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N. 70 RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 15 giugno 2006.
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Ricorso per questione di legittimita' costituzionale depositato in
cancelleria il 15 giugno 2006 (della Regione Piemonte)
(GU n. 29 del 19-7-2006)
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Ricorso per la Regione Piemonte in persona del presidente pro
tempore prof. Mercedes Bresso, in forza di autorizzazione della
giunta regionale dd.gr. n. 27-2689 del 24 aprile 2006 e n. 35-3061
del 5 giugno 2006, con la rappresentanza e difesa dell'avv. Anita
Ciavarra e dell'avv. Gabriele Pafundi e con elezione di domicilio
presso quest'ultimo in Roma, viale Giulio Cesare n. 14, per procura
speciale a margine del presente atto.
Contro il Presidente del Consiglio dei ministri pro tempore per
la declaratoria di illegittimita' costituzionale del decreto
legislativo 3 aprile 2006 n. 152 «Norme in materia ambientale» nel
suo complesso e con riguardo alle sue norme parte seconda, con
specifico rilievo degli artt. 5, 6, 12, 21, 22, 23 ed Allegato III,
25, 42, 43, 51; parte terza con specifico rilievo degli artt. 57, 63,
64, 65, 66, 67, 68, 91, 96, 104, 113, 114, 116, 117, 121, 141, 148,
150, 170, 174, 175, 176; parte quarta con specifico rilievo degli
artt. 181, 183, 186, 194, 195, 196, 197, 198, 199, 200, da 201 a 204,
205, 212, 214, 216, 238, 240, 242, 246, 252; parte quinta ed
Allegati, con specifico rilievo degli artt. 267, 269, 281, 283, 284,
287; parte sesta, con specifico rilievo degli artt. 301, 304, 305 e
da 308 a 315 per violazione degli artt. 3, 5, 76, 97, 114, 117, 118,
119, 120 della Costituzione, dei principi di leale collaborazione,
ragionevolezza, adeguatezza, differenziazione, sussidiarieta', buon
andamento della Pubblica Amministrazione e con riguardo anche alla
violazione di principi e norme del diritto comunitario e di
convenzioni internazionali, sotto i profili di seguito specificati
nei motivi di diritto.
P r e m e s s o i n f a t t o
Nel supplemento ordinario n. 96 alla Gazzetta Ufficiale, serie
generale n. 88 del 14 aprile 2006 e' stato pubblicato il decreto
legislativo 3 aprile 2006, n. 152, «Norme in materia ambientale».
In seguito alla legge di delega 15 dicembre 2004, n. 308, il
Governo ha emanato il detto unico decreto legislativo, suddiviso in
sei parti relative ai settori indicati nella legge di delega, art. 1,
comma 1, ad eccezione della gestione delle aree protette,
conservazione ed utilizzo. sostenibile degli esemplari di specie
protette di flora e fauna, e cosi' riguardanti: Parte I -
Disposizioni comuni; Parte II - Procedure per la valutazione
ambientale strategica (VAS), per la valutazione di impatto ambientale
(VIA) e per l'autorizzazione ambientale integrata (IPPC); Parte III -
Norme in materia di difesa del suolo e lotta alla desertificazione,
di tutela delle acque dall'inquinamento e di gestione delle risorse
idriche; Parte IV - Norme in materia di gestione dei rifiuti e di
bonifica dei siti inquinati; Parte V - Norme in materia di tutela
dell'aria e di riduzione delle emissioni in atmosfera; Parte VI -
Norme in materia di tutela risarcitoria contro i danni all'ambiente,
per totali 318 articoli di legge, oltre a cinque ponderosi allegati.
Di detto decreto legislativo n. 152/2006, nel suo complesso per
le modalita' della sua emanazione e per la sua impostazione nella
disciplina dei diversi settori nonche' con riferimento a specifiche
norme come indicate in epigrafe, la Regione Piemonte ravvisa
illegittimita' costituzionale e lesivita' delle proprie prerogative
istituzionali e sfera di competenza per i seguenti motivi di
D i r i t t o
I
Violazione degli artt. 3, 5, 76, 97, 114, 117,118, 119, 120 della
Costituzione. Violazione dei principi di leale collaborazione,
ragionevolezza, adeguatezza, differenziazione, sussidiarieta', buon
andamento della P.A. anche sotto l'aspetto della violazione di
principi e norme del diritto comunitario e di convenzioni
internazionali - Aspetti generali.
1) La legge di delega 15 dicembre 2004, n. 308, all'art. 1, comma
4, stabiliva che i decreti legislativi dovessero essere adottati su
proposta del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, di
concerto con il Ministro per le politiche comunitarie e con gli altri
Ministri interessati, sentito il parere della Conferenza unificata di
cui all'art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281.
Nelle premesse del decreto legislativo 3 aprile 2006 n. 152 viene
riportato «(...) Vista la preliminare deliberazione del Consiglio dei
ministri adottata nella riunione del 18 novembre 2005; Acquisito il
parere della Conferenza unificata di cui all'art. 8 del decreto
legislativo 28 agosto 1997 n. 281; Acquisiti i pareti delle
competenti commissioni della Camera dei deputati e del Senato della
Repubblica; Vista la preliminare deliberazione del Consiglio dei
ministri adottata nella riunione del 19 gennaio 2006; Acquisiti i
parere delle competenti commissioni della Camera dei deputati e del
Senato della Repubblica; Viste le deliberazioni del Consiglio dei
ministri, adottate nelle riunioni del 10 febbraio e del 29 marzo
2006, emana (...)».
Invero, il Governo, dopo l'adozione assunta il 18 novembre 2005,
presentava lo schema del decreto delegato corredato degli allegati
tecnici per l'espressione del parere della Conferenza unificata
solamente il 7 dicembre 2005, cosicche' nella seduta della Conferenza
unificata, convocata gia' il 15 dicembre successivo, le regioni,
aderendo le autonomie locali, chiedevano il rinvio dell'esame per un
tempo sufficientemente congruo a consentire effettiva disamina e
ponderazione del vasto corpus normativo presentato.
Il Governo procedeva invece all'adozione del 19 gennaio 2006 ed
all'ulteriore iter parlamentare senza piu' sottoporre il decreto
all'esame della Conferenza unificata.
La Conferenza dei Presidenti delle regioni e province autonome
approvava il 26 gennaio 2006 un ordine del giorno corredato da un
documento tecnico che evidenziava gravi rilievi di negativo giudizio
per il metodo e per il merito.
Come espresso nel detto documento del 26 gennaio 2006 (che la
Regione Piemonte condivide e che si deposita, facendosi ad esso piu'
volte riferimento nel presente ricorso) «il metodo istituzionale
seguito dal Governo nell'elaborazione e approvazione del decreto
legislativo ha completamente disatteso l'accordo firmato il 4 ottobre
2001 fra il Ministro Matteoli, le regioni, l'A.N.C.I. e l'U.P.I. nel
quale le parti avevano concordato di "operare pariteticamente
nell'elaborazione legislativa ai fini di conseguire gli obiettivi
condivisi e garantire una interlocuzione sistematica con le regioni e
gli enti locali nella fase preliminare ed in quelle successive sui
singoli temi del-l'elaborazione dei decreti legislativi previsti dal
disegno di legge delega".
L'approvazione del decreto si e' configurata nei fatti come atto
unilaterale del Governo che, violando il principio della leale
collaborazione, ha privato le Regioni di un tavolo di confronto con
l'Esecutivo statale, impedendo alle stesse e al sistema delle
autonomie locali lo svolgimento di un lavoro collegiale e complessivo
di analisi e proposta».
Venivano altresi' esposti nel merito numerosissimi, seri e gravi
rilievi, esprimendosi nel complesso una valutazione fortemente
critica, considerando che il decreto «mina le fondamenta su cui
poggia l'attuale impianto normativo, senza peraltro fornire gli
elementi per l'organizzazione di un diverso sistema, coerente con il
quadro costituzionale e aderente ai principi comunitari in materia di
tutela ambientale.
L'obiettivo generale e l'azione concreta e l'esperienza delle
Regioni e degli enti locali in questi anni sono stati quelli di
ricondurre le questioni della tutela dell'ambiente, sia negli aspetti
della tutela dagli inquinamenti, sia negli aspetti della tutela delle
risorse naturali e di preservazione degli equilibri ecologici, al
criterio di prevenzione ed a quello di sostenibilita' dello sviluppo,
in stretta connessione con le politiche settoriali e col governo del
territorio.
Solo una acquisizione nelle politiche settoriali e nel governo
del territorio delle problematiche di tutela ambientale puo'
garantire infatti il successo e la compatibilita' economica di una
politica ambientale (...).
Il decreto e' caratterizzato da una spiccata tendenza
neocentralista, che comprime le competenze delle istituzioni
regionali e locali per assegnare soprattutto al Ministero
dell'ambiente e della tutela del territorio un ruolo, anche
minutamente gestionale, antitetico al principio di sussidiarieta' ed
adeguatezza (...).
Mentre un corretto approccio metodologico avrebbe richiesto, da
un lato, la costruzione in questa materia soprattutto di un "diritto
di principi", poiche' solo questi ultimi sono in grado di guidare in
modo trasversale e coordinato i vari settori delle discipline
coinvolte, e dall'altro il necessario coinvolgimento sin dalla fase
di elaborazione della normativa di tutti i livelli territoriali di
governo secondo il principio di corresponsabilita' e di leale
collaborazione».
Pertanto l'affermata acquisizione del parere della Conferenza
unificata di cui all'art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997
n. 281, come ricordato nelle premesse del decreto legislativo, non
corrisponde alla realta' dei fatti ed alla sostanza di quanto
operato.
La Conferenza unificata non e' stata posta in condizioni di
esprimere effettivamente il proprio parere ed il Consiglio dei
ministri ha deliberato senza di esso il 19 gennaio 2006.
Le richieste espresse da regioni ed autonomie locali non hanno
avuto seguito. L'ordine del giorno tuttavia approvato il successivo
26 gennaio con il documento sopraindicato non ha ricevuto neppure
esso alcuna considerazione nel successivo iter a cui il Governo ha
proceduto fino alla definitiva emanazione del decreto legislativo.
Quanto sopra costituisce puntuale violazione del procedimento di
formazione delle norme considerate e delle specifiche prescrizioni
della legge di delega, integrandosi violazione dell'art. 5, terzo
periodo e 76 della Costituzione, nonche' del principio di leale
collaborazione con riguardo alle modalita' concrete con le quali si
e' svolto il procedimento ed in relazione altresi' all'affidamento
riposto dalle Regioni ed autonomie locali nell'iter di concertazione
inizialmente stabilito con il Ministro dell'ambiente.
2) Quanto sopra considerato non ha peraltro rilievo meramente
formale e di rispetto, ancorche' essenziale, di regole procedurali.
Il decreto legislativo 152/2006 intitolato alla «materia
ambientale» reca un complesso normativo, come in premessa ricordato,
assai vasto ed incidente su settori che attengono anche, a volte
identificandosi e sempre intrecciandosi, a materie la cui
regolamentazione e' ascritta alla competenza concorrente di cui al
terzo comma dell'art. 117 Cost. (governo del territorio, tutela della
salute, protezione civile, energia) ed all'ambito di competenza
rimesso alla legislazione regionale di cui al quarto comma
dell'art. 117 Cost. (agricoltura, settori produttivi, servizi
pubblici locali, lavori pubblici ecc.).
Come piu' volte enunciato da codesta ecc.ma Corte, e' esclusa la
stessa configurabilita' di una materia riconducibile in senso tecnico
in via esclusiva alla «tutela dell'ambiente», qualificandosi
l'ambiente come «valore» costituzionalmente protetto, che in quanto
tale delinea una sorta di materia «trasversale» in ordine alla quale
si manifestano competenze diverse che ben possono essere regionali,
spettando allo Stato il compito di fissare «standard» di tutela
uniformi sull'intero territorio nazionale e potendo d'altro canto
porre in essere le regioni interventi legislativi nelle materie di
propria competenza che attuino anche finalita' di tutela ambientale
(fra le altre sent. 259/2004; 307/2003).
Si vedra' in seguito come il decreto legislativo 152/2006
esorbiti per piu' aspetti dalla corretta individuazione di «standard»
di tutela ambientale per disporre in modo pervasivo ed imperativo
anche in ambiti di competenza regionale, ma si vuole qui evidenziare
che proprio nella «materia ambientale» a cui il decreto si dirige,
con complessa regolamentazione involgente vasti e diversificati
settori, la compresenza e l'intreccio di competenze statali e
regionali richiede necessariamente un modus operandi improntato al
canone della leale collaborazione.
«La Corte ha costantemente affermato che il principio di leale
collaborazione deve presiedere a tutti i rapporti che intercorrono
fra Stato e Regioni (...). Una delle sedi piu' qualificate per
l'elaborazione di regole destinate ad integrare il parametro della
leale collaborazione e' attualmente il sistema della Conferenza
Stato-Regioni ed Autonomie locali. Al suo interno si sviluppa il
confronto tra i due grandi sistemi ordinamentali della Repubblica, in
esito al quale si individuano soluzioni concordate di questioni
controverse» (sent. 31/2006).
La pretermissione del contributo delle regioni e province
autonome nonche' delle autonomie locali tutte all'elaborazione delle
norme del decreto legislativo 152/2006 ha sostanziale rilievo ad
inficiarne la validita' nel suo complesso, al di la' della
specificazione, pur presente, delle questioni attinenti a norme
determinate.
L'assenza di adeguato confronto delle disposizioni emanande, e
ancor prima di adeguata valutazione delle differenti situazioni
esistenti e delle possibili diversificate soluzioni adottabili, si
riverbera infatti su tutta l'impostazione della disciplina
considerata, indipendentemente dalla valutazione a posteriori
dell'una o dell'altra norma nell'eventuale sua singola accettabilita'
o meno.
3) Ulteriore violazione della legge di delega concerne
l'estensione e la profondita' delle innovazioni apportate dal decreto
delegato alla regolamentazione finora vigente dei diversi settori
contemplati.
L'art. 1, comma 1 della legge 308/2004 delegava il Governo ad
emanare «uno o piu' decreti legislativi di riordino, coordinamento ed
integrazione delle disposizioni legislative (nei seguenti settori e
materie), anche mediante la redazione di testi unici (...)».
E' piu' che evidente che l'oggetto della delega riguardava il
coordinamento normativo nei vari ambiti in quanto interessati da
diverse leggi succedutesi nel tempo o contenenti discipline parziali
bisognevoli di raccordo e di eventuali integrazioni occorrenti alla
loro coerenza ed organicita', mentre non consentiva l'introduzione di
nuovi principi, nuove istituzioni, nuove funzioni o nuovi
procedimenti.
Anche i criteri direttivi indicati al comma 8 evidenziano tutt'al
piu' un ambito di razionalizzazione delle discipline esistenti, anche
in relazione alla necessita' di piena e coerente attuazione delle
direttive comunitarie ivi evidenziata, non gia' l'emanazione di nuova
disciplina dei settori considerati, il che avrebbe richiesto
l'individuazione degli specifici contenuti essenziali da parte della
legge di delega, e non la mera indicazione di finalita' e criteri
direttivi per un semplice riordino e coordinamento come invece
stabilito dalla legge 308/2004.
Il decreto delegato ha invece introdotto una serie di importanti
innovazioni in piu' settori sia regolandoli totalmente ex novo sia
modificando significativamente parti di disciplina con mutamento di
impostazione o di contenuti, concretizzando esorbitanza dai limiti
della legge di delega che rileva in ordine alle competenze regionali,
che vengono sotto piu' aspetti significativamente compresse o
pretermesse, come in prosieguo si specifichera' in relazione ai vari
settori disciplinati.
4) Ancora l'art. 1, comma 8 della legge n. 308/2004 enuncia quale
principio generale della delega che i decreti legislativi si pongano
«nel rispetto (...) delle competenze per materia delle
amministrazioni statali nonche' delle attribuzioni delle regioni e
degli enti locali, come definite ai sensi dell'art. 117 della
Costituzione, della legge 15 marzo 1997, n. 59 e del decreto
legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (...)».
Anche da tale disposizione si evince l'ambito limitato al
coordinamento normativo assegnato ai decreti delegati, che dovevano
quindi porsi nel mantenimento dell'assetto normativo dei vari
settori, gia' tracciato sia dalle norme nazionali sia dalle norme
regionali gia' poste nelle varie materie in attuazione di esse, e del
quadro di competenze scaturito dal «decreto Bassanini», anche con
riferimento ai conferimenti di funzioni attuati nei riguardi di
comuni, province e comunita' montane ed all'assetto organizzativo
anche di forme di cooperazione ed associazione degli enti locali
prefigurato dalla legislazione regionale negli ambiti di competenza.
