Ricorso n. 70 del 25 giugno 2015 (Presidente del Consiglio dei ministri)
Ricorso per questione di legittimita' costituzionale depositato in
cancelleria il 25 giugno 2015 (del Presidente del Consiglio dei
ministri).
(GU n. 36 del 2015-09-09)
Ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato
e difeso dalla Avvocatura Generale dello Stato presso cui e'
domiciliato in Roma, via dei Portoghesi, 12 contro Regione Puglia in
persona del Presidente della Giunta regionale pro tempore per la
declaratoria di illegittimita' costituzionale degli artt. 9, comma 4;
13 comma 7 lett. a) e c); 17 commi 3 e 4, 18 e 45 della legge della
Regione Puglia n. 24 del 16 aprile 2015 «Codice del Commercio»,
pubblicata sul B.U. Puglia n. 56 del 22 aprile 2015, supplemento.
Con la legge 16 aprile 2014 n. 24 la Regione Puglia disciplina
l'esercizio dell'attivita' commerciale.
L'art. 9 della predetta legge dispone in materia di orari di
apertura e di chiusura al pubblico degli esercizi di vendita al
dettaglio.
In particolare l'art. 9 comma 4 prevede «La Regione e i comuni
promuovono accordi volontari fra operatori volti a garantire che gli
orari delle attivita' commerciali concorrano al rispetto e
all'attuazione delle disposizioni di cui ai capi I e VII della legge
8 marzo 2000, n. 53 (Disposizioni per il sostegno della maternita' e
della paternita', per il diritto alla cura e alla formazione e per il
coordinamento dei tempi della citta') e dell'art. 50, comma 7, del
decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi
sull'ordinamento degli enti locali)».
L'art. 13 dispone in materia di sviluppo e promozione del
commercio, prevede che il Comune puo' elaborare progetti di
valorizzazione commerciale, e al comma 7, lettera c) dispone che Il
progetto di valorizzazione commerciale puo' prevedere interventi in
materia di orari d'apertura, vendite straordinarie e di occupazione
di suolo pubblico;
L'art. 13 comma 7 lettera a) dispone, a sua volta, che
nell'ambito dei predetti progetti di valorizzazione commerciale, i
Comuni possano prevedere «il divieto di vendita di particolari
merceologie o settori merceologici».
L'art. 17 disciplina le modalita' di apertura, trasferimento e
ampliamento degli esercizi.
Al comma 3 prevede: L'apertura, il trasferimento di sede, il
cambiamento di settore di vendita e l'ampliamento della superficie di
una media o grande struttura di vendita sono soggetti ad
autorizzazione rilasciata dal comune competente per territorio.
Al comma 4 dispone: L'apertura, il trasferimento di sede, il
cambiamento di settore di vendita e l'ampliamento della superficie di
un centro commerciale e di un'area commerciale integrata necessitano
di:
a) autorizzazione per il centro come tale, in quanto media o
grande struttura di vendita, che e' richiesta dal suo promotore o, in
assenza, congiuntamente da tutti i titolari degli esercizi
commerciali che vi danno vita, purche' associati per la creazione del
centro commerciale;
b) autorizzazione o SCIA, a seconda delle dimensioni, per
ciascuno degli esercizi al dettaglio presenti nel centro.
L'art. 18 disciplina la Pianificazione territoriale e urbanistica
degli insediamenti commerciali.
«1. I comuni individuano le aree idonee all'insediamento di
strutture commerciali attraverso i propri strumenti urbanistici, in
conformita' alle finalita' di cui all'art. 2, con particolare
riferimento al dimensionamento della funzione commerciale nelle
diverse articolazioni previste all'art. 16.
2. L'insediamento di grandi strutture di vendita e di medie
strutture di vendita di tipo M3. e' consentito solo in aree idonee
sotto il profilo urbanistico e oggetto di piani urbanistici attuativi
anche al fine di prevedere le opere di mitigazione ambientale, di
miglioramento dell'accessibilita' e/o di riduzione dell'impatto socio
economico, ritenute necessarie.».
L'art. 45 disciplina le Tipologie e attivita' commerciali
integrative.
«1. Al fine del miglioramento delle condizioni ambientali
attraverso la promozione della diffusione dei carburanti
ecocompatibili, tutti i nuovi impianti devono essere dotati almeno di
un prodotto ecocompatibile GPL o metano, a condizione che non vi
siano ostacoli tecnici o oneri economici eccessivi e non
proporzionali alle finalita' dell'obbligo, come definiti nei
provvedimenti di cui all'art. 3.
2. Tutti gli impianti devono essere dotati dell'apparecchiatura
self-service prepagamento.
3. I nuovi impianti, nonche' quelli esistenti ristrutturati,
possono inoltre essere dotati, oltre che di autonomi servizi
all'automobile e all'automobilista, autolavaggio, auto parking,
officine, anche di autonome attivita' commerciali integrative su
superfici non superiori a quelle definite per gli esercizi di
vicinato, di attivita' di somministrazione alimenti e bevande, di
attivita' artigianali, di rivendite di tabacchi e di punti vendita
non esclusivi di stampa quotidiana e periodica. L'esercizio delle
rivendite di tabacco e' subordinato al rispetto delle norme e delle
prescrizioni tecniche che disciplinano lo svolgimento di tali
attivita' presso impianti di distribuzione dei carburanti.
