 novembre di ciascun anno», anziche' nei termini autonomamente previsti dalle regioni in relazione alle caratteristiche del proprio procedimento decisionale. Sotto il secondo profilo, non si puo' certo dire che l'eventuale ritardata approvazione di un piano regionale (o a maggiore ragione di un ente locale) si rifletta sulle altre regioni, o addirittura sull'intero paese. Di qui l'illegittimita' costituzionale del contenuto della disposizione sotto i profili indicati. 20) Illegittimita' costituzionale dell'art. 81, commi 29, 30, 32, 33, 34, 35, 36, 38 e 38-bis. Il comma 29 dell'art. 81 (Settori petrolifero e del gas) istituisce un «Fondo speciale destinato al soddisfacimento delle esigenze prioritariamente di natura alimentare e successivamente anche energetiche e sanitarie dei cittadini meno abbienti». Il comma 30 indica le fonti di alimentazione del Fondo, fra le quali «trasferimenti dal bilancio dello Stato» (lettera d). Il comma 32 istituisce la c.d. «social card», stabilendo che, «in considerazione delle straordinarie tensioni cui sono sottoposti i prezzi dei generi alimentari e il costo delle bollette energetiche, nonche' il costo per la fornitura di gas da privati, al fine di soccorrere le fasce deboli di popolazione in stato di particolare bisogno e su domanda di queste, e' concessa ai residenti di cittadinanza italiana che versano in condizione di maggior disagio economico, individuati ai sensi del comma 33, una carta acquisti finalizzata all'acquisto di tali beni e servizi, con onere a carico dello Stato». Il comma 33 dispone che «con decreto interdipartimentale del Ministero dell'economia e delle finanze e del Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali, sono disciplinati,... i criteri e le modalita' di individuazione dei titolari del beneficio di cui al comma 32» (tenendo conto degli elementi di seguito indicati), «l'ammontare del beneficio unitario», «le modalita' e i limiti di utilizzo del Fondo di cui al comma 29 e di fruizione del beneficio di cui al comma 32». Il comma 34 prevede che, «ai fini dell'attuazione dei commi 32 e 33,... il Ministero dell'economia e delle finanze puo' avvalersi di altre amministrazioni, di enti pubblici, di Poste italiane S.p.A., di SOGEI S.p.A. o di CONSIP S.p.A.». Il comma 35 statuisce che «il Ministero dell'economia e delle finanze, ovvero uno dei soggetti di cui questo si avvale ai sensi del comma 34, individua: a) i titolari del beneficio di cui al comma 32, in conformita' alla disciplina di cui al comma 33; b) il gestore del servizio integrato di gestione delle carte acquisti e dei relativi rapporti amministrativi». Il comma 36 stabilisce che «le pubbliche amministrazioni e gli enti pubblici che detengono informazioni funzionali all'individuazione dei titolari del beneficio di cui al comma 32... forniscono, in conformita' alle leggi che disciplinano i rispettivi ordinamenti, dati, notizie, documenti e ogni ulteriore collaborazione richiesta dal Ministero dell'economia e delle finanze o dalle amministrazioni o enti di cui questo si avvale, secondo gli indirizzi da questo impartiti». Il comma 38 dispone che «agli oneri derivanti dall'attuazione dei commi da 32 a 37 si provvede mediante utilizzo' del Fondo di cui al comma 29». Il comma 38-bis prevede che il Governo presenti una relazione al Parlamento sull'attuazione della carta acquisti. Le norme sopra illustrate non possono non stupire per la totale estromissione delle regioni (il cui coinvolgimento in fase di attuazione e' reso del tutto eventuale e, pare, improbabile, non apparendovi esse che uno dei vari soggetti - neppure nominati ma confuse con gli altri enti pubblici! - di cui il Ministero puo' avvalersi ai sensi del comma 34) in una materia di competenza regionale piena. Le norme in questione, infatti, non solo istituiscono un fondo settoriale nella materia