Il decreto legislativo 152/2006 procede invece ad una
rivisitazione e ad un rifacimento ex novo di interi settori di
attivita', senza apprezzabile razionale giustificazione in ordine al
perseguimento di esigenze unitarie, come dopo si vedra', e superando
senza tenere conto, neppure sotto l'aspetto minimale di una idonea
disciplina transitoria, tutta la legislazione regionale vigente in
materia, particolarmente intesa al coordinamento ed integrazione
delle diverse competenze settoriali, che viene indistintamente
tradotta insieme alla organizzazione di funzioni gia' attuata nel
territorio regionale.
Cosi' nella Regione Piemonte con la legge regionale 14 dicembre
1998, n. 4, «Disposizioni concernenti la compatibilita' ambientale e
le procedure di valutazione», rivolta all'integrazione fra le
valutazioni ed i procedimenti di valutazione ambientale e quelli di
altre materie, urbanistica, commercio, industria ecc.; con la legge
regionale 24 ottobre 2002, n. 24, «Norme per la gestione dei
rifiuti», con la organizzazione delle attivita' programmatorie e
gestionali delle province e dei comuni attraverso loro forme
associative, l'individuazione degli obbiettivi della programmazione
regionale e provinciale e dei tempi e modi di perseguimento ecc.,
attraverso il piano regionale dei rifiuti approvato con d.g.r.
30 luglio 1997 ed aggiornato con d.g.r. del 3 novembre 2003 e del
5 luglio 2004 ed i programmi provinciali di gestione dei rifiuti
parimenti approvati; con la legge regionale 7 aprile 2000, n. 42,
«Bonifica e ripristino dei siti inquinati. Approvazione del piano
regionale di bonifica delle aree inquinate», che organizza e guida
l'attivita' affidata ai comuni e raccordata a livello regionale ed il
quadro dei finanziamenti e degli adempimenti di recupero degli oneri
a carico dei soggetti responsabili, con interventi tutti in corso di
attuazione; con la legge regionale 7 aprile 2000, n. 43,
«Disposizioni per la tutela dell'ambiente in materia di inquinamento
atmosferico e prima attuazione del piano regionale per il risanamento
e la tutela della qualita' dell'aria», parimenti rivolta al
coordinamento dei vari aspetti attinenti a differenti settori di
attivita' incidenti sull'inquinamento atmosferico ed alla
impostazione e corretta attuazione degli interventi di tutela da
parte degli enti locali a cui sono affidate le funzioni
amministrative in materia; la legge regionale 20 gennaio 1997, n. 13,
di attuazione della legge «Galli» di riforma della gestione delle
acque, con la creazione degli ambiti territoriali ottimali e
l'organizzazione della gestione unitaria del servizio idrico
d'ambito; con la predisposizione del piano di tutela delle acque
quale piano stralcio per il territorio piemontese del piano di bacino
del fiume Po, esaminato favorevolmente dall'autorita' di bacino ed in
corso di approvazione definitiva; con l'attuazione delle previsioni
di integrazione e coordinamento dei contenuti della difesa del suolo
nel piano territoriale regionale e negli strumenti urbanistici
comunali (l.r. n. 56/1977 e successive modifiche e integrazioni
artt. 5-12) e con le intese in via di sottoscrizione, gia' oggetto di
accordi preliminari del marzo 2006, con l'autorita' di bacino del Po
per l'attuazione concordata dei piani territoriali provinciali di
coordinamento quale strumento avente valenza di attuazione e di
integrazione della pianificazione della difesa del suolo.
Tutto quanto sopra, attinente alle realta' normative ed
amministrative esistenti nella regione e coerente con gli obbiettivi
di tutela ambientale e che avrebbe potuto trovare idonea
considerazione attraverso una corretta elaborazione, come prevista,
con l'apporto regionale e delle autonomie locali, e' stato invece
pretermesso dal decreto delegato, con violazione della legge di
delega, dell'assetto istituzionale delle competenze statali,
regionali e locali anche espressamente confermato dalla legge di
delega, realizzando contrasto anche con i principi di ragionevolezza
e buon andamento della pubblica amministrazione, per l'ingiustificato
rivolgimento apportato ad organi, funzioni e procedure attualmente
vigenti ed efficacemente operative in ambito regionale.
5) Il decreto legislativo 152/2006 nelle rilevanti innovazioni
come s'e' detto introdotte alla disciplina dei vari settori
contemplati e' connotato da spiccato centralismo e dalla separazione
delle attivita' e competenze indirizzate alla tutela ambientale,
anche nella creazione di nuovi organi e nella allocazione delle
funzioni, dalle competenze rivolte alla cura di tutti gli altri
interessi pubblici che con la tutela ambientale interagiscono e si
intersecano, appartenenti alla competenza legislativa regionale ed
all'attivita' amministrativa delle regioni e delle autonomie locali.
Il principio di sussidiarieta', espressamente richiamato anche dalla
legge di delega al comma 8, prima parte, non ha trovato corretta
applicazione.
L'attrazione in sede ministeriale compiuta dal decreto
legislativo per molte importanti e svariate funzioni, sia di nuova
previsione sia gia' esercitate in sede comunale, provinciale e
regionale, non e' oggettivamente giustificata da esigenze di
considerazione unitaria a livello nazionale degli interessi
coinvolti.
Il principio dell'unitarieta' fonda la competenza statale laddove
siano ravvisabili esigenze di uniformita' ed omogeneita' strategica,
con la definizione di standard di tutela ambientale ed espletamento
di attivita' di rilievo nazionale, pur sempre con il contemperamento
delle procedure di leale collaborazione e di intesa per la
codeterminazione dei contenuti interessanti anche l'ambito di
competenza regionale, mentre i principi di differenziazione e di
adeguatezza richiedono la rimessione all'attivita' legislativa
regionale ed all'azione amministrativa dei livelli di governo locale
dell'adattamento delle misure di tutela ai diversi contesti
territoriali.
Anche sotto questo aspetto la corretta applicazione dei principi
della legge di delega, laddove indica espressamente a «la
riaffermazione del ruolo delle regioni ai sensi dell'art. 117 della
Costituzione nell'attuazione dei principi e criteri direttivi
ispirati anche alla interconnessione delle normative di settore ...»
(comma 8, lett. m), di «rimuovere i problemi di carattere
organizzativo, procedurale e finanziario che ostacolino il
conseguimento della piena operativita' degli organi amministrativi e
tecnici preposti alla tutela ed al risanamento del suolo e del
sottosuolo, superando la sovrapposizione tra i diversi piani di
rilievo ambientale e coordinandoli con i piani urbanistici», di
«valorizzare il ruolo e le competenze svolti dagli organismi a
composizione mista statale e regionale» (comma 9, lett. c), avrebbe
dovuto condurre a differente impostazione della disciplina posta dal
decreto legislativo, attraverso la considerazione del principio di
corresponsabilita' e di leale collaborazione che deve improntare i
rapporti fra le diverse istituzioni, per garantire l'effettivita'
della tutela mediante un approccio alle politiche ambientali che
coinvolgendo tutti gli enti esponenziali delle peculiarita'
territoriali possa tener conto della complessita' del tema (sent.
50/2005; 219/2005).
6) Ulteriore violazione della legge di delega si evidenzia anche
con riguardo alla carente o non esatta applicazione della normativa
comunitaria di tutela ambientale, con riguardo alle espresse
indicazioni poste dai criteri direttivi di dare «piena e coerente
attuazione delle direttive comunitarie, al fine di garantire elevati
livelli di tutela dell'ambiente e di contribuire in tale modo alla
competitivita' dei sistemi territoriali e delle imprese, evitando
fenomeni di distorsione della concorrenza» e di fare «affermazione
dei principi comunitari di prevenzione, di precauzione, di correzione
e riduzione degli inquinamenti e dei danni ambientali e del principio
"chi inquina paga"» (comma 9, lett. e), f).
Invero, come in prosieguo si specifichera' per i diversi settori,
il decreto legislativo non rispecchia per diversi punti la piena
attuazione della normativa comunitaria, con violazione dell'art. 117
primo comma della Costituzione che si riverbera sulle funzioni delle
regioni tenute anch'esse direttamente all'attuazione della normativa
comunitaria ex art. 117 quinto comma Cost. e responsabili, per
costanti pronunce degli organi comunitari, nella propria attivita'
amministrativa, e lo stesso dicasi per le autonomie locali,
dell'esatta applicazione di essa.
II
Sulla parte seconda del d.lgs. n. 152/2006, recante «Procedure
per la valutazione ambientale strategica (VAS), per la valutazione di
impatto ambientale (VIA) e per l'autorizzazione ambientale integrata
(IPPC)».
Violazione degli artt. 3, 5, 76, 97, 114, 117, 118, 119, 120
della Costituzione. Violazione dei principi di leale collaborazione,
ragionevolezza, adeguatezza, differenziazione, sussidiarieta', buon
andamento della p.a. anche sotto l'aspetto della violazione di
principi e norme del diritto comunitario e di convenzioni
internazionali.
La disciplina riguardante la valutazione ambientale strategica
(VAS) cosi' come quella riguardante la valutazione d'impatto
ambientale (VIA) ha la propria ratio nella considerazione complessiva
di opere ed interventi comportanti rilevanti effetti di impatto
ambientale nel loro inserimento nel contesto territoriale, nella loro
giustificazione rispetto ad esigenze infrastrutturali, produttive, di
sviluppo economico ecc., nella ricerca di modalita' attuative che
contemperino le diverse esigenze compresenti.
E' evidente l'interrelazione esistente fra la materia tutela
dell'ambiente e le altre materie governo del territorio, tutela della
salute, energia, settori produttivi ecc. che si ascrivono alla
competenza concorrente o residuale regionale, la cui discipline e le
cui decisioni amministrative si intrecciano ed interferiscono nella
configurazione della disciplina e delle procedure di valutazione
ambientale strategica e di valutazione di impatto ambientale.
L'integrazione delle procedure e delle diverse autorizzazioni
costituiva specifico criterio della legge di delega, cosi' come il
corretto pieno recepimento della normativa comunitaria che ha
disciplinato gli istituti considerati.
Le norme del decreto delegato disattendono le esigenze
sopraconsiderate e comportano altresi' modifiche dell'assetto di
competenze previgente, il cui rispetto costituiva anch'esso principio
e criterio direttivo della legge di delega, ponendo in crisi la
disciplina di attuazione gia' elaborata a livello regionale (l.r.
Piemonte n. 40/1998) rivolta propriamente all'integrazione fra le
valutazioni prettamente di tutela ambientale e gli altri aspetti
pianificatori, programmatori ed autorizzativi rilevanti per la
realizzazione degli interventi, peraltro senza che risultino
obbiettivamente sussistenti esigenze unitarie che giustifichino
l'attrazione di determinate attivita' nella competenza statale.
In particolare si evidenziano:
Art. 5, comma 1, laddove dispone alla lett. e) che la
procedura di VIA si applichi ai progetti preliminari senza prevedere,
in contrasto con le direttive 85/337/CEE e 97/11/CEE, che siano
sottoposti a VIA i progetti definitivi che contengano modifiche
rilevanti e senza considerare l'integrazione in un' unica sede
decisionale con altri procedimenti autorizzativi le cui decisioni
vengono prese con riferimento al progetto definitivo;
Art. 6, comma 6, laddove prevede che la commissione
tecnico-consultiva nazionale, a cui e' affidato il compimento
dell'istruttoria per le valutazioni VAS, VIA, IPPC riguardanti opere
ed interventi di rilievo nazionale, sia integrata per ogni
sottocommissione da «un esperto» designato dalla regione direttamente
interessata dalla realizzazione dell'opera. Il ruolo limitato e
secondario assegnato alla partecipazione regionale non corrisponde
alle esigenze di attuazione del principio di leale collaborazione
mediante effettiva condivisione delle decisioni su interventi che
hanno rilievo determinante sull'ambito territoriale regionale (sent.
303/2003);
Art. 12. Come rilevato nel documento della Conferenza delle
regioni, la direttiva 2001/42/CE prevede una forte integrazione fra
tematiche ed autorita' dei settori interessati, poiche' la
valutazione strategica ambientale non e' un mero provvedimento
autorizzativo, ma deve porre in essere un processo decisionale della
pubblica amministrazione che confronta le scelte da assumere in un
determinato contesto ambientale, territoriale e socio-economico.
Invece l'iter definito dal decreto legislativo prevede che venga
emesso un giudizio di compatibilita' ambientale su un piano o un
programma, a cui il piano o programma deve necessanamente adeguarsi,
da un soggetto diverso, che non ha obbligo di confrontare la propria
valutazione con il soggetto proponente, di modo che la valutazione
ambientale e la pianificazione o programmazione non si intersecano
realmente, ma rimangono come fasi consequenziali e sostanzialmente
separate.
Al comma 2 la fissazione di termini per l'emissione del giudizio,
l'intervento in via sostitutiva del Consiglio dei ministri e la
previsione in caso di inutile decorso che si intenda emesso giudizio
negativo sulla compatibilita' ambientale del piano o programma di
competenza statale e che la stessa previsione valga anche per i piani
e programmi sottoposti a VAS di competenza regionale fino
all'emanazione di apposite norme regionali, evidenzia l'impostazione
meccanica della procedura, che ne riduce l'effettiva funzione
delineata dalla normativa comunitaria.
Si evidenzia anche il quasi inesistente spazio riservato alla
normativa regionale anche rispetto alle procedure di competenza della
regione, che rimangono in pratica totalmente definite secondo le
disposizioni del decreto legislativo in forza del richiamo di cui
agli artt. 21 e 22, commi 1 e 2;
Art. 23. In relazione all'allegato III, in quanto non
contiene il completo ed esatto recepimento delle categorie
progettuali sottoposte a valutazione di impatto ambientale della
direttiva comunitaria 85/337 come modificata dalla direttiva 97/11.
Le categorie omesse o diversamente definite sono indicate nel
documento della Conferenza delle regioni pagg. 13-14 e nel quadro
sinottico (che si deposita).
Come si e' gia' rilevato al primo motivo, la mancata od
incompleta attuazione delle norme comunitarie in cui incorre il
decreto legislativo si ripercuote sull'ambito di competenza
regionale, essendo le regioni tenute per l'espressa formulazione
dell'art. 117, commi 1 e 5 Cost. all'attuazione diretta delle norme
comunitarie;
Art. 25. Laddove al comma 1, lett. a) attribuisce la
competenza a compiere la valutazione di impatto ambientale al
Ministro dell'ambiente per i progetti di opere ed interventi
genericamente individuati come «sottoposti ad autorizzazione
statale», il che puo' ampliare il campo applicativo ad opere di
rilievo regionale o locale per cui intervenga anche un qualche
provvedimento autorizzativo statale, e per i progetti di opere ed
interventi aventi impatto ambientale interregionale, per i quali
puo', come gia' avviene, attuarsi invece valutazione d'intesa fra le
regioni interessate (vedasi l.r. n. 40/1998, art. 16).
Dette disposizioni ampliano l'ambito di competenza ministeriale
senza giustificato motivo, in contrasto con il principio di
sussidiarieta' ed in contrasto con le stesse indicazioni dei criteri
direttivi della legge di delega, alterando l'assetto di competenze
amministrative gia' esistente in materia;
L'art. 42, comma 2 stabilisce la possibilita' di variazione
delle «soglie», sulla cui base e' costruito il sistema delle
categorie sottoposte alla valutazione di impatto ambientale, nel solo
incremento del venti per cento. Si deve tener conto che l'atto di
indirizzo e coordinamento d.P.R. 12 aprile 1996, sulla cui base sono
state emanate le norme regionali in materia, demandava alle regioni
di fissare le soglie con possibilita' sia di incremento sia di
decremento e nella misura massima del trenta per cento, in ragione
della disomogeneita' del territorio che presenta forti
differenziazioni e peculiarita' ambientali nelle diverse regioni.
L'innovazione compiuta dal decreto legislativo con la norma
suddetta, in relazione anche alla previsione di cui all'art. 5, comma
1, lett. g) che attiene alla definizione degli interventi di
modifica, comporta il rivolgimento di quanto gia' efficacemente
attuato nell'ambito regionale, senza che appaia apprezzabile
obbiettivo fondamento della limitazione apportata al margine di
adattamento alle realta' locali rimesso alla normativa regionale;
L'art. 43, analogamente a quanto osservato per l'art. 22,
vincola a tutte le numerose disposizioni anche di analitico dettaglio
ivi richiamate la disciplina da parte delle regioni delle procedure
di valutazione ambientale per i progetti di loro competenza, senza
che siano ravvisabili in tutte le dette disposizioni imposte in
blocco esigenze di uniformita' o standard di tutela.
Parimenti si evidenzia la mancata considerazione del ruolo delle
regioni e delle autonomie locali nella materia, e dell'apporto che da
esse proviene per il perseguimento di effettiva tutela ambientale,
nelle disposizioni di cui all'art. 51, comma 3, che affida unicamente
agli organi ministeriali l'emanazione delle norme tecniche per la
redazione degli studi di impatto ambientale e la formulazione dei
giudizi di compatibilita' per ciascuna categoria di opere, senza
prevedere alcuna partecipazione delle regioni ed enti locali, quanto
meno con il parere della conferenza Stato-Regioni.