4. I provvedimenti di cui all'art. 3, possono prevedere ulteriori
specificazioni in ordine alle attrezzature dell'area di rifornimento,
alla dotazione di pensiline di copertura con sistemi idonei
all'efficienza energetica e all'utilizzo delle fonti rinnovabili,
alla presenza di adeguati servizi igienico-sanitari per gli utenti
anche in condizioni di disabilita', di locali necessari al ricovero
del gestore, di sistemi di sicurezza pubblica (videosorveglianza),
nonche' di aree a parcheggio per gli autoveicoli.».
Le disposizioni di tutti gli articoli sopra riportati, 9 comma 4,
13 comma 7 lettera c) e comma 7 lettera a), 17 commi 3 e 4, e degli
artt. 18 e 45, appaiono costituzionalmente illegittime, sotto i
profili che verranno ora evidenziati, e pertanto il Governo - giusta
delibera del Consiglio dei ministri del 19 giugno 2015 (che per
estratto autentico si produce) ai sensi dell'art. 127 Cost. la
impugna con il presente ricorso per i seguenti
Motivi
Violazione dell'art. 117, comma 1 e comma 2 lettera e) della
Costituzione
Le disposizioni degli artt. 9 comma 4 e 13 comma 7 lettera c)
prevedono, come si e' detto, il potere del Comune di intervenire
sugli orari di apertura e di chiusura degli esercizi commerciali.
Le disposizioni contrastano con quanto stabilito dall'art. 31 del
decreto-legge n. 201/2011 (c.d. decreto Salva Italia) il quale
modificando l'art. 3, comma 1, lett. d-bis, del decreto-legge 4
luglio 2006, n. 223 (c.d. decreto Bersani), ha disposto che «le
attivita' commerciali, come individuate dal decreto legislativo 31
marzo 1998, n. 114, e di somministrazione di alimenti e bevande, sono
svolte, tra l'altro, senza i seguenti limiti e prescrizioni: [...] d)
il rispetto degli orari di apertura e di chiusura, l'obbligo della
chiusura domenicale e festiva, nonche' quello della mezza giornata di
chiusura infrasettimanale dell'esercizio».
La normativa nazionale prevede che le attivita' commerciali non
possono essere soggette a nessun limite in materia di orari di
apertura e chiusura.
Le norme regionali, pertanto, si pongono in primo luogo in
contrasto con i principi di liberalizzazione di cui al decreto-legge
n. 201/2011, convertito in legge 22 dicembre 2011 n. 214 (cd. decreto
Salva Italia).
La disposizione contenuta nell'art. 9, comma 4, in particolare,
promuovendo esplicitamente la conclusione di accordi tra gli
operatori, volte a creare un coordinamento consapevole tra gli
esercenti su una variabile concorrenziale (quali appunto gli orari di
apertura e chiusura), legittima intese che risultano potenzialmente
vietate ai sensi dell'art. 2 della legge n. 287/1990, che pone il
divieto di intese restrittive della liberta' di concorrenza e con
l'art. 101 TFUE.
Le norme regionali pertanto, presentano profili di
incostituzionalita' per violazione dell'art. 117, comma 1, della
Costituzione, che impone il rispetto degli obblighi europei
nell'attivita' legislativa anche delle Regioni; e dell'art. 117 comma
2, lettera e), della Costituzione, che riserva allo Sato la
competenza legislativa esclusiva in materia di «tutela della
concorrenza».
In tal senso si e' ripetutamente espressa la giurisprudenza della
Corte costituzionale (sentenze n. 65/2013; n. 27/2013; n. 299/2012)
stabilendo che l'art. 31 del decreto-legge n. 201/2011, poiche' si
qualifica come norma di liberalizzazione, si inquadra nella materia
della tutela della concorrenza, riservata alla competenza esclusiva
statale, ed e' direttamente vincolante anche nei confronti dei
legislatori regionali.
Le regioni non possono quindi adottare norme legislative, come
quelle impugnate, il cui effetto sia quello di limitare o escludere
del tutto la portata liberalizzatrice della norma statale citata.
Cio' si tradurrebbe, infatti, in un diretto intervento della
legislazione regionale nella materia della concorrenza.
Ne', a legittimare l'intervento legislativo regionale, possono
valere i riferimenti che l'art. 9 comma 4 impugnato fa ai capi I e
VII della legge n. 53/2000 sulla tutela della maternita' e sui tempi
delle citta', e all'art. 50 comma 7 del testo unico degli enti locali
(decreto legislativo n. 267/2000).
Il primo riferimento va inteso come rivolto, in particolare,
all'art. 22 comma 5 della legge n. 53/2000, giusta il quale «5. Le
leggi regionali di cui al comma 1 indicano:
a) criteri generali di amministrazione e coordinamento degli
orari di apertura al pubblico dei servizi pubblici e privati, degli
uffici della pubblica amministrazione, dei pubblici esercizi
commerciali e turistici, delle attivita' culturali e dello
spettacolo, dei trasporti;».
Il secondo riferimento e' rivolto all'art. 50 comma 7 TUEL,
giusta il quale «7. Il sindaco, altresi', coordina e riorganizza,
sulla base degli indirizzi espressi dal consiglio comunale e
nell'ambito dei criteri eventualmente indicati dalla regione, gli
orari degli esercizi commerciali, dei pubblici esercizi e dei servizi
pubblici, nonche', d'intesa con i responsabili territorialmente
competenti delle amministrazioni interessate, gli orari di apertura
al pubblico degli uffici pubblici localizzati nel territorio, al fine
di armonizzare l'espletamento dei servizi con le esigenze complessive
e generali degli utenti.».
