N.   72  RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 16 giugno 2006.

 

Ricorso  per  questione  di legittimita' costituzionale depositato in
cancelleria il 16 giugno 2006 (della Regione Umbria)


(GU n. 30 del 26-7-2006)


    Ricorso  della  Regione  Umbria,  in persona del presidente della
giunta  regionale  pro  tempore,  autorizzato con deliberazione della
giunta  regionale  n. 891 del 31 maggio 2006 (doc. 1) e n. 830 del 17
maggio  2006  (doc.  2),  rappresentata  e  difesa,  come  da procura
speciale a rogito del notaio dott.ssa Maria Rosaria Russo di Perugia,
n. rep.  6522 del 9 giugno 2006 (doc. 3), dal prof. avv. Giandomenico
Falcon  del  foro di Padova, con domicilio eletto presso l'avv. Luigi
Manzi del foro di Roma, in Roma, via Confalonieri, n. 5;

    Contro   il   Presidente   del  Consiglio  dei  ministri  per  la
dichiarazione    di   illegittimita'   costituzionale   del   decreto
legislativo  3  aprile  2006,  n. 152,  Norme  in materia ambientale,
pubblicato  nella  Gazzetta  Ufficiale  n. 88  del  14 aprile  2006 -
Supplemento ordinario n. 96, in relazione ai seguenti articoli:
        25, comma 1, 35, comma 1, 42, comma 3, 55, comma 2, 58, comma
3, 63, commi 3 e 4, 64, 65, comma 3, lett. e), 95, comma 5, 96, comma
1, 101, comma 7; 148, 149, 153, comma 1, 154, 155, 160, 166, comma 4;
181,  commi da 7 a 11, 183, comma 1, 186, 189, comma 3, 195, comma 1,
202,  comma  6, 214, commi 3 e 5, per violazione degli artt. 76, 117,
118 e 119 Cost., del principio di leale collaborazione, del principio
di  ragionevolezza,  nonche'  dei  principi e delle norme del diritto
comunitario, nei modi e per i profili di seguito indicati.

                              F a t t o

    Il  decreto  legislativo 3 aprile 2006, n. 152, «Norme in materia
ambientale»,   costituisce   attuazione   della   delega  legislativa
contenuta  nella  legge  15  dicembre  2004, n. 308, pubblicata nella
Gazzetta   Ufficiale  n. 302  del  27  dicembre  2004  -  Supplemento
ordinario  n. 187.  Questa  autorizzava  il  Governo ad emanare entro
diciotto  mesi  -  quindi entro l'11 luglio 2006 - uno o piu' decreti
«di   riordino,   coordinamento  e  integrazione  delle  disposizioni
legislative  nei  seguenti  settori  e  materie,  anche  mediante  la
redazione di testi unici».
    A  norma dell'art. 1, comma 4, della legge, i decreti legislativi
avrebbero  dovuto essere adottati «sentito il parere della Conferenza
unificata  di  cui all'art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997,
n. 281».
    Il  comma 8 dello stesso articolo richiede ai decreti legislativi
«il   rispetto  dei  principi  e  delle  norme  comunitarie  e  delle
competenze  per  materia delle amministrazioni statali, nonche' delle
attribuzioni  delle  regioni  e  degli  enti locali, come definite ai
sensi  dell'art.  117  della Costituzione, della legge 15 marzo 1997,
n. 59,  e  del  decreto  legislativo  31 marzo 1998, n. 112,... e del
principio di sussidiarieta».
    Lo  schema  di  decreto  e'  stato  approvato  nella  seduta  del
Consiglio  dei  ministri del 18 novembre 2005. Nel corso della seduta
della  Conferenza  unificata  del  24 novembre 2005, i rappresentanti
delle  regioni  e  degli  enti  locali chiedevano di essere informati
sullo stato di attuazione della delega legislativa: ed in risposta il
Ministro La Loggia comunicava che, data la lunghezza, la Relazione al
decreto  non  sarebbe  stata  illustrata oralmente ma depositata agli
atti,  «in  modo  che  possa essere visionata e vi sia tutto il tempo
necessario a fare eventuali osservazioni».
    Il  testo del decreto legislativo e' stato trasmesso alle regioni
con  nota  della  Presidenza  del  Consiglio  dei ministri in data 29
novembre  2005,  cui  ha  fatto  seguito  una  nota  del successivo 7
dicembre  che  avvertiva che gli allegati tecnici, a causa della loro
voluminosita'  venivano  resi  disponibili soltanto in rete (ed anche
cio' su personale richiesta al Ministro da parte del Presidente della
Conferenza dei Presidenti delle regioni).
    Nonostante  la  mole  del  testo  e degli allegati, il parere sul
decreto  legislativo  e'  stato iscritto nell'ordine del giorno della
seduta  della  Conferenza  unificata del 15 dicembre 2005: ma gia' in
vista  della  riunione  in  sede tecnica del 12 dicembre dello stesso
anno  il  Presidente  della  Conferenza  delle regioni ne chiedeva la
sospensione,  in  ragione  dell'estrema  complessita' della materia e
dell'esiguita'  del  tempo  concesso per l'esame, chiedendo il rinvio
del termine per l'espressione del parere.
    Con  telegramma del 13 dicembre il Ministro dell'ambiente e della
tutela del territorio comunicava che il Governo non intende concedere
deroghe  al termine fissato dalla legge per l'esame delle commissioni
competenti,  considerata  la  durata dei termini previsti dalla legge
n. 308  del  2004 e valutato altresi' il periodo di attivita' residua
del Parlamento».
    Nella  seduta  della Conferenza unificata del 15 dicembre 2005 il
rinvio  del  punto  all'ordine  del  giorno e' oggetto di un «appello
accorato»   del  Presidente  Errani,  a  nome  della  Conferenza  dei
Presidenti  delle  regioni,  al  quale  si associano i rappresentanti
degli   altri   enti   locali:  l'appello  e'  motivato  dall'estrema
complessita'  della  materia,  che  non  attiene  solo alle questioni
ambientali,  ma  anche alla difesa del suolo, ed altro» e che «tratta
di  una serie di politiche fondamentali che incrociano in modo forte,
tutta  l'articolazione  legislativa  delle  Regioni  e  le  politiche
amministrative  degli  Enti locali» (punto 25 del verbale 13/05: doc.
3).
    Ma  il  Viceministro  Nucara  e' rigido nel rifiuto della proroga
argomentando,  da un lato, che la tutela dell'ambiente» e' materia di
competenza  esclusiva  dello  Stato, dall'altro che la delega sarebbe
scaduta  -  come  dichiara  esplicitamente  - il giorno stesso, il 15
dicembre   2005,   «desumendo  cio'  da  quanto  di  sua  conoscenza»
dimostrando,  in  tal modo, che non solo le regioni e gli enti locali
ma  lui  stesso  non aveva fatto in tempo ad informarsi correttamente
del punto all'ordine del giorno.
    Da  un  lato  il  Viceministro  ignora  -  come  gli  viene fatto
osservare  -  quanto  la  giurisprudenza  costituzionale  aveva  gia'
ampiamente  osservato attorno alla natura «trasversale» della materia
e  all'intreccio di competenze che su di essa si accentra; dall'altro
ignora i termini stessi della delega, la cui scadenza era fissata nel
giorno  11  luglio  2006, come del resto emergeva della stessa scheda
elaborata  dalla  Presidenza del Consiglio, come gli faceva notare il
Presidente Errani.
    Ma  il  Viceministro  ribatte  a  questo  punto  che l'urgenza di
adottare  definitivamente  il  decreto  non  cambia, in ragione delle
elezioni  politiche  previste  per  il  9 aprile 2006. Il Ministro La
Loggia,  che presiede la riunione, propone di rimandare il punto alla
successiva  seduta della Conferenza, prevista per il 20 gennaio 2006;
ma  il  Viceministro si oppone. Il Presidente Errani fa presente che,
sulla  base  di quanto affermato quel giorno stesso dalla Commissione
parlamentare,   senza   il   parere  della  Conferenza  unificata  il
procedimento   di  emanazione  non  puo'  essere  proseguito,  ma  il
Viceministro  Nucara  ribatte che la Conferenza era stata «sentita» e
che  non  si  trattava di un parere vincolante. Il Ministro La Loggia
conclude  «prendendo  atto  del  mancato parere» e annunciando che il
Viceministro   «fara'  le  opportune  valutazioni  e  continuera'  la
discussione  con  le  Regioni  e  le  Autonomie  locali»: «laddove si
verificasse l'indispensabilita' di questo passaggio, sara' nuovamente
iscritto  il punto in argomento all'o.d.g. della prossima Conferenza»
(tutto cio' emerge vividamente dal citato verbale: v. sempre doc. 3).
    Nella  divergenza  delle  posizioni,  il  parere non pote' essere
espresso. Ciononostante il Consiglio dei ministri, il 19 gennaio 2006
(n. 40),   approvava   «in  via  definitiva»  il  testo  del  decreto
legislativo, dopo che le Commissioni parlamentari avevano espresso il
proprio parere (in data 12 gennaio 2006).
    Nella  successiva  riunione  della  Conferenza  unificata  del 26
gennaio  2006,  i Presidenti delle regioni e delle province autonome,
dell'ANCI,  dell'UPI  e  dell'UNCEM presentavano un ordine del giorno
recante  il  parere  negativo  sullo  schema  di  decreto  (doc.  4),
motivandolo  sia  nel  merito  che  nel  metodo,  parere del quale il
rappresentante  del  Governo  si  limitava  a dichiarare di «prendere
atto».  Dopo  che  le  Commissioni  parlamentari  avevano espresso un
secondo parere (in data 31 gennaio 2006), il 10 febbraio il Consiglio
dei  ministri  riapprovava  di  nuovo  «in via definitiva» il decreto
legislativo (Consiglio dei ministri n. 43): evidentemente senza alcun
riesame   di   merito  alla  luce  del  parere  negativo  degli  enti
territoriali, stante l'asserita (ma inesistente) urgenza.
    Il  15  marzo  2006  il  Presidente  della Repubblica chiedeva al
Governo  alcuni chiarimenti nel merito e in relazione al procedimento
di  formazione  del decreto legislativo, sospendendo l'emanazione del
provvedimento;  a  seguito  di  questa  richiesta  di chiarimenti, il
decreto  legislativo  e'  stato  ulteriormente riapprovato con alcune
modifiche  dal  Consiglio dei ministri il 29 marzo 2006 (anche se non
se ne fa menzione nell'ordine del giorno della seduta n. 51 di quella
data,  ne'  nel  comunicato pubblicato nel sito del Governo a seguito
della  riunione).  E'  stato dunque approvato in un testo formalmente
(sia  pure parzialmente) diverso da quello sottoposto all'esame delle
Commissioni  parlamentari e della Conferenza unificata. Esso e' stato
poi emanato il 3 aprile e pubblicato il 14 aprile.
    Con   il   presente   ricorso   la  Regione  Umbria  contesta  la
legittimita'  costituzionale delle disposizioni impugnate per ragioni
che  attengono  da  un lato al decreto legislativo nel suo complesso,
dall'altro alle singole norme.
    Nel  suo  complesso il decreto appare viziato da gravi difetti di
procedimento,   attinenti   in   particolare  alla  violazione  della
procedura di «leale collaborazione». Come meglio si dira', il Governo
non ha rispettato i contenuti minimi della garanzia di partecipazione
della  Conferenza  unificata, rendendo consapevolmente impossibile un
informato  esame  del  nuovo testo normativo. La Conferenza unificata
non ha avuto modo di esprimere formalmente il proprio parere, e sulle
posizioni da essa assunte in merito al decreto legislativo il Governo
non  ha  aperto  alcuna  discussione,  violando quanto disposto dalla
legge di delega e ribadito dalla Commissione parlamentare.
    Inoltre  -  benche'  questo profilo non incida direttamente nelle
attribuzioni regionali non puo' essere sottaciuto - anche formalmente
il  procedimento  appare gravemente carente, essendo il testo emanato
diverso  da  quello  precedentemente  adottato  sulla base del parere
della Commissione parlamentare.
    Nel  merito,  il  decreto  legislativo  n. 152 del 2006 appare in
molte  parti  eccedere la delega legislativa e porsi in contrasto con
la  disciplina  comunitaria,  con  grave  ricaduta sulle attribuzioni
costituzionali  delle  Regioni;  inoltre e' direttamente lesivo delle
competenze regionali in molte sue disposizioni.
    Come  e'  stato osservato nell'ordine del giorno presentato dalle
regioni  in  sede  di Conferenza unificata, il decreto «contrasta con
diverse  direttive  comunitarie,  viola,  per  eccesso  di delega, la
stessa legge delega n. 308/2004, stravolge l'assetto delle competenze
definite   dall'art. 117  e  118  Cost.  e  dal  decreto  legislativo
n. 112/1998    consolidate   da   numerose   pronunce   della   Corte
costituzionale» (v. sempre doc. 4).
    L'opposizione  che le regioni hanno manifestato nei confronti del
decreto  e'  quindi motivata da ragioni assai gravi, sia in ordine al
rispetto  della  normativa comunitaria, sia in ordine al mantenimento
degli  attuali  presidi  legislativi, anche regionali, posti a tutela
dell'ambiente.  Le  disposizioni  del  decreto producono infatti - ad
avviso  delle  regioni  -  il  risultato  «di indebolire le politiche
ambientali  nel  nostro  Paese  e  la  loro coerenza con le direttive
dell'Unione europea, nonche' quelle di determinare l'abbassamento dei
livelli  di  tutela  dell'ambiente  e della salute a danno di tutti i
cittadini   senza,   peraltro,   che  a  questo  possa  corrispondere
l'auspicata  semplificazione delle procedure e dei processi attuativi
per  gli operatori e le imprese.». Inoltre le nuove norme determinano
«la  totale paralisi dell'azione delle regioni e degli enti locali in
campo   ambientale  data  l'incompatibilita'  delle  norme  regionali
vigenti con quelle dello schema di decreto.».
    Per  fare  un esempio degli effetti del decreto, si puo' rilevare
che  l'art. 63  sopprime «a far data dal 30 aprile 2006» le Autorita'
di   bacino  istituite  dalla  legge  n. 183/1989,  trasferendone  le
funzioni  alle  istituende  Autorita'  di  bacino distrettuale, senza
precisare  quale  sia  il  regime  transitorio,  rinviato  ad un atto
amministrativo  del Governo che ha un solo giorno per essere emanato,
come poi si dira'. Come si vede, la frettolosita' di preparazione del
testo  normativo  e  la  volonta'  di  ottenerne comunque l'immediata
entrata  in  vigore comportano conseguenze paradossali in ordine alla
possibilita'  di  dare,  in  sole 24 ore, un'attuazione ragionevole e
congrua  al  decreto in presenza della notevolissima complessita' dei
temi trattati.
    In altri casi - in particolare in materia di rifiuti - il decreto
legislativo  introduce  una  disciplina  innovativa  che ha l'effetto
immediato  di  smantellare  l'attuale  normativa ambientale, rendendo
meno  rigorosa  la  normativa  vigente  e favorendo comportamenti che
attualmente,  anche  per  precisa  richiesta delle norme comunitarie,
costituirebbero un illecito amministrativo o penale.

                            D i r i t t o

    1) Illegittimita' degli articoli 25, comma 1 e 35, comma 1.