III
Sulla Parte III del d.lgs. n. 152/2006. Violazione degli artt. 3,
5, 76, 97, 114, 117, 118, 119, 120 della Costituzione. Violazione dei
principi di leale collaborazione, ragionevolezza. adeguatezza,
differenziazione, sussidiarieta', buon andamento della p.a. anche
sotto l'aspetto della violazione di principi e norme del diritto
comunitario e di convenzioni internazionali.
La Parte III del decreto legislativo concerne i tre ambiti della
difesa del suolo, della tutela delle acque e della gestione delle
risorse idriche, disciplinati dalle norme distinte in tre Sezioni che
verranno di seguito separatamente esaminate.
A) La sezione I attiene alla difesa del suolo, ambito che
pacificamente rientra nella materia «governo del territorio»,
ascritta alla competenza concorrente di cui all'art. 117, comma 3
della Costituzione.
La questione dell'attinenza della regolamentazione emanata a
materia di legislazione concorrente ed in ogni caso a «materia
ambientale» intrecciantesi ed intersecantesi ad altre materie di
competenza regionale e' drasticamente risolta dal legislatore
delegato con la norma dell'art. 176, comma 1, ove si enuncia che «le
disposizioni di cui alla parte terza del presente decreto che
concernono materie di legislazione concorrente costituiscono principi
fondamentali ai sensi dell'art. 117, comma 3, della Costituzione».
Enunciazione superficiale e non corretta, sia per la sua
genericita', riferita indistintamente a tutta la disciplina della
parte terza e sintomatica della volonta' di superare le esigenze di
confronto con gli altri enti territoriali, sia perche' in realta' le
norme emanate contengono completa revisione e disciplina puntuale e
di dettaglio, escludendo ogni ambito legislativo regionale.
E' appena il caso di rammentare che gli strumenti di
pianificazione di bacino e di difesa del suolo attengono, in primo
luogo, all'assetto del territorio nonche' alla tutela della salute ed
alla protezione civile attraverso la tutela della pubblica
incolumita', avendo riguardo ai profili dell'assetto idrogeologico
mediante la definizione di standard compatibili di rischio, il
perseguimento di adeguati livelli di sicurezza, la realizzazione di
interventi strutturali di mitigazione del rischio e/o la previsione
di vincoli e limiti all'edificabilita' in presenza di situazioni di
rischio non mitigabili e si configurano quindi quali strumenti
condizionanti tutte le altre attivita' di pianificazione e
programmazione settoriale, con interferenza su molteplici ambiti
normativi, pianificatori e programmatori di competenza regionale.
Tutto cio' appare ignorato dalla disciplina posta dal d.lgs.
152/2006.
Il decreto abroga le norme vigenti in materia di difesa del
suolo, ma non riordina la materia in maniera organica ne' coordina i
diversi livelli di pianificazione e nel contempo introduce radicali
innovazioni sia sull'istituzione di nuovi organi, sia
sull'allocazione delle competenze sia sui procedimenti di formazione
ed approvazione di piani e programmi di intervento.
Ne risultano: la riforma delle Autorita' di bacino e la
cancellazione del «bacino idrografico», quale unita' di riferimento
per l'esercizio delle funzioni di difesa del suolo, con la
contestuale creazione del «distretto idrografico», inteso
prevalentemente quale unita' burocratico-amministrativa di emanazione
statale; lo sconvolgimento dell'assetto delle competenze dello Stato,
delle regioni e degli enti locali, con un accentramento delle
competenze in capo allo Stato ed a organi centralizzati in aperto
contrasto con i principi di sussidiarieta', differenziazione,
adeguatezza e leale collaborazione; la definizione di un sistema di
strumenti di pianificazione e conseguente programmazione di
interventi i cui contenuti, articolazione, procedure di informazione
al pubblico e partecipazione degli interessati e di approvazione,
oltre ad aspetti di oscurita' e carenza delle previsioni
procedimentali, presentano contraddittorieta' e contrasto con le
competenze spettanti alle regioni ed agli altri enti territoriali
nella pianificazione territoriale ed urbanistica e nelle
pianificazioni di settore.
In particolare:
Art. 64. Inaspettatamente e senza alcuna concertazione con le
regioni vengono individuati otto «distretti idrografici», di vasta
ampiezza e tutti di rango nazionale, con contestuale immediata
soppressione dei bacini di rilievo nazionale, interregionale e
regionale.
Viene cosi' eliminata una ripartizione del territorio funzionale
alla difesa del suolo che si fondava su una anticipata applicazione
del principio di sussidiarieta', al fine di assicurare il piu'
appropriato livello di governo in rapporto all'ambito territoriale
preso a riferimento e di garantire da un lato autonomia decisionale
alle regioni e dall'altro la concertazione con lo Stato e le altre
regioni, ove necessario per l'ampiezza del bacino;
Art. 63. Agli otto distretti idrografici vengono preposte
altrettante Autorita' di bacino distrettuale, a composizione mista
statale-regionale, ma caratterizzate da una nuova configurazione dei
relativi organi che determina una preponderante presenza
dell'apparato governativo, comprimendosi radicalmente il ruolo ed il
peso delle Amministrazioni regionali.
Nella Conferenza istituzionale permanente, principale organo
delle nuove Autorita' di bacino deputato a definire le linee portanti
del sistema di difesa del suolo, i membri o rappresentanti
dell'Esecutivo statale salgono infatti da quattro a sette nelle ex
Autorita' di bacino di rilievo nazionale e compaiono per la prima
volta in quelle che andranno a sostituirsi alle Autorita' di rilievo
interregionale e regionale.
Gia' il solo inserimento dei Ministri delle attivita' produttive
e per la funzione pubblica, non trovando giustificazione alcuna in
rapporto agli interessi unitari sottostanti le competenze statali da
esercitarsi in sede di bacino, rende la disposizione viziata da
irragionevolezza e travolge un assetto istituzionale idoneo a
bilanciare in concreto gli interessi unitari dello Stato e gli
interessi delle collettivita' locali convergenti nella pianificazione
di bacino.
Si dispone altresi' che la Conferenza deliberi a maggioranza
laddove la legge n. 83/1989 non disponeva alcunche' in merito,
lasciando agli organi delle Autorita' di bacino la scelta dei propri
quorum deliberativi.
Inoltre ai sensi dell'art. 57, comma 1, lett. a), n. 2, tutti i
piani di bacino sono approvati dal Presidente del Consiglio dei
ministri con la mera audizione, «sentita» la Conferenza
Stato-Regioni.
In altri termini le regioni vengono esautorate di ogni potere pur
essendone state finora contitolari con il Governo centrale, con
riferimento alle autorita' di bacino nazionali, e titolari in via
esclusiva, con riferimento alle autorita' di bacino interregionali e
regionali.
Particolare gravita' evidenzia poi la disposizione del 3° comma
dell'art. 63.
In totale carenza di un regime transitorio che delinei il
delicatissimo passaggio da un sistema istituzionale ormai radicato
nel territorio e ricco di esperienza decisionale ed operativa ad un
nuovo assetto dalle ampie incognite, si dispone infatti la
soppressione delle autorita' di bacino previste dalla legge 18 maggio
1989, n. 183 a far data dal 30 aprile 2006 e quindi dal giorno
successivo all'entrata in vigore del decreto legislativo.
Nel contempo il trasferimento di funzioni alle nuove Autorita' di
bacino distrettuale, la regolamentazione del periodo transitorio e la
definizione dei criteri e delle modalita' per l'attribuzione o il
trasferimento del personale e delle risorse patrimoniali e
finanziarie sono demandati ad un decreto del Presidente del Consiglio
dei ministri su proposta del Ministro dell'ambiente e della tutela
del territorio di concerto con il Ministro dell'economia e delle
finanze e con il Ministro per la funzione pubblica, sentita la
Conferenza permanente Stato-Regioni, da emanarsi entro trenta giorni
dalla data di entrata in vigore della Parte Terza del decreto,
termine peraltro puramente ordinatorio.
E' di tutta evidenza come un simile impianto normativo risulti
anche sotto questo profilo temporale assolutamente irragionevole. Dal
29 aprile 2006 le Autorita' di bacino di cui alla legge n. 183/1989
(nel contempo abrogata) sono soppresse e le funzioni ad esse proprie
sono abbandonate a tempo indeterminato, atteso che l'emanazione del
decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, che dovrebbe
rendere operanti le Autorita' di bacino distrettuale risulta
totalmente incerta nel suo avveramento.
Si profila obbiettivamente irreparabile pregiudizio all'interesse
pubblico e all'ordinamento giuridico della Repubblica, posto che
l'entrata in vigore al 30 aprile 2006 delle norme suddette determina
la paralisi del sistema istituzionale di pianificazione di bacino e
comporta l'interruzione di tutti i procedimenti e di tutte le
attivita' in corso, dall'approvazione di fondamentali atti di
pianificazione da tempo attesi (valga per tutti ad esempio la mancata
approvazione - nel caso dell'Autorita' di bacino del Fiume Po - del
Piano stralcio per l'eutrofizzazione), alla programmazione e
realizzazione delle opere e degli interventi a tutela della sicurezza
ed incolumita' pubblica dei cittadini, all'emanazione dei pareri
dalle piccole alle grandi derivazioni di acqua pubblica.
A cascata ne risultano inibite le corrispondenti attivita'
normative e pianificatorie della regione, che trovano negli atti
delle Autorita' di bacino il parametro di riferimento all'esplicarsi
della loro autonomia nel governo del proprio territorio, cosi' come
le azioni regionali attuative degli interventi programmati per la
difesa del suolo, la difesa dalle acque e la prevenzione del dissesto
idrogeologico.
Analoga ricaduta si verifica in ordine alle attivita' procedurali
dell'intero sistema delle Autonomie locali cui la legge regionale ha
affidato rilevanti competenze di gestione del territorio, con
detrimento anche dei diritti sia dei cittadini che aspirano a
diventare utenti della risorsa in base ai principi del giusto
procedimento sia di quelli che vedono lese le proprie aspettative di
sicurezza.
Per tali ragioni si ritiene sussistano i presupposti per disporre
la sospensiva quanto meno degli articoli 63 e 64 del d.lgs
n. 152/2006 nonche' dell'articolo 175, comma 1, lettera l) in quanto
comporta l'abrogazione degli articoli da 12 a 16 della legge
n. 183/1989, per il che si fa istanza;
Artt. 65, 66, 67, 68. Il decreto individua diversi strumenti
di pianificazione, con evidenti difetti di coerenza ed unitarieta'
sistematica, risultando detti piani diversificati per contenuti,
modalita' di elaborazione, adozione e approvazione, rilevanza ed
effetti, senza apprezzabile fondamento della distinzione e senza che
ne siano definiti i reciproci rapporti.
Sono previsti il piano di bacino distrettuale (art. 65), il piano
per la tutela dal rischio idrogeologico quale stralcio del piano di
bacino (art. 67, comma 1) oltre al piano di gestione quale stralcio
del piano di bacino distrettuale ed al piano di tutela delle acque
(di cui agli artt. 117 e 121 su cui si tornera' in seguito).
Ad essi si aggiungono i piani straordinari diretti a rimuovere le
situazioni a piu' elevato rischio idrogeologico di cui al comma 2
dell'art. 67 e i programmi di interventi urgenti, di cui al
successivo comma 3 del medesimo art. 67, che rappresentano la mera
riproposizione di normative emanate a seguito di eventi calamitosi
(eventi alluvionali di Sarno e di Soverato), invero oggi superate
essendo stati nel frattempo adottati e approvati i piani stralcio per
l'assetto idrogeologico (PAI) praticamente in tutti i bacini
nazionali, interregionali e regionali.
L'illogicita' manifesta dell'articolazione di questo sistema (che
«sistema» peraltro non e), configura anche una violazione delle norme
comunitarie, dal momento che l'incoerenza che ne deriva radica
l'impossibilita' di perseguire gli obiettivi della direttiva
2000/60/CE di cui il decreto intende costituire recepimento
(art. 170, comma 4, lett. r) e che invece prevede quale strumento di
pianificazione unitaria, il «piano di gestione» che puo' essere
articolato per piani piu' dettagliati o tematici, analogamente al
rapporto finora esistente tra il piano di bacino ed i relativi piani
stralcio gia' attuati dalla legge n. 183/1989.
Da quanto sopra considerato, si evidenzia anche la specifica
violazione dell'art. 76 della Costituzione per la violazione dei
principi e criteri della legge di delega, come gia' osservato al I
motivo di ricorso. Infatti, la previsione del «riordino,
coordinamento e integrazione delle disposizioni legislative ...,
anche mediante la redazione di testi unici» (di cui all'art. 1, comma
1, legge n. 308/2004), attiene ad un coordinamento delle diverse e
successive norme nei vari settori dettate dalla legislazione vigente,
senza che possa in alcun modo ravvisarsi autorizzazione a compiere la
radicale innovazione posta in essere con la istituzione dei distretti
e delle nuove autorita' di bacino distrettuale, nonche' con il
rifacimento dell'impianto della pianificazione della difesa del
suolo.
Altrettanto dicasi per il criterio di cui all'art. 1, comma 8,
legge n. 408/2004, «il rispetto ... delle competenze per materia
delle amministrazioni statali, nonche' delle attribuzioni delle
regioni e degli enti locali, come definite ai sensi dell'art. 117
della Costituzione, della legge 15 marzo 1997, n. 59, e del decreto
legislativo 31 marzo 1998, n. 112», che imponeva al legislatore
delegato di non modificare il quadro delle attribuzioni regionali,
che invece risulta gravemente compromesso delle scelte compiute dalle
disposizioni in esame.
Si aggiunge anche tra i principi e criteri direttivi piu'
specifici della legge di delega di cui al comma 9 l'indicazione di:
«c) rimuovere i problemi di carattere organizzativo, procedurale e
finanziario che ostacolino il conseguimento della piena operativita'
degli organi amministrativi e tecnici preposti alla tutela e al
risanamento del suolo e del sottosuolo, superando la sovrapposizione
tra i diversi piani settoriali di rilievo ambientale e coordinandoli
con i piani urbanistici; valorizzare il ruolo e le competenze svolti
dagli organismi a composizione mista statale e regionale;
semplificare il procedimento di adozione e approvazione degli
strumenti di pianificazione con la garanzia della partecipazione di
tutti i soggetti istituzionali coinvolti e la certezza dei tempi di
conclusione dell'iter procedimentale» criteri anch'essi palesemente
violati dalla regolamentazione posta in essere dal decreto in esame.
Tali rilievi attengono tutti alla compressione delle prerogative
istituzionali regionali ed in generale del ruolo delle autonomie
territoriali nell'ambito considerato della difesa del suolo,
stravolgendo l'ordinamento della legge-quadro n. 183/1989,
concretizzatosi con complesso processo nella realta' amministrativa
statale, regionale e locale che viene sostituito, senza apprezzabile
miglioramento istituzionale, con un sistema centralistico di gestione
delle politiche di tutela idrogeologica del territorio, esautorando
le regioni e determinando grave incertezza nella fase transitoria di
indeterminata durata.
B) Sulla sezione II della Parte III riguardante la tutela delle
acque.
Le norme della sezione II attengono alla tutela delle acque
dell'inquinamento anche sotto l'aspetto degli strumenti pianificatori
e gestionali.
E' appena il caso di rammentare la ramificata interrelazione con
gli ambiti del governo del territorio e di gestione dei vari settori
di attivita' antropiche di competenza concorrente o rimessa alle
regioni e parimenti della tutela della salute.
Anche per tali norme si riscontrano rispetto al quadro
legislativo gia' operante significative innovazioni, non giustificate
da esigenze di coordinamento ed anzi apportatrici di elementi di
contraddizione ed incoerenza ed improntate ad un accentramento di
compiti, anche di limitata gestione, nella sede ministeriale,
determinandosi compressione del ruolo delle regioni e delle autonomie
locali.
Si considerano in particolare:
Art. 91, commi 2 e 6, ove vengono individuate nuove
competenze ministeriali, per il cui esercizio viene genericamente
sentita la Conferenza Stato-Regioni, laddove sarebbe stato
appropriato il conseguimento di intesa con le regioni
territorialmente interessate;
Art. 96. Con disposizioni di minuto dettaglio vengono
regolamentati procedimenti attinenti alla gestione del demanio idrico
che rientrano nelle competenze trasferite dal d.lgs. n. 112/1998 in
coerenza con il dettato dell'art. 118 della Costituzione; in tal modo
vengono altresi' inficiate senza giustificato motivo le
regolamentazioni gia' assunte in sede regionale, come nel caso della
Regione Piemonte con il regolamento 10/2003 che ha adeguato le
procedure del T.U. 1775/1933 ai principi della semplificazione
amministrativa e del coordinamento delle attivita' di prelievo idrico
con le pianificazioni di tutela ambientale.