Queste previsioni di legge statale furono adottate tutte
anteriormente alla riforma del Titolo V della Costituzione, quando
ancora non si erano chiaramente inseriti in Costituzione ne' il
vincolo della legislazione anche regionale ai principi del diritto
europeo, ne' la competenza statale esclusiva in materia di tutela
della concorrenza. Esse vanno quindi considerate superate dalla
legislazione statale sopravvenuta, e in particolare dall'art. 31
decreto-legge n. 201/2011.
Con questa disposizione si e' inteso, da un lato, dare
consistenza al profilo «promozionale» della disciplina della
concorrenza, ripetutamente ammesso dalla giurisprudenza di codesta
Corte, stabilendo con valutazione legislativa non sindacabile in
questa sede (e, comunque, gia' positivamente scrutinata da codesta
Corte), che l'abolizione delle limitazioni orarie nell'apertura degli
esercizi commerciali costituisce uno strumento di promozione dello
sviluppo economico e non contrasta con l'utilita' sociale (art. 41
Cost.) sotto alcun profilo.
Dall'altro, si e' inteso ottemperare, sotto il profilo «tutorio»
o «repressivo» della disciplina della concorrenza, al fondamentale
principio europeo del divieto di intese restrittive della
concorrenza. E' infatti noto (per lo meno a partire dalla sentenza
della Corte di giustizia CE nel caso «Consorzio italiano fiammiferi»)
che anche decisioni pubbliche, come atti legislativi o
amministrativi, incidenti sulle condizioni di esercizio delle
attivita' di impresa, nella misura in cui privino gli operatori
economici di qualsiasi discrezionalita' nell'adottare i comportamenti
conseguenti, possono costituire elemento di una intesa restrittiva
della concorrenza, illegittima alla stregua dell'art. 101 TFUE.
Le previsioni legislative o amministrative comportanti
limitazioni imperative alla liberta' degli imprenditori del commercio
di determinare gli orari di apertura degli esercizi si
inquadrerebbero in tale ipotesi, perche' comporterebbero un
contingentamento necessario dei tempi di erogazione dell'offerta
commerciale al pubblico, cioe' una restrizione quantitativa
dell'offerta o una misura equivalente ad una simile restrizione. E'
del resto ben noto che, a qualificare un accordo restrittivo come
illegittimo dal punto di vista concorrenziale, non e' necessario che
questo abbia come effetto la restrizione, p.es. quantitativa
dell'offerta; e' infatti sufficiente che l'accordo abbia tale
restrizione come proprio oggetto, a prescindere dagli effetti
restrittivi concretamente prodotti, che possono anche non sussistere.
L'illecito anticoncorrenziale, nella pacifica ricostruzione della
giurisprudenza europea e interna, e' infatti illecito di mero
pericolo.
La norma regionale impugnata si pone quindi in contrasto con i
parametri evocati perche', come illustrato, impedisce il pieno
dispiegamento degli effetti di una norma statale vertente in materia
di disciplina della concorrenza, e costituisce, o pone il presupposto
perche' sia costituita, una forma di intesa restrittiva della
concorrenza contraria all'art. 101 TFUE e, tramite questo, all'art.
117 comma 1 Cost.
Quanto, poi, all'art. 13 comma 7 lett. c) impugnato, oltre alle
considerazioni sopra svolte, deve aggiungersi la censura basata sulla
totale assenza di qualsiasi criterio direttivo della discrezionalita'
dei Comuni nell'elaborare i progetti di valorizzazione commerciale e,
in particolare, nell'inserire in questi le previste (e comunque
inammissibili) misure in materia di orari di apertura.
L'illimitata discrezionalita' che in tal modo si attribuisce
all'ente locale comporta un ulteriore elemento di incertezza nella
disciplina dell'attivita' commerciale, e sotto questo profilo un
ulteriore vulnus al corretto svolgimento della concorrenza sotto i
due concorrenti profili sopra illustrati.
L'art. 13, comma 7 lettera a) della legge in esame dispone, come
si e' detto, che il Comune nell'ambito dei progetti di valorizzazione
commerciale possa vietare la vendita di particolari merceologie o
settori merceologici.
Le limitazioni merceologiche sono vietate dall'art. 3 della legge
n. 148/2011 e dall'art. 34 della legge n. 214/2011.
Gli artt. 3, comma 9, lett. f) della legge n. 148/2011 e l'art.
34, comma 3, lett. d) della legge n. 214/2011 hanno stabilito
l'abrogazione di qualsiasi restrizione, tra cui la limitazione
dell'esercizio di una attivita' economica ad alcune categorie o il
divieto, nei confronti di alcune categorie, di commercializzazione di
taluni prodotti.
Il legislatore nazionale con progressivi e graduali interventi,
ha infatti da tempo avviato un processo di regolazione delle
attivita' economiche, con il passaggio da una disciplina
pianificatoria ad una completa liberalizzazione (art. 31 legge n.
214/2011 e art. 1 legge n. 27/2012), disponendo l'abrogazione di
norme che a vario titolo e in diverso modo prevedono limitazioni,
condizioni o divieti che ostacolano l'iniziativa economica o limitano
l'ingresso nel mercato di nuovi operatori.
In questo contesto, la legge regionale eccede dalle competenze
regionali, perche' incide direttamente sul confronto concorrenziale e
sull'assetto del mercato; oltre a vincolare e aggravare, in luogo di
semplificare, l'esercizio dell'attivita' commerciale, in quanto
introduce a danno della liberta' di iniziativa economica, limiti
inutili, gravosi e non previsti nella Costituzione.