delle politiche sociali (il che gia' sarebbe illegittimo, come piu' volte riconosciuto da codesta Corte) ma - invece di ripartire il fondo tra le regioni - prevedono una regolazione ed una gestione del tutto accentrata del fondo (con erogazione diretta ai privati), senza alcun coinvolgimento delle regioni. Il comma 33 prevede un decreto «interdipartimentale» (dunque, neppure adottato da Ministri ma da dirigenti ministeriali) che ha sostanza di regolamento attuativo della legge, essendo volto a definire i criteri e le modalita' di individuazione dei titolari del beneficio, l'ammontare del beneficio unitario e le modalita' e i limiti di utilizzo del Fondo e di fruizione del beneficio. I commi 34 e 35 danno competenza al Ministero dell'economia (che puo' «avvalersi» di altri soggetti pubblici o privati) per la fase di attuazione e per l'individuazione dei titolari del beneficio e del gestore del servizio integrato di gestione delle carte acquisti e dei relativi rapporti amministrativi. Codesta Corte ha piu' volte colpito i finanziamenti (ripartiti tra le regioni) a destinazione vincolata in quanto essi rappresentano «uno strumento indiretto, ma pervasivo, di ingerenza dello Stato nell'esercizio delle funzioni delle regioni e degli enti locali, nonche' di sovrapposizione di politiche e di indirizzi governati centralmente a quelli legittimamente decisi dalle regioni negli ambiti materiali di propria competenza» (cosi' la sent. n. 423/2004, proprio in materia di politiche sociali), ma e' chiaro che ancora piu' gravi e lesive sono norme che non si limitano a condizionare le regioni ma le estromettono totalmente dalla materia di loro competenza. Ne' a fondamento della competenza statale puo' invocarsi la «concorrenza delle competenze», dato che il fondo riguarda solo la materia delle politiche sociali. Neppure puo' invocarsi la sussidiarieta', dato che non esistono esigenze di gestione unitaria della carta acquisti ne' di definizione unitaria dei criteri e delle modalita' di erogazione. Le norme indicate in epigrafe, dunque (e tranne il comma 36, che sara' esaminato a parte), violano l'autonomia legislativa, regolamentare, amministrativa e finanziaria di cui all'art. 117, commi 4 e 6, all'art. 118, commi 1 e 2, e all'art. 119 Cost., in quanto istituiscono un fondo settoriale nella materia delle politiche sociali e prevedono poteri regolamentari e amministrativi in relazione al medesimo fondo, invece di attribuire le corrispondenti risorse alle regioni e di lasciare a queste le conseguenti scelte in materia di regolazione degli interventi e di allocazione delle funzioni amministrative. E' da sottolineare che la recente sentenza n. 168/2008 di codesta ecc.ma Corte ha deciso un ricorso su una fattispecie analoga, colpendo un fondo (in quanto incidente «esclusivamente su una materia di competenza legislativa regionale») che finanziava «interventi, di carattere sociale, relativi alla riduzione dei costi delle forniture di energia per usi civili a favore di clienti economicamente disagiati, anziani e disabili» e interveniva, percio', «nella materia, di potesta' legislativa residuale delle regioni, dei "servizi sociali''», inerendo ad attivita' riguardanti la "predisposizione ed erogazione di servizi, gratuiti e a pagamento, o di prestazioni economiche destinate a rimuovere e superare le situazioni di bisogno e di difficolta' che la persona umana incontra nel corso della sua vita'' (sentenza n. 50 del 2008)». La Corte ha accolto la questione di costituzionalita', «non sussistendo alcun titolo di competenza esclusiva statale che giustifichi il vincolo di destinazione del fondo in tale materia», ed ha annullato la norma che poneva il vincolo di destinazione specifica del fondo per interventi di riduzione dei costi della fornitura energetica per finalita' sociali e disponeva che, con decreto