Sono inoltre attratte nella competenza ministeriale senza
giustificato motivo funzioni di rilievo locale, quali l'intervento
per l'espressione di parere sulle piccole derivazioni d'acqua con la
nomina di un commissario ad acta da parte del Ministro dell'ambiente;
Art. 104, laddove al comma 3 prevede senza giustificato
motivo l'attribuzione alla competenza ministeriale, anziche'
regionale come attualmente, dell'autorizzazione dello scarico di
acque risultanti dall'estrazione di idrocarburi nelle unita'
geologiche profonde;
Art. 113, comma 1 ed art. 114, comma 2, in quanto la potesta'
normativa regionale sulla disciplina delle acque meteoriche di
dilavamento e sulla disciplina di restituzione delle acque viene
inopinatamente subordinata e condizionata ad attivita' amministrativa
ministeriale «previo parere del Ministero dell'ambiente»;
Art. 116, laddove sottopone all'approvazione dell'autorita'
di bacino il programma di misure integrativo del piano di tutela di
cui all'art. 121 ed art. 121, comma 2, laddove prevede che le regioni
trasmettano il piano di tutela al Ministro dell'ambiente «per le
verifiche di competenza», norme che evidenziano una logica di
subordinazione delle potesta' regionali di pianificazione e
programmazione, che vengono sottoposte alla supervisione ed in
definitiva al controllo di organismi ed organi statali, in contrasto
con l'assetto costituzionale e con il quadro complessivo delle
rispettive attribuzioni amministrative scaturite dal d.lgs.
n. 112/1998;
Art. 117 ed art. 121 sotto altro profilo. Particolare
considerazione va posta alla disciplina ora prevista per i piani
digestione e di tutela delle acque (titolo IV).
Si e' gia' prima osservato al precedente punto A che il
dichiarato recepimento nell'ordinamento italiano della direttiva
2000/60/CE onde improntarne gli istituti di pianificazione dei piani
di bacino e dei piani di tutela delle acque presenta non poche
contraddizioni ed incertezze e disarticola, senza apprezzabile
evidenza di motivazioni e di utili risultati il quadro normativo gia'
vigente posto dalla legge n. 183/1989 e dal decreto legislativo
n. 152/1999, interrompendo il complesso processo attuativo posto in
essere, vincendo non poche difficolta', in ambito regionale.
Va peraltro rammentato che il d.lgs n. 152 del 1999 era stato
emanato allorche' era gia' nota la proposta della direttiva
2000/60/CE, in relazione alla quale in effetti si poneva la
previsione del Piano di tutela delle acque quale stralcio del Piano
di bacino, con inserimento dell'attivita' pianificatoria regionale di
tutela delle acque nel complesso meccanismo della legge n. 183/1989,
che fondava sull'individuazione del bacino idrografico come unita'
ecosistemica di riferimento per una efficace attivita' di governo di
difesa del suolo e tutela delle acque.
Secondo detto sistema, come finora vigente, nei bacini di rilievo
nazionale l'operato dell'Autorita' di bacino si distingue da quello
delle Regioni per il livello su cui incide: per l'unitarieta' del
bacino idrografico, su macro-scala vengono fissati priorita' e
obiettivi comuni a tutte le Regioni afferenti al bacino stesso,
mentre in ambito regionale, nel rispetto delle peculiarita' e
specificita' locali, sono determinati e attuati gli interventi e le
azioni preordinate al raggiungimento dei fini prefissati.
Va riaffermato che il livello regionale e' il livello appropriato
per la risoluzione dei problemi legati alle risorse idriche, elementi
contemporaneamente fluenti e localizzati sul territorio, in quanto
dispone di una ampiezza territoriale idonea a coordinare e
armonizzare i molteplici interessi, spesso antagonisti, insediati sul
territorio che i corpi idrici attraversano, ed in quanto l'ente
regionale, titolare del potere normativo della pianificazione
dell'assetto del territorio nel suo complesso, dispone degli
strumenti necessari per governare le interrelazioni degli interessi
compresenti.
Attraverso l'approvazione dei singoli piani regionali di tutela
previsti dall'art. 44 del d.lgs. n. 152/1999, tra loro accomunati
dalla fissazione di obiettivi di bacino volta a garantire la
considerazione ecosistemica del territorio di cui alla legge
n. 183/1989, si perveniva conseguentemente alla realizzazione della
complessiva pianificazione di bacino nel settore della tutela
qualitativa e quantitativa delle risorse idriche postulata dalla
stessa legge sulla difesa del suolo.
I Piani di tutela gia' individuati dal legislatore del 1999 si
identificano a pieno titolo con i Piani di gestione ed i Programmi di
misure della direttiva comunitaria e, sempre secondo le indicazione
della stessa direttiva, rispondono all'enunciato del suo Preambolo
secondo cui «Le decisioni dovrebbero essere adottate al livello piu'
vicino possibile ai luoghi di utilizzo effettivo o di degrado delle
acque. Si dovrebbero privilegiare le azioni che rientrino fra le
competenze degli Stati membri, attraverso programmi di misure
adeguati alle condizioni regionali e locali».
Cosicche' il modello procedimentale del coordinamento tra livello
di bacino e livello regionale, prescelto dal legislatore del 1999,
risultava quindi pienamente rispondente allo spirito della ridetta
direttiva e, seppur suscettibile di affinamenti, poteva e doveva
essere mantenuto nel suo essenziale impianto nel decreto legislativo
ora emanato.
Il d.lgs. n. 152/2006 invece ha creato, attraverso un
irragionevole affastellamento di norme, il blocco del sistema
pianificatorio della tutela delle acque.
Il modello procedurale ora introdotto e' scandito dai seguenti
passaggi:
1) Piano di gestione (art. 117), che costituisce stralcio del
Piano di bacino 1 distrettuale sul piano funzionale (sola tutela
delle acque) e territoriale (a scala di distretto idrografico), il
quale viene adottato dalla Conferenza istituzionale permanente
dell'Autorita' di bacino di distretto ed approvato dal Presidente del
Consiglio dei ministri senza la fissazione di alcun termine;
2) Definizione degli obiettivi a scala di distretto
(art. 121, comma 2), con adozione dell'Autorita' di bacino di
distretto entro il 31 dicembre 2006 nel contesto delle attivita' di
pianificazione o mediante appositi atti di indirizzo e coordinamento,
sentite le Province e le Autorita' d'ambito;
3) Piano regionale di tutela delle acque (art. 121), che e'
specifico piano di settore attuativo a livello di bacino idrografico
delle previsioni del Piano di gestione, il quale viene adottato dalla
Regione sulla base degli obiettivi fissati dall'Autorita' di bacino
di distretto entro il 31 dicembre 2007, sottoposto alla verifica del
Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio, sottoposto al
parere vincolante dell'Autorita' di bacino, ed approvato
definitivamente dalla Regione entro il 31 dicembre 2008;
4) Programma di misure (art. 116), per vero non meglio
specificata «integrazione» del Piano di tutela delle acque con le
misure di base e supplementari previste dalla direttiva 2000/60/CE,
approvato dalle Autorita' di bacino.
Pero', nonostante la scansione dei tempi di adozione ed
approvazione dei Piani regionali di tutela delle acque sopra
indicata, l'art. 122 del d.lgs. n. 152/2006 stabilisce che le
regioni, al fine di promuovere la partecipazione attiva di tutte le
parti interessate all'elaborazione dei Piani di tutela, provvedano
affinche' siano pubblicati e resi disponibili per eventuali
osservazioni da parte del pubblico: a) il calendario e il programma
di lavoro per la presentazione del Piano, inclusa una dichiarazione
delle misure consultive che devono essere prese almeno tre anni prima
dell'inizio del periodo cui il Piano si riferisce; b) una valutazione
globale provvisoria dei problemi prioritari per la gestione delle
acque nell'ambito del bacino idrografico di appartenenza, almeno due
anni prima dell'inizio del periodo cui il Piano si riferisce; c)copia
del progetto del Piano di tutela, almeno un anno prima dell'inizio
del periodo cui il piano si riferisce. Senza contare che il
recepimento della direttiva 2000/60/CE implica profonde modificazioni
ai sistemi di monitoraggio finalizzati alla conoscenza e alla
verifica dello stato qualitativo e quantitativo delle acque
superficiali e sotterranee, su cui devono basarsi le previsioni degli
strumenti di pianificazione innanzi illustrati.
Tutto cio' evidenzia intrinseca contraddittorieta', sostanziale
inottemperanza alla direttiva 2000/60/CE, ingiustificata innovazione
del quadro normativo ed amministrativo vigente, anche in violazione
dei principi della legge di delega rammentati al I motivo ed altresi'
dello specifico criterio di «adozione di misure che assicurino la
tempestivita' e l'efficacia dei piani e dei programmi di tutela
ambientale», poiche' non basta certo porre dei termini avulsi da
concreti contenuti per adempiere a cio'.
Quanto all'efficacia va inoltre evidenziato che il d.lgs
n. 152/2006, riducendo il Piano di tutela a piano di settore
attuativo del Piano di gestione adottato dall'Autorita' di bacino
distrettuale, priva il medesimo di quella forza propria degli
strumenti di tutela che gli derivava direttamente dall'essere
stralcio del Piano di bacino e quindi sovraordinato alle
pianificazioni di settore.
Il «declassamento» della pianificazione regionale a favore di
quella di bacino, oltre a violare il principio di sussidiarieta', si
palesa irragionevole sia in considerazione dell'inutile
sovrapposizione che crea tra strumenti di pianificazione che hanno,
tra l'altro, tempi di approvazione tra loro assolutamente
incongruenti, sia con riferimento al fatto che il necessario
approccio unitario e sistemico e' gia' piu' che sufficientemente
garantito dalla fissazione da parte delle Autorita' di bacino degli
obiettivi su scala di distretto e delle priorita' degli interventi,
nonche' dal parere vincolante che le stesse debbono esprimere sulla
conformita' dei piani di tutela regionali ai predetti obiettivi e
priorita'.
Quanto sopra considerato, comportante lesione delle prerogative
costituzionalmente garantite della regione, si appalesa foriero di
grave nocumento all'interesse pubblico nella realta' piemontese.
Infatti la Regione Piemonte ha posto in essere, dopo complesso
processo di elaborazione e consultazione, il Piano di tutela adottato
nel settembre 2004 e sottoposto, con esito favorevole, al parere
dell'Autorita' di bacino del Fiume Po il 5 aprile 2006, ed in corso
di esame per la definitiva approvazione da parte del Consiglio
regionale. Detta approvazione non potrebbe piu' intervenire, con la
conseguente vanificazione degli sforzi compiuti con profusione di
ingenti risorse finanziarie, strumentali e umane e l'impossibilita'
di dare avvio alle misure individuate da un atto improvvisamente
divenuto non piu' conforme alla legge, non fosse altro perche' privo
a monte del Piano di gestione del distretto idrografico, di cui
dovrebbe essere strumento di attuazione, che invece e' di la' da
venire.
L'assenza di quanto meno idonea norma transitoria atta a
consentire il completamento dell'iter del piano di tutela gia'
adottato e positivamente esaminato dall'autorita' di bacino - non
apparendo tale l'ambigua formulazione dell'art. 170, comma 11 -
aggrava la ingiusta situazione di difficolta' per l'ente regionale e
di scadimento della tutela ambientale e specificamente delle risorse
idriche da assicurare nel territorio regionale.
Per tali ragioni e' avanzata altresi' la richiesta di sospensiva
di detti articoli 117, commi 1 e 2 (e 121 del d.lgs. n. 152/2006,
nonche' dell'art. 175, comma 1, lettera bb) in quanto comporta
l'abrogazione dell'art. 44 del d.lgs. n. 152/1999.
C) Sulla sezione III della Parte III riguardante la gestione
delle risorse idriche.
Le norme del decreto legislativo n. 152/2006 che dispongono in
materia di gestione di risorse idriche incrociano l'ambito proprio
dell'organizzazione dei servizi pubblici locali, che e' materia
regionale, e l'allocazione delle funzioni amministrative attuate in
ambito regionale in relazione al d.lgs n. 112/1998 ed agli specifici
aspetti della legge 5 gennaio 1994, n. 36 «legge Galli».
La presente impugnazione si concentra sull'art. 148, comma 5,
norma apparentemente minore, quasi marginale e che invece, totalmente
nuova ed estranea a qualunque indicazione della legge di delega,
interviene a porre in crisi ed a creare nuove, inopinate difficolta'
a tutto il sistema regionale piemontese di organizzazione delle
Autorita' d'ambito ottimale.
E' necessario premettere un inquadramento normativo.
Com'e' noto, la legge 5 gennaio 1994, n. 36, recante disposizioni
in materia di risorse idriche, ha costituito il quadro dell'adeguato
assetto delle esigenze di tutela del territorio e di razionale
sfruttamento delle risorse naturali, con la percezione della
vulnerabilita' e dell'esauribilita' della risorsa «acqua» e la
necessita' di perseguire standard europei in materia di qualita' ed
economicita' dei servizi a quella risorsa connessi.
La riorganizzazione dei servizi pubblici di captazione, adduzione
e distribuzione di acqua ad usi civili, di fognatura e depurazione
delle acque reflue in un unico sistema idrico integrato prevista
dalla legge Galli si fonda su alcuni principi fondamentali:
l'efficacia, l'efficienza e l'economicita' dei servizi idrici, che
richiede il superamento della frammentazione delle gestioni per mezzo
della definizione di ambiti territoriali ottimali ampi, entro i quali
poter applicare un nuovo regime tariffario, determinato tenendo conto
della qualita' della risorsa idrica e del servizio forniti, delle
opere e degli adeguamenti necessari, dell'entita' dei costi di
gestione delle opere, dell'adeguatezza della remunerazione del
capitale investito e dei costi di gestione delle aree di
salvaguardia, in modo che sia assicurata la copertura integrale dei
costi di investimento e di esercizio, l'attuazione di una corretta
politica idrica, che necessita di una chiara individuazione delle
differenti competenze, dei soggetti ad esse preposti e delle relative
responsabilita', con netta distinzione tra le funzioni di governo e
quelle di erogazione del servizio, che si rapportano tra loro sulla
base di specifica convenzione e relativo disciplinare;
l'organizzazione delle funzioni di governo necessariamente pubbliche
e che devono essere esercitate in modo associato da tutti i comuni e
le province appartenenti all'ambito territoriale ottimale, mentre le
funzioni di erogazione possono essere affidate a soggetti pubblici,
privati o misti.
La Regione Piemonte ha dato attuazione ai principi e alle
disposizioni della legge Galli con legge regionale 20 gennaio 1997,
n. 13, attuata con un complesso processo di concertazione. La
delimitazione degli ambiti territoriali ottimali, presupposto della
riorganizzazione dei servizi idrici, e' stata operata, infatti,
secondo considerazioni e valutazioni che trovano il loro fondamento
nelle indicazioni generali della legge n. 36/1994 ed in particolare
nei criteri espressi all'art. 8 della medesima di rispetto
dell'unita' di bacino nei limiti rappresentati dall'idrografia
regionale, di superamento della frammentazione delle gestioni,
nonche' di conseguimento di adeguate dimensioni gestionali.
L'applicazione dei suddetti criteri alla realta' piemontese -
oggetto di confronto e concertazione con le altre regioni in sede di
Autorita' di bacino del fiume Po - ha portato all'individuazione di
sei ambiti che rispondono alle seguenti caratteristiche: rispetto
sostanziale delle infrastrutture e degli impianti esistenti,
indipendentemente dalle singole realta' gestionali; dimensione
sufficientemente ampia per l'applicazione di una tariffa di ambito
idonea a compensare tutti i costi di gestione e di investimento senza
essere eccessivamente onerosa; presenza all'interno di ogni ambito di
situazioni differenziate, quali piccoli centri abitati e citta' di
notevoli dimensioni, zone di montagna, collinari e di pianura,
porzioni di territorio altamente dotate di infrastrutture ed aree
poco attrezzate.
Per quanto concerne invece la funzione di produzione ed
erogazione del servizio, l'art. 7 della l.r. n. 13/1997, pur
demandando la scelta delle forme di gestione all'insindacabile
giudizio delle Autorita' d'ambito, esclude la possibilita' di
ricorrere alle gestioni in economia, incompatibili con i criteri di
efficienza, efficacia ed economicita' posti dalla legge n. 36/1994
con specifico riferimento ai servizi idrici e con le norme
dell'art. 113 del d.lgs. n. 267/2000 in materia di servizi pubblici
locali.
La norma consente inoltre che le Autorita' d'ambito possano
affidare la gestione del servizio idrico integrato anche ad un
pluralita' di soggetti, anziche' ad un unico gestore, purche' cio'
risponda all'interesse generale dell'intero ambito territoriale
ottimale ed a condizione che ciascuno dei soggetti individuati
provveda, nella porzione di territorio servito, alla gestione
unitaria del c.d. ciclo completo dell'acqua (captazione, adduzione e
distribuzione, fognatura e depurazione).