La Corte costituzionale, chiamata piu' volte a pronunciarsi
sull'obbligo degli Enti locali di adeguare i propri ordinamenti ai
principi di liberalizzazione e semplificazione delle attivita'
economiche (art. 1 legge n. 27/2012), ha affermato che affinche'
l'obiettivo perseguito dal legislatore possa ottenere gli effetti
sperati, in termini di snellimento degli oneri gravanti
sull'esercizio dell'attivita' economica, occorre che l'azione di
tutte le pubbliche amministrazioni - centrali, regionali e locali -
sia improntata ai medesimi principi, per evitare che le riforme
introdotte a un determinato livello di governo siano, nei fatti,
vanificate dal diverso orientamento dell'uno o dell'altro degli
ulteriori enti che compongono l'articolato sistema delle autonomie
(Corte cost., 23 gennaio 2013 n. 8).
La norma regionale reintroducendo limitazioni gia' abrogate dal
legislatore statale nell'esercizio della propria competenza
legislativa esclusiva in materia di tutela della concorrenza, viola
pertanto l'art. 117, comma 2, lett. e) Cost.
A rendere evidente la violazione commessa dalla norma impugnata
e' sufficiente considerare, oltre alla materia su cui interviene,
chiaramente riconducibile alla disciplina della concorrenza, il
contenuto di essa: la norma prefigura infatti la possibilita' che i
comuni introducano addirittura dei divieti di commercializzazione di
particolari merceologie o settori merceologici, cioe' prefigura la
possibilita' di introdurre vincoli assoluti e inderogabili nelle
liberta' di scelta dell'imprenditore del commercio.
Anche a questo riguardo, quindi, oltre alla violazione della
competenza statale esclusiva, si configura l'introduzione di una
misura legislativa indebitamente anticoncorrenziale, avente ad
oggetto restrizioni quantitative o qualitative dell'offerta
commerciale.
Violazione dell'art. 117, comma 2 lettera m) e lettera e) Cost.
L'art. 17 come si e' detto dispone le modalita' di apertura,
trasferimento ed ampliamento degli esercizi.
In particolare i commi 3 e 4 prevedono rispettivamente, che
l'apertura, il trasferimento di sede, il cambiamento di settore di
vendita e l'ampliamento della superficie di una media o grande
struttura di vendita siano soggetti ad autorizzazione commerciale e
che l'apertura, il trasferimento di sede, il cambiamento di settore
di vendita e l'ampliamento di un Centro Commerciale o di un'Area
Commerciale Integrata necessitano di autorizzazione per l'intero
Centro e di autorizzazione o SCIA (a seconda della dimensione) per
ciascuno degli esercizi al dettaglio presenti nel Centro Commerciale.
Le disposizioni si pongono in contrasto con principi di
semplificazione e liberalizzazione espressi: dall'art 19 legge n.
241/1990 (come modificato dall'art. 13, comma 1, decreto-legge 22
giugno 2012 n. 83) in base al quale ogni atto di autorizzazione o
licenza per l'esercizio di un'attivita' commerciale, imprenditoriale,
e' sostituito dalla SCIA presentata dall'interessato; dagli artt. 31
e 34 della legge n. 214/2011 e dall'art. 1 della legge n. 27/2012
che, in un'ottica di semplificazione, hanno abolito le autorizzazioni
espresse, con la sola esclusione degli interessi pubblici piu'
sensibili indicati dalla direttiva n. 123/2006/CE.
Le norme statali introducono una sostanziale liberalizzazione per
cui le autorizzazioni non costituiscono piu' la regola, ma un'ipotesi
del tutto residuale, in quanto possono essere previste o mantenute
solo se giustificati da motivi di interesse generale, nel rispetto
dei principi di non discriminazione e di proporzionalita'.
Come ha affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n.
164/2012, la disciplina della SCIA, con il principio di
semplificazione ad esso sotteso, ha un ambito applicativo diretto
alla generalita' dei cittadini e costituisce livello essenziale delle
prestazioni concernenti i diritti civili e sociali.
«Il titolo di legittimazione dell'intervento statale nella
specifica disciplina della SCIA si ravvisa nell'esigenza di
determinare livelli essenziali di prestazioni concernenti i diritti
civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio
nazionale.» (cfr sent. 164/2012).
La norma regionale pertanto ai sensi dell'art. 117, comma 2,
lett. m) Cost), viola la competenza esclusiva statale in materia di
livelli essenziali.
La Corte costituzionale inoltre ha recentemente affermato nella
sentenza n. 125/2014, in materia di vincoli all'apertura di esercizi
commerciali, la portata abrogativa e la immediata vincolativita' dei
principi di liberalizzazione contenuti nell'art. 31 della legge n.
214/2011 secondo cui «costituisce principio generale dell'ordinamento
nazionale la liberta' di apertura di nuovi esercizi commerciali sul
territorio senza contingenti, limiti territoriali o altri vincoli di
qualsiasi altra natura, esclusi quelli connessi alla tutela della
salute, dei lavoratori, dell'ambiente, ivi incluso l'ambiente urbano,
e dei beni culturali»; e nell'art. 1 della legge n. 27/2012, che ha
stabilito in attuazione del principio di liberta' di iniziativa
economica sancito dall'art. 41 Cost. e del principio di concorrenza
sancito dal Trattato dell'Unione europea, che sono abrogate «a) le
norme che prevedono limiti numerici, autorizzazioni, licenze, nulla
osta o preventivi atti di assenso dell'amministrazione comunque
denominati per l'avvio di un'attivita' economica non giustificati da
un interesse generale, costituzionalmente rilevante e compatibile con
l'ordinamento comunitario nel rispetto del principio di
proporzionalita'; b) le norme che pongono divieti e restrizioni alle
attivita' economiche non adeguati o non proporzionati alle finalita'
pubbliche perseguite, nonche' le disposizioni di pianificazione e
programmazione territoriale o temporale autoritativa con prevalente
finalita' economica o prevalente contenuto economico, che pongono
limiti, programmi e controlli non ragionevoli, ovvero non adeguati
ovvero non proporzionati rispetto alle finalita' pubbliche dichiarate
e che in particolare impediscono, condizionano o ritardano l'avvio di
nuove attivita' economiche o l'ingresso di nuovi operatori economici
ponendo un trattamento differenziato rispetto agli operatori gia'
presenti sul mercato, operanti in contesti e condizioni analoghi,
ovvero impediscono, limitano o condizionano l'offerta di prodotti e
servizi al consumatore, nel tempo nello spazio o nelle modalita',
ovvero alterano le condizioni di piena concorrenza fra gli operatori
economici oppure limitano o condizionano le tutele dei consumatori
nei loro confronti».