    L'art. 25,  comma 1, lett. a) riserva al Ministro dell'ambiente e
della tutela del territorio la competenza alla VIA «per i progetti di
opere ed interventi sottoposti ad autorizzazione statale e per quelli
aventi  impatto ambientale interregionale o internazionale precisando
tale   disposizione,   l'art. 35  dispone  che  compete  al  Ministro
dell'ambiente  e  della  tutela  del territorio ... la valutazione di
impatto  ambientale  dei  progetti  di opere ed interventi rientranti
nelle  categorie  di cui all'art. 23 nei casi in cui si tratti: a) di
opere  o  interventi  sottoposti ad autorizzazione alla costruzione o
all'esercizio  da  parte  di  organi  dello  Stato;  b)  di  opere  o
interventi  localizzati sul territorio di piu' regioni o che comunque
possono     avere     impatti    rilevanti    su    piu'    regioni».
Corrispondentemente, l'art. 42, relativo ai Progetti sottoposti a VIA
in  sede  regionale  o  provinciale,  afferma  che «sono sottoposti a
valutazione  di  impatto ambientale in sede regionale o provinciale i
progetti  di  opere  ed  interventi rientranti nelle categorie di cui
all'art.  23,  salvo  si  tratti  di opere o interventi sottoposti ad
autorizzazione  statale  o aventi impatto ambientale interregionale o
internazionale ai sensi dell'art. 35».
    Risulta  dunque evidente che il nuovo decreto legislativo assegna
alla competenza statale non solo la VIA per le opere e gli interventi
soggetti ad autorizzazione statale, ma anche quella relativa ad opere
ed  interventi  che  abbiano semplicemente un rilievo per piu' di una
regione.
    La  ricorrente  regione  ritiene che, alla stregua del riparto di
competenze  di cui al Titolo V della parte seconda della Costituzione
dopo la riforma del 2001, la competenza per le opere e gli interventi
non  soggetti  ad  autorizzazione statale non possa che spettare alle
regioni,  anche  se si tratti di opere che interessano piu' regioni o
che comunque recano un impatto su piu' territori regionali.
    Infatti,  se  e' vero che anche il decreto legislativo n. 112 del
1998  -  sempre comunque nel precedente quadro costituzionale - aveva
mantenuto  allo  Stato  la  competenza  alla  VIA per «le opere e gli
impianti  il  cui  impatto ambientale investe piu' regioni» (art. 71,
comma  1,  lett.  a),  e' anche vero che il comma 2 precisava che con
atto  di  indirizzo  e  coordinamento sarebbero state «individuate le
specifiche  categorie  di  opere,  interventi e attivita' attualmente
sottoposti  a valutazione statale di impatto ambientale da trasferire
alla competenza delle regioni», a condizione (come stabiliva il comma
3) «della vigenza della legge regionale della VIA».
    Ed   in   realta'   gia'   il  precedente  atto  di  indirizzo  e
coordinamento  di  cui  al d.P.R. 12 aprile 1996 (Atto di indirizzo e
coordinamento  per  l'attuazione  dall'art. 40,  comma 1, della legge
n. 146/1994,  concernente  disposizioni  in materia di valutazione di
impatto ambientale) all'art. 11 (Procedure per i progetti con impatto
ambientale  interregionale) prevedeva che le regioni assicurassero la
definizione  delle  modalita'  di  partecipazione  alla  procedura di
valutazione d'impatto ambientale delle regioni confinanti nel caso di
progetti   che   possono  avere  impatti  rilevanti  anche  sul  loro
territorio  ovvero  di  progetti  localizzati  sul territorio di piu'
regioni»   evidentemente   presupponendo   la  perdurante  competenza
regionale   in   relazione   all'impatto   ambientale   dell'opera  o
dell'intervento.
    Riprova  se  ne ha nella legislazione regionale che e' seguita ed
ha  continuato  a  seguire:  in  pratica tutte le normative regionali
sulla  VIA  contengono disposizioni che garantiscono il coordinamento
delle regioni direttamente interessate nel caso di impatti ambientali
interregionali  sia  nella  forma di informazione e consultazione sia
nella  forma  di  codecisione  tramite  una  intesa  tra  le  regioni
interessate.
    Ora, nel nuovo quadro costituzionale successivo al 2001 lo stesso
principio  di sussidiarieta' di cui all'art. 118, primo comma, impone
di  non  spostare la competenza al livello statale se non nei casi in
cui   il   carattere   infrazionabile   ed  intrinsecamente  unitario
dell'interesse lo imponga; e l'art. 117, ottavo comma, prevedendo che
«la  legge  regionale  ratifica  le  intese  della  regione con altre
regioni  per  il migliore esercizio delle proprie funzioni, anche con
individuazione   di   organi   comuni»   conferma  che  il  carattere
semplicemente  interregionale  delle  funzioni e degli interessi puo'
giustificare speciali soluzioni organizzative, ma non puo' di per se'
consentire l'acquisizione della competenza al livello statale.
    Il   diretto  fondamento  in  Costituzione  della  rivendicazione
regionale  rende  superfluo  ricordare che, in ogni modo, il rispetto
del  principio  di  sussidiarieta'  era specificamente previsto dalla
legge delega n. 308/2004 (art. 8, comma 1).
    Si  noti che la competenza regionale in materia di VIA non e' una
graziosa   concessione   del  legislatore  statale,  ma  una  precisa
conseguenza  sia della competenza regionale in relazione alle opere e
interventi  di  cui  si  tratta, sia della competenza regionale nelle
materie  connesse  all'ambiente o addirittura parti di esso, quale la
tutela  della  salute  ed il governo del territorio, sia della stessa
competenza  in  materia ambientale, in quanto la competenza esclusiva
statale  si  riferisce, come chiarito dalla giurisprudenza di codesta
ecc.ma Corte costituzionale (a partire dalla sent. n. 407/2002), alla
fissazione degli standard minimi di tutela.
    2) Illegittimita' dell'art. 42, comma 3.
    L'art. 42   disciplina  i  Progetti  sottoposti  a  VIA  in  sede
regionale   o   provinciale.   Il   comma   3  prevede  che  «qualora
dall'istruttoria  esperita in sede regionale o provinciale emerga che
l'opera  o  intervento  progettato puo' avere impatti rilevanti anche
sul  territorio di altre regioni o province autonome o di altri Stati
membri   dell'Unione  europea,  l'autorita'  competente  con  proprio
provvedimento  motivato  si  dichiara incompetente e rimette gli atti
alla  Commissione  tecnico-consultiva  di  cui all'art. 6 per il loro
eventuale utilizzo nel procedimento riaperto in sede statale.».
    Tale norma lede le competenze costituzionali della regione per le
ragioni  esposte nel motivo n. 1, in quanto prevede lo spostamento in
sede statale di VIA che spettano alla competenza regionale.
    3) Illegittimita' dell'art. 55, comma 2.
    L'art. 55,  comma  2,  stabilisce che «l'attivita' conoscitiva di
cui al presente articolo e' svolta, sulla base delle deliberazioni di
cui  all'art.  57,  comma  1,  secondo  criteri, metodi e standard di
raccolta,   elaborazione   e   consultazione,  nonche'  modalita'  di
coordinamento  e  di  collaborazione tra i soggetti pubblici comunque
operanti  nel  settore,  che garantiscano la possibilita' di omogenea
elaborazione  ed  analisi  e la costituzione e gestione, ad opera del
Servizio   geologico   d'Italia   -  Dipartimento  difesa  del  suolo
dell'Agenzia  per la protezione dell'ambiente e per i servizi tecnici
(APAT)  di  cui  all'art.  38 del decreto legislativo 30 luglio 1999,
n. 300  di  un  unico  sistema  informativo,  cui  vanno raccordati i
sistemi informativi regionali e quelli delle province autonome».
    La  regione  contesta  l'accentramento  in  un  soggetto  statale
(APAT),   senza   coinvolgimento   delle  regioni,  delle  scelte  di
costituzione  e gestione di un unico sistema informativo; inoltre, si
contesta  l'obbligo  del  raccordo dei sistemi informativi regionali,
nella  misura  in  cui  questo  raccordo  non  sia  bilaterale. Sotto
entrambi i profili, l'art. 55, comma 2, dunque, viola il principio di
leale collaborazione.
    4) Illegittimita' dell'art. 58, comma 3, lettere a) e b).
    L'art. 58  definisce le competenze del Ministero dell'ambiente in
materia  di  difesa del suolo. Il comma 3 stabilisce che, «ai fini di
cui  al  comma  2,  il  Ministero  dell'ambiente  e  della tutela del
territorio   svolge   le   seguenti   funzioni:   a)  programmazione,
finanziamento  e  controllo degli interventi in materia di difesa del
suolo».
    La  lett. a) accentra in capo al Ministero dell'ambiente funzioni
che  erano  attribuite alle regioni o alle autorita' di bacino o che,
comunque,   erano   svolte   con   la  partecipazione  regionale.  In
particolare,  la  lett.  a)  viene  ad escludere l'operativita' degli
schemi  revisionali  e  programmatici,  che  finora  erano  stati  lo
strumento,  a partecipazione regionale, di finanziamento della difesa
del  suolo  e  delle autorita' di bacino. Si puo' anche ricordare che
l'art. 86,  comma  3,  d.lgs.  n. 112/1998  prevedeva l'intesa con la
Conferenza  Stato-regioni  per  la  programmazione  dei finanziamenti
statali in materia di difesa del suolo.
    Inoltre,  l'art. 88, comma 1, d.lgs. n. 112/1998 dichiara compiti
di  rilievo  nazionale  la  programmazione  ed il finanziamento degli
interventi  di  difesa  del  suolo,  ma il comma 2 richiede il parere
della  Conferenza  unificata.  Ancora,  l'art. 89,  comma 1, lett. h)
conferisce  in  via  esclusiva  alle  regioni  e  agli enti locali la
programmazione  e  pianificazione  degli  interventi  di difesa della
costa   e   degli  abitati  costieri.  Infine,  l'art. 89,  comma  5,
stabilisce  che  «per le opere di rilevante importanza e suscettibili
di  interessare  il territorio di piu' regioni, lo Stato e le Regioni
interessate  stipulano accordi di programma con i quali sono definite
le appropriate modalita', anche organizzative, di gestione».
    L'art. 58, comma 3, lett. a), in relazione alla programmazione ed
al  finanziamento  degli  interventi di difesa del suolo, comprime la
posizione delle regioni, violando in questo modo l'art. 76 Cost., sia
per  il  carattere  innovativo delle norme sia perche' si peggiora la
posizione regionale (v. art. 1, comma 1 e comma 8, legge n. 308/2004,
che  richiede specificamente il rispetto delle attribuzioni conferite
alle regioni dal d.lgs. n. 112/1998). La regione e' legittimata a far
valere  vizi di costituzionalita' di leggi che, in materie regionali,
implicano  una  menomazione della posizione regionale (v., ad es., le
sentt.  n. 503/2000,  206/2001,  110/2001, 303/2003 - in relazione al
d.lgs.  n. 198/2002,  280/2004).  Poiche'  tale  lesione  si  produce
proprio  attraverso  la  violazione  dell'76  Cost., l'illegittimita'
denunciata  si  traduce  in  lesione  di competenza regionale, che le
regioni sono legittimate a denunciare.
    Peraltro, la lett. a) viola anche direttamente, in relazione alla
programmazione  ed al finanziamento, l'art. 118 Cost. ed il principio
di   leale  collaborazione,  perche'  accentra  allo  Stato  funzioni
amministrative  in materie regionali senza alcun coinvolgimento delle
regioni, violando cosi' i principi fissati da codesta Corte a partire
dalla sent. n. 303/2003.
    In  relazione alla funzione di controllo, poi, la lett. a), oltre
ad  essere  illegittima  per  tutte le ragioni appena indicate, lo e'
anche  perche'  accentra  una  funzione  allo  Stato  in  mancanza di
esigenze   di   esercizio  unitario,  dato  che  il  controllo  sugli
interventi  di  difesa  del  suolo puo' essere adeguatamente svolta a
livello  locale  (anzi, il controllo su un intervento viene svolto in
modo  senz'altro  piu' adeguato a livello locale e da parte dell'ente
che conosce meglio le particolarita' del territorio).
    L'art. 58,   comma   3.   lett.   b)   attribuisce  al  Ministero
dell'ambiente  la  «previsione,  prevenzione  e  difesa  del suolo da
frane,  alluvioni  e  altri  fenomeni  di dissesto idrogeologico, nel
medio  e nel lungo termine al fine di garantire condizioni ambientali
permanenti ed omogenee, ferme restando le competenze del Dipartimento
della protezione civile in merito agli interventi di somma urgenza».
    Anche  questa  norma  viola  l'art. 118,  comma  1,  Cost., ed il
principio  di  leale collaborazione in quanto accentra allo Stato una
funzione  amministrativa in assenza di esigenze di esercizio unitario
e,  comunque,  senza prevedere l'intesa della regione interessata. La
lett.  b)  innova  nell'ordinamento, alterando il riparto di funzioni
previsto  in relazione al rischio idrogeologico (v. l'art. 108, comma
1,  lett.  a),  d.lgs.  n. 112/1998 e la direttiva del Presidente del
Consiglio  27  febbraio  2004, modificata dalla direttiva 25 febbraio
2005) e peggiorando la posizione regionale. Dunque, la lett. b) viola
l'art. 76  Cost.  e  la  sfera  di competenza regionale in materia di
difesa  del suolo, per le ragioni esposte in relazione alla lett. a).
La  competenza  regionale nella materia de qua e' pacifica e discende
dalla  competenza in materia di governo del territorio, di protezione
civile  e  dal  modo  in cui la giurisprudenza costituzionale intende
l'art. 117, secondo comma, lettera s).
    5) Illegittimita' dell'art. 63, commi 3 e 4, e dell'art. 64.
    A) Illegittimita' costituzionale dell'accorpamento delle funzioni
in  macrodistretti e della sostituzione delle Autorita' di bacino con
le nuove Autorita' di distretto.
    L'art. 63,  comma  3,  dispone:  «Le autorita' di bacino previste
dalla  legge 18 maggio 1989, n. 183, sono soppresse a far data dal 30
aprile 2006 e le relative funzioni sono esercitate dalle Autorita' di
Bacino distrettuale di cui alla parte terza del presente decreto». Il
riferimento  generico  alla  «terza  parte» (alla quale in realta' la
disposizione appartiene) e' in effetti curioso, dato che le autorita'
distrettuali  sono  istituite  dal  comma 1 dello stesso articolo, in
corrispondenza  degli  otto  distretti  idrografici  individuati  nel
successivo art. 64.
    Tale  norma  riaccorpa in otto distretti i numerosi bacini che la
legge  n. 183/1989  istituiva,  suddividendoli  in  bacini nazionali,
interregionali  e  regionali.  Tra  gli  otto  distretti  figurano il
distretto  della  Sardegna,  quello  della  Sicilia,  ed il Distretto
idrografico pilota del Serchio, di ridottissime dimensioni.
    L'intero territorio nazionale e' dunque suddiviso grossolanamente
nei  rimanenti  cinque  distretti,  vagamente  corrispondenti a delle
macro-regioni. Questa suddivisione e' decisa «dall'alto» senza alcuna
partecipazione alla decisione da parte delle regioni.