Per quanto concerne la funzione di determinazione dei livelli
tariffari, altro cardine della riforma dei servizi idrici affidato
alle Autorita' d'ambito, all'art. 8 della l.r. n. 13/1997 e' disposta
l'applicazione graduale della c.d. tariffa d'ambito, intesa quale
corrispettivo del servizio idrico integrato pagato dall'utenza
nell'intero ambito territoriale ottimale. Scopo della norma e' far
si' che entro dieci anni dall'entrata in vigore della legge ogni
cittadino residente nell'ambito territoriale corrisponda un eguale
importo di tariffa, seppure determinato secondo il metodo, le
articolazioni e le modulazioni di cui agli articoli 13 e 14 della
legge n. 36/1994.
Il quadro normativo sopra illustrato si completa con la
disposizione di cui all'art. 35, comma 6 della legge 28 dicembre
2001, n. 448, a mente della quale, al fine di salvaguardare le
aspettative delle piccole realta' locali, in caso di gestione
associata del servizio per ambiti territoriali di dimensione
sovracomunale, il soggetto che gestisce il servizio stipula appositi
contratti di servizio con i comuni di dimensione demografica
inferiore a 5.000 abitanti, al fine di assicurare il rispetto di
adeguati ed omogenei standard qualitativi di servizio, definiti dai
contratti stessi.
Il ruolo regionale di regolamentazione, indirizzo e coordinamento
unitamente alla costituzione ed all'ormai piena operativita' delle
Autorita' d'ambito hanno condotto il Piemonte ad una avanzata fase
del processo di riforma, che al momento attuale si sta concentrando
proprio sulla scelta delle forme di gestione e sui relativi
affidamenti secondo i parametri della legislazione nazionale e
regionale, con cio' approssimandosi al definitivo superamento della
frammentazione delle gestioni.
La previsione dell'art. 148, comma 5 del d.lgs. n. 152/2006,
nell'introdurre l'adesione facoltativa alla gestione unica del
servizio idrico integrato per comuni con popolazione fino a 1.000
abitanti inclusi nel territorio delle comunita' montane mina alle
basi il complesso processo di riforma del settore.
Atteso l'elevatissimo numero di comuni di queste dimensioni
presente nella regione (in alcuni ambiti territoriali pari a oltre il
40) vengono vanificati completamente gli enormi sforzi compiuti per
garantire la realizzazione dei principi cardine della legge n. 36 del
1994 e nello specifico quelli di efficacia, efficienza e economicita'
dei servizi idrici che - come gia' detto - possono essere realizzati
solo con il superamento della frammentazione delle gestioni per mezzo
della definizione di ambiti territoriali ottimali ampi, entro i quali
poter applicare un nuovo regime tariffario determinato in modo che
sia assicurata la copertura integrale dei costi di investimento e di
esercizio.
La previsione generalizzata di sottrazione dei comuni indicati
dall'art. 148, comma 5 alla partecipazione agli ambiti territoriali
ottimali, a meno che essi non vi prestino volontaria (e quindi
eventuale e sempre revocabile) adesione, e' totalmente avulsa dalla
considerazione della forte differenziazione delle realta'
territoriali ed amministrative nelle regioni italiane ed in patente
contraddizione con lo stesso principio di organizzazione del servizio
idrico in base all'individuazione di ambiti territoriali ottimali.
I caratteri peculiari del territorio non possono essere in alcun
modo trascurati nell'organizzazione ed erogazione di un servizio
pubblico essenziale per la vita delle comunita' locali.
I territori montani piemontesi sono caratterizzati da superfici
vaste su cui insistono piccoli centri abitati, solitamente poco
attrezzati sotto il profilo infrastrutturale (soprattutto depurativo)
a fronte di una presenza di risorsa idrica qualitativamente e
quantitativamente rilevante. Le zone di pianura invece sono territori
ad alta densita' abitativa, dotati di infrastrutture idriche ma in
condizioni quali-quantitative precarie. Il Piemonte presenta poi
vaste zone collinari, a loro volta caratterizzate da peculiarita'
geomorfologiche e di antropizzazione rilevanti sotto il profilo dei
servizi idrici.
Le specificita' territoriali ed amministrative piemontesi (con la
grande citta' metropolitana, un limitato numero di comuni di medie
dimensioni e un elevatissimo numero di comuni di piccole e
piccolissime dimensioni per il totale di 1209) avevano trovato nella
legge regionale n. 13/1997, con l'istituzione degli ambiti e delle
autorita' d'ambito comprendenti tutti i comuni interessati in una
unitaria organizzazione del servizio, un ragionato assetto di
funzioni aderente alle realta' locali, concretizzando un complesso
processo di aggregazione, con opera di sensibilizzazione e di
superamento anche di intuibili resistenze, basando sull'obbiettivo
della necessita' dell'associazione dei comuni e non della mera
facoltativita' di essa.
L'introdotta deroga al principio di unicita' della gestione
d'ambito esula dai principi dettati dalla legge di delega, contrasta
con il mantenimento del complessivo quadro istituzionale e
dell'assetto organizzativo delle funzioni gia' stabilito, condiziona
e limita le potesta' regionali di organizzazione delle funzioni
amministrative nel territorio e negli ambiti di competenza regionale
quali quello della regolazione dei servizi pubblici locali, senza che
sia ravvisabile alcuna razionale superiore diversa esigenza di
carattere unitario ed anzi in evidente contrasto con gli stessi
principi della disciplina del settore.
Inoltre l'immediata operativita' della disposizione considerata,
senza previsione neppure di regime transitorio o clausola di salvezza
dell'attuale operativita' degli ambiti territoriali ottimali e delle
gestioni gia' esistenti, spezza improvvisamente un sistema che alla
data di entrata in vigore del d.lgs. n. 152/2006 e' strutturato,
dimensionato e finanziariamente esposto per rispondere alle esigenze
di gestione e infrastrutturazione unitaria dell'ambito territoriale
ottimale, senza che a cio' possano in alcun modo ovviare le funzioni
di regolazione generale e di controllo attribuite all'Autorita'
d'ambito dall'articolo impugnato.
Per queste ragioni e' ravvisabile l'occorrenza di sospensione
dell'entrata in vigore dell'art. 148, comma 5 considerato, per il che
si fa istanza.
Art. 150. La norma disciplina specificamente le modalita'
della scelta da parte dell'autorita' d'ambito della forma di gestione
e delle procedure di affidamento del servizio idrico integrato, ove
si prevedono una ipotesi principale mediante affidamento a terzi con
gara (comma 2) e due ipotesi subordinate (comma 3) corrispondenti
rispettivamente alle lettere b) e c) dell'art. 113, comma 5 del T.U.
267/2000, e si ha riferimento a decreto del Ministro dell'ambiente
che disciplina modalita' e termini delle gare «nel rispetto delle
competenze regionali in materia».
Nel contempo l'art. 170, comma 3, lettera i) dispone che, fino
all'emanazione del decreto di cui all'art. 150, comma 2,
all'affidamento della concessione di gestione del servizio idrico
integrato e all'affidamento a societa' miste continuano ad applicarsi
il decreto ministeriale 22 novembre 2001, nonche' le circolari del
Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio del 6 dicembre
2004.
Al di la' del nominalistico indicato rispetto delle competenze
regionali in materia, si assiste quindi all'attrazione completa
nell'ambito di attivita' amministrativa ministeriale di tutta la
disciplina relativa alla gestione del servizio considerato,
consolidando nelle norme del decreto delegato precedenti atti
ministeriali.
La dichiarazione fatta dall'art. 141, comma 1, secondo la quale
oggetto delle disposizioni della sezione terza e' la disciplina delle
risorse idriche e del servizio idrico integrato per i profili che
concernono la tutela dell'ambiente, della concorrenza, dei livelli
essenziali delle prestazioni e delle funzioni fondamentali di comuni,
province e citta' metropolitane, si appalesa allora frutto di
evidente forzatura, rivolta a porre sotto l'ambito di competenza
esclusiva statale un blocco di disposizioni che oggettivamente non vi
ricadono.
La mancata effettiva considerazione ed il superamento della
correlazione tra l'ambito della competenza statale attinente alla
tutela della concorrenza con la pluralita' degli interessi rientranti
nella sfera delle attribuzioni regionali connesse allo sviluppo
economico-produttivo del Paese conducono pertanto a ravvisare le
suddette previsioni del d.lgs. n. 152/2006 lesive della competenza
regionale in materia, senza che a fronte di cio' si possano rinvenire
peculiarita' del servizio idrico integrato che giustifichino un
simile intervento legislativo statale in deroga alla disciplina
generale dei servizi pubblici locali.
E' dunque piu' che lecito il sospetto che la pluralita' dei
richiami alle materie di competenza esclusiva dello Stato operata dal
d.lgs. n. 152/2006 sia preordinata ad estendere le funzioni ed i
compiti spettanti allo Stato anche alle normative di dettaglio, con
conseguente invasione delle competenze regionali in materia di
regolazione del servizio idrico integrato.
Significativo in proposito, oltre ai gia' citati articoli 170,
comma 3, lettera i) e 150 comma 2, l'art. 174, comma 1, per il quale,
fino all'adozione da parte del Ministro dell'ambiente di nuove
disposizioni, costituisce norma attuativa il d.P.C.m 4 marzo 1996.
Il legislatore statale dunque pur richiamando piu' volte le
competenze delle regioni, non si e' limitato a dettare principi
fondamentali, ma ha demandato alla propria normativa anche le misure
di dettaglio.
Si aggiunga anche in questo caso che la norma finale
dell'art. 176 attribuisce vigore di principi fondamentali ai sensi
dell'art. 117, comma 3 della Costituzione, a tutte le disposizioni di
cui alla Parte III del presente decreto che concernono materie di
legislazione concorrente.
Secondo l'impostazione data dal decreto legislativo n. 152/2006
tutta la materia della gestione del servizio idrico integrato
verrebbe riportata dalle regioni allo Stato, che ne effettua
l'integrale regolazione.
Come si e' prima rammentato benche' il decreto manchi di
effettiva trattazione organica dei tre profili di materia (difesa
suolo, tutela delle acque e gestione delle risorse idriche), la Parte
III e' costituita da tre sezioni fra loro interconnesse e
consequenziali. Nel contempo il d.lgs n. 152/2006, atteggiandosi a
testo unico o codice della materia, abroga tutto l'apparato normativo
previgente.
Per quanto sopra esposto le evidenziate violazioni dei precetti
costituzionali ineriscono al sistema delle competenze ed a quello
della pianificazione di settore, veri e propri cardini di tutto
l'impianto normativo considerato.
Ne consegue che anche disposizioni in se' e per se' non
censurabili non possono risultare sottratte alle questioni sollevate,
cosicche' per tale ragione, oltre al rilievo inerente al metodo
procedurale adottato, che riflette su tutte le disposizioni la
violazione del principio di leale collaborazione, come evidenziato al
I motivo, l'illegittimita' costituzionale si estende all'intero
complesso normativo di cui alla Parte III del d.lgs. n. 152/1999.
IV
Sulla Parte quarta del d.lgs. n. 152/2006. Violazione degli
artt. 3, 5, 76, 97, 114, 117, 118, 119, 120 della Costituzione.
Violazione dei principi di leale collaborazione, ragionevolezza,
adeguatezza differenziazione, sussidiarieta', buon andamento della
p.a. anche sotto l'aspetto della violazione di principi e norme del
diritto comunitario e di convenzioni internazionali.
La parte quarta del decreto legislativo n. 52/2006 reca le norme
in materia di gestione dei rifiuti e di bonifica dei siti inquinati.
Come e' stato rilevato dalla Conferenza delle regioni, il decreto
delegato in questa parte interviene drasticamente su alcuni aspetti
della normativa vigente, modifica l'organizzazione delle competenze e
dell'intero sistema di gestione proprio degli istituti che finora
sono stati applicati con buoni risultati, senza fornire gli elementi
per una diversa organizzazione del sistema, coerente con il quadro
costituzionale e aderente ai principi comunitari.
In un quadro involutivo rispetto all'attuale si spostano
competenze dalla periferia al centro, si sovrappongono e duplicano
funzioni e atti di programmazione, si separano settori che al
contrario necessitano di integrazione, si moltiplicano i processi
decisionali e di controllo aumentando l'incertezza degli operatori
pubblici e privati, annullando processi regionali e locali di grande
valore e di riconosciuta efficacia, nonche' programmi e traguardi
raggiunti, allontanando l'allineamento del nostro Paese alla
disciplina europea.
In particolare si evidenziano i seguenti aspetti:
A) Art. 181 commi 7 e 11 ed art. 214, comma 3. Le norme
concernono la formazione di accordi di programma con soggetti
economici o associazioni di categoria per la definizione di metodi di
recupero derogatori della disciplina generale e per le attivita'
sottoponibili alle procedure semplificate.
Si tratta di accordi di programma fra soggetti pubblici e privati
sostitutivi dell'attivita' di normazione secondaria, previsione del
tutto innovativa rispetto al quadro legislativo vigente ed esulante
totalmente dai principi e criteri della legge di delega.
Vi e' l'introduzione di un sistema di contrattualizzazione che
esorbita dai limiti propri dell'istituto dell'accordo, essendo
previsto che attraverso gli accordi si detti la disciplina attuativa
del decreto sostituendosi all'attivita' normativa secondaria, in
contrasto con i principi regolanti l'attivita' amministrativa che
escludono le possibilita' di accordi con i privati nell'ambito
dell'attivita' diretta alla emanazione di atti normativi,
amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione, per i
quali restano ferme le particolari norme che ne regolano la
formazione (artt. 11, 13, legge n. 241/1990).
Vi e' altresi' la legittimazione solo di alcune categorie
sociali, a discapito di altre, a concorrere all'elaborazione dei
contenuti di rilevanti discipline, potenzialmente destinate a
assumere caratteri di generalita' ed astrattezza e a divenire quindi
applicabili alla universalita' degli operatori dei settori
interessati, il che si traduce in una violazione dei principi di
uguaglianza e di certezza del diritto.
L'evenienza di incorrere in parzialita' a cui conducono dette
disposizioni si aggrava per il fatto che non ha trovato alcuna
considerazione il potenziale contributo delle associazioni operanti
nel settore della tutela ambientale ne' di altri enti esponenziali di
interessi generali.
Dette previsioni non trovano sostegno nella normativa
comunitaria. Il riferimento fatto dall'art. 181 alla Comunicazione
della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio e al Comitato
delle regioni, Com (2002) 412 del 17 luglio 2002 e' infatti improprio
in quanto travisa il significato dell'istituto delineato in sede
comunitaria e volto ad individuare obiettivi di miglioramento, su
base volontaria, e non gia' a deregolamentazione.
Sul punto la Commissione europea, con la comunicazione al
Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale e
al Comitato delle regioni relativa agli «Accordi ambientali»
stabilisce che «gli accordi in materia ambientale sul piano
comunitario sono accordi in cui le parti interessate si impegnano ad
ottenere una riduzione dei livelli di inquinamento come sancito dal
diritto ambientale, o obiettivi di carattere ambientale, di cui
all'art. 174 del Trattato... un accordo ambientale deve fornire
valore aggiunto in termini di elevato livello di tutela
dell'ambiente. La politica comune per l'ambiente deve mirare ad un
livello di protezione elevato. Prima di riconoscere un accordo
ambientale, la Commissione deve assicurarsi che questa condizione sia
soddisfatta». Presupposto giuridico per il ricorso agli accordi
ambientali e' la conformita' «alle disposizioni del trattato CE
relativamente al mercato interno e alle regole sulla concorrenza, ivi
compresi gli orientamenti riguardanti gli aiuti di Stato a favore
dell'ambiente».
Gli accordi di programma previsti dal d.lgs. n. 152/2006 invece,
consentendo di fissare modalita' di trattamento e adempimenti
amministrativi alternativi a quelli previsti per tutte le altre
tipologie di rifiuto, permetterebbero la sottrazione di notevoli
quantita' di rifiuti dalla disciplina e dal regime dei controlli
ordinari, con evidenti rischi per la tutela della salute e
dell'ambiente. L'accordo di programma, cosi' come formulato, consente
a coloro che aderiscono di sottrarsi ad ogni regolamentazione, oltre
a causare una evidente difformita' di applicazione delle norme da un
settore produttivo ad un altro, impedendo controlli uniformi del
ciclo di gestione dei rifiuti sul territorio nazionale.
Inoltre, viene stabilito che la struttura delegata alla raccolta
delle informazioni e' l'Albo nazionale gestori ambientali, attraverso
la costituzione di un'apposita sezione, senza pero' chiarire come
avvenga il coordinamento con le province, fino ad ora deputate ad
effettuare i controlli in merito al recupero dei rifiuti con
procedura semplificata.
Artt. 183, 194 ed art. 212 per la parte relativa ai rottami
ferrosi in quanto connessa con le definizioni dell'art. 183.