La Corte ha quindi ribadito ancora una volta l'illegittimita'
costituzionale delle norme regionali che reintroducono limiti e
vincoli in contrasto con la normativa statale di liberalizzazione.
Le previsioni regionali in esame risultano pertanto invasive
della potesta' legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela
della concorrenza e violano pertanto anche l'art. 117, secondo comma,
lett. e) della Costituzione.
In particolare, va osservato che le disposizioni regionali qui
impugnate non si inquadrano in alcuna delle ipotesi tuttora atte a
consentire il mantenimento di poteri autorizzatori preventivi allo
svolgimento di attivita' economiche.
Nessuna delle disposizioni dell'art. 17 qui impugnate chiarisce,
infatti, quali siano le finalita' pubbliche che il reintrodotto
potere autorizzatorio vorrebbe tutelare, o gli interessi
costituzionalmente rilevanti che l'applicazione del regime
liberalizzato alla materia dei centri commerciali e delle strutture
commerciali di media o grande dimensione pregiudicherebbe; ne',
infine, quali siano i criteri atti a garantire che l'esercizio del
potere autorizzatorio in questione non si traduca in una limitazione
sproporzionata e discriminatoria della liberta' economica. Tanto piu'
che la specifica materia dei centri e strutture in questione e', dal
punto di vista della compatibilita' generale delle relative
iniziative, gia' oggetto dei poteri amministrativi «di settore», in
particolare dal punto di vista della pianificazione urbanistica, o
della tutela dell'ambiente e del paesaggio. Non si comprende, quindi,
la necessita' di reintrodurre, aggiuntivamente, specifici poteri
autorizzatori necessariamente basati su valutazioni pubbliche di
carattere strettamente economico.
Evidente e', quindi, che la finalita', o comunque l'effetto,
delle disposizioni impugnate si risolve nel vanificare le sopra
illustrate norme statali di liberalizzazione delle attivita'
economiche rispetto agli adempimenti amministrativi preliminari; con
palese invasione della competenza statale esclusiva nei sopra
indicati settori (livelli minimi; disciplina della concorrenza).
Violazione degli artt. 3, 41, 97, 117 comma 1 e comma 2 lettera e)
Cost.
L'art. 18 disciplina la pianificazione territoriale e urbanistica
degli insediamenti commerciali. Prevede al comma 1 che i Comuni
individuano le aree idonee all'insediamento di' strutture commerciali
attraverso i propri strumenti urbanistici, in conformita' alle
finalita' di cui all'art. 2, con particolare riferimento al
dimensionamento della funzione commerciale nelle diverse
articolazioni previste all'art. 16; al comma 2 che l'insediamento di
grandi strutture di vendita e di medie strutture di vendita di tipo
M3, e' consentito solo in aree idonee sotto il profilo urbanistico e
oggetto di piani urbanistici attuativi anche al fine di prevedere le
opere di mitigazione ambientale, di miglioramento dell'accessibilita'
e/o di riduzione dell'impatto socio economico, ritenute necessarie.
La predeterminazione con legge regionale di nuovi divieti di
localizzazione - avulsa da una verifica del territorio e senza
prevedere forme di coinvolgimento, di partecipazione popolare, senza
le garanzie del giusto procedimento, non puo' essere compresa
nell'esercizio del potere di pianificazione urbanistica perche' opera
come limite allo sviluppo del commercio, in contrasto con gli artt.
3, 41 e 97 Cost., oltre che con l'ordinamento comunitario, con
conseguente violazione dell'art. 117, comma 1 Cost., in relazione
alla direttiva 123/2006/CE.
L'art. 18 e' una norma di programmazione economica e
territoriale, che limita e condiziona l'insediamento di nuove
attivita' commerciali e, per tale ragione, si pone in contrasto con
gli artt. 31, comma 2, legge n. 214/2011 (Secondo la disciplina
dell'Unione Europea e nazionale in materia di concorrenza, liberta'
di stabilimento e libera prestazione di servizi, costituisce
principio generale dell'ordinamento nazionale la liberta' di apertura
di nuovi esercizi commerciali sul territorio senza contingenti,
limiti territoriali o altri vincoli di qualsiasi altra natura,
esclusi quelli connessi alla tutela della salute, dei lavoratori,
dell'ambiente, ivi incluso l'ambiente urbano, e dei beni culturali.