    Gli  organi  dei  nuovi  distretti sono individuati dall'art. 63,
comma  2,  nella  Conferenza istituzionale permanente, nel Segretario
generale,  nella  Segreteria  tecnico-operativa  e  nella  Conferenza
operativa  di  servizi.  La stessa disposizione rinvia la definizione
dei  criteri  e delle modalita' per l'attribuzione o il trasferimento
del  personale  e  delle  risorse  patrimoniali  e  finanziarie ad un
decreto  del  Presidente  del  Consiglio dei ministri, da emanarsi su
proposta  del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio di
concerto  con  il  Ministro  dell'economia  e  delle finanze e con il
Ministro  per  la funzione pubblica «sentita la Conferenza permanente
Stato-regioni»,  entro  trenta giorni dalla data di entrata in vigore
del  decreto. Ancora, lo stesso d.P.C.M. «disciplina il trasferimento
di funzioni e regolamenta il periodo transitorio».
    Le  disposizioni  impugnate appaiono da un lato gravemente lesive
delle attribuzioni regionali, dall'altro - e proprio percio' - lesive
dell'oggetto e dei principi e criteri direttivi della delega.
    Sotto il primo profilo va osservato che la Sezione in cui trovano
collocazione  le  disposizioni  impugnate evoca con chiarezza sin dal
titolo  -  (Norme  in  materia  di  difesa  del  suolo  e  lotta alla
desertificazione» - che la disciplina contenuta insiste sulla materia
«governo  del territorio» che l'art. 117, comma terzo, Cost., assegna
alla competenza concorrente.
    Come  codesta  ecc.ma  Corte  ha  ripetutamente  affermato, nelle
materie  concorrenti  lo  Stato  puo'  intervenire esclusivamente con
norme  legislative  di  principio,  e non puo' riservare a se' e alle
proprie  strutture  decentrate  funzioni amministrative che non siano
giustificate  dalla  «chiamata in sussidiarieta» e che, anche qualora
l'attrazione   al   centro   di   funzioni  «unitarie»  possa  essere
giustificato  in  nome  del  principio di sussidiarieta' o qualora il
particolare  intreccio  di  competenze (coinvolgente anche competenze
esclusive  dello  Stato, ex art. 117, comma 2 Cost.) consentisse allo
Stato  di esercitare determinate funzioni amministrative incidenti in
materie  di competenza regionale, tuttavia cio' non puo' avvenire che
nel  rispetto  del principio di leale collaborazione, inteso in senso
«forte»   (e   quindi   attraverso   procedure  di  codecisione,  non
semplicemente   «sentendo»   la   Conferenza  Stato-Regioni),  e  del
principio di proporzionalita'.
    Commisurate   a  tali  parametri,  le  norme  che  sopprimono  le
Autorita' di bacino e istituiscono le nuove Autorita' distrettuali si
rivelano  affette  da  illegittimita'  costituzionale  sotto  diversi
profili.
    In primo luogo, l'unificazione sotto un'unica autorita' di bacini
che   non   hanno   in   realta'   alcuna  correlazione  realizza  un
accentramento  privo  di  qualunque  giustificazione  ed espropria le
regioni  delle  proprie  naturali competenze, in violazione sia della
competenza legislativa di cui all'art. 117 Cost. che del principio di
sussidiarieta'.
    In  secondo  luogo, i distretti stessi sono configurati come enti
amministrativi    sovraregionali,    distorcendo   completamente   la
fisionomia  delle  Autorita'  di  bacino,  cosi' come impostate dalla
legge  n. 183/1989.  Queste infatti erano modellate con riferimento a
dimensioni  idrogeografiche  «naturali»,  che  ne  giustificavano  la
competenza   pianificatoria   e   decisionale,  mentre  la  Autorita'
distrettuali  istituite  dalle  disposizioni  impugnate rappresentano
delle    semplici   articolazioni   burocratico-amministrative,   che
costituiscono  in  realta'  una  sorta  di amministrazione decentrata
dello  Stato  in  cui  la  centralizzazione  amministrativa e' appena
temperata da elementi di partecipazione minoritaria delle regioni.
    Si  consideri  che,  ai sensi della legge n. 183/1989, le regioni
erano  contitolari del governo dei bacini nazionali (configurati come
organismi  a partecipazione mista Stato-regioni) e titolari esclusive
delle  funzioni  relative ai bacini regionali e interregionali. Oggi,
all'opposto,  rappresentanti  delle  regioni  sono  presenti in netta
minoranza   nel   fondamentale   organo  decisionale,  la  Conferenza
istituzionale  permanente  (che nomina anche il Segretario generale),
nonche'  nella  Conferenza operativa, le cui competenze sono peraltro
piuttosto oscure.
    La regola secondo la quale si decide a maggioranza, espressamente
enunciata al comma 4, data la composizione sperequata dell'organo (in
cui  il numero dei rappresentanti dello Stato e' sempre sette, mentre
quello  dei  rappresentanti  delle  regioni dipende da quante regioni
sono  concretamente  coinvolte, ma queste non sono mai pari a sette),
appare  espropriare  le regioni da qualsiasi garanzia giuridica delle
loro prerogative.
    Infine,  se  pure  fosse  giustificata  secondo  il  principio di
sussidiarieta'  la  suddivisione del territorio in distretti privi di
corrispondenza  con precisi bacini fluviali interconnessi, le regioni
non   sono   state   chiamate   ad   esercitare   alcun  ruolo  nella
determinazione  dell'ambito  dei distretti. Va considerato che, sotto
questo profilo, il decreto legislativo non contiene norme generali ed
astratte, ma opera come legge provvedimento, in materia di competenza
regionale.   Secondo  la  stessa  giurisprudenza  di  codesta  Corte,
l'assunzione  in  legge  di decisioni concrete non puo' privare delle
garanzie  previste  dalla  Costituzione: il che vale ugualmente, ed a
maggiore  ragione,  per le competenze delle regioni, alle quali viene
cosi' sottratta ogni possibilita' di codecisione.
    B)  Specifica  illegittimita'  del potere normativo attribuito al
decreto del Presidente del Consiglio dall'art. 63, commi 2 e 3.
    Si  deve  poi  specificamente evidenziare che, come detto, che al
d.P.C.m.  e' attribuita anche una funzione regolamentare (v. art. 63,
commi 2 e 3).
    Innanzitutto,    si    tratta    di    un'attribuzione   connessa
all'accorpamento  dei  distretti,  illegittima  per le stesse ragioni
sopra esposte.
    Se  essa  potesse  essere  giustificata  in nome del principio di
sussidiarieta', il corrispondente potere andrebbe comunque esercitato
d'intesa   con   la  Conferenza  Stato-regioni,  la  quale  non  puo'
semplicemente essere «sentita»
    C) Specifica illegittimita' della soppressione delle Autorita' di
bacino  a  partire  dal 30 aprile, in relazione all'impossibilita' di
dettare entro tale termine la disciplina transitoria.
    Inoltre,  tale  potere  normativo risulta dover essere esercitato
... in un solo giorno: non prima del 29 aprile 2006, perche' la norma
autorizzativa  del  decreto legislativo non sarebbe ancora in vigore,
ma   neppure   dopo  il  30  aprile,  perche'  le  norme  transitorie
interverrebbero  ... ad Autorita' di bacino gia' venute meno ai sensi
del  comma 3.  Dietro  tale assurdita', tuttavia, si cela la ben piu'
sostanziale  illegittimita'  della  norma che prevede la soppressione
delle  Autorita' di bacino a partire dal 30 aprile, prima che possano
essere  definite  le  fasi  di  transizione, se pure il nuovo sistema
fosse  legittimo.  La  soppressione delle Autorita' di bacino decorre
dallo  stesso  30 aprile, per cui e' evidente che l'emanazione di una
normativa   transitoria  diviene  pressoche'  impossibile,  dato  che
l'emanazione  del  d.P.C.m.  e'  soggetta ad una procedura complessa,
descritta  dall'art. 63,  comma  2, nel corso della quale deve essere
sentita la Conferenza permanente Stato-regioni.
    A  prescindere  dalla  gia'  lamentata insufficienza di una forma
cosi' tenue di «cooperazione», vi e' il rischio - ma si dovrebbe dire
la  certezza  -  che  la  soppressione  immediata  delle Autorita' di
bacino,  in  assenza di una regolazione transitoria - apra un periodo
di  incertezza  sulle  competenze ad emanare gli atti e a svolgere le
funzioni di gestione, vigilanza e controllo che le Autorita' svolgono
da  tempo a tutela degli interessi pubblici fondamentali che hanno in
cura.
    D)  Illegittimita' costituzionale degli articoli 63 e 64 sotto il
profilo della violazione della legge di delega.
    Va  altresi'  evidenziata  l'eccesso  di  delega in relazione sia
all'oggetto di essa che ai principi e criteri direttivi fissati dalla
legge di delega.
    Infatti,  quanto  all'oggetto,  va  sottolineato  che  la dizione
«riordino,    coordinamento   e   integrazione   delle   disposizioni
legislative...,  anche mediante la redazione di testi unici» (art. 1,
comma 1, legge n. 308/2004), fa riferimento alle classifiche funzioni
di coordinamento normativo, preordinate ad una mera razionalizzazione
della   legislazione   vigente.   Come   codesta   ecc.ma   Corte  ha
sistematicamente  ripetuto  (cfr. da ultimo le sentenza nn. 303/2005,
66/2005,  280/2004),  «la  revisione  e  il  riordino, ove comportino
l'introduzione  di  norme  aventi  contenuto innovativo rispetto alla
disciplina previgente, necessitano della indicazione di principi e di
criteri   direttivi   idonei   a   circoscrivere  le  diverse  scelte
discrezionali  dell'esecutivo, mentre tale specifica indicazione puo'
anche  mancare  allorche'  le nuove disposizioni abbiano carattere di
sostanziale conferma delle precedenti» (sent. n. 66/2005, che cita il
precedente  della  sent. 354/1998). Nel presente caso l'oggetto della
delega  prevede  solo il «riordino» neppure la «revisione» per cui la
massima espressa dalla giurisprudenza costituzionale va applicata con
ancora maggiore rigore.
    Accanto  a  cio',  nel definire i contorni del potere legislativo
delegato, la legge 308 (art. 1, comma 8) indica innanzi ad ogni altro
criterio   «il   rispetto...   delle  competenze  per  materia  delle
amministrazioni  statali,  nonche' delle attribuzioni delle regioni e
degli  enti  locali,  come  definite ai sensi dell'articolo 117 della
Costituzione,  della  legge  15  marzo  1997,  n. 59,  e  del decreto
legislativo  31  marzo  1998,  n. 112»:  e'  percio'  evidente che il
legislatore  delegato  era  tenuto  a  non modificare il quadro delle
attribuzioni regionali - quadro che invece, come si e' visto, risulta
gravemente  compromesso  dalle  scelte  compiute  dalle  disposizioni
censurate.
    D'altro  canto,  nessuno  dei  «principi e criteri direttivi» poi
elencati dall'art. 1, comma 8, autorizza un'innovazione legislativa e
amministrativa  come  quella  apportata dalla sovversione del sistema
delle  Autorita'  di  bacino. Tra i principi e criteri direttivi piu'
specifici dettati dal comma 9 si trova invece questa indicazione:
        «c)   rimuovere   i   problemi  di  carattere  organizzativo,
procedurale e finanziario che ostacolino il conseguimento della piena
operativita'  degli  organi  amministrativi  e  tecnici preposti alla
tutela  e  al  risanamento  del  suolo e del sottosuolo, superando la
sovrapposizione  tra i diversi piani settoriali di rilievo ambientale
e  coordinandoli  con  i piani urbanistici; valorizzare il ruolo e le
competenze  svolti  dagli  organismi  a  composizione mista statale e
regionale;   adeguare   la   disciplina   sostanziale  e  procedurale
dell'attivita'  di  pianificazione,  programmazione  e  attuazione di
interventi  di risanamento idrogeologico del territorio e della messa
in   sicurezza  delle  situazioni  a  rischio;  prevedere  meccanismi
premiali  a  favore  dei proprietari delle zone agricole e dei boschi
che  investono  per prevenire fenomeni di dissesto idrogeologico, nel
rispetto  delle  linee  direttrici  del  piano di bacino; adeguare la
disciplina   sostanziale   e  procedurale  della  normativa  e  delle
iniziative   finalizzate  a  combattere  la  desertificazione,  anche
mediante  l'individuazione  di  programmi  utili a garantire maggiore
disponibilita'   della  risorsa  idrica  e  il  riuso  della  stessa;
semplificare   il  procedimento  di  adozione  e  approvazione  degli
strumenti  di  pianificazione con la garanzia della partecipazione di
tutti  i  soggetti istituzionali coinvolti e la certezza dei tempi di
conclusione dell'iter procedimentale».
    Come  si  vede,  la  legge  di  delega  presuppone  piuttosto  il
mantenimento  ed il miglioramento della funzionalita' degli organismi
esistenti,   fondati   sull'unita'   dei  bacini  idrografici,  senza
prevederne  o  consentirne  affatto la soppressione e la sostituzione
con  un sistema radicalmente diverso, ispirato a principi divergenti,
che avrebbero dovuto in ogni caso essere enunciati.
    La  legge  di  delega,  dunque,  non  consente  una  legislazione
delegata  che  sovverte l'ordinamento amministrativo introdotto dalla
legge  n. 189/1989  e  lo sostituisce con un sistema centralistico di
gestione  delle politiche di tutela idrogeologica del territorio, per
lo   piu'   causando  un  periodo  di  grave  incertezza  nella  fase
transitoria  e  esautorando  le regioni, sostituendo il sistema della
Autorita'  di  bacino con una «zonizzazione» del territorio nazionale
dominata da un sistema di gestione affidato ad un complesso di organi
collegiali inediti e sperequanti.
    Si   consideri  che  la  violazione  della  legge  di  delega  si
identifica in questo caso con la lesione delle prerogative regionali,
e che il motivo e' dunque perfettamente ammissibile.
    6) Illegittimita' dell'art. 65, comma 3, lettera e).
    L'art. 65  regola  il contenuto del piano di bacino distrettuale.
Il  comma  3  stabilisce che «il Piano di bacino, in conformita' agli
indirizzi,   ai  metodi  e  ai  criteri  stabiliti  dalla  Conferenza
istituzionale   permanente   di  cui  all'articolo  63,  comma  4,...
contiene..,  e)  la  programmazione  e  l'utilizzazione delle risorse
idriche, agrarie, forestali ed estrattive».
    Dunque,  l'art. 65,  comma 3, lett. e) espropria le regioni delle
funzioni  relative alla programmazione ed utilizzazione delle risorse
idriche, agrarie, forestali ed estrattive; a riprova di cio', si puo'
notare  che  il  d.lgs.  n. 152/2006 non menziona il Piano regolatore
generale  degli acquedotti (previsto dalla legge n. 129/1963 e la cui
modifica   ed   aggiornamento  sono  stati  attribuiti  alle  regioni
dall'art. 90, comma 2, lett. a) d.P.R. n. 616/1977).
    La disposizione viola, dunque, l'art. 118, comma 1, in quanto, in
materie di competenza regionale piena o concorrente, assegna un ruolo
preponderante  ad  un  atto  al quale le regioni partecipano ormai in
misura   assai   limitata   (si  veda  quanto  esposto  in  relazione
all'art. 63,  comma 4): ne consegue la violazione dell'art. 118 Cost.
e del principio di leale collaborazione.
    7) Illegittimita' dell'art. 95, comma 5, prima parte.