Vengono introdotte le nozioni di rifiuto, sottoprodotto, materia
prima secondaria per attivita' siderurgiche e metallurgiche, che
restringono il campo di applicazione della disciplina sui rifiuti,
percorrendo una sorta di deregolamentazione mascherata, che e' gia'
in passato incorsa nei negativi pronunciamenti della Corte di
Giustizia. Vedasi in ipotesi del tutto analoghe la pronuncia
«Niselli» C. 457/02 dell'11 novembre 2004.
Con l'introdotta nozione di sottoprodotto e materia prima
secondaria si sottraggono al regime dei rifiuti, ed alle relative
autorizzazioni, adempimenti e controlli, sostanze e materiali che le
direttive comunitarie riconducono alla nozione generale di rifiuto,
da interpretarsi, conformemente alla giurisprudenza comunitaria, in
senso estensivo (vedasi la pronuncia «Palin Granit Oy» 9/00 del 18
aprile 2002; ma anche Cass. pen. ordinanza 1414/06).
Il campo di applicazione si ricostruisce con difficolta' nella
lettura di una serie di disposizioni, in particolare delle
definizioni e della disciplina su: sottoprodotti (art. 183, comma 1,
lett. n); materie prime secondarie (art. 183, comma 1, lett. q) e 181
comma 12); materie prime secondarie fin dall'origine (art. 181, comma
13); materie prime secondarie per attivita' siderurgiche e
metallurgiche (art. 183, comma 1, lett. n) CDR-Q ovvero combustibile
da rifiuto di qualita' elevata (183, comma 1, lett. s) e 229), oltre
alle terre e rocce da scavo (art. 186) di cui si dira' a parte.
Confrontando i contenuti delle esclusioni contenute nel d.lgs.
n. 152/2006 con gli orientamenti consolidati della giurisprudenza
comunitaria in merito emerge l'indebita sottrazione di alcune
tipologie di rifiuti dall'ambito di applicazione della normativa
comunitaria.
Con riferimento alla nozione di sottoprodotto, l'art. 183, comma
1, lett. n) ritaglia una zona franca a determinati materiali
scaturiti da processi industriali che si spinge oltre le linee di
confine tracciate in sede comunitaria.
La Corte di Giustizia ha affermato in proposito che «tenuto
conto... dell'obbligo di interpretare in maniera estensiva la nozione
di rifiuto, per limitare gli inconvenienti o i danni dovuti alla loro
natura, occorre circoscrivere tale argomentazione, relativa ai
sottoprodotti, alle situazioni in cui il riutilizzo di un bene, di un
materiale o di una materia prima non sia solo eventuale, ma certo,
senza trasformazione preliminare e nel corso del processo di
produzione» (sentenza 11 settembre 2003, causa c-114/01 Avestapolarit
Chrome; sentenza 11 novembre 2004, causa c-457/02).
Il contrasto della nozione di sottoprodotto di cui all'art. 183,
comma 1, lett. n) riguarda in primo luogo e con evidenza la mancata
previsione della necessaria riutilizzazione del materiale nel corso
del processo di produzione. La norma dispone espressamente la
possibilita' di riutilizzo dei sottoprodotti non solo «direttamente
dall'impresa che li produce» ma contempla la possibilita' di
escludere dalla applicazione delle disposizioni della parte IV i
sottoprodotti che «sono destinati ad un ulteriore impiego o al
consumo» compresi quelli «commercializzati... direttamente per il
consumo o per l'impiego» con evidente incompatibilita' della
definizione con l'orientamento comunitario.
Per quanto concerne le disposizioni relative a materie prime
secondarie per attivita' siderurgiche e metallurgiche (art. 183,
comma 1, lett. u) e CDR-Q ovvero combustibile da rifiuto di qualita'
elevata (183, comma 1, lett. s) e 229) esse comportano esclusione
dall'ambito di applicazione della direttiva 75/442/CEE come
interpretata dalla Corte di Giustizia, nel primo caso in quanto non
specifica che un rottame ferroso o non ferroso derivante da
operazioni di recupero puo' effettivamente assumere la qualifica di
prodotto solamente qualora si tratti di operazioni di recupero
complete e, nel secondo caso, perche' non si tiene conto che il
combustibile derivato da rifiuti e' a tutti gli effetti un rifiuto
fino a quando lo stesso non viene combusto per produrre energia (ed
anche successivamente, limitatamente ai residui delle operazioni di
combustione) e non puo' essere definito come il risultato di
un'operazione di recupero completa in quanto e' il risultato di un
processo di selezione e miscelazione di rifiuti che mantengono tale
caratteristica anche dopo il trattamento.
Si evidenzia dunque contrasto con le direttive comunitarie e
riproposizione di soluzioni interpretative gia' oggetto di condanna
da parte degli organi comunitari, che si riflette negativamente
sull'attivita' delle amministrazioni regionali e locali poste nelle
condizioni di operare o in violazione delle norme introdotte, ma nel
rispetto di quelle comunitarie, ovvero, osservandole, di essere
esposte a pronunciamenti negativi in sede comunitaria. Tutto cio'
anche in contrasto con i principi della legge di delega.
Dunque il vizio di origine del d.lgs. n. 152/2006, predisposto
con metodi che hanno determinato la totale emarginazione del sistema
delle regioni e delle autonomie locali dall'elaborazione del testo,
non puo' non ripercuotersi in sede di attuazione producendo una
scontata difficolta' per gli enti che non hanno in alcun modo
condiviso il testo normativo a dare concreta applicazione alla
novella disciplina.
Questo scollamento tra potere centrale e autonomie locali si
traduce in un blocco del sistema e in una incertezza di disciplina
che va a detrimento degli interessi pubblici tanto dei singoli
cittadini quanto degli operatori economici dei settori interessati.
In una situazione di contrasto e di scarsa chiarezza normativa
possono avvantaggiarsi esclusivamente i soggetti che operano nel
campo ambientale in modo illegale, con potenziale rafforzamento dei
traffici e delle gestioni illecite.
Art. 186. La situazione di contrasto con la normativa
comunitaria e' qui particolarmente evidente. Viene riproposta, con
alcune marginali modifiche, l'esclusione dalla normativa dei rifiuti
delle terre e rocce da scavo, gia' contenuta in precedenti leggi
oggetto di due procedure di infrazione comunitaria avviate nei
confronti dell'Italia per contrasto con le direttive 75/442/CEE e
91/156/CEE.
Infatti il d.lgs. 22/1997, all'art. 8, prevedeva inizialmente
l'esclusione dei materiali non pericolosi derivanti dall'attivita' di
scavo. La Commissione europea con lettera di messa in mora
23 settembre 1997 (procedura 95-2184) censuro' tale esclusione e
l'Italia con d.lgs. 8 novembre 1997, n. 389, abrogo' la disposizione
che permetteva l'esclusione dei materiali non pericolosi che derivano
da attivita' di scavo.
Ma successivamente l'art. 10 della legge n. 93/2001 nuovamente
inseri' tra le esclusioni della normativa sui rifiuti lo stesso
materiale con la dizione «terre e le rocce da scavo destinate
all'effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e
macinati con esclusione dei materiali provenienti da siti inquinati e
da bonifiche con concentrazione di inquinanti superiori ai limiti di
accettabilita' stabiliti dalle norme vigenti» ed inoltre l'art. 1,
comma 17 della legge n. 443/2001 (legge Lunardi) ne introdusse
un'interpretazione autentica nel senso che le terre e rocce da scavo,
anche di gallerie, non costituiscono rifiuti e sono, percio', escluse
dall'ambito di applicazione della relativa normativa anche quando
contaminate durante il ciclo produttivo da sostanze inquinanti
derivanti dalle attivita' di escavazione, perforazione, costruzione,
sempre che la composizione media dell'intera massa non presenti una
concentrazione di inquinanti superiore ai limiti massimi previsti
dalle norme vigenti. Inoltre il comma 19 della stessa legge stabili'
che per i materiali di cui al comma 17 si intende per effettivo
utilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati anche la
destinazione a differenti cicli di produzione industriale, ivi
incluso il riempimento delle cave coltivate, nonche' la
ricollocazione in altro sito a qualsiasi titolo autorizzato.
In relazione a dette norme la Commissione europea avvio' una
nuova procedura di infrazione 2002/2077 c (1002) 2201 contestando
alla Repubblica italiana la violazione della direttiva 74/442/CEE
come modificata dalla direttiva 91/156/CEE per l'esclusione operata a
favore di tali materiali dalla disciplina sui rifiuti. La Commissione
rilevava che «questa esclusione, che ha per effetto la non
applicabilita' delle disposizioni sulla gestione dei rifiuti di cui
alla direttiva, e' contraria alla direttiva stessa, che non puo'
essere derogata da una norma di diritto interno e che non prevede
alcuna esclusione dal suo ambito di applicazione per tali rifiuti»
poiche' «le terre e rocce da scavo sono materiali di cui il detentore
vuole disfarsi e sono inoltre elencati nel catalogo europeo dei
rifiuti... Pertanto le terre e rocce da scavo devono essere
considerate coperte dalla definizione di rifiuto e, di conseguenza,
incluse nell'ambito di applicazione della disciplina comunitaria sui
rifiuti».
Al fine di risolvere le questioni della procedura di infrazione
della Commissione europea, si intervenne con l'art. 23 della legge
n. 306/2003 (legge comunitaria 2003), modificando le disposizioni
dell'art. 1 della legge n. 443/2001 (legge Lunardi) e prevedendo
l'esclusione delle terre e rocce provenienti da attivita' di scavo
dalla disciplina dei rifiuti solo nel caso in cui, oltre alle
condizioni gia' previste, siano utilizzate senza trasformazioni
preliminari, secondo le modalita' stabilite nel progetto sottoposto a
VIA ovvero, qualora non sottoposte a VIA secondo le modalita'
previste nel progetto approvato dall'autorita' amministrativa
competente previo parere dell'ARPA.
Tuttavia tale intervento normativo non e' stato sufficiente per
ritenere adeguata le normativa interna alla direttiva comunitaria,
tanto che la Commissione europea non ha archiviato la procedura di
infrazione avviata con riferimento alla legge n. 93/2001 e legge
n. 443/2001, chiedendo con ricorso alla Corte di Giustizia in data
2 maggio 2005 Causa C-194/05, la condanna della Repubblica italiana
per la esclusione delle terre e rocce da scavo destinate
all'effettivo riutilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e
macinati, dalla disciplina nazionale sui rifiuti.
L'art. 186 in esame riprende e amplia quanto previsto dalle
surricordate leggi n. 93/2001 e 443/2001, con la conseguenza che le
questioni di contrasto con la normativa comunitaria, gia' contestate
dalla Commissione europea, restano immutate e se possibile si
radicalizzano. In particolare, l'art. 186 al comma 1 stabilisce quali
sono le condizioni alle quali le terre e rocce da scavo ed i residui
di lavorazione della pietra possono essere escluse dal regime
giuridico dei rifiuti.
La norma introduce anche novita' rilevanti che tendono ad
escludere dalla disciplina dei rifiuti ulteriori materiali quali «i
residui di lavorazione della pietra» in precedenza non contemplati,
restringendo ulteriormente il campo di applicazione della normativa
sui rifiuti.
Tale previsione contrasta con la necessita' posta a livello
comunitario di interpretare estensivamente la nozione di rifiuto a
prescindere dal fatto che i materiali da scavo non comportino reali
pericoli per la sanita' pubblica o l'ambiente (Sentenza C-9/00 Palin
Granit Oy). La Corte di Giustizia, nella sentenza citata, interpreta
la nozione di rifiuto escludendone solo le sostanze e i materiali
sottoposti ad un riutilizzo non solo eventuale ma certo, senza
trasformazione preliminare e nel corso del medesimo processo di
produzione. Inoltre in merito all'utilizzo del materiale l'art. 186
introduce significative modifiche. Un aspetto innovativo riguarda
l'inciso «... ove cio' sia espressamente previsto» con riferimento
alle autorizzazioni all'utilizzo delle terre e rocce da scavo. Tale
precisazione incide sulla rilevante questione, gia' sorta nella
vigenza delle preesistenti norme, di quando occorra sottoporre a
specifica e preventiva approvazione e conseguente caratterizzazione
dei materiali risultanti una operazione di riutilizzo di terre e
rocce da scavo. Mentre in precedenza per l'utilizzo dei materiali
doveva ritenersi sempre necessaria la preventiva approvazione di un
progetto, attualmente si puo' concludere che puo' non essere
obbligatoria la presentazione di un progetto per l'utilizzo di terre
e rocce da scavo e conseguentemente non necessaria l'approvazione
dell'autorita' amministrativa, l'emanazione di un parere dell'ARPA e
una specifica valutazione circa la composizione media della massa da
avviare all'utilizzo.
Il comma 5 dell'art. 186 fornisce una precisazione su cosa si
intenda per «effettivo utilizzo» individuato come condizione
necessaria affinche' le terre e rocce da scavo siano escluse dal
regime dei rifiuti, e prevede che possa consistere anche nel
destinare i materiali scavati a differenti cicli di produzione
industriale o al riempimento delle cave o alla ricollocazione in
altro sito.
Il comma 7 prevede una dichiarazione sostitutiva da parte del
soggetto che esegue i lavori in ordine al «riutilizzo» alla assenza
di «trasformazioni preliminari» alla mancato uso di «sostanze
inquinanti». Al comma 8 si prevede l'ipotesi di utilizzo non
immediato del materiale scavato introducendo la possibilita' di un
deposito semestrale.
Dette nuove disposizioni contrastano palesemente con
l'orientamento della giurisprudenza comunitaria secondo il quale «le
uniche modalita' prevedibili di riutilizzo dei detriti necessitano
nella maggior parte di casi di operazioni di deposito che possono
avere una certa durata», in tal caso «il riutilizzo non e' sicuro e
prevedibile a piu' o meno lungo termine, cosicche' i detriti possano
essere considerati solo residui provenienti dall'estrazione di cui
l'imprenditore ha deciso o ha l'obbligo di disfarsi ai sensi della
direttiva 91/156/CEE» e come tali ricadenti nella disciplina sui
rifiuti (Sentenza C-9/00 Palin Granit Oy; C-114/01 Avestapolarit
Chrome Oy).
Inoltre, con la previsione di una dichiarazione sostitutiva in
ordine all'utilizzo dei materiali viene meno la certezza del medesimo
utilizzo del materiale da scavo che rappresenta una condizione
necessaria, come rilevato dalla Corte di Giustizia, per l'esclusione
dalla disciplina dei rifiuti.
L'uso del termine «riutilizzo» comma 7 dell'art. 186 deve
considerarsi riferito a un reimpiego ovvero ad un nuovo uso di
materiali gia' utilizzati; cio' appare fortemente in contrasto con
l'orientamento della giurisprudenza comunitaria che considera che
tale operazione non giustifichi l'esclusione dei materiali dalla
disciplina dei rifiuti ma realizzi attivita' di recupero di rifiuti.
In tal senso la Commissione europea nella procedura di infrazione nei
confronti dell'Italia ha affermato «che la definizione di rifiuto di
cui alla direttiva comprende infatti anche i materiali destinati ad
operazioni di riutilizzo o recupero dato che il termine disfarsi
include nel contempo lo smaltimento e il recupero di una sostanza o
di un oggetto».
In sostanza le disposizioni dell'art. 186 in quanto appaiono
sottrarsi all'applicazione della direttiva comunitaria sui rifiuti
determinano il protrarsi del contenzioso comunitario sul punto, gia'
avviato nei confronti della previgente normativa.
Ne conseguono effetti negativi sull'attivita'
dell'amministrazione regionale, tenuta ai sensi dell'art. 117, 1
comma e 5 comma della Costituzione a dare attuazione alla normativa
comunitaria e posta di fronte a normativa interna contrastante con le
fonti comunitarie direttamente applicabili e con le sentenza della
Corte di Giustizia rese ai sensi dell'art. 234 del Trattato Ce. Anche
nelle ipotesi di conflitto tra normativa interna e disciplina
comunitaria non «self-executing» la situazione di grave incertezza
nonnativa conduce ad una situazione di stallo, aggravata dalla
pendenza di un contenzioso comunitario che si protrae ormai da alcuni
anni.
Tutto cio' conduce in definitiva all'abbassamento del livello
della tutela ambientale, considerando il particolare rilievo, anche
in termini quantitativi, dell'esclusione di tutti i prodotti
dell'attivita' di escavazione dalla normativa sui rifiuti e della
sostanziale deregolamentazione della materia.
Art. 195. Le disposizioni concernono le competenze statali.
Viene in particolare considerazione il comma 1, lett. f), laddove si
realizza l'accentramento a livello ministeriale delle attivita'
pianificatorie nell'individuazione degli impianti di recupero e
smaltimento di preminente interesse nazionale da realizzare per la
modernizzazione e lo sviluppo del Paese, che avviene semplicemente
«sentita la Conferenza Stato-regioni» e senza intesa della stessa e
delle singole regioni specificamente interessate dagli interventi in
programma.