Le Regioni e gli enti locali adeguano i propri ordinamenti alle
prescrizioni del presente comma entro il 30 settembre 2012, potendo
prevedere al riguardo, senza discriminazioni tra gli operatori, anche
aree interdette agli esercizi commerciali, ovvero limitazioni ad aree
dove possano insediarsi attivita' produttive e commerciali solo
qualora vi sia la necessita' di garantire la tutela della salute, dei
lavoratori, dell'ambiente, ivi incluso l'ambiente urbano, e dei beni
culturali) e dell'art. 34, comma 3, legge n. 214/2011 (Sono abrogate
le seguenti restrizioni disposte dalle norme vigenti:
a) il divieto di esercizio di una attivita' economica al di
fuori di una certa area geografica e l'abilitazione a esercitarla
solo all'interno di una determinata area;
b) l'imposizione di distanze minime tra le localizzazioni
delle sedi deputate all'esercizio di una attivita' economica;
c) il divieto di esercizio di una attivita' economica in piu'
sedi oppure in una o piu' aree geografiche;
d) la limitazione dell'esercizio di una attivita' economica
ad alcune categorie o divieto, nei confronti di alcune categorie, di
commercializzazione di taluni prodotti;
e) la limitazione dell'esercizio di una attivita' economica
attraverso l'indicazione tassativa della forma giuridica richiesta
all'operatore; l'imposizione di prezzi minimi o commissioni per la
fornitura di beni o servizi;
g) l'obbligo di fornitura di specifici servizi complementari
all'attivita' svolta.) nonche' con l'art. 1 della legge n. 27/2012
(recante disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle
infrastrutture e la competitivita').
In sostanza, dalle trascritte norme statali si ricava il
principio che nel nucleo essenziale delle liberta' economiche rientra
quella di localizzare senza divieti e limiti preventivi le attivita'
commerciali, che sono in linea di principio considerate compatibili
con qualsiasi parte del territorio, quali che siano il loro oggetto o
la loro struttura e dimensione organizzativa. Solo in questo modo,
nell'apprezzamento legislativo, e' possibile consentire il pieno
svolgimento della concorrenza, ed evitare discriminazioni e
disparita' di trattamento tra operatori economici basate su
differenti discipline della possibilita' di insediare
territorialmente attivita' commerciali identiche o analoghe.
Le trascritte norme statali configurano, quindi, un legittimo
intervento legislativo statale nel campo della disciplina della
concorrenza, a tutela della piena espansione della liberta' economica
anche nel campo del commercio.
La normativa regionale impugnata si pone in insanabile contrasto
con tali disposizioni, e quindi viola le norme a tutela della
liberta' economica (artt. 3 e 41 Cost.), quelle sulla riduzione al
minimo dei vincoli amministrativi alle attivita' economiche
(semplificazione, rilevante ex art. 97 Cost.), e, infine, ancora
quelle sulla competenza statale esclusiva a dettare norme di
disciplina della concorrenza (art. 117 comma 2 lett. e) Cost.).
In particolare, il comma 1 dell'impugnato art. 18 prevede
indiscriminatamente che qualunque struttura commerciale, quali che ne
siano l'oggetto e la dimensione alla stregua dei commi 3, 5 e 7
dell'art. 16 della medesima legge regionale (dagli «esercizi di
vicinato» con superficie non superiore a 250 mq, fino alle «grandi
strutture di vendita» estese fino a 15.000 mq, e alle «aree
commerciali integrate di interesse provinciale» con estensione
superiore a 5 ettari) possano insediarsi nel territorio solo se cio'
sia previsto in uno strumento urbanistico comunale.
Il che, palesemente, significa condurre la pianificazione
urbanistica oltre il proprio limite naturale di strumento di
disciplina dell'assetto del territorio, e attribuirle, contro i
richiamati principi di legge statale ed europei, una funzione diretta
di programmazione dell'attivita' economica costituita dal commercio.
Le prescrizioni di zonizzazione urbanistica contenute negli
strumenti comunali debbono infatti, alla stregua dei richiamati
concetti, in linea di principio limitarsi a prescrivere le
destinazioni generali del territorio (destinazioni abitative, di
servizi, produttive, di espansione, ecc.), mentre non possono
spingersi fino a prescrivere il tipo di attivita' economiche
(commerciali, di servizi, industriali) che nelle diverse zone sono
abilitate a svolgersi. Cio' che la pianificazione urbanistica puo'
fare, come ribadiscono anche le citate norme statali, e' solo la
eventuale prescrizione del divieto di insediamento di determinate
attivita' economiche (si pensi alle industrie pericolose o
inquinanti) in talune zone del territorio, o anche, nei congrui casi,
nell'intero territorio oggetto della pianificazione. Abilitazioni «in
positivo» allo svolgimento di attivita' economiche (commerciali o di
altra specie) in determinate zone, con il connesso divieto di
svolgimento in tutte le altre zone, non possono invece rientrare
negli obiettivi della pianificazione urbanistica correttamente
intesa.
Inoltre, il riferimento che l'art. 18 comma 1 fa alle «diverse
articolazioni dell'attivita' commerciale previste dall'art. 16», che
i comuni dovrebbero tenere presenti nel prevedere, in sede di
disciplina urbanistica, divieti di insediamento di attivita'
commerciali, contrasta con il divieto posto dall'art. 34 legge n.
214/2011 sopra trascritto, di introdurre «d) la limitazione
dell'esercizio di una attivita' economica ad alcune categorie o
divieto, nei confronti di alcune categorie, di commercializzazione di
taluni prodotti».
La previsione qui impugnata pone quindi i presupposti per
l'introduzione di vincoli, divieti e disparita' di trattamento a base
territoriale a carico di intere categorie di attivita' di commercio,
o tra attivita' di commercio tra loro analoghe.