    L'art. 95  disciplina  la  pianificazione del bilancio idrico. Il
comma 1 stabilisce che «la tutela quantitativa della risorsa concorre
al   raggiungimento   degli  obiettivi  di  qualita'  attraverso  una
pianificazione  delle  utilizzazioni  delle  acque  volta  ad evitare
ripercussioni  sulla  qualita' delle stesse e a consentire un consumo
idrico sostenibile»; il comma 2 dispone che «nei piani di tutela sono
adottate  le  misure  volte  ad  assicurare l'equilibrio del bilancio
idrico  come  definito  dalle Autorita' di bacino, nel rispetto delle
priorita'  stabilite  dalla  normativa  vigente  e  tenendo conto dei
fabbisogni,  delle  disponibilita', del minimo deflusso vitale, della
capacita'  di  ravvenamento  della  falda  e delle destinazioni d'uso
della risorsa compatibili con le relative caratteristiche qualitative
e  quantitative.».  Il comma 5, poi, statuisce che, «per le finalita'
di  cui  ai  commi  1  e  2,  le  Autorita'  concedenti effettuano il
censimento  di  tutte  le  utilizzazioni  in  atto nel medesimo corpo
idrico  sulla  base dei criteri adottati dal Ministro dell'ambiente e
della tutela del territorio con proprio decreto, previa intesa con la
Conferenza  permanente  per  i rapporti tra lo Stato, le regioni e le
province  autonome  di  Trento  e  di  Bolzano»  e  che  «le medesime
Autorita'  provvedono successivamente, ove necessario, alla revisione
di tale censimento, disponendo prescrizioni o limitazioni temporali o
quantitative,  senza  che cio' possa dar luogo alla corresponsione di
indennizzi  da  parte  della pubblica amministrazione, fatta salva la
relativa riduzione del canone demaniale di concessione».
    La materia della tutela quantitativa della risorsa idrica e della
pianificazione  dell'utilizzazione  di  essa rientra nella competenza
regionale  ed  e' gia' regolata a livello regionale; lo stesso d.lgs.
n. 152/2006   attribuisce   il  Piano  di  tutela  delle  acque  alla
competenza regionale (art. 121, commi 2 e 5).
    L'art. 95,  comma  5,  modifica  illegittimamente  la  disciplina
dettata   dall'art. 22,   comma   6,  d.lgs.  n. 152/1999,  che  gia'
consentiva  alle  Autorita'  concedenti  di limitare le utilizzazioni
idriche;  la  norma  ha  rappresentato  un  importante  strumento per
preservare  la  priorita'  dell'uso  umano potabile rispetto ad altri
usi.  La  norma  impugnata  introduce  la  necessita'  di  non meglio
precisati   «criteri»   che  devono  essere  prefissati  con  decreto
ministeriale.  In  questo  modo,  l'applicabilita'  della norma resta
bloccata fino all'adozione dei criteri in questione.
    Essa lede le competenze regionali (in violazione degli artt. 117,
terzo  comma,  e  118  Cost.),  sia  nel caso in cui si ritenga che i
«criteri»  siano sostanzialmente un atto di indirizzo e coordinamento
in  materia  regionale (tali atti non sono piu' ammessi dopo la legge
cost.  n. 3/2001:  v.,  oltre  alla  dottrina  prevalente,  le sentt.
n. 324/2005  e  n. 329/2003  e  l'art. 8, comma 6, legge n. 131/2003;
comunque,   l'atto  di  indirizzo  e  coordinamento  dovrebbe  essere
adottato  con  delibera  del Consiglio dei ministri), sia nel caso in
cui  si ritenga che essi siano un atto sostanzialmente regolamentare:
infatti,  non sarebbe certo possibile evitare il nomen di regolamento
per  eludere  l'applicazione  dell'art. 117, Cost.; quando un atto ha
natura  sostanzialmente  normativa, esso va considerato regolamento e
soggetto  alle norme relative (v., per la necessita' di usare criteri
«sostanziali» le sentt. n. 88/2003, n. 186/2003 e n. 12/2004).
    Inoltre,   poiche'   non  si  comprende  l'utilita'  dei  criteri
ministeriali,  l'art. 95,  comma  5,  prima  parte  viola la legge di
delega,  in particolare l'art. 1, comma 9 (principio di economicita),
e  l'art. 1,  comma  9,  lett.  b)  (principio  di  semplificazione e
rispetto  degli  obiettivi  fondamentali  della  legge  n. 6/1994, in
quanto  viene  compromessa la tutela della priorita' dell'uso umano).
Questa  violazione  dell'art. 76  Cost.  si  traduce in lesione delle
competenze regionali, dato che la previsione dei criteri ministeriali
costituisce  un  vincolo  per l'attivita' amministrativa regionale ed
interferisce con l'autonomia normativa della Regione.
    8) Illegittimita' dell'art. 96, comma 1.
    Il   comma  1  dell'art. 96  riscrive  l'art. 7  del  T.U.  delle
disposizioni  sulle  acque  e  impianti  elettrici, apportando alcune
modificazioni  al  testo  introdotto dal d.lgs. n. 152/1999 (art. 23,
comma   1  che  incidono  sul  procedimento  per  il  rilascio  delle
concessioni  di acqua pubblica. Il nuovo testo dispone che le domande
relative sia alle grandi sia alle piccole derivazioni siano trasmesse
alle  Autorita'  di  bacino territorialmente competenti che, entro il
termine  rispettivamente  di novanta e di quaranta giorni «comunicano
il  proprio  parere  vincolante  al  competente Ufficio istruttore in
ordine  alla compatibilita' della utilizzazione con le previsioni del
Piano  di  tutela, ai fini del controllo sull'equilibrio del bilancio
idrico  o  idrologico,  anche  in  attesa  di  approvazione del Piano
anzidetto».  La norma dispone ancora che, «decorsi i predetti termini
senza che sia intervenuta alcuna pronuncia, il Ministro dell'ambiente
e  della tutela del territorio nomina un ad acta che provvede entro i
medesimi termini decorrenti dalla data della nomina».
    Si  deve  osservare  (oltre  alla  singolarita' del fatto che sia
l'Autorita'  di  bacino  a dare il parere vincolante sul rispetto del
Piano  di  tutela  approvato  dalla  regione) che le competenze della
regione  Umbria  sono  concretamente  incise  dalla norma contestata:
infatti  la regione ha adottato una propria disciplina procedimentale
con  la  legge  n. 5/2006, in attuazione del conferimento di funzioni
operato con il d.lgs. n. 112/1998.
    In  particolare,  la previsione che le nuove Autorita' di Bacino,
ora  connotate  da una composizione a predominanza statale, esprimano
sulle  grandi  derivazioni  il  parere  in  un  termine  che passa da
quaranta a novanta giorni e che esso sia vincolante, e che in caso di
mancata espressione del parere non operi piu' il silenzio assenso, ma
si proceda alla nomina di un commissario ad acta che ha altri novanta
giorni  per  esprimersi,  da  un lato sottrae alle regioni competenze
gia'  loro  spettanti, dall'altro comporta una enorme dilatazione dei
tempi,   in   aperto   contrasto   quindi   con   gli   obiettivi  di
semplificazione  indicati  dalla  legge  di  delega (art. 1, comma 9,
lett. b).
    Nonostante  la  materia  della  gestione di tali procedimenti sia
gia'   stata   delegata   alle  regioni  (art. 86  -  89  del  d.lgs.
n. 112/1998),  le  competenze  regionali  sono completamente ignorate
dalla  disciplina  impugnata, sicche' anche sotto questo profilo essa
appare  lesiva della stessa legge di delega che impone al legislatore
delegato  il  rispetto  del riparto di competenze fissato dal decreto
n. 112/1998.
    L'art. 96,  comma 1, dunque, viola l'art. 117, commi 3 e 4, Cost.
(perche'  la disciplina statale si sovrappone a quella adottata dalla
regione),   l'art. 118,   comma   1  (perche'  prevede  una  funzione
amministrativa statale in violazione del principio di sussidiarieta),
e  l'art. 76  Cost.,  perche'  viola  la legge di delega menomando la
posizione regionale.
    9) Illegittimita' dell'art. 101, comma 7.
    L'art. 101,  comma  7, derogando ad un criterio consolidato da un
trentennio,  assimila  alle  acque  reflue  domestiche  gli  scarichi
derivanti  dalle imprese agricole includendo in esse anche quelle che
svolgono  attivita'  di  trasformazione o valorizzazione dei prodotti
agricoli,   purche'   tale   attivita',  inserita  con  carattere  di
normalita'   e  complementarieta'  funzionale  nel  ciclo  produttivo
aziendale,  riguardi  materia  prima  lavorata  proveniente in misura
prevalente dall'attivita' di coltivazione dei terreni di cui si abbia
a qualunque titolo la disponibilita'.
    Si   tratta   di   attivita'   i  cui  reflui  possono  avere  un
considerevole  impatto  ambientale:  si  considerino,  ad esempio, le
cantine vinicole o i caseifici che producono su scala industriale.
    In  precedenza  il  decreto legislativo n. 152/1999 «Disposizioni
sulla  tutela  delle  acque  dall'inquinamento  e  recepimento  della
direttiva  91/271/CEE  concernente  il trattamento delle acque reflue
urbane  e  della  direttiva 91/676/CEE relativa alla protezione delle
acque  dall'inquinamento  provocato  dai nitrati provenienti da fonti
agricole») fissava all'art. 28, comma 7, lett. c), un criterio certo,
che  imponeva  un preciso rapporto minimo tra materia prima derivante
dalla  propria  produzione  e  materia  prima derivante da produzioni
altrui:  ora,  la disposizione impugnata sostituisce il limite minimo
di  2/3 con il concetto elastico di «misura prevalente». Si tratta di
un  criterio  discrezionale,  che  nella  pratica  corrente favorisce
comportamenti  della  P.A.  che  possono  determinare  disparita'  di
trattamento.
    In  mancanza  di criteri certi e verificabili, l'incoerente o non
appropriata classificazione degli scarichi delle imprese agricole che
esercitano  anche  attivita' di trasformazione dei prodotti agricoli,
di  norma  caratterizzati  da  carichi  inquinanti elevati, determina
l'applicazione  di  livelli di trattamento meno rigorosi, in quanto -
ad  esempio  -  i  reflui  vengano  classificati domestici invece che
industriali:  con  conseguenti effetti negativi sulle caratteristiche
di  qualita'  delle  acque  del  corpo recettore (ad esempio il corso
d'acqua),  il  mancato  raggiungimento  degli  obiettivi  di qualita'
fissati dalle norme comunitarie e il conseguente danno all'ambiente.
    La  disposizione  impugnata  provoca  dunque  una  riduzione  del
livello  di  tutela  delle  acque  e contraddice percio' i principi e
criteri  direttivi  fissati dalla legge di delega: sia quello di «non
innovativita»  (art. 1,  comma 1) sia quello del «miglioramento della
qualita'   dell'ambiente,   della   protezione  della  salute  umana,
dell'utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali» (lett.
a)   dell'art. 1,  comma  8),  e  inoltre  quello  del  «pianificare,
programmare  e  attuare interventi diretti a garantire la tutela e il
risanamento  dei  corpi  idrici  superficiali  e  sotterranei, previa
ricognizione degli stessi» (lett. b) del successivo comma 9).
    Essa  inoltre incide negativamente sulle funzioni attribuite alla
regione  gia' dalla legislazione di settore e dal decreto legislativo
n. 112/1998,  e  cio'  ancora una volta si riflette in violazione del
preciso vincolo posto dalla legge di delega (art. 1, comma 8).
    Inoltre,  la disposizione censurata minaccia di provocare effetti
irreversibili  sul controllo dei reflui e sulla qualita' delle acque,
gravemente  minacciando  gli  interessi  pubblici  ambientali  che la
regione  ha  in  carico, sia pure non in via esclusiva, nonche' della
tutela  del  territorio  e  della  salute  umana, che rientrano nelle
competenze concorrenti fissate dall'art. 117, terzo comma, Cost.
    10)  Illegittimita' degli artt. 148, 149, 153, comma 1, 154, 155,
160, 166, comma 4.
    Nell'ambito   della   Parte   Terza   del  decreto  impugnato  il
legislatore  statale  disciplina,  alla  Sezione  Terza, la «Gestione
delle  risorse  idriche»  ivi  compreso,  al  Titolo II, il «Servizio
idrico integrato».
    La  disciplina  di  tale  servizio, come e' noto e come meglio si
dira',   spetta   alle  secondo  il  riparto  di  competenze  di  cui
all'art. 117  Cost.  Ed infatti, nel tentativo di dare individuare il
fondamento costituzionale della potesta' legislativa cosi' esercitata
il  legislatore  statale  precisa subito che la propria disciplina e'
limitata  ai  «profili che concernono la tutela dell'ambiente e della
concorrenza   e   la  determinazione  dei  livelli  essenziali  delle
prestazioni  del  servizio idrico integrato e delle relative funzioni
fondamentali  di  comuni, province e citta' metropolitane» (art. 141,
comma 1, d.lgs. n. 152/2006).
    Sennonche',  se  dall'astratta enunciazione dell'art. 141 cit. si
passano  ad  esaminare in concreto le successive disposizioni dettate
dal  legislatore  statale,  ci  si  avvede  immediatamente  che  esse
travalicano di gran lunga i legittimi ambiti di intervento statale.
    Appare  infatti  del  tutto  evidente come la normativa statale -
quando non risulta ictu oculi del tutto estranea rispetto agli ambiti
indicate  all'art. 141,  comma  1  - sia stata comunque emanata senza
tenere  nel  dovuto  conto  il riparto costituzionale, come precisato
dalla  giurisprudenza  di  codesta  ecc.ma Corte costituzionale: cio'
tanto  -  in  via  generale  -  con riguardo alla ricostruzione delle
«materie»   di   cui  all'art. 117,  secondo  comma,  Cost.  (evocate
all'art. 141,  comma  1,  d.lgs.  n. 152/2006: ambiente, concorrenza,
livelli  essenziali  della  prestazioni) operata dalla giurisprudenza
costituzionale  nel  corso  di questi ultimi anni, quanto - a livello
particolare    -    con   riferimento   specifico   all'inquadramento
costituzionale  del  servizio idrico integrato, del quale la Corte ha
avuto recentemente occasione di occuparsi.
    Con   riferimento   al   primo   dei  due  profili  indicati  (la
ricostruzione  delle materie), va infatti innanzitutto osservato come
i  titoli  di  competenza invocati dal legislatore statale consistano
non  gia'  in  «normali  materie» di cui all'art. 117, secondo comma,
Cost.  (le  quali legittimerebbero una competenza statale legislativa
esclusiva)  ma piuttosto in «materie trasversali» le quali - come ben
noto - se da un lato consentono un intervento statale con riferimento
a qualunque materia, ivi comprese quelle riservate ex art. 117, comma
4,  alla competenza esclusiva regionale, dall'altro, proprio per tale
ragione,    impongono   che   l'intervento   statale   sia   limitato
tassativamente  alla  disciplina di quanto e' strettamente necessario
al  conseguimento della finalita' culla clausola trasversale medesima
e'  preordinata:  pena,  in  caso  contrario,  il fin troppo evidente
sostanziale svuotamento di qualunque prerogativa costituzionale delle
regioni.
    Tali  principi  sono gia' stati bene e chiaramente evidenziati da
parte di codesta Corte.