Ne deriva una sostanziale esclusione delle regioni all'esercizio
dell'attivita' pianificatoria sul territorio di propria competenza in
merito agli impianti di recupero e smaltimento di preminente
interesse nazionale, per la cui localizzazione non e' prevista alcuna
forma di partecipazione alla decisione statale. Tale previsione si
pone in contrasto con le competenze regionali in materia di governo
del territorio e, indirettamente, di tutela della salute.
Come gia' ravvisato da cidesta ecc.ma Corte «quando gli
interventi dello Stato, in vista di interessi unitari di tutela
ambientale, concernono l'uso del territorio e in particolare la
realizzazione di opere e di insediamenti atti a condizionare in modo
rilevante lo stato e lo sviluppo di singole aree, l'intreccio, da un
lato, con la competenza regionale concorrente in materia di governo
del territorio, oltre che con altre competenze regionali, dall'altro
con gli interessi delle popolazioni insediate nei rispettivi
territori, impone che siano adottate le modalita' di attuazione degli
interventi medesimi che coinvolgano le regioni sul cui territorio gli
interventi sono destinati a realizzarsi».
In particolare per l'individuazione dei siti e' necessaria
l'acquisizione dell'intesa da parte della regione sul cui territorio
l'opera e' destinata ad essere ubicata, essendo insufficiente «a
questo livello il semplice coinvolgimento della Conferenza unificata,
il cui intervento non puo' sostituire quello, costituzionalmente
necessario della singola regione interessata» (sent. 62/2005).
Ancora al comma 1, lett. l), n), q) che riguardano
rispettivamente l'individuazione degli obiettivi di qualita' dei
servizi, le linee guida per la definizione delle gare d'appalto e dei
capitolati, i criteri per l'organizzazione della raccolta
differenziata, si e' in presenza di disposizioni riferite al sistema
di gestione dei servizi relativi ai rifiuti che sono riconducibili
alla competenza legislativa regionale in tema di servizi pubblici
locali, nonche' alla potesta' organizzativa degli enti gestori.
Sotto il primo aspetto degli obbiettivi di qualita' non vi e'
neppure alcuna previsione della partecipazione delle regioni ed
autonomie locali.
Per gli altri aspetti non potrebbe essere invocato il titolo di
legittimazione della competenza statale attinente alla tutela della
concorrenza, che e' riferibile solo a disposizioni di carattere
generale che disciplinano l'affidamento dei servizi nei limiti degli
strumenti di intervento disposti «in una relazione ragionevole e
proporzionata rispetto agli obiettivi attesi», tenendosi conto che la
materia della tutela della concorrenza (materia-funzione che presenta
estensione trasversale) si intreccia con una pluralita' di altri
interessi, come, nel caso in esame, la connessione con la disciplina
concreta di un servizio pubblico locale quale la gestione dei rifiuti
urbani (sent. 272/2004).
Parimenti non vi e' evidenza nelle disposizioni suddette di
esigenze particolari connesse a standards di tutela ambientale,
cosicche' l'intervento statale realizza illegittima compressione
dell'autonomia regionale poiche' risulta ingiustificato e non
proporzionato rispetto all'obiettivo della tutela della concorrenza e
della tutela ambientale ed effettua disciplina di dettaglio nel
merito delle forme, modi ed obiettivi di gestione dei servizi
pubblici locali, che deve essere correttamente ricondotta alla
competenza regionale, ai sensi dell'art. 117, comma 4.
Sempre al comma 1, alle lett. m) ed o) e' prevista l'emanazione
da parte del Ministero dell'ambiente dei criteri generali per
elaborazione dei piani regionali e degli ambiti territoriali ottimali
ed altresi' delle linee guida per la cooperazione fra enti locali ed
alla lett. p) dei criteri per le aree non idonee.
Vi e' accentuazione ed accentramento di poteri a livello
ministeriale non sorretto dalla legge di delega e non giustificato da
esigenze di trattamento unitario degli interessi coinvolti, in
contrasto con i principi di sussidiarieta' e di leale collaborazione
con la partecipazione delle comunita' locali nel governo della
materia.
In ambito programmatorio vengono poste in secondo piano le
potesta' regionali in ordine alla definizione degli indirizzi e
all'organizzazione del sistema di governo delle attivita' di gestione
dei rifiuti e sostanzialmente divengono inconsistenti le funzioni
provinciali di programmazione e di coordinamento delle politiche
gestionali nel proprio ambito territoriale, come gia' previste dalla
disciplina finora vigente.
Cio' contrasta con il principio di sussidiarieta', impedendo che
gli interventi siano rapportati alla dimensione territoriale degli
interessi e all'individuazione del livello ottimale di allocazione
delle diverse funzioni, mentre il principio dell'unitarieta' non
giustifica l'intervento pervasivo sugli aspetti pianificatori,
laddove il principio di differenziazione imporrebbe di adattare gli
interventi di tutela e di organizzazione ai diversi contesti
territoriali.
Parimenti per analoghe considerazioni appare ingiustificato e
irragionevole l'intervento statale diretto a definire linee guida
specifiche inerenti «le forme e i modi della cooperazione fra gli
enti locali», non apparendo sussistere alcuna speciale esigenza che
non possa essere soddisfatta con l'applicazione degli istituti propri
dell'organizzazione delle autonomie locali secondo le modalita' piu'
idonee dalle stesse prescelte.
I suddetti rilievi attengono conseguentemente alla speculare
dettagliata disciplina posta agli articoli da 196 a 200.
All'art. 199, comma 9 vi e' inoltre la previsione di un
potere sostitutivo in capo al Ministro dell'ambiente per le omissioni
rispetto ai contenuti del piano regionale, che si pone in contrasto
con l'art. 120 Cost. e con i principi costituzionali di
sussidiarieta' e leale collaborazione nonche' di omogeneita' e
unicita' di cui alla legge n. 59/1997. Essa appare inoltre
contrastante con il principio di ragionevolezza, in quanto affida ad
un soggetto diverso dall'ente regionale titolare della programmazione
il potere di intervenire per garantire l'adempimento degli obblighi
previsti dagli atti di programmazione regionale.
L'intervento statale in sostituzione delle autorita'
inadempienti, avviene oltretutto senza prevedere alcun coinvolgimento
della regione, unico ente competente a garantire l'effettivita' dei
propri atti di programmazione.
Non sono inimaginabili presupposti che giustifichino
l'attribuzione di tali funzioni a livello centrale, anziche' a quello
regionale al quale logicamente appartengono ed e' patente la
violazione del principio di leale collaborazione, non essendo in
alcun modo previsti strumenti idonei a garantire quanto meno
l'adeguato coinvolgimento delle regioni nell'adozione dell'intervento
sostitutivo e nelle decisioni assunte in via sostitutiva dal
Ministero.
Artt. 201-204. Viene disciplinato l'affidamento del servizio
di gestione integrata dei rifiuti urbani e l'utilizzazione delle
gestioni esistenti. In dette disposizioni, richiamandosi quanto prima
osservato in ordine all'art. 195, il legislatore delegato pone norme
estremamente dettagliate ed autoapplicative che comportano una
illegittima compressione dell'autonomia regionale e degli enti
locali.
La selezione di specifica modalita' di affidamento del servizio
di gestione dei rifiuti nonche' l'estremo dettaglio nell'indicare i
criteri di aggiudicazione risultano invasivi della competenza
legislativa regionale in materia di servizi pubblici locali nonche'
dell'autonomia organizzativa degli enti a cui compete la gestione del
servizio.
Si ribadisce la violazione dei principi di proporzionalita' e di
adeguatezza rispetto agli obiettivi attesi.
Si veda anche in particolare la previsione in ordine alla durata
della gestione da parte dei soggetti affidatari, «non inferiore a
quindici anni», contenuta nel comma 6 dell'art. 201. La fissazione di
una durata minima dell'affidamento, che, appare comunque
eccessivamente dilatata e, come tale, in contrasto con l'annunciato
intento di introduzione di elementi di concorrenzialita' e di
apertura del mercato dei servizi pubblici di gestione dei rifiuti,
ostacola un adeguamento della disciplina delle gestioni alle diverse
realta' territoriali e imprenditoriali regionali, comprime la sfera
di autonomia decisionale delle medesime regioni e degli enti locali,
con riferimento ad un aspetto esclusivamente gestionale che non ha
ragione di essere vincolato a livello nazionale.
Art. 205 in relazione all'art. 183, comma 1, lett. f), che
concerne la definizione di raccolta differenziata e le misure per
incrementare la raccolta differenziata.
La nuova definizione data all'art. 183, comma 1, lett. f)
identifica nella raccolta differenziata anche operazioni di
separazione che avvengono durante la lavorazione del rifiuto e,
quindi, successivamente alla raccolta.
Con tale metodo, nelle condizioni attuali di raccolta, le
percentuali di raccolta differenziata risulterebbero fittizianiente
incrementate senza un sostanziale miglioramento, ponendo quindi in
crisi gli obbiettivi di raggiungimento di percentuali di raccolta
differenziata stabiliti in base a d.lgs. 22/1997 nella programmazione
regionale e nei piani gestionali del servizio. Inoltre il decreto
delegato non distingue il recupero dei materiali di qualita' e quindi
non incentiva il conferimento separato dei rifiuti per frazioni
omogenee ed altresi' posticipa al 31 dicembre 2006 il raggiungimento
degli obiettivi di raccolta differenziata che, ai sensi della
normativa previgente, dovevano essere raggiunti da piu' di tre anni.
Tutto cio' concretizza irragionevolezza e contrasto con gli
obbiettivi di tutela ambientale, risultando svilite le realta'
territoriali e programmatorie gia' impostate a criteri di maggiore
efficienza, con detrimento delle attivita' amministrative locali nel
loro buon andamento.
Art. 238. Viene disciplinata la tariffa per la gestione dei
rifiuti urbani, per la quale la legge delega individuava all'art. 1,
comma 9, lett. a) il criterio di «assicurare una maggiore certezza
della riscossione della tariffa sui rifiuti urbani anche mediante una
piu' razionale definizione dell'istituto».
Il d.lgs. n. 152/2006 non si limita a modificare le preesistente
disciplina della tariffa, contenuta nell'art. 49, d.lgs. n. 22/1997,
intervenendo sulle modalita' di riscossione ma abroga l'intero
disposto dell'art. 49 introducendo rilevanti elementi innovativi
circa i presupposti per l'applicazione, concretizzando violazione
dell'art. 76 per eccesso di delega rispetto ai principi e criteri
direttivi contenuti nella legge n. 308/2004.
Inoltre la natura della nuova tariffa, contenuta nell'art. 238
d.lgs. n. 152, appare quantomai controversa.
L'attribuzione alla giurisdizione del giudice tributario (legge
n. 248/2005, art. 3-bis) cosi' come l'inserimento di un richiamo ad
indici reddituali, previsto dall'art. 238 per la commisurazione
dell'ammontare della tariffa costituiscono indici per la
qualificazione della medesima nello schema tributario, comportando
una sensibile divaricazione tra il quantum pagato e il grado di
fruizione del servizio pubblico e allontanandolo dal modello del
corrispettivo contrattuale. In tal modo e' ravvisabile violazione del
principio comunitario del «chi inquina paga» contenuto nel Trattato
istitutivo CE e nella direttiva 75/442/Cee, stante l'introduzione di
indicatori sganciati dalla mera produzione dei rifiuti e si determina
altresi' in definitiva la difficolta' degli enti regionali e locali
nella programmazione e gestione dei servizi in relazione al
finanziamento degli stessi a cui far fronte con risorse differenti da
quelle derivanti dalla prestazione dei servizi stessi.
B) Le norme della parte quarta riguardanti la disciplina degli
interventi di bonifica dei siti contaminati presentano svariate
innovazioni, sia nelle disposizioni di definizioni sia nella
regolamentazione di procedure, che modificano notevolmente l'impianto
giuridico gia' costituito dal d.lgs. 22/1997, art. 17 senza supporto
nelle previsioni della legge di delega.
In particolare, all'art. 240 viene adottata definizione della
«messa in sicurezza operativa» che anziche' consentire appropriata
organizzazione che contemperi l'attuazione degli interventi con la
prosecuzione dell'attivita' produttiva, secondo un piano operativo
eventualmente concordato, finisce per procastinare a tempo
indeterminato gli interventi fino a quando l'attivita' verra'
dismessa.
All'art. 242, tutto il precedente impianto di competenze
viene rivoluzionato eliminando l'incardinamento degli interventi in
primo luogo nei comuni territorialmente interessati, con violazione
del principio di sussidiarieta'.
I mutamenti organizzativi che si renderebbero necessari per
operare secondo il sistema prefigurato determinano una immediata
situazione di paralisi amministrativa, con il blocco delle attivita'
in corso e la difficolta' di concretizzare con occorrente
tempestivita' una nuova organizzazione, peraltro piu' complessa, e
quindi piu' lenta, e meno efficace, per l'impossibilita' di una
verifica immediata sugli eventi di contaminazione, attuabile invece a
livello comunale.
La definizione delle procedure si presenta di minuto dettaglio
non scevro da difetti di coordinamento e comporta una complessita'
procedimentale che aggrava, senza trovare giustificazione in
essenziali esigenze, il procedimento da seguirsi, lascia ampi margini
di incertezza sui ruoli dei soggetti coinvolti e finisce in
definitiva per ostacolare un intervento dell'autorita' pubblica
tempestivo e specifico.
Vi sono altresi' non poche incongruenze in relazione alle
disposizioni degli artt. 244 e 245 ed a quelle della parte VI
riguardanti le azioni di prevenzione e di riparazione del danno
ambientale.
L'art. 246 prevede incongruamente il ricorso obbligatorio ad
accordi di programma che i soggetti tenuti ad eseguire gli interventi
di bonifica hanno «diritto di stipulare» con l'amministrazione
competente.
Art. 252. Si evidenzia la modifica delle competenze in
materia di interventi di interesse nazionale, secondo cui viene
eliminata l'intesa della regione territorialmente competente in
ordine alla definizione ed approvazione del progetto dell'intervento.
Considerando la natura degli interventi di interesse nazionale,
che riguardano vaste porzioni territoriali ed hanno rilevante impatto
socio-economico, l'esclusione della codeterminazione con la regione
e' priva di giustificazione ed in contrasto con il principio di leale
collaborazione.
Oltretutto le norme della legge n. 426/1998 di perdurante vigenza
stabiliscono che per detti interventi siano le regioni ad attribuire
il finanziamento, che incongruamente esse dovrebbero disporre su
progetti che non hanno esaminato ed approvato.
V
Sulla parte V del d.lgs. n. 152/2006. Violazione deali artt. 3,
5, 76, 97, 114, 117, 118, 119, 120 della Costituzione. Violazione dei
principi di leale collaborazione, ragionevolezza, adeguatezza,
differenziazione, sussidiarieta', buon andamento della p.a. anche
sotto l'aspetto della violazione di principi e norme del diritto
comunitario e di convenzioni internazionali.
La parte quinta del d.lgs. n. 152/2006 comprende norme in materia
di tutela dell'aria e di riduzione delle emissioni in atmosfera.
L'impostazione del decreto delegato incorre in tre principali
rilievi:
a) prevedendosi dalla legge delega la «revisione» della
disciplina per le emissioni dei gas inquinanti in atmosfera nel
rispetto delle norme comunitarie ed in particolare della direttiva
2001/81/CE, cosiddetta direttiva NEC, in questo caso il decreto
rimane invece ben al di qua del compito, limitandosi solo ad alcuni
aspetti della complessa normativa comunitaria di tutela ed inoltre
non procedendo affatto al necessario aggiornamento per quanto
riguarda le prescrizioni ed i valori limite, che rimangono ancorati a
quelli ormai risalenti nel tempo e bisognevoli di revisione anche con
riferimento al progresso tecnologico impiantistico;
b) non riceve considerazione adeguata la relazione tra la
tutela ambientale e la disciplina in materia di energia e di impianti
energetici, che e' di competenza concorrente;
c) il ruolo delle competenze regionali pianificatorie e
programmatorie in materia subisce una generale compressione e
pretermissione.
In particolare:
Art. 267, comma 4. Le attivita' rivolte all'adozione di
misure (punto a) a favore della produzione di energia elettrica
tramite fonti rinnovabili e dello sviluppo della base produttiva di
tecnologie pulite non contemplano alcun coinvolgimento esplicito e
dichiarato dalla norma della competenza regionale esistente in
materia.
Al punto c) viene inoltre prevista una specifica modalita' di
utilizzo dei «certificati verdi» non contemplata dalla legge di
delega (che si limitava all'indicazione del prolungamento del periodo
di loro validita' - art. 1, comma 9, lett. g) n. 2) e che blocca,
senza apprezzabile fondamento di esigenze unitarie, eventuali diverse
impostazioni di politiche incentivanti regionali.