Chiara e', di conseguenza, attraverso il contrasto con le citate
norme statali, la violazione dei parametri costituzionali indicati in
rubrica.
Il comma 2 dell'art. 18 impugnato riguarda specificamente le
strutture di vendita grandi e medie di tipo M3, giusta la
classificazione contenuta nell'art. 16 comma 5 lett. b) n. 3) e lett.
c) della legge regionale.
Secondo la disposizione qui impugnata tali strutture possono
insediarsi «solo in aree idonee sotto il profilo urbanistico e
oggetto di piani attuativi anche al fine di prevedere le opere di
mitigazione ambientale, di miglioramento dell'accessibilita' s/o di
riduzione dell'impatto socio economico, ritenute necessarie».
E' evidente anche in questo caso la strumentalizzazione della
pianificazione urbanistica per finalita' di programmazione economica
diretta dell'esercizio del commercio attraverso strutture cosi'
connotate, nei sensi sopra chiariti in relazione al comma 1.
La norma postula una idoneita' urbanistica specifica dell'area a
ricevere insediamenti commerciali che, per quanto di notevoli
dimensioni, sono comunque assai eterogenee tra loro, perche'
costituite da strutture estese da un minimo di 1501 mq ad un massimo
di 15000 mq. In cio' detta una prescrizione particolare a carico
dell'attivita' economica rappresentata dal commercio esercitato
attraverso tale specie di strutture, e confligge con l'illustrato
divieto di condizionare l'esercizio del commercio, cosi' come di ogni
altra attivita' economica, a previsioni urbanistiche preventive che
abbiano per oggetto specifico i diversi tipi di attivita' economica,
anziche' la zonizzazione del territorio ad attivita' economiche a
prescindere dal tipo ed oggetto di queste.
Inoltre, il comma 2 aggrava il vincolo in esame rispetto a quanto
fatto dal comma precedente in relazione a tutte le possibili forme di
esercizio del commercio, perche' prevede che le strutture M3 e le
grandi strutture di vendita possano insediarsi non solo se lo
strumento urbanistico generale lo prevede, ma, inoltre, solo se lo
strumento generale sia altresi' integrato da «un piano urbanistico
attuativo» che preveda le misure di mitigazione ambientale, di
miglioramento dell'accessibilita' e di riduzione dell'impatto socio
economico dell'insediamento.
In tal modo, il condizionamento dell'attivita' economica a
preliminari decisioni amministrative latamente discrezionali viene
reso totale, perche' si condiziona la possibilita' di realizzare i
suddetti insediamenti, pur contemplati dallo strumento generale,
all'adozione, futura ed incerta, di piani attuativi. Inoltre, nel
prevedere che lo strumento attuativo della previsione dello strumento
generale sia necessariamente «un piano», la disposizione impugnata
esclude ogni possibilita' di attuazione convenzionata della
previsione dello strumento generale, cosi' ulteriormente comprimendo
le possibilita' di esplicazione dell'autonomia privata e
assoggettando del tutto l'esercizio dell'impresa alla decisione
amministrativa unilaterale.
Inoltre, la previsione che il piano attuativo contenga misure
ambientali o, genericamente, socio-economiche, conferma l'estraneita'
della disposizione alla materia urbanistica, e l'impiego dello
strumento urbanistico per finalita' estranee finanche alla competenza
regionale (come la tutela dell'ambiente).
La norma regionale viola pertanto l'art. 117, comma 1, che impone
il rispetto degli obblighi europei in materia di concorrenza
nell'attivita' legislativa anche delle Regioni; l'art. 117 comma 2,
lettera e), della Costituzione, che riserva allo Stato la competenza
legislativa in materia di tutela della concorrenza; gli artt. 3 e 41
Cost. in quanto comprime il nucleo essenziale della liberta' di
iniziativa economica nella specifica materia disciplinata e consente
discriminazioni su base territoriale tra operatori economici; l'art.
97 Cost. in quanto finalizza l'attivita' amministrativa di disciplina
dell'assetto del territorio a finalita' di programmazione economica
ad essa del tutto estranee.
Violazione dell'art. 117 comma 1 e comma 2 lettera e) Cost.
L'art. 45 disciplina le tipologie e le attivita' commerciali
integrative in materia di impianti di distribuzione di carburante, e
prevede al comma 1 che: «tutti i nuovi impianti devono essere dotati
almeno di un prodotto ecocompatibile GPL o metano, a condizione che
non vi siano ostacoli tecnici o oneri economici eccessivi e non
proporzionali alle finalita' dell'obbligo».
La norma regionale introduce, dunque, una barriera all'accesso al
mercato della distribuzione di carburanti in rete rappresentata
dall'obbligo asimmetrico (solo ai nuovi entranti) di fornire almeno
un prodotto eco-compatibile.
Per questo motivo, la norma limita la concorrenza. Gli obblighi
asimmetrici limitano l'accesso al mercato di nuovi operatori, facendo
ricadere su questi ultimi degli oneri che non operano in capo agli
incumbent del mercato. Peraltro, l'imposizione di tali obblighi non
e' giustificabile anche nell'ottica del perseguimento di obiettivi di
interesse generale quali la tutela ambientale dal momento che, come
detto, si tratta di vincoli che interessano soltanto i nuovi
impianti.
La previsione regionale si pone in contrasto con quanto disposto
dal comma 5 dell'art. 17 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1,
(convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 24
marzo 2012, n. 279, il quale, ha modificato l'art. 83-bis, comma 17,
del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, (convertito, con
modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 6 agosto 2008, n.