    Cosi',  innanzitutto,  con riferimento alla materia della «tutela
dell'ambiente» (art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.), la Corte
ha  chiarito  inequivocabilmente  come  sia  da escludere che essa si
configuri  come  «"materia"  in  senso  tecnico» riconducibile ad una
sfera  di competenza statale rigorosamente circoscritta e delimitata,
giacche'  al contrario, essa investe e si intreccia inestricabilmente
con  altri  interessi  e  competenze.  Secondo  la Corte, «e' agevole
ricavare     una    configurazione    dell'ambiente    come    valore
costituzionalmente  protetto,  che, in quanto tale, delinea una sorta
di   materia  «trasversale»  in  ordine  alla  quale  si  manifestano
competenze  diverse, che ben possono essere regionali, spettando allo
Stato  le  determinazioni  che  rispondono  ad esigenze meritevoli di
disciplina  uniforme  sull'intero  territorio nazionale» (Corte cost.
407-2002  punto  3.2 in diritto). Tale conclusione, del resto, emerge
anche  dai  lavori  preparatori  della legge cost. n. 3/2001, i quali
inducono  «a  considerare  che  l'intento  del  legislatore sia stato
quello  di  riservare  comunque  allo  Stato  il  potere  di  fissare
standards  di tutela uniformi sull'intero territorio nazionale, senza
peraltro  escludere  in  questo  settore la competenza regionale alla
cura  di  interessi  funzionalmente collegati con quelli propriamente
ambientali  di  modo  che  «si puo' quindi ritenere che riguardo alla
protezione  dell'ambiente non si sia sostanzialmente inteso eliminare
la  preesitente pluralita' di titoli di legittimazione per interventi
regionali  diretti  a  soddisfare  contestualmente, nell'ambito delle
proprie competenze, ulteriori esigenze rispetto a quelle di carattere
unitario  definite dallo Stato» (ancora Corte cost. n. 407-2002 cit.,
punto 3.2 in diritto).
    Considerazioni  analoghe  valgono  anche  per  quanto riguarda la
«tutela della concorrenza» (art. 117, secondo comma lett. e), Cost.),
la  quale  e'  stata  parimenti qualificata da codesta Corte come una
«materia-funzione», caratterizzata da un'estensione non rigorosamente
circoscritta  e  determinata,  ma piuttosto «trasversale» dal momento
che  «si  intreccia  inestricabilmente  con  una  pluralita' di altri
interessi  -  alcuni  dei  quali rientranti nella sfera di competenza
concorrente   o   residuale  delle  regioni»:  dal  che  consegue  la
necessita' «di basarsi sul criterio di proporzionalita-adeguatezza al
fine   di  valutare,  nelle  diverse  ipotesi,  se  la  tutela  della
concorrenza legittimi o meno determinati interventi legislativi dello
Stato» Corte cost. n. 272/2004, punto 3 in diritto).
    Quanto   alla   «determinazione   dei  livelli  essenziali  delle
prestazioni  concernenti i diritti civili e sociali che devono essere
garantiti su tutto il territorio nazionale» (art. 117, secondo comma,
lett.  m)  Cost.) essa appare del tutto estranea rispetto all'oggetto
delle  disposizioni  statali relative al servizio idrico: e del resto
codesta  Corte  ha  gia'  pacificamente escluso che essa possa essere
invocata  per  giustificare  una  competenza  statale  in  materia di
servizi  pubblici  locali  quale  e' appunto il servizio idrico (cfr.
Corte  cost. 272-2004). Le motivazioni di tale esclusione si adattano
perfettamente  al  caso  presente:  anche  la  disciplina dei servizi
idrici  recata  dalle  disposizioni qui impugnate infatti - come gia'
quella  di cui all'art. 113, comma 7, secondo e terzo periodo, d.lgs.
n. 267/2000  - «riguarda precipuamente servizi di rilevanza economica
e  comunque  non  attiene  alla determinazione di livelli essenziali»
(Corte cost. n. 272/2004 punto 3 in diritto).
    A conclusioni corrispondenti si deve giungere per quanto riguarda
la materia relativa alle «funzioni fondamentali di comuni, province e
citta'  metropolitane»  di cui all'art. 117, secondo comma, lett. p),
Cost.,  pure  invocata  dal  decreto  legislativo: considerato che la
gestione  dei  servizi  pubblici  locali  non puo' certo considerarsi
esplicazione  di  una  funzione  propria  ed  indefettibile dell'ente
locale» (ancora Corte cost. n. 272/2004, punto 3 in diritto).
    Quanto  allo  specifico  profilo  relativo  all'inquadramento del
servizio  idrico,  va  osservato  come - nel corso dello scrutinio di
costituzionalita' di una legge regionale avente ad oggetto proprio il
servizio  idrico  integrato  - la Corte abbia avuto recentissimamente
modo  di  stabilire in modo assolutamente chiaro come «la materia dei
servizi  pubblici  locali  ...  appartiene  alla competenza residuale
delle regioni» (Corte cost. n. 29/2006, punto 7 in diritto).
    Risulta  pertanto  inesatta nel decreto legislativo qui impugnato
anche  la collocazione della competenza regionale - nei limiti in cui
essa  e'  riconosciuta - nel solo ambito del «governo del territorio»
(cfr.  art. 142,  comma  2).  Tale  disposizione,  se  pure mostra la
consapevolezza  dell'impossibilita'  di  ricondurre l'intero fenomeno
del servizio idrico integrato alla sola competenza esclusiva statale,
risulta  anch'essa - come e' evidente dal confronto con quanto appena
illustrato - estremamente riduttiva della competenza regionale.
    In  tale  contesto,  risulta  dunque ampiamente confermato quanto
sopra  indicato:  cioe'  che  e' innegabile la presenza di competenze
legislative  regionali  costituzionalmente riconosciute in materia di
servizio  idrico integrato (per di piu', competenze di tipo esclusivo
di  cui  all'art. 117,  quarto  comma  Cost.), con la conseguenza che
l'operativita'    delle    richiamate   «clausole   trasversali»   (o
«materie-funzione»)  di cui all'art. 117, secondo comma, Cost., se da
un  lato  e'  ben  in grado di fondare una concorrente legittimazione
normativa  statale,  deve tuttavia tenere necessariamente conto delle
intrecciate competenze regionali, e deve dunque essere esercitata nel
rispetto dei principi di proporzionalita' e adeguatezza, dunque nella
misura  strettamente  necessaria  ad assicurare la finalita' indicate
dalle citate «clausole trasversali».
    Ad  avviso  della  ricorrente  regione,  i limiti dell'intervento
statale  sono  stati  superati  in  particolare nelle disposizioni di
seguito indicate.
    I) Illegittimita' costituzionale dell'art. 148, comma 5.
    L'art. 148,  comma  5,  prevede  la possibilita' che i comuni con
meno di 1.000 abitanti inclusi nel territorio della comunita' montane
possano  -  a  determinate  condizioni - scegliere di non partecipare
alla gestione unica del servizio idrico integrato.
    Tale  previsione  non trova manifestamente alcun fondamento nelle
clausole   trasversali   pure   evocate   dal   legislatore   statale
all'art. 141,  primo  comma,  per  fondare  la competenza legislativa
statale,   essendo  al  contrario  a  prima  vista  evidente  la  sua
irriconducibilita' sia alla materia della tutela dell'ambiente, sia a
quella  della  concorrenza, sia a quella relativa alla determinazioni
dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili
e sociali, sia infine a quella relativa alle funzioni fondamentali di
comuni, province e citta' metropolitane.
    Ne   consegue   che   essa  disposizione  finisce  per  rivelarsi
unicamente   un'indebita   compressione  della  potesta'  legislativa
regionale  in  materia  di  servizi pubblici locali, come definita da
codesta Corte con la citata sentenza 29/2006.
    La  disposizione  dunque  compie  scelte  che  sono  riservate al
legislatore  regionale.  Si  aggiunga  che  tali scelte costituiscono
anche  violazione  del principio di ragionevolezza (ex art. 3 Cost.),
in quanto adottata senza tenere conto dei potenziali effetti negativi
che essa in grado di produrre.
    Al  riguardo si consideri che nel territorio della Regione Umbria
i  comuni potenzialmente interessati da tale previsione sono piu' del
10  del  totale  dei  comuni,  per  di piu' collocati in zone da cui
partono alcuni dei piu' importanti acquedotti di interesse regionali:
di   modo   che   l'uscita  dei  comuni  in  questione  comporterebbe
necessariamente  una  riorganizzazione  dell'intero  servizio  idrico
incredibilmente    irrazionale,   complessa   e   difficoltosa,   con
conseguenti  disservizi  per  tutti gli utenti e gravi diseconomie di
gestione.
    Sia  invece  consentito  osservare come la decisione sugli ambiti
concreti  e  sulle modalita' gestionali ed organizzative del servizio
costituiscano   invece   il   contenuto   specifico  della  affermata
competenza regionale esclusiva in materia di servizi pubblici locali,
dimostrando  ulteriormente  - se ve ne fosse bisogno - l'opportunita'
che  la  regolazione di aspetti ditale genere avvengano ad un livello
di  governo  in  grado  di  valutare realmente gli effetti dei propri
atti, anziche' venire calati arbitrariamente dall'alto, in assenza di
una  precisa  consapevolezza  del  contesto  sul  quale  si  viene ad
incidere.
    Sotto   altro   profilo,   la  disposizione  in  parola  e'  pure
incostituzionale  per  eccesso  di  delega,  poiche'  introduce in un
decreto  delegato  di  mero  «riordino, coordinamento e integrazione»
della  materia (cfr. art. 1, comma 1, n. 308/2004) una previsione del
tutto  nuova, che innova radicalmente rispetto al sistema della legge
Galli  (legge  n. 16/1994)  senza  che  nel  testo  della  delega sia
possibile rinvenire un reale fondamento a tale potere.
    II) Illegittimita' costituzionale dell'art. 149, comma 6.
    L'art. 149, comma 6, prevede un potere di controllo nei confronti
della   «Autorita'  d'ambito  territoriale  ottimale»  affidato  alla
«Autorita'   di  vigilanza  sulle  risorse  idriche  e  sui  rifiuti»
organismo   i   cui  componenti,  ex  art. 159  dello  stesso  d.lgs.
n. 152/2006,  sono  largamente  espressione  statale.  Tale potere si
concretizza  non  solo  nella  possibilita' di formulare «rilievi» ed
«osservazioni»,   ma   altresi'   in  quella  di  dettare  specifiche
rescrizioni   concernenti   il   programma   degli   interventi,  con
particolare    riferimento    all'adeguatezza    degli   investimenti
programmati  in  relazione  ai livelli minimi di servizio individuati
quali obiettivi della gestione, il piano finanziario, con particolare
riferimento  alla  capacita'  dell'evoluzione tariffaria di garantire
l'equilibrio economico finanziario della gestione, anche in relazione
agli investimenti programmati».
    Anche in questo caso si tratta di ambiti certamente estranei alle
materie  di  cui  all'art. 141, comma 1, d.lgs. n. 52/2006 (oltre che
ovviamente  alle  altre  materie  di  cui all'art. 117, secondo comma
Cost.):  con  conseguente  violazione dell'art. 117, secondo e quarto
comma.
    In  secondo  luogo,  l'attribuzione all'Autorita' di vigilanza di
funzioni  amministrative  di  controllo  e prescrittive in assenza di
reali  motivi  che  ne  giustifichino un'attrazione a livello statale
costituisce  al contempo violazione dell'art. 118, primo comma Cost.,
oltre  a  risultare  al lesiva delle potesta' di controllo regionali,
che  nel  caso  della  Regione  Umbria  sono  gia' state disciplinate
dall'art. 12 della legge regionale 5 dicembre 1997, n. 43.
    E'  al  contrario  evidente  che  una  realta'  quale  quella del
servizio   idrico  integrato  si  riferisce  ad  una  dimensione  che
trascende  l'ambito  puramente  locale,  ma e' pienamente compresa in
quello  regionale,  e  non  richiede affatto un esercizio unitario di
funzioni   amministrative   a   livello   statale.   In   ogni  caso,
un'attrazione  di  tali potesta' ad opera della Stato potrebbe essere
consentita  - ricorrendone i presupposti sostanziali (cosa che non e'
nel  presente  caso  -  previo  reale  coinvolgimento  delle  regioni
nell'esercizio  del  potere,  in ossequio al principi indicati con la
nota sentenza n. 303/2003 della Corte cost.
    Anche  a non considerare quanto finora osservato, la disposizione
in  questione  risulta in ogni caso ulteriormente incostituzionale in
quanto  emanata in violazione dell'art. 76 Cost. per contrasto con la
legge  di delega. Cio' non soltanto per il carattere innovativo della
disposizione rispetto alla legge Galli (nei termini gia' indicati con
riferimento  all'articolo  precedente), ma in questo caso anche sotto
un  diverso  profilo.  L'attribuzione  delle  funzioni amministrative
all'Autorita' di vigilanza, infatti, risulta anche in contrasto con i
disposti di cui al d.lgs. n. 112/1998, ai quali invece avrebbe dovuto
necessariamente  conformarsi  giusta  quanto  disposto  dal  comma  8
dell'art. 1 della legge di delega. Dall'esame dell'art. 88 del d.lgs.
n. 112/1998,  infatti, non si ricavano elementi in grado di includere
le  funzioni  affidate  all'Autorita'  di vigilanza fra i «compiti di
rilievo nazionale» di cui l'articolo si occupa: di modo che non resta
che   riconoscere   che   si   tratta   di   funzione  da  esercitare
necessariamente a livello regionale.
    Anche  sotto  tale  profilo, dunque, la disposizione impugnata si
palesa incostituzionale.
    III) Illegittimita' costituzionale dell'art. 153, comma 1.
    Tale   disposizione   stabilisce   l'affidamento  in  concessione
gratuita  al  gestore  del  servizio  idrico  integrato  di  tutte le
infrastrutture idriche di proprieta' degli enti locali.
    Anche  con  riferimento  a  tale  disposizione  non  e'  dato  di
stabilire  alcun collegamento con i titoli di competenza invocati dal
legislatore  statale all'art. 141, comma 1 del decreto qui impugnato:
dal  che  deriva  il  pieno  esplicarsi  sul  punto  della competenza
esclusiva  residuale  delle regioni di cui all'art. 117, quarto comma
con  conseguente  illegittimita'  dell'arbitrario  sconfinamento  del
legislatore statale.
    Anche  in  questo  caso,  poi,  alla  violazione dei principi che
presiedono  al  riparto  costituzionale  di cui all'art. 117 Cost. si
accompagnano  ulteriori  profili  di  illegittimita'. In primo luogo,
infatti,  la  previsione  in  parola  si  pone  in  contrasto  con il
principio   di   ragionevolezza   nella   misura   in  cui,  sancendo
inderogabilmente  la gratuita' della concessione delle infrastrutture
idriche  di  proprieta'  degli  enti  locali  determina un fin troppo
evidente  danno  a  carico  delle  finanze  dei medesimi enti locali,
privandoli  di  un  introito  certo  che  solo  in misura parziale ed
insufficiente  e' compensato dalla assunzione degli oneri connessi da
parte  dei  gestori.  E'  poi  evidente  che  - nell'ambiguo silenzio
serbato  sul punto dal legislatore delegato - il danno sarebbe ancora
maggiore   e  piu'  evidente  laddove  si  dovesse  ritenere  che  la
disposizione  in  oggetto  abbia  effetto  anche  in  relazione  agli
affidamenti   gia'  in  essere  che  prevedono  la  onerosita'  della
concessione.