ministeriale, dovevano essere stabiliti le condizioni, le modalita' e i termini per l'utilizzo della dotazione del fondo stesso. La Corte ha anche precisato che «da tale pronuncia di illegittimita' costituzionale consegue che a ciascuna regione dovra' essere assegnata genericamente, per il perseguimento di finalita' sociali, la quota parte del fondo loro spettante, senza il suindicato vincolo di destinazione specifica (sentenze n. 118 del 2006 e n. 423 del 2004)». La Corte ha dichiarato l'illegittimita' di norme che prevedevano fondi settoriali in materia di politiche sociali anche con le sentt. 50/2008 e 423/2004. In denegata ipotesi, qualora codesta Corte dovesse ritenere giustificato il potere regolativo statale di cui al comma 33, tale disposizione sarebbe comunque illegittima per violazione del principio di leale collaborazione, nella parte in cui non prevede un'intesa con la Conferenza Stato-regioni, data la stretta inerenza del fondo alla materia delle politiche sociali. Anche in questa ipotesi, pero', resterebbe ferma l'illegittimita' dei commi 34 e 35, non sussistendo ragioni unitarie che giustifichino l'attribuzione al Ministero dei poteri di attuazione degli interventi e di individuazione dei titolari del beneficio e del gestore del servizio integrato di gestione delle carte acquisti e dei relativi rapporti amministrativi. Qualora, sempre in denegata ipotesi, anche questi poteri statali amministrativi fossero ritenuti legittimi, i commi 34 e 35 sarebbero pur sempre illegittimi per violazione del principio di leale collaborazione, nella parte in cui non prevedono un'intesa con la Conferenza Stato-regioni in relazione alla scelta di cui al comma 34 e agli atti di cui al comma 35. Infine, quanto al comma 36, esso risulta illegittimo la' dove prevede che le comunicazioni e collaborazioni richieste dal Ministero dell'economia e delle finanze (o dalle amministrazioni o enti di cui questo si avvale) debbano essere fornite «secondo gli indirizzi da questo impartiti». Se si puo' giustificare un dovere collaborativo e comunicativo fra enti territoriali, in ossequio al principio di leale collaborazione, non si puo' ammettere che il Ministero «impartisca» alle regioni indirizzi che regolano tale attivita' collaborativa. Le limitazioni che lo Stato puo' recare all'attivita' regionale sono solo quelle previste dalla Costituzione e, in materia di competenza regionale, lo Stato non puo' piu' emanare atti di indirizzo (v. le sentt. nn. 324/2005 e 329/2003 e l'art. 8, comma 6, legge n. 131/2003). Se anche si ritenesse il contrario, la norma impugnata sarebbe illegittima perche' l'atto di indirizzo dovrebbe essere adottato dal Consiglio dei ministri, secondo la normativa e la giurisprudenza pacifiche prima della riforma del Titolo V. Quanto al comma 38-bis, si tratta di norma accessoria la cui illegittimita' deriva da quella delle norme sulla carta acquisti.
P. Q. M. La Regione Emilia-Romagna, come sopra rappresentata e difesa, chiede voglia codesta Ecc.ma Corte costituzionale accogliere il ricorso, dichiarando l'illegittimita' costituzionale degli artt.: 2, comma 14; 4, comma 1; 6-quater, comma 2; 6-quinquies, commi 2 e 3; 7, comma 2; 8, comma 3; 9, comma 3; 10; 11, commi 1, 3, 4, 5, 8, 9, 11 e 12; 13, commi 1, 2, 3-bis e 3-quater; 23, comma 2; 23-bis, commi 7 e 10; 30, commi 1, 2 e 3; 35, comma 1; 38, comma 3; 43, comma 1; 58, commi 1 e 2; 61, commi 8, 9, 14, 16, 20 e 21; 64, commi 3 e' 4 e 6-bis, introdotto dal d.-l. 7 ottobre 2008, n. 154, 81, commi 29, 30, 32, 33, 34, 35, 36, 38 e 38-bis, del d.-l. 25 giugno 2008, n. 112, Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitivita', la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, nei termini e sotto i profili esposti nel presente ricorso. Padova-Roma, addi' 18 ottobre 2008 Prof. avv. Giandomenico Falcon - Avv. Luigi Manzi