Art. 269, comma 7. Viene introdotto il periodo di validita'
dell'autorizzazione alle emissioni in atmosfera. L'innovazione (il
d.P.R. n. 203/1988 non prevedeva scadenza) sarebbe di per se'
interessante e tuttavia viene stabilito un periodo di validita'
addirittura di quindici anni. Tale durata e' assolutamente
sproporzionata, dal momento che il processo di rinnovamento
tecnologico degli impianti e' certamente piu' accelerato e quindi ne
risulta ingiustificatamente bloccata la possibilita' concretamente
praticabile dell'adeguamento degli impianti a nuove esigenze
ambientali dettate dalle politiche di sostenibilita'.
Nel contempo non e' piu' presente la potesta' dell'autorita'
competente di modificare le prescrizioni dell'autorizzazione in
seguito all'evoluzione delle migliori tecnologie disponibili.
determinandosi cosi' complessivamente una limitazione e non un
accrescimento dei poteri pubblici di controllo e degli obbiettivi
generali di miglioramento della qualita' dell'aria attraverso
l'adozione delle migliori tecnologie disponibili invece fissati dalla
legge di delega (art. 1, comma 8, lett. d) e h), legge n. 308/2004).
L'attivita' amministrativa delle regioni per le autorizzazioni
dalle stesse rilasciate e per la programmazione e l'indirizzo
dell'attivita' autorizzativa rimessa agli enti locali viene a subire
negative conseguenze, in quanto attraverso politiche adeguate alle
differenti realta' territoriali e condizioni degli impianti
produttivi si erano gia' attuate situazioni piu' favorevoli alla
riduzione delle emissioni inquinanti. Altrettanto si avrebbe comunque
avuto possibilita' di attuare mediante la previsione di modalita'
autorizzative piu' appropriate o comunque di loro modulazione in
rapporto a piani e programmi locali di tutela della qualita'
dell'aria.
Tutto cio' invece non ha ricevuto considerazione alcuna da parte
del legislatore delegato, con violazione dei principi di
sussidiarieta', leale collaborazione e buon andamento della pubblica
amministrazione.
Art. 271 in relazione agli Allegati. Riprendendo le
considerazioni sopra svolte, va altresi' osservato che negli allegati
alla parte quinta, oltre all'elaborazione di una complicata casistica
di impianti esistenti a date diverse - di cui francamente non si
percepisce l'obbiettivo fondamento, mentre appare concreto il rischio
che si possa determinare in tal modo l'innalzamento dei limiti delle
emissioni rispetto a quanto poteva esser stato fissato da
preesistenti singole autorizzazioni - si dispone sulla fissazione dei
valori limite e delle prescrizioni in modo del tutto carente per
quanto attiene al rilascio delle autorizzazioni per nuovo impianto,
rinviandosi la definizione a provvedimenti da emanarsi
successivamente all'entrata in vigore del decreto entro un anno.
I valori limite e le prescrizioni invece riportati negli
allegati ripropongono quelli del 1988, in allora giustificati laddove
si poneva per la prima volta una disciplina valevole per tutto il
territorio nazionale, ma di cui si prevedeva il totale raggiungimento
gia' nel 1997.
La loro odierna riproposizione tal quali comporta la
vanificazione delle attivita' che le regioni hanno posto in essere
per il maggior contenimento delle emissioni in atmosfera. La mancata
menzione della possibilita' delle regioni di quanto meno mantenere le
proprie discipline specifiche gia' in essere piu' restrittive
rispetto a quanto disposto dal decreto delegato determina,
particolarmente per le regioni ad alta industrializzazione,
detrimento non solo istituzionale, ma di obbiettivo arretramento e
peggioramento delle condizioni ambientali (e peraltro anche
detrimento ai processi, economicamente significativi, di rinnovamento
tecnologico e produttivo indirettamente incentivati anche da esigenze
di adeguamento a valori di tutela ambientale).
In sostanza anche nell'ambito della tutela dell'aria la logica
centralistica, piuttosto che unitaria, che permea il decreto,
trascurante il senso dei principi di differenziazione e
sussidiarieta' nella loro potenzialita' evolutiva e volutamente
dimentica del principio di leale collaborazione, ha prodotto
risultati oggettivamente contrastanti con la stessa finalita' di
tutela del valore «ambientale».
Art. 281, comma 10. Nella stessa «logica centralistica» di
cui prima detto si pone anche la previsione dell'art. 281, comma 10
laddove subordina l'individuazione da parte delle regioni di valori
limite di emissione e di prescrizioni, anche inerenti alle condizioni
di costruzione o di esercizio degli impianti, piu' severi di quelli
fissati dagli allegati del decreto alla previa intesa con il Ministro
dell'ambiente e con il Ministro della salute e sotto valutazione che
cio' risulti necessario al conseguimento dei valori limite e dei
valori bersaglio di qualita' dell'aria.
In tal modo si comprime ingiustificatamente la possibilita' di
interventi regionali di carattere migliorativo e diretti a soddisfare
contestualmente nell'ambito delle proprie competenze esigenze
ulteriori rispetto a quelle fissate nello standard posto a livello
statale (sent. 407/2002).
Art. 284-287. La regolamentazione degli impianti termici e'
oggetto di molteplici normative tra loro non coerenti, per le quali
vi e' necessita' di razionalizzare le disposizioni in un ottica di
semplificazione e certezza normativa. Tale esigenza, posta nei
criteri direttivi della legge-delega (comma 9, lett. g) non e'
soddisfatta dalle disposizioni del decreto delegato.
La disciplina degli impianti termici e' ricompresa altresi'
nella materia dell'energia, che ricade nella competenza regionale
concorrente, mentre le norme considerate pongono in essere disciplina
di dettaglio, senza peraltro pervenire ad aggiornata ed univoca
regolamentazione del settore.
Viene prevista la trasmissione di apposita denuncia all'autorita'
competente in caso di installazione o di modifica di un impianto
termico civile nominale superiore al valore di soglia, limitandosi a
perpetuare le disposizioni della legge n. 615/1966 senza prevederne
l'integrazione con quelle derivanti la normativa energetica, d.P.R.
n. 412/1993 come modificato dal d.P.R. n. 551/1999, che all'art. 11
stabilisce oltre al libretto di centrale o di impianto la scheda
identificativa dell'impianto, che per quelli nuovi o sottoposti a
ristrutturazione deve essere compilata dall'installatore, e senza
coordinamento ed integrazione con il d.lg. n. l92/2005 che recepisce
la direttiva 2002/91/CE in materia di rendimento energetico
nell'edilizia, in base al quale le regioni legiferano in materia di
certificazione energetica e di ispezioni tese a verificare gli
adempimenti relativi agli obblighi di esercizio e di manutenzione
degii impianti termici da parte dei soggetti responsabili.
VI
Sulla parte VI del d.lgs. n. 152/2006, recante «Norme in materia
di tutela risarcitoria contro i danni all'ambiente». Violazione degli
artt. 3, 5, 76, 97,114, 117, 118, 119, 120 della Costituzione.
Violazione dei principi di leale collaborazione, ragionevolezza,
adeguatezza, differenziazione, sussidiarieta', buon andamento della
p.a. anche sotto l'aspetto della violazione di principi e norme del
diritto comunitario e di convenzioni internazionali.
La parte sesta del decreto legislativo e' improntata 1) a
notevoli innovazioni nella individuazione del danno ambientale e
nelle misure e procedure per la prevenzione o riparazione dello
stesso e per le azioni risarcitorie a carico dei responsabili e 2)
all'accentramento di tutte le attivita' decisionali in capo al
Ministro dell'ambiente.
Tutta questa innovativa impostazione non e' corrispondente alle
indicazioni della legge di delega per quanto gia' piu' volte notato
ai motivi precedenti e pure per il criterio direttivo posto in
materia (comma 9, lett. e) limitato a coordinamento normativo per
«conseguire l'effettivita' delle sanzioni amministrative per danno
ambientale mediante l'adeguamento delle procedure di irrogazione
delle medesime, rivedere le procedure relative agli obblighi di
ripristino al fine di garantire l'efficacia delle prescrizioni delle
autorita' competenti e il risarcimento del danno, definire le
modalita' di quantificazione del danno».
Quanto al primo aspetto, viene posta una nuova disciplina nella
definizione del danno ambientale, dei soggetti responsabili, delle
diverse responsabilita' degli autori del danno, dei differenziati
obblighi di attivazione per il compimento di misure di prevenzione,
riduzione e ripristino, degli interventi pubblici diretti al
controllo delle attivita' poste in essere dai soggetti responsabili o
comunque tenuti alla prevenzione e riparazione del danno e diretti
all'imposizione dell'effettuazione di occorrenti misure ed
interventi, della definizione di azioni rivolte al risarcimento del
danno e dei modi e termini del loro esercizio. Tale disciplina e'
caratterizzata da uno sforzo di specificazione e di minuto dettaglio
anche operativo, peraltro con non sempre sufficiente coordinamento,
che verosimilmente potra' produrre piuttosto limitazione e
difficolta' nell'espletamento dell'attivita' di prevenzione e
riparazione del danno ambientale anziche' rafforzamento della stessa
e che introduce nuovi provvedimenti e procedure per l'attuazione di
interventi ripristinatori o per il risarcimento per equivalente,
anche in relazione all'esercizio di corrispondenti azioni
giudiziarie, che appaiono piuttosto dirette a circoscrivere anziche'
ad ampliare e rafforzare strumenti, modi e tempi dell'azione pubblica
di tutela (come per quest'ultimo aspetto risulta in particolare agli
artt. 308, 313, 314, 315).
Quanto al secondo aspetto, si evidenzia l'abrogazione del
fondamentale art. 18 della legge 8 luglio 1986, n. 349, con la
specifica previsione del suo comma 3 «L'azione di risarcimento del
danno ambientale, anche se esercitata in sede penale, e' promossa
dallo Stato nonche' dagli enti territoriali sui quali incidano i beni
oggetto del fatto lesivo», sulla quale si e' basata negli anni
passati l'azione concorrente delle amministrazioni regionali e locali
che ha dato frutti di concreto tempestivo perseguimento del
risarcimento del danno ambientale.
Mentre si da' luogo ad una nuova disciplina che concentra tutta
l'attivita' di intervento amministrativo e correlativamente di azione
risarcitoria in capo allo Stato, nei suoi organi Ministro
dell'ambiente o per sua delega prefetto competente per territorio,
relegando il ruolo delle regioni e degli enti locali territorialmente
interessati a mero snodo burocratico per il ricevimento di
comunicazioni da parte dei soggetti che si apprestano ad effettuare
necessari interventi di prevenzione o ripristino, (art. 301, comma 3,
304 comma 2, 305, comma 1) ovvero riconoscendo loro l'unico
formidabile potere di presentare al Ministro, attraverso il prefetto,
«denunce ed osservazioni», purche' «corredate da documenti ed
informazioni», alla pari, fortunatamente, di qualunque soggetto
privato in qualche modo interessato dalla situazione di danno o
minaccia di danno ambientale (art. 309).
Le stesse regioni ed enti locali sono peraltro espressamente
munite dall'art. 310 della legittimazione ad intraprendere ricorsi al
giudice amministrativo contro i provvedimenti ministeriali contro il
silenzio od il ritardo ministeriale nel provvedere, previsione tanto
pleonastica quanto sconcertante se riguardata sotto l'aspetto
istituzionale e dei rapporti fra le autorita' pubbliche che tutte
dovrebbero concorrere alla tutela ambientale, previsione accompagnata
e «rafforzata» dalla facolta' di proporre anche una opposizione in
sede amministrativa.
Ogni potere di intervento amministrativo e' rigorosamente
riservato al Ministro (art. 301, 304, 305 306, 308) senza alcuna
forma di partecipazione delle amministrazioni territorialmente
interessate, salvo l'essere informate dei provvedimenti assunti in
caso di loro segnalazione (art. 309, comma 3). Come pure e' riservata
al Ministro, con l'eventuale ausilio dell'apparato statale, l'azione
risarcitoria con ordinanza od in via giudiziaria, posta
l'alternativita' fra le stesse, (artt. 311, 312, 313, 314, 315) e - a
quanto si puo' comprendere - con esclusione di qualsiasi azione anche
per la tutela di interessi concorrenti da parte degli altri enti
pubblici (art. 313, comma 7 «Nel caso di intervenuto risarcimento del
danno "in base all'ordinanza ministeriale", sono esclusi a seguito di
azione concorrente da parte di autorita' diversa dal Ministro
dell'ambiente nuovi interventi comportanti aggravio di costi per
l'operatore interessato»).
Ne deriva un quadro di mortificazione se non di oggettiva
esclusione dell'apporto delle regioni ed amministrazioni locali nella
tutela ambientale attraverso gli interventi e le azioni riguardanti
prevenzione e riparazione del danno ambientale, apporto che gia' era
contemplato dall'ordinamento e che viene ora conculcato se non
eliminato, con evidente contrasto con le previsioni della legge di
delega, con il ruolo istituzionale degli enti territoriali e
l'assetto delle loro competenze, a norma degli artt. 114, 117, 118
Cost., con i principi costituzionali di sussidiarieta', adeguatezza,
leale collaborazione, ragionevolezza e buon andamento della pubblica
amministrazione, essendo altresi' piu' che evidente che la
concentrazione in sede ministeriale di qualsiasi attivita',
prescindendo da ogni criterio di rilevanza e dimensione territoriale
del problema da affrontare e degli interventi da porre in essere, non
puo' che determinare difficolta' e rallentamento nell'azione pubblica
di tutela dell'ambiente sotto il profilo della prevenzione e
riparazione del danno ambientale.
Istanza di sospensione
Nei suesposti motivi si sono evidenziati i plurimi profili di
illegittimita' costituzionale ravvisati dalla Regione Piemonte nel
decreto legislativo n. 152/2006, secondo considerazioni in larga
parte condivise nella posizioni espresse dalla Conferenza delle
regioni e province autonome a cui piu' volte si e' fatto riferimento.
Si sono evidenziate altresi' le ragioni per le quali determinate
norme - artt. 63-64, riguardanti l'istituzione dei distretti
idrografici e dell'autorita' di bacino distrettuale, artt. 117 e 121
riguardanti il piano di gestione di bacino ed il piano di tutela
delle acque, correlativamente l'art. 175, comma 1, lett. l) in quanto
comporta l'abrogazione degli artt. da 12 a 16 della legge
n. l83/1989, comma 1, lett. bb) in quanto comporta l'abrogazione
dell'art. 44, d.lgs. n. l52/1999, ed infine l'art. 148, comma 5 che
prevede la partecipazione facoltativa all'Autorita' d'ambito
territoriale ottimale dei comuni con meno di 1.000 abitanti delle
comunita' montane - per il loro contenuto e per la previsione di
immediata entrata in vigore con l'emanazione del decreto legislativo
comportano un grave ed irreparabile pregiudizio degli interessi
pubblici da tutelarsi, mentre la permanenza dell'assetto di organi
istituzionali e funzioni finora efficacemente attuato prolungherebbe
la propria operativita' per effetto della sospensione delle nuove
norme del decreto legislativo considerate, senza determinare
soluzioni di continuita' o vuoti normativi ed amministrativi fmo alla
sentenza.
Essendo peraltro in corso con il nuovo Governo recentemente
insediatosi valutazioni piu' ampie sul decreto legislativo
n. 152/2006 e sulla sua concreta attuazione, si riserva ulteriore
trattazione in merito.
P. Q. M.
Chiede piaccia all'ecc.ma Corte previa sospensione degli
artt. 63, 64, 117, 121, 148, comma 5, 175, comma 1, lett. bb) e l);
Dichiarare l'illegittimita' costituzionale del decreto
legislativo 3 aprile 2006, n. 152 «Norme in materia ambientale» nel
suo complesso e con riguardo alle sue norme parte seconda, con
specifico rilievo degli artt. 5, 6, 12, 21, 22, 23 ed Allegato III,
25, 42, 43, 51; parte terza con specifico rilievo degli artt. 57, 63,
64, 65, 66, 67, 68, 91, 96, 104, 113, 114, 116, 117, 121, 141, 148,
150, 170, 174, 175, 176; parte quarta con specifico rilievo degli
artt. 181, 183, 186, 194, 195, 196, 197, 198, 199, 200, da 201 a 204,
205, 212, 214, 216, 238, 240, 242, 246, 252; parte quinta ed
Allegati, con specifico rilievo degli artt. 267, 269, 281, 283, 284,
287; parte sesta, con specifico rilievo degli artt. 301, 304, 305 e
da 308 a 315; per violazione degli artt. 3, 5, 76, 97, 114, 117, 118,
119, 120 della Costituzione, dei principi di leale collaborazione,
ragionevolezza, adeguatezza, differenziazione, sussidiarieta', buon
andamento della pubblica amministrazione e con riguardo anche alla
violazione di principi e norme del diritto comunitario e di
convenzioni internazionali, sotto i profili specificati nei motivi
sovraesposti.
Torino-Roma, addi' 8 giugno 2006
Avv. Anita Ciavarra - Avv. Gabriele Pafundi
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