    In  secondo luogo, la previsione risulta ancora una volta viziata
da  eccesso  di  delega:  sia  perche'  innovativa rispetto al quadro
normativo che avrebbe dovuto essere meramente «riordinato, coordinato
ed  integrato» sia perche' al contrario risulta in patente violazione
della  criterio  contenuto  nel  comma 1 della legge di delega (legge
n. 308/2004)  ai  sensi  del  quale  dovevano essere evitati «nuovi o
maggiori  oneri  per  la  finanza  pubblica»: cosa che non puo' certo
avvenire  se  si  privano gli enti locali di una fonte d'entrata gia'
ampiamente acquisita.
    IV) Illegittimita' costituzionale degli artt. 154 e 155.
    L'art. 154  istituisce la «Tariffa per il servizio idrico», quale
«corrispettivo del servizio idrico integrato» e fissa i parametri con
cui  essa  deve  essere  determinata,  prescrivendo che debba tenersi
conto  «della  qualita'  della risorsa idrica e del servizio fornito,
delle  opere e degli adeguamenti necessari, dell'entita' dei costi di
gestione   delle  opere,  dell'adeguatezza  della  remunerazione  del
capitale   investito   e   dei   costi  di  gestione  delle  aree  di
salvaguardia,  nonche'  di una quota parte dei costi di funzionamento
dell'Autorita'  d'ambito,  in  modo  che  sia assicurata la copertura
integrale  dei  costi  di  investimento  e  di  esercizio  secondo il
principio  del recupero dei costi e secondo il principio "chi inquina
paga"».
    Di  seguito  la  disposizione  determina le competenze attuative,
attribuendo: al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio,
su  proposta  dell'Autorita' di vigilanza sulle risorse idriche e sui
rifiuti,  il  compito di definire con decreto «le componenti di costo
per  la determinazione della tariffa relativa ai servizi idrici per i
vari  settori  di  impiego  dell'acqua»;  al Ministro dell'economia e
delle  finanze,  di  concerto  con  il Ministro dell'ambiente e della
tutela  del territorio, «al fine di assicurare un omogenea disciplina
sul  territorio nazionale il compito di stabilire «i criteri generali
per  la  determinazione,  da  parte  delle  regioni,  dei  canoni  di
concessione  per  l'utenza di acqua pubblica, tenendo conto dei costi
ambientali  e dei costi della risorsa e prevedendo altresi' riduzioni
del canone nell'ipotesi in cui il concessionario attui un riuso delle
acque   reimpiegando   le  acque  risultanti  a  valle  del  processo
produttivo  o  di  una  parte  dello stesso o, ancora, restituisca le
acque  di  scarico  con  le  medesime  caratteristiche qualitative di
quelle prelevate».
    Vengono  cosi'  previsti  diversi  poteri  normativi ministeriali
sovraordinati  a quello delle regioni, in violazione della competenza
legislativa  propria  spettante alle regioni a termini dell'art. 117,
quarto comma, della Costituzione.
    Sorprende  che  il  legislatore delegato abbia ignorato i rilievi
della  Commissione  della  Camera, che avvertiva dell'esigenza di non
ignorare  il  potere normativo regionale. A conferma della competenza
legislativa regionale va qui richiamata la sentenza di codesta ecc.ma
Corte  costituzionale  n. 335  del  2005,  occasionata  da un ricorso
governativo  avverso la legge della Regione Emilia-Romagna n. 7/2004.
In tale sentenza codesta Corte pur affermando che il tributo speciale
per  il  deposito  in  discarica dei rifiuti solidi, benche' devoluto
alle  regioni  ricada  nella  legislazione  esclusiva  in  materia di
sistema  tributario  e contabile dello Stato, in quanto istituito con
legge  dello  Stato  - ha pero', in base alla costante giurisprudenza
costituzionale in merito al regime transitorio dei tributi (in attesa
della  attuazione  dell'art. 119  Cost.)  dichiarato inammissibile il
ricorso  governativo contro l'art. 47 della suddetta legge regionale,
che   istituiva  e  disciplinava  la  tariffa  relativa  al  servizio
integrato  ed  alla  gestione  dei rifiuti, non essendo emersa alcuna
base   idonea   a   suffragare   la  competenza  statale.  Dunque  la
disposizione  impugnata  illegittimamente  si ingerisce nella materia
dei servizi pubblici locali, riservata alla potesta' residuale delle,
regioni  (cfr. sentt. n. 272/2004 e n. 29/2006 citt.), delineando una
normativa  che per di piu' si profila nel merito non affatto coerente
con    l'evoluzione    della    stessa   legislazione   statale:   e'
incomprensibile, ad esempio, l'omissione tra i criteri di quanto gia'
contenuto   nell'art.  13  della  legge  n. 36/1994,  concernente  la
necessita'  di  tener  conto  degli  obiettivi di miglioramento della
produttivita».
    Una   tale  carenza  -  rinunciando  all'utilizzo  di  uno  degli
strumenti piu' efficaci per favorire il miglioramento dell'efficienza
delle  gestioni, ovvero della leva tariffaria - configura una tariffa
priva  del  controllo  sui  costi  di  gestione  e  puo' implicare il
riconoscimento  a  pie'  di  lista  dei  costi operativi del gestore,
eliminando  il  miglioramento  progressivo  in  termini di efficienza
previsto dalla normativa precedente.
    Tali  norme  violano  il  riparto  della potesta' legislativa tra
Stato  e  regioni,  fissato  dall'art. 117  (e,  in  particolare,  la
competenza  residuale  ex  art. 117,  quarto  comma,  in  materia  di
disciplina  dei servizi pubblici locali), e l'autonomia finanziaria e
tributaria  delle  regioni,  garantita  dall'art. 119,  comma primo e
secondo,  Cost.,  in  quanto incidono su un'entrata la cui disciplina
ricade nella competenza regionale.
    Inoltre,  le  norme  impugnate  contrastano  anche con gli stessi
criteri  della  delega  legislativa,  almeno la' dove essa vincola il
legislatore  delegato:  a)  al  rispetto  «delle  attribuzioni  delle
regioni  e  degli  enti  locali, come definite ai sensi dell'art. 117
della  Costituzione,  della legge 15 marzo 1997, n. 59, e del decreto
legislativo  31  marzo  1998,  n. 112»  (art. 1,  comma  8);  b) allo
«sviluppo e coordinamento, con l'invarianza del gettito, delle misure
e degli interventi che prevedono incentivi e disincentivi, finanziari
o   fiscali,   volti   a  sostenere,  ai  fini  della  compatibilita'
ambientale,  l'introduzione  e  l'adozione  delle migliori tecnologie
disponibili,  come definite dalla direttiva 96/61/CE del 24 settembre
1996 del Consiglio, nonche' il risparmio e l'efficienza energetica, e
a  rendere  piu'  efficienti  le  azioni di tutela dell'ambiente e di
sostenibilita'  dello sviluppo, anche attraverso strumenti economici,
finanziari  e  fiscali» (art. 1, comma 8, lett. d); mentre, per altro
verso,  essa non appare neppure rientrare negli oggetti della delega,
non  essendo previsto tra essi l'introduzione ex novo dell'imposta in
questione.
    Per  le  stesse  ragioni  ora esposte appare illegittimo altresi'
l'art. 155, in relazione alla quota di tariffa riferite ai servizi di
fognatura e di depurazione.
    V) Illegittimita' costituzionale dell'art. 154, comma 6.
    Il  comma  6,  dell'art.  154 prevede, nel suo ultimo periodo, la
possibilita'  di  introdurre  maggiorazioni  tariffarie  a  carico di
«aziende artigianali, commerciali e industriali».
    Anche  in  questo  caso,  oltre  a  non  sussistere un fondamento
legislativo  nelle  «materie»  indicate all'art. 141, comma 1, d.lgs.
n. 152/2006,  con  conseguente  violazione della potesta' legislativa
esclusiva   regionale   di   cui   all'art. 117,   quarto  comma,  la
disposizione  risulta  ulteriormente  incostituzionale per violazione
dell'art. 76   Cost.   in   quanto   del  tutto  innovativa  rispetto
all'art. 13,  comma  7,  della  legge Galli (legge n. 436/l994) i cui
contenuti  avrebbero  invece dovuto essere rispettati del legislatore
delegato ai sensi dei disposti dell'art. 1, legge n. 308/2004.
    Ora,  e'  agevole  osservare  come il comma 7 dell'art. 13, legge
n. 36/1994  non  prevede affatto maggiorazioni della tariffa a carico
delle  categorie  teste'  indicate:  di  qui  l'illegittimita'  della
previsione impugnata.
    VI) Illegittimita' costituzionale dell'art. 160.
    L'art. 160  indica  analiticamente  i  molti  e penetranti poteri
attribuiti   all'Autorita'   di   vigilanza  sulle  risorse  idriche,
organismo   i   cui  componenti,  ex  art. 159  dello  stesso  d.lgs.
n. 152/2006, sono in massima parte espressione del livello di governo
statale.
    Tuttavia,  nell'elencare  tali  poteri,  il  legislatore delegato
dimentica  di  tenere in considerazione il ruolo delle regioni, e gli
stessi poteri che esse gia' esercitano.
    Al   riguardo   valgono   le   considerazioni  gia'  esposte  con
riferimento   al   precedente   punto  II)  (relativo  illegittimita'
costituzionale  dell'art. 149,  comma  6),  per  quanto  attiene alla
carenza  di  titolo  in  grado  di  fondare validamente la competenza
legislativa  statale in una materia che invece la Corte cost. ha gia'
indicato  come  di sicura competenza esclusiva regionale ex art. 117,
quarto comma, Cost. (sentenza n. 29/2006) nonche' alla illegittimita'
dell'attribuzione  di  funzioni amministrative a livello statale (con
conseguente  violazione  dell'art. 118,  primo  comma  Cost.) ed alla
violazione  dei criteri che prevedevano la ricognizione e la conferma
dell'assetto  di  competenze  preesistente,  con particolare riguardo
all'ampiezza  delle  attribuzioni  riconosciute  in capo a regioni ed
enti locali (cfr. art. 1, comma 8, n. l08/2004).
    A  cio'  si  aggiunga  che la mancata doverosa considerazione del
livello  di  governo  regionale  appare nel caso di specie tanto piu'
grave  in quanto risulta omettere, tra l'altro, qualunque riferimento
ai  poteri  di  pianificazione regionali che trovano concretizzazione
nel  «piano  regolatore  generale  degli  acquedotto»  gia'  previsto
dall'art. 8,  comma  4,  della legge Galli (n. 36/1994) ed in seguito
disciplinato  a  livello regionale dall'art. 12, comma 2, della legge
regionale 5 dicembre 1997, n. 43.
    Sotto   tale  profilo,  emerge  un'ulteriore  compressione  delle
facolta' regionali ed un'ulteriore violazione dei criteri della legge
di delega.
    VII) Illegittimita' costituzionale dell'art. 166, comma 4.
    Il  comma 4 dell'art. 166 attribuisce al consorzio interessato il
compiuto  di  determinare il contributo previsto dal precedente comma
3, e cioe' il contributo che deve versare «chiunque, non associato ai
consorzi  di  bonifica  ed  irrigazione, utilizza canali consortili o
acque  irrigue  come  recapito  di  scarichi,  anche  se  depurati  e
compatibili   con  l'uso  irriguo,  provenienti  da  insediamenti  di
qualsiasi natura».
    La  disposizione e' formulata in termini generali: tuttavia, essa
viene  qui  impugnata nell'ipotesi in cui dovesse essere interpretata
come riferentesi anche agli enti locali, e si rivelasse dunque lesiva
della  loro  autonomia finanziaria (che la regione e' ben abilitata a
far  valere  secondo  la giurisprudenza costituzionale: cfr. sentenze
n. 417/2005 e 533/2002).
    Su  tali premesse, la regione rileva la incostituzionalita' della
disposizione  in quanto pertinente all'ambito di competenza esclusiva
regionale ex art. 117, quarto comma, Cost.
    Al   riguardo   si  consideri  che  la  Regione  Umbria  ha  gia'
disciplinato la materia prevedendo l'intesa per la determinazione del
contributo  tra  Consorzio  di  bonifica  e  AATO  ex  art. 12,  l.r.
n. 430/2004.  In  questo  senso  le nuove norme determinano anche una
illegittima compressione dell'autonomia negoziale (non importa qui se
privata o pubblicistica) degli enti locali, che si vedono costretti a
subire unilateralmente le decisioni di un soggetto quale il Consorzio
di bonifica, non ad essi sovraordinato.
    Sotto  altro  profilo,  la  previsione  qui impugnata e' altresi'
illegittima  per  eccesso  di  delega  per le ragioni gia' sopra piu'
volte  evidenziate,  in  quanto  innovativa e sprovvista di copertura
nella legge n. 308/2004.
    11)  Illegittimita'  costituzionale  degli artt. 181, commi 7-11,
183,  comma 1, lett. g), h), m), n), q) e u), 186, 189. comma 3, 214,
commi 3 e 5.
    A)  L'art. 181,  comma  settimo, prevede che «soggetti economici»
non  meglio  identificati  (ma potenzialmente comprensivi di chiunque
gestisca   attivita'   d'impresa)  o  le  associazioni  di  categoria
rappresentative  dei  settori  interessati,  anche con riferimento ad
interi  settori  economici  e  produttivi,  possano «stipulare con il
Ministro  dell'ambiente  e  della  tutela  del territorio... appositi
accordi  di  programma  ...  per  definire  i  metodi di recupero dei
rifiuti  destinati  all'ottenimento  di  materie prime secondarie, di
combustibili  o  di  prodotti».  Secondo  la stessa disposizione tali
accordi «fissano le modalita' e gli adempimenti amministrativi per la
raccolta,  per la messa in riserva, per il trasporto dei rifiuti, per
la loro commercializzazione, anche tramite il mercato telematico, con
particolare riferimento a quello del recupero realizzato dalle Camere
di  commercio,  e  per i controlli delle caratteristiche e i relativi
metodi  di  prova»  gli  accordi «fissano altresi' le caratteristiche
delle  materie  prime  secondarie,  dei  combustibili  o dei prodotti
ottenuti,  nonche'  le  modalita' per assicurare in ogni caso la loro
tracciabilita' fino all'ingresso nell'impianto di effettivo impiego».
I   commi   successivi,  dall'8  all'11,  disciplinano  le  modalita'
procedurali per la stipulazione, l'approvazione e la pubblicazione di
tali accordi di programma.
    Le parole utilizzate dalla disposizione ora richiamata trovano il
loro  significato  nelle  definizioni  dettate  dall'art. 183,  comma
primo.  In  particolare, vengono in considerazione le definizioni dei
termini:  g  «smaltimento»;  h «recupero»; m «deposito temporaneo»; n
«sottoprodotto»;   q   «materia   prima   secondaria»,  definita  con
riferimento alle caratteristiche stabilite ai sensi dell'art. 181); u
«materia    prima    secondaria    per   attivita'   siderurgiche   e
metallurgiche»,  al cui proposito la disciplina sara' integrata da un
decreto ministeriale «senza valore regolamentare»).
    Tali  disposizioni,  considerate nella loro sostanza, operano una
deregolamentazione  «mascherata»  del settore, in pieno contrasto con
le normative europee, piu' volte ribadite dalle decisioni della Corte
di giustizia.