133), secondo cui «Al fine di garantire il pieno rispetto delle
disposizioni dell'ordinamento comunitario in materia di tutela della
concorrenza e di assicurare il corretto e uniforme funzionamento del
mercato, l'installazione e l'esercizio di un impianto di
distribuzione di carburanti non possono essere subordinati ... al
rispetto di vincoli, ... che prevedano obbligatoriamente la presenza
contestuale di piu' tipologie di carburanti, ivi incluso il metano
per autotrazione, se tale ultimo obbligo comporta ostacoli tecnici o
oneri economici eccessivi e non proporzionali alle finalita'
dell'obbligo.».
La norma statale, come si vede, prevede che, per garantire il
pieno rispetto delle disposizioni dell'ordinamento comunitario in
materia di tutela della concorrenza e assicurare il corretto e
uniforme funzionamento del mercato, l'installazione e l'esercizio di
un impianto di distribuzione di carburanti non possono essere
subordinati, tra l'altro, all'obbligo della erogazione «di piu'
tipologie di carburanti, ivi incluso il metano per autotrazione, se
tale ultimo obbligo comporta ostacoli tecnici o oneri economici
eccessivi e non proporzionali alle finalita' dell'obbligo».
La norma statale pone dunque un divieto condizionato circa
l'offerta contestuale di piu' tipologie di carburanti (in altri
termini, la restrizione e' vietata se comporta ostacoli tecnici o
oneri economici eccessivi e non proporzionali, sicche' e' onere
dell'ente pubblico che intenda introdurre la restrizione provare che
essa non e' eccessiva o sproprozionata); mentre l'art. 45 in esame
impone la restrizione come regola, salvo che l'imprenditore
interessato dimostri che essa comporta «ostacoli tecnici o oneri
economici eccessivi e non proporzionali alle finalita' dell'obbligo».
Nel primo caso, dunque, l'obbligo asimmetrico rappresenta
l'eccezione (sara' l'Ente a dover dimostrare la proporzionalita'
della restrizione) mentre nel secondo caso rappresenta la regola
(sara' il richiedente l'autorizzazione che dovra' dimostrare la non
proporzionalita' della restrizione).
La disposizione regionale quindi, capovolgendo la norma statale
di principio, determina una potenziale restrizione della concorrenza
con riferimento al citato art. 83-bis del decreto-legge 25 giugno
2008, n. 112, risultando in contrasto con l'art. 117, comma 1 e comma
2, lettera e) della Costituzione.
Sul punto, in fattispecie analoga, con la ricordata sentenza n.
125/2014 la Corte costituzionale ha ritenuto che «la norma regionale
introduce vincoli piu' restrittivi all'apertura di nuovi impianti di
distribuzione di carburanti, prevedendo l'obbligo di erogare
contestualmente gasolio e benzina in contrasto con quanto previsto
dall'83-bis, comma 17, del decreto-legge n. 112 del 2008 che vieta
restrizioni che prevedano obbligatoriamente la presenza contestuale
di piu' tipologie di carburanti.
In altri termini la norma impugnata introduce significative e
sproporzionate barriere all'ingresso nei mercati, non giustificate
dal perseguimento di specifici interessi pubblici, condizionando o
ritardando l'ingresso di nuovi operatori e, conseguentemente,
ingenerando ingiustificate discriminazioni a danno della concorrenza,
in violazione dell'art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.».
Anche dell'odierna disposizione regionale deve darsi il medesimo
giudizio.
Ne' potrebbe valere come giustificazione della restrizione la
finalita' ambientale dichiarata dalla disposizione, in quanto
finalita' comunque estranea alla competenza legislativa regionale,
rientrando la tutela dell'ambiente nella competenza esclusiva statale
ai sensi dell'art. 117 comma 2 lett. s) Cost.; e, in ogni caso,
insussistente o sproporzionata rispetto alla gravita' della barriera
all'ingresso che la disposizione impugnata pone, poiche' il mero
fatto della presenza di numerosi impianti che consentano la
distribuzione del carburante ecocompatibile non ne incrementa di per
se' il consumo. Tra le ragioni che orientano nella scelta del
carburante i consumatori e, soprattutto, gli operatori economici che
utilizzano automezzi, la diffusione dei punti di vendita e' infatti
del tutto secondaria rispetto a preponderanti variabili di natura
tecnica o economica (quali l'idoneita' dei mezzi alimentati con i
diversi tipi di carburante a servire agli specifici usi che
l'utilizzatore si propone; o il livello medio del prezzo dei diversi
tipi di carburante). In tali condizioni, l'imposizione dell'obbligo
di offrire comunque una varieta' di carburanti, comprendente in ogni
caso quelli ecocompatibili, si traduce inevitabilmente
nell'imposizione legislativa agli operatori del settore di incorrere
in perdite di esercizio nella vendita di tali carburanti, la domanda
dei quali non e' pensabile che, per effetto dell'obbligo in
questione, si accresca in misura tale da rendere certamente economica
la vendita degli stessi.
Evidente e', quindi, l'eccessivita' della restrizione della
liberta' concorrenziale cosi' apportata, rispetto agli obiettivi che
la disposizione si propone.
P.T.M.
Si chiede che venga dichiarata la illegittimita' costituzionale
degli artt. 9, comma 4; 13 comma 7 lett. a) e c); 17, commi 3 e 4, 18
e 45 della legge della Regione Puglia n. 24 del 16 aprile 2015.
Si produce per estratto copia conforme della delibera del
Consiglio dei ministri del 19 giugno 2015 completa di relazione.
Roma, 20 giugno 2015
L'Avvocato dello Stato: Chiarina Aiello