    In  particolare,  si  introducono  definizioni  di  smaltimento e
recupero   non  completamente  conformi  con  quanto  indicato  nella
direttiva  75/442/CEE  (art. 1, lett. e) e f), nonche' definizioni di
sottoprodotto e di materia prima secondaria (MPS) non coerenti con le
indicazioni  fornite  dalle sentenze della Corte di giustizia europea
(sentenze  C-418/1997  e  C-419/1997,  «Arco» C-9/00, «Palin Granit»;
C-114/01,   «AvestaPolarit   Chrome»;   e  in  particolare  C-457/02,
«Niselli»).
    Viene  infatti riproposto ancora una volta l'«approccio normativo
italiano»,  consistente  nella  sottrazione dei sottoprodotti e delle
cosiddette materie prime secondarie alla disciplina dei rifiuti. Tale
«approccio» e' gia' stato oggetto di una prima sentenza di condanna a
seguito  di  procedura d'infrazione che ha colpito il d.m. 5 febbraio
1998,  che  invece  l'art. 181,  comma  6,  del  decreto  legislativo
impugnato  mantiene transitoriamente ma illegittimamente in vigore in
attesa  di un nuovo decreto ministeriale che fissi le caratteristiche
dei materiali ottenuti come materie secondarie: la sentenza 7 ottobre
2004 (C-103/02) ha espressamente sancito che «la Repubblica italiana,
non avendo stabilito nel decreto 5 febbraio 1998, sull'individuazione
dei  rifiuti non pericolosi sottoposti alle procedure semplificate di
recupero  ai  sensi  degli articoli 31 e 33 del decreto legislativo 5
febbraio  1997,  n. 22,  quantita'  massime  di  rifiuti, per tipo di
rifiuti, che possano essere oggetto di recupero in regime di dispensa
dall'autorizzazione,  e'  venuta  meno  agli  obblighi  che  ad  essa
incombono  in forza degli articoli 10 e 11, n. 1, della direttiva del
Consiglio  15  luglio  1975,  75/442/CEE,  relativa  ai rifiuti, come
modifica dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CEE».
    Ulteriore  sentenza negativa e' stata poi pronunciata, in sede di
rinvio  pregiudiziale,  dalla  Corte  di  giustizia,  con particolare
riferimento all'art. 14 della legge n. 178/2002 (C457/02).
    La violazione del diritto comunitario e' confermata dal fatto che
i  sottoprodotti  e le MPS vengono si inclusi nella «definizione» dei
rifiuti,  ma  in  realta'  la norma che cosi' li classifica restringe
fortemente  l'ambito di applicazione della disciplina (stabilendo che
«non  sono  soggetti  alle  disposizioni di cui alla parte quarta del
presente  decreto  i sottoprodotti di cui l'impresa non si disfi, non
sia  obbligata  a  disfarsi  e  non  abbia  deciso  di disfarsi ed in
particolare...»   al   punto   di   costituire   una  vasta  area  di
sottoprodotti  esentati  dalla disciplina, pur senza includerli tra i
materiali per i quali valgono specifiche esclusioni dall'applicazione
del  decreto,  ai  sensi  del  successivo  art. 185.  E'  un evidente
artifizio  formale  teso  ad evitare che appaia evidente il conflitto
con le norme europee.
    In   realta',   attraverso  la  previsione  di  appositi  decreti
ministeriali  e  degli  accordi  di  programma  di  cui all'art. 181,
vengono   sottratti   al   regime   dei   rifiuti,  e  alle  relative
autorizzazioni,  adempimenti  e controlli, molte sostanze o materiali
che nella legislazione vigente invece vi sono assoggettati.
    Anche  la  Corte  di  cassazione,  con sentenza n. 47269/05 e con
ordinanza  n. 1414/06, ha appena ora sancito invece che la nozione di
rifiuto - in coerenza con la normativa comunitaria deve essere intesa
in  senso  estensivo  (e  non restrittivo quale e' invece l'approccio
della  pregressa  normativa  italiana,  ripreso  in  modo  ancor piu'
evidente  dal decreto delegato), riportandola percio' alla disciplina
dei   sottoprodotti   e   materie   prime  secondarie  dettata  dalle
disposizioni    comunitarie,    cosi'    come    interpretate   dalla
giurisprudenza della Corte di giustizia.
    Con  il pretesto della semplificazione amministrativa non vengono
in  realta'  limitati gli oneri amministrativi, bensi' ridotta l'area
di   applicazione   della  disciplina  dei  rifiuti  ed  eliminati  i
controlli,  quale  risultato vuoi di una ridefinizione delle sostanze
soggette    a    regolamentazione    restrittiva,    vuoi    di   una
«deregolamentazione»  della  disciplina  dei  metodi  di recupero dei
rifiuti, sostituita da procedure «contrattate».
    Il  ricorso  allo  strumento  di accordi e contratti di programma
previsti  dall'art. 181  eccede  i  limiti  propri  dell'istituto, in
quanto   si  sostituisce  una  «fonte»  contrattata  alla  disciplina
normativa,   alterando   la   gerarchia   delle  fonti  del  diritto.
Sostituendo  alla  disciplina  generale  una  serie  indeterminata di
accordi  applicabili  soltanto agli aderenti, si ledono i principi di
certezza  del  diritto,  uguaglianza, generalita' e astrattezza delle
norme.
    Davvero  paradossale e' poi che l'impugnato art. 181, al comma 7,
richiami  (rinviando  al  precedente  comma 5) la comunicazione della
Commissione  al  Parlamento europeo, al Consiglio e al Comitato delle
regioni,  Com  (2002) 412, del 17 luglio 2002, quale «modello» cui si
devono ispirare gli accordi di programma previsti: si tratta infatti,
come  si  legge  nella  comunicazione,  di  accordi  «in cui le parti
interessate  si  impegnano  ad  ottenere una riduzione dei livelli di
inquinamento,  come  sancito  dal  diritto ambientale, o obiettivi di
carattere  ambientale,  di  cui  all'art.  174  del trattato quali ad
esempio   gli   accordi  comunitari  in  materia  ambientale  con  le
associazioni  di  produttori  di  automobili  europea,  giapponese  e
coreana  sulla  riduzione progressiva delle emissioni di CO2 prodotte
dalle autovetture.
    Gli  accordi  previsti  dalle  disposizioni  censurate, diretti a
«deregolamentare»  e  «privatizzare»  la  disciplina dei rifiuti, non
corrispondono  affatto  a  quanto  ipotizzato  (ed  auspicato)  nella
comunicazione  della  Commissione,  ossia  alla  possibilita'  che  -
tramite  moduli  convenzionali  e  non  «imposti»  -  si  raggiungano
obiettivi  ambientali  ulteriori rispetto a quelli gia' fissati dalle
regole comunitarie.
    Il   contrasto  con  le  direttive  75/442/CEE  e  91/156/CEE  si
manifesta  anche nel fatto che le norme europee non consentono che le
attivita' di recupero possano essere completamente escluse dal regime
autorizzatorio.  Infatti l'art. 11 della direttiva 75/442/CEE prevede
che la dispensa dall'autorizzazione sia possibile solo fissando norme
generali  che  fissano i tipi e le quantita' di rifiuti (va ricordato
che  proprio  per  tale  motivo  lo  Stato italiano e' incorso in una
procedura  di  infrazione  comunitaria  per il citato d.m. 5 febbraio
1998).
    Il  decreto  legislativo  impugnato fa al contrario venir meno il
quadro   normativo   generale   richiesto  dalle  direttive  europee,
sostituendolo  con  una  vasta contrattualizzazione della disciplina;
mentre,   per   altro  verso,  la  normativa  europea  richiede,  per
«escludere»  un  rifiuto  dal  campo  di applicazione della direttiva
n. 75/442,  che  (eccezion fatta per gli effluenti gassosi immessi in
atmosfera  per  cui  vale  l'esenzione  diretta)  le  esenzioni siano
ammissibili  soltanto  se  disciplinate  da specifica norma speciale,
cio'  che  non avviene con la disciplina generale di esenzione che le
norme impugnate prevedono per MPS e sottoprodotti.
    Per le stesse ragioni ora illustrate risultano costituzionalmente
illegittimi i commi 3 e 5 dell'art. 214, nella parte in cui ammettono
rispettivamente  lo  strumento  dell'accordo  «deregolatorio»  per le
procedure semplificate di smaltimento di rifiuti e richiamano il d.m.
5  febbraio  1988 per la fase transitoria, in attesa della fissazione
delle nuove regole.
    L'art. 186  introduce  inoltre  una ipotesi generale di esenzione
per  le  terre  e rocce da scavo ed i residui della lavorazione della
pietra  destinati  all'effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti,
ecc.,  i  quali,  secondo  la citata disposizione, «non costituiscono
rifiuti  e  sono,  percio', esclusi dall'ambito di applicazione della
parte  quarta del presente decreto solo nel caso in cui, anche quando
contaminati,  durante  il  ciclo  produttivo,  da sostanze inquinanti
derivanti  dalle attivita' di escavazione, perforazione e costruzione
siano   utilizzati,  senza  trasformazioni  preliminari,  secondo  le
modalita'  previste  nel progetto sottoposto a valutazione di impatto
ambientale   ovvero,   qualora  il  progetto  non  sia  sottoposto  a
valutazione  di impatto ambientale, secondo le modalita' previste nel
progetto approvato dall'autorita' amministrativa competente, ove cio'
sia  espressamente  previsto, previo parere delle Agenzie regionali e
delle  province  autonome per la protezione dell'ambiente, sempreche'
la   composizione   media   dell'intera   massa   non   presenti  una
concentrazione  di  inquinanti  superiore  ai limiti massimi previsti
dalle norme vigenti e dal decreto di cui al comma 3».
    Anche in questo caso il contrasto con la normativa comunitaria e'
evidente, trattandosi di un'esclusione disposta in via generale al di
fuori del quadro normativo europeo.
    Basta ricordare che una specifica procedura d'infrazione e' stata
avviata  contro  la  Repubblica  italiana a causa di una disposizione
analoga contenuta nella legge n. 443/2001 (art. 1, comma 15).
    Le  norme impugnate non contrastano dunque solo con le richiamate
norme   comunitarie,   e,  per  cio'  stesso,  con  l'art. 11  e  con
l'art. 117,  primo comma Cost.; esse contrastano inoltre con la legge
di delegate quindi indirettamente con l'art. 76 Cost. - che fissa tra
i criteri direttivi (art. 1, comma 8) la «piena e coerente attuazione
delle  direttive comunitarie, al fine di garantire elevati livelli di
tutela   dell'ambiente   e   di   contribuire   in   tale  modo  alla
competitivita'  dei  sistemi  territoriali  e delle imprese, evitando
fenomeni    di   distorsione   della   concorrenza   (lett.   e)»   e
l'«affermazione   dei   principi   comunitari   di   prevenzione,  di
precauzione, di correzione e riduzione degli inquinamenti e dei danni
ambientali  e  del «chi inquina paga» (lett. f)». Tali illegittimita'
si   ripercuotono,   ovviamente,  in  modo  lesivo  sulle  competenze
costituzionali  della  Regione  in  materia  di tutela dell'ambiente,
tutela  della  salute  e  governo  del  territorio,  pregiudicando il
corretto svolgimento delle funzioni regionali in quelle materie, come
si illustra piu' ampiamente nel punto seguente.
    B)  Illegittimita'  costituzionale delle stesse norme per diretta
violazione delle competenze regionali.
    Le  stesse  norme  censurate  al  punto  precedente costituiscono
altresi' diretta violazione delle attribuzioni regionali.
    La   materia   «rifiuti»  si  colloca  in  una  zona  in  cui  si
sovrappongono  gli  interessi  ambientali  con  quelli  di tutela del
territorio,  nonche'  della  tutela igienico-sanitaria e di sicurezza
della  popolazione.  Ma  anche  a  ritenere  che, in applicazione del
criterio  di  prevalenza»  elaborato  dalla  giurisprudenza di questa
ecc.ma Corte, debba riconoscersi allo Stato il titolo a legiferare in
base  alla  competenza  riconosciutagli dall'art. 117, secondo comma,
lett.  s),  cio' non significa che la legge statale possa intervenire
senza precisi limiti.
      La  legislazione  vigente - a partire dal c.d. «decreto Ronchi»
(d.lgs.  n. 22/1997)  e  dall'art. 85  del  d.lgs.  n. 112/1998,  che
espressamente lo richiama ha riconosciuto il ruolo fondamentale delle
regioni  nell'attuazione  del  quadro normativo nazionale, finalmente
riportato  ad  una  disciplina organica e unitaria, in considerazione
della  «vocazione» regionale - in base al principio di sussidiarieta'
-  sia nella politica di tutela del territorio, sia nell'applicazione
in  loco  della  disciplina  generale, organizzando gli apparati e le
procedure  amministrative necessarie e «incrociando» la disciplina di
settore con il complesso fascio delle competenze regionali, spettanti
a   pieno   titolo   o   quali  potesta'  concorrenti,  che  incidono
sull'ambiente  (come  e' pacifico nella giurisprudenza costituzionale
sin dalla sent. n. 407/2002).
    Va  da  se'  che  rimane  allo  Stato  il  potere  legislativo di
disciplinare  in  via  generale  la «materia» e i suoi settori, cosi'
come pure di introdurre quegli snellimenti amministrativi che fissino
un  nuovo  equilibrio  tra gli interessi costituzionali di protezione
dell'ambiente,  da  un  lato,  e  la  liberta' d'iniziativa economica
dall'altro (sentt. nn. 116/2006, 331/2003, 307/2003). Tuttavia, se la
riforma  legislativa  operata  dal  legislatore  statale  - incidendo
profondamente  nelle funzioni gia' attribuite alla regione e che essa
ha  gia'  esercitato  disciplinandole  con  legge  e con strumenti di
pianificazione  generale  e  particolare  (cfr. la l.r. n. 27/1994, e
successive   modifiche,   nonche'   il  Piano  di  Azione  ambientale
2004-2006)  -  risulta  viziata  sia per violazione della delega (che
vincola    il   legislatore   delegato   al   rispetto   dell'assetto
amministrativo e al riparto di competenze vigente), che per contrasto
con il diritto comunitario, essa deve poter essere contrastata con il
ricorso  per  illegittimita' costituzionale: infatti, se essa dovesse
essere   applicata,   ne  risulterebbe  sconvolto  l'attento  assetto
normativo  e  amministrativo  disegnato dalla legislazione regionale,
che  verrebbe  in  molte  parti  abrogata  dall'atto  legislativo  in
questione, creando uno stato di grave precarieta' normativa.
    Va  infatti  sottolineato che la regione, a tenore dell'art. 117,
quinto  comma  ha  il  compito  di dare attuazione diretta alle norme
comunitarie:  per  principio  fondamentale  del  diritto comunitario,
confortato  dalla  sent.  n. 170/l984 di codesta Corte, la supremazia
del  diritto comunitario va assicurata dai soggetti dell'applicazione
del   diritto  anche  attraverso  la  non  applicazione  delle  norme
legislative  interne  contrastanti  con  le  norme  comunitarie  self
executing. La conseguenza di queste premesse e' che la Regione Umbria
sara'  tenuta  -  per  un  preciso  obbligo  giuridico,  dunque,  ora
rafforzato  dall'art. 117,  primo  comma, Cost. - a non applicare nel
proprio  territorio  le  norme del decreto impugnato che risultino in
contrasto  con  le  norme  «ad  effetto  diretto»  poste  dal diritto
comunitario derivato e dalle sentenze della Corte di giustizia che di
esso forniscono l'interpretazione (cfr. sent. n. 389/l989 di codesta,
ecc.ma   Corte).   Il   risultato,   quindi,  non  sara'  affatto  la
«semplificazione» promessa dalle disposizioni impugnate, ma uno stato
di   gravissima  incertezza  normativa,  non  privo  di  preoccupanti
riflessi  sulla  repressione  penale dei reati ambientali legati alla
disciplina  dei  rifiuti,  con  conseguente  contenzioso  destinato a
coinvolgere  nuovamente - come gia' capitato nel «caso Niselli» - sia
la Corte di giustizia che codesta Corte costituzionale.
    Tutto  cio' avra', ancora una volta, gravissime conseguenze sugli
interessi  pubblici  alla  tutela dell'ambiente, della salute e della
sicurezza  pubblica, anche perche', eluse le norme generali in vigore
e  aggirate  le  definizioni  e  le procedure fissate dalla normativa
comunitaria,  diventera'  difficile  e  talvolta  impossibile  per le
strutture  regionali  rintracciare  le  sostanze  «derubricate» dalle
disposizioni   impugnate.   Con   l'entrata  in  vigore  del  decreto
legislativo   si  produrra'  infatti  una  derubricazione  di  talune
categorie  di  rifiuti,  i quali non saranno piu' considerati tali ma
verranno qualificati come sottoprodotti o combustibili o MPS, venendo
in  tal  modo  sottratti  al regime vincolistico e garantistico della
normativa sui rifiuti.
    C) Illegittimita' costituzionale dell'art. 189, comma 3.
    Considerazioni  in tutto analoghe a quelle svolte subito sopra ai
punti  1)  e  2)  valgono  per l'art. 189, comma terzo: esso riguarda
l'obbligo  di  comunicare  annualmente  alle  Camere  di commercio le
quantita'  e  le  caratteristiche  qualitative dei rifiuti oggetto di
attivita'  di  raccolta, trasporto, recupero e smaltimento di rifiuti
(c.d.   MUD,   ossia   il  «modello  unico»  introdotto  dalla  legge
n. 70/1994).  L'ambito  di  applicazione  di  tale  obbligo viene ora
delimitato  restrittivamente,  esentandone  le imprese e gli enti che
producono  rifiuti  non  pericolosi.  Si produrra' di conseguenza una
preoccupante  perdita  di informazioni per quanto riguarda molteplici
categorie  di  rifiuti  che  potranno  circolare  liberamente,  senza
consentire  alle strutture chiamate a svolgere i controlli ambientali
di  conoscere  i  dati  relativi  alla  produzione  che  sono base di
conoscenza per seguire il percorso dei rifiuti.
    12) Illegittimita' dell'art. 195, comma 1.
    L'art. 195   (Competenze   dello  stato)  riscrive  integralmente
l'art. 18 del d.lgs. n. 22/l997 recante la medesima rubrica.
    Gia'  questo  suscita  sorpresa,  dato  che  la  legge  di delega
n. 308/2004  prescrive che i decreti delegati devono essere formulati
«nel  rispetto...  delle  attribuzioni  delle  regioni  e  degli enti
locali,  come  definite  ai  sensi  dell'art. 117 della Costituzione,
della  legge 15 marzo 1997, n. 59, e del decreto legislativo 31 marzo
1998,   n. 112»   e   l'art. 85  del  d.lgs.  n. 112/1998  (contenuto
significativamente  nella  Sezione intitolata anch'essa «Gestione dei
rifiuti»)  a sua volta richiama espressamente il d.lgs. n. 22/l997 (e
successiva  modifica)  per  affermare  che le competenze che «restano
attribuite  allo Stato, in materia di rifiuti», sono «esclusivamente»
le funzioni e i compiti indicati in esso.
    In  sintesi,  l'art. 195 del decreto delegato riscrive proprio la
norma che era tenuto a rispettare per espressa previsione della legge
di delega!
    Naturalmente non si muoverebbero obiezioni al nuovo testo se esso
fosse  stato  formulato  allo  scopo di adeguare l'elenco dei compiti
trattenuti  dallo  Stato  alla  successiva riforma costituzionale del
2001. Ma non e' affatto cosi', come si puo' riscontrare esaminando in
particolare  alcune  specifiche  competenze riservate allo Stato come
individuate  dall'elenco contenuto nel primo comma della disposizione
impugnata.
    La  lettera  m)  assegna allo Stato «la determinazione di criteri
generali,  differenziati  per  i  rifiuti  urbani  e  per  i  rifiuti
speciali,  ai  fini  della  elaborazione  dei  piani regionali di cui
all'art.   199   con  particolare  riferimento  alla  determinazione,
d'intesa  con  la  Conferenza Stato-regioni, delle linee guida per la
individuazione  degli Ambiti territoriali ottimali, da costituirsi ai
sensi  dell'art.  200,  e  per il coordinamento dei piani stessi». La
prima  parte  della  norma  si  rifa  all'art. 18, comma 1, lett. i),
d.lgs.   n. 22/1997:   essa   risulta   illegittima  (per  violazione
dell'art. 117 e 118 Cost.) perche' prevede sostanzialmente un atto di
indirizzo e coordinamento in materia regionale, la cui legittimita' -
dopo  il  2001  -  da  ritenersi  esclusa, in base all'opinione della
dottrina  prevalente,  all'art. 8,  comma 6, legge n. 131/2003 e alle
sentt.  n. 329/2003  e  n. 324/2005.  Inoltre,  tale atto non sarebbe
adottato previa intesa con la Conferenza Stato regioni ma solo previo
parere,  con violazione del principio di leale collaborazione che, in
relazione  agli atti di indirizzo, richiede appunto il coinvolgimento
«forte» della Conferenza (v. l'art. 8 legge n. 59/1997).
    Anche  la  seconda parte della lett. m) prevede, sostanzialmente,
un  atto  di indirizzo e, dunque, viola gli artt. 117 e 118 Cost. per
le  ragioni  appena  esposte.  Essa,  inoltre, risulta innovativa: lo
Stato,  addirittura,  si riserva il potere di dettare linee guida per
la  perimetrazione degli ambiti territoriali ottimali, e tale novita'
-  oltre  a  violare  gli  artt. 117 e 118 Cost., cioe' la competenza
regionale   nella   materia  della  gestione  dei  rifiuti»  -  viola
l'art. 76,  sia  per lo stesso carattere innovativo (art. 1, comma 1,
legge  n. 308/2004)  sia  per l'indebolimento del ruolo delle regioni
(art. 1,  comma  8),  con  conseguente  menomazione  delle competenze
regionali.
    La lettera o) attribuisce allo Stato «la determinazione, d'intesa
con  la Conferenza Stato-regioni, delle linee guida inerenti le forme
ed  i  modi  della  cooperazione  fra  gli  enti  locali,  anche  con
riferimento   alla  riscossione  della  tariffa  sui  rifiuti  urbani
ricadenti  nel medesimo ambito territoriale ottimale, secondo criteri
di trasparenza, efficienza, efficacia ed economicita».
    Anche  questa  e'  una  competenza  «aggiunta»  all'elenco  delle
funzioni  attribuite  allo  Stato dal d.lgs. n. 22/l997 in violazione
quindi dei criteri della delega legislativa. Per di piu' si tratta di
una  evidente  invasione  delle  competenze  regionali  residuali  in
materia   di   tariffazione   dei   servizi  pubblici  locali  (sent.
n. 272/2004),   nonche'   anche   nella  promozione  delle  forme  di
cooperazione tra gli enti locali (sentt. n. 244 e n. 456/2005).
    In   sintesi,   la  disposizione  impugnata  e'  illegittima  per
violazione   dell'art. 117  e  dell'art. 76  Cost.,  con  conseguente
compressione delle attribuzioni regionali.
    13) Illegittimita' dell'art. 202, comma 6.
    L'art. 202  disciplina  l'affidamento  del  servizio  di gestione
integrata dei rifiuti urbani. Il comma 6 stabilisce che «il personale
che,  alla  data  del  31  dicembre  2005  o comunque otto mesi prima
dell'affidamento   del   servizio,  appartenga  alle  amministrazioni
comunali, alle aziende ex municipalizzate o consortili e alle imprese
private,  anche  cooperative,  che  operano  nel  settore dei servizi
comunali  per  la gestione dei rifiuti sara' soggetto, ferma restando
la  risoluzione  del  rapporto  di  lavoro,  al  passaggio diretto ed
immediato al nuovo gestore del servizio integrato dei rifiuti, con la
salvaguardia delle condizioni contrattuali, collettive e individuali,
in  atto si aggiunge che, nel caso di passaggio di dipendenti di enti
pubblici  e  di  ex aziende municipalizzate o consortili e di imprese
private,  anche  cooperative,  al  gestore del servizio integrato dei
rifiuti  urbani,  si  applica...  la disciplina del trasferimento del
ramo di azienda di cui all'art. 2112 del codice civile».
    La  norma  prevede  per  la  prima volta, nel settore dei servizi
pubblici   locali,   che  possano  essere  trasferiti  al  gestore  i
dipendenti  di  aziende  private  operanti  nel  settore  (ad  es., i
dipendenti  di  un'impresa  occasionalmente  appaltatrice). La norma,
oltre  a  sollevare  seri  dubbi  di  legittimita'  in relazione agli
artt. 42  e  43  Cost.  e all'autonomia imprenditoriale privata, lede
l'autonomia  finanziaria degli enti locali (e, dunque, delle regioni:
v.  sentt.  n. 533/2002  e  417/2005)  in  quanto il soggetto gestore
scarichera'  inevitabilmente  i  costi  derivanti  dal  trasferimento
coatto  sull'ente  locale,  o  aumentando la tariffa o richiedendo un
intervento  finanziario  ai soci (fra i quali, spesso, lo stesso ente
locale). Dunque, l'art. 202, comma 6, viola l'art. 119 Cost.
    14)  Illegittimita'  delle  norme impugnate per vizi procedurali:
violazione  del  principio  di  leale collaborazione e della legge di
delega.
    Nel  suo  complesso il decreto appare viziato da gravi difetti di
procedimento,   attinenti   in   particolare  alla  violazione  della
procedura di «leale collaborazione». Come emerge da quanto esposto in
narrativa,  infatti,  il Governo non ha rispettato i contenuti minimi
della  garanzia di partecipazione della Conferenza unificata. Esso ha
richiesto  il  parere  della  Conferenza in termini temporali tali da
renderne  impossibile  l'espressione,  ed  ha  rifiutato la legittima
richiesta  di  disporre  del  tempo  necessario  allegando ragioni di
urgenza  inesistenti - dato che la delega veniva a scadenza oltre sei
mesi  piu'  tardi  -  e persino inducendo in errore (non si vuole qui
dire  volontariamente)  la  Conferenza  circa  gli  effettivi termini
temporali della delega.
    Si   noti   che  l'ordine  del  giorno  negativo  successivamente
approvato dalla Conferenza non puo' essere considerato un equivalente
di un parere effettivamente articolato e reso nel merito a seguito di
un  corretto  procedimento:  ma  del  resto  neppure  esso  e'  stato
effettivamente preso in considerazione.
    La   Conferenza   unificata   non  ha  avuto  modo  di  esprimere
formalmente  il  proprio parere, e sulle posizioni da essa assunte in
merito  al  decreto  legislativo  il  Governo  non  ha  aperto alcuna
discussione,  violando  quanto  disposto  dalla  legge  di  delega  e
ribadito dalla Commissione parlamentare. Come dispone l'art. 2, comma
5   del   decreto   legislativo  n. 281/1997,  quando  la  Conferenza
Stato-regioni  e' obbligatoriamente sentita «in ordine agli schemi di
disegni  di  legge  e  di  decreto  legislativo  o di regolamento del
Governo  nelle  materie  di competenza delle regioni o delle province
autonome  di  Trento  e  di  Bolzano»  essa «si pronunzia entro venti
giorni».  Per l'espressione del parere della Conferenza unificata non
e' indicato un termine preciso, ma certo non si puo' ritenere che per
essa che ha una struttura ancora piu' complessa della «Stato-Regioni»
- possa valere un termine ancora piu' breve.
    Se  la  legge di delega prevede l'obbligo del Governo delegato di
acquisire  il parere della Conferenza, la Conferenza deve disporre di
un termine adeguato.
    Ma  tutto  il comportamento tenuto dai rappresentanti del Governo
in  questa  vicenda - in una vicenda cosi' complessa sotto il profilo
tecnico-normativo  e  tanto delicata per i molteplici riflessi che il
Codice  dell'ambiente»  esercita  non  solo  sulle  attribuzioni  «in
astratto» delle regioni, ma sulla legislazione, a sua volta complessa
e  articolata, che esse hanno prodotto - e' improntato ad uno spirito
autoritario  e  ostruzionistico  che  e' in palese con i canoni della
leale collaborazione.
    Quando  si  abbia  a  che  fare  con competenze necessariamente e
inestricabilmente  connesse  -  ha  osservato  codesta  ecc.ma  Corte
costituzionale - il principio di "leale collaborazione" - che proprio
in  materia  di  protezione  di  beni  ambientali  e  di  assetto del
territorio trova un suo campo privilegiato di applicazione - richiede
la  messa  in  opera  di  procedimenti  nei  quali  tutte  le istanze
costituzionalmente rilevanti possano trovare rappresentazione» (sent.
n. 422/2002).
    E' vero che tale principio e' «suscettibile di essere organizzato
in  modi  diversi,  per  forme  e  intensita'  della  pur  necessaria
collaborazione»  (sent.  n. 308/2003),  ma e' anche vero che esso non
puo'  essere  ridotto  ad una ritualita' meramente formale: una delle
«sedi  piu'  qualificate  per  l'elaborazione  di regole destinate ad
integrare  il  parametro della leale collaborazione e' attualmente il
sistema  delle  Conferenze  Stato-regioni e autonomie locali», al cui
interno   «si   sviluppa  il  confronto  tra  i  due  grandi  sistemi
ordinamentali  della  Repubblica,  in  esito  al quale si individuano
soluzioni concordate di questioni controverse» (sent. 31/2006). Ma di
«confronto» deve trattarsi, appunto, basato su comportamenti corretti
e  «leali»  delle  parti,  non  dell'imposizione  unilaterale e della
chiusura totale a qualsiasi possibilita' di dialogo.
    Tale  violazione  della  legge  di  delega (e dunque dell'art. 76
Cost.)   e   del  principio  di  leale  collaborazione  si  traducono
direttamente in lesione delle competenze e prerogative costituzionali
delle  regioni, e costituiscono percio' illegittimita' costituzionali
che regioni sono legittimate a fare valere.
                              P. Q. M.
    Chiede  voglia  codesta  ecc.ma  Corte  costituzionale dichiarare
costituzionalmente  illegittimo il decreto legislativo 3 aprile 2006,
n. 152,  Norme  in  materia  ambientale,  in  relazione  ai  seguenti
articoli:
        25, comma 1, 35, comma 1, 42, comma 3, 55, comma 2, 58, comma
3,  63,  commi  3  e 4, 64, 65, comma 3, lettera e), 95, comma 5, 96,
comma  1,  101,  comma 7; 148, 149, 153, comma 1, 154, 155, 160, 166,
comma  4, 181, commi da 7 a 11, 183, comma 1, 186, 189, comma 3, 195,
comma  1,  202,  comma  6,  214,  commi 3 e 5, per le parti e sotto i
profili illustrati nel ricorso.
        Padova, addi' 12 giugno 2006
                   Prof. avv. Giandomenico Falcon

 

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