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N. 72 RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 16 giugno 2006.
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Ricorso per questione di legittimita' costituzionale depositato in
cancelleria il 16 giugno 2006 (della Regione Umbria)
(GU n. 30 del 26-7-2006)
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Ricorso della Regione Umbria, in persona del presidente della
giunta regionale pro tempore, autorizzato con deliberazione della
giunta regionale n. 891 del 31 maggio 2006 (doc. 1) e n. 830 del 17
maggio 2006 (doc. 2), rappresentata e difesa, come da procura
speciale a rogito del notaio dott.ssa Maria Rosaria Russo di Perugia,
n. rep. 6522 del 9 giugno 2006 (doc. 3), dal prof. avv. Giandomenico
Falcon del foro di Padova, con domicilio eletto presso l'avv. Luigi
Manzi del foro di Roma, in Roma, via Confalonieri, n. 5;
Contro il Presidente del Consiglio dei ministri per la
dichiarazione di illegittimita' costituzionale del decreto
legislativo 3 aprile 2006, n. 152, Norme in materia ambientale,
pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 88 del 14 aprile 2006 -
Supplemento ordinario n. 96, in relazione ai seguenti articoli:
25, comma 1, 35, comma 1, 42, comma 3, 55, comma 2, 58, comma
3, 63, commi 3 e 4, 64, 65, comma 3, lett. e), 95, comma 5, 96, comma
1, 101, comma 7; 148, 149, 153, comma 1, 154, 155, 160, 166, comma 4;
181, commi da 7 a 11, 183, comma 1, 186, 189, comma 3, 195, comma 1,
202, comma 6, 214, commi 3 e 5, per violazione degli artt. 76, 117,
118 e 119 Cost., del principio di leale collaborazione, del principio
di ragionevolezza, nonche' dei principi e delle norme del diritto
comunitario, nei modi e per i profili di seguito indicati.
F a t t o
Il decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, «Norme in materia
ambientale», costituisce attuazione della delega legislativa
contenuta nella legge 15 dicembre 2004, n. 308, pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale n. 302 del 27 dicembre 2004 - Supplemento
ordinario n. 187. Questa autorizzava il Governo ad emanare entro
diciotto mesi - quindi entro l'11 luglio 2006 - uno o piu' decreti
«di riordino, coordinamento e integrazione delle disposizioni
legislative nei seguenti settori e materie, anche mediante la
redazione di testi unici».
A norma dell'art. 1, comma 4, della legge, i decreti legislativi
avrebbero dovuto essere adottati «sentito il parere della Conferenza
unificata di cui all'art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997,
n. 281».
Il comma 8 dello stesso articolo richiede ai decreti legislativi
«il rispetto dei principi e delle norme comunitarie e delle
competenze per materia delle amministrazioni statali, nonche' delle
attribuzioni delle regioni e degli enti locali, come definite ai
sensi dell'art. 117 della Costituzione, della legge 15 marzo 1997,
n. 59, e del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112,... e del
principio di sussidiarieta».
Lo schema di decreto e' stato approvato nella seduta del
Consiglio dei ministri del 18 novembre 2005. Nel corso della seduta
della Conferenza unificata del 24 novembre 2005, i rappresentanti
delle regioni e degli enti locali chiedevano di essere informati
sullo stato di attuazione della delega legislativa: ed in risposta il
Ministro La Loggia comunicava che, data la lunghezza, la Relazione al
decreto non sarebbe stata illustrata oralmente ma depositata agli
atti, «in modo che possa essere visionata e vi sia tutto il tempo
necessario a fare eventuali osservazioni».
Il testo del decreto legislativo e' stato trasmesso alle regioni
con nota della Presidenza del Consiglio dei ministri in data 29
novembre 2005, cui ha fatto seguito una nota del successivo 7
dicembre che avvertiva che gli allegati tecnici, a causa della loro
voluminosita' venivano resi disponibili soltanto in rete (ed anche
cio' su personale richiesta al Ministro da parte del Presidente della
Conferenza dei Presidenti delle regioni).
Nonostante la mole del testo e degli allegati, il parere sul
decreto legislativo e' stato iscritto nell'ordine del giorno della
seduta della Conferenza unificata del 15 dicembre 2005: ma gia' in
vista della riunione in sede tecnica del 12 dicembre dello stesso
anno il Presidente della Conferenza delle regioni ne chiedeva la
sospensione, in ragione dell'estrema complessita' della materia e
dell'esiguita' del tempo concesso per l'esame, chiedendo il rinvio
del termine per l'espressione del parere.
Con telegramma del 13 dicembre il Ministro dell'ambiente e della
tutela del territorio comunicava che il Governo non intende concedere
deroghe al termine fissato dalla legge per l'esame delle commissioni
competenti, considerata la durata dei termini previsti dalla legge
n. 308 del 2004 e valutato altresi' il periodo di attivita' residua
del Parlamento».
Nella seduta della Conferenza unificata del 15 dicembre 2005 il
rinvio del punto all'ordine del giorno e' oggetto di un «appello
accorato» del Presidente Errani, a nome della Conferenza dei
Presidenti delle regioni, al quale si associano i rappresentanti
degli altri enti locali: l'appello e' motivato dall'estrema
complessita' della materia, che non attiene solo alle questioni
ambientali, ma anche alla difesa del suolo, ed altro» e che «tratta
di una serie di politiche fondamentali che incrociano in modo forte,
tutta l'articolazione legislativa delle Regioni e le politiche
amministrative degli Enti locali» (punto 25 del verbale 13/05: doc.
3).
Ma il Viceministro Nucara e' rigido nel rifiuto della proroga
argomentando, da un lato, che la tutela dell'ambiente» e' materia di
competenza esclusiva dello Stato, dall'altro che la delega sarebbe
scaduta - come dichiara esplicitamente - il giorno stesso, il 15
dicembre 2005, «desumendo cio' da quanto di sua conoscenza»
dimostrando, in tal modo, che non solo le regioni e gli enti locali
ma lui stesso non aveva fatto in tempo ad informarsi correttamente
del punto all'ordine del giorno.
Da un lato il Viceministro ignora - come gli viene fatto
osservare - quanto la giurisprudenza costituzionale aveva gia'
ampiamente osservato attorno alla natura «trasversale» della materia
e all'intreccio di competenze che su di essa si accentra; dall'altro
ignora i termini stessi della delega, la cui scadenza era fissata nel
giorno 11 luglio 2006, come del resto emergeva della stessa scheda
elaborata dalla Presidenza del Consiglio, come gli faceva notare il
Presidente Errani.
Ma il Viceministro ribatte a questo punto che l'urgenza di
adottare definitivamente il decreto non cambia, in ragione delle
elezioni politiche previste per il 9 aprile 2006. Il Ministro La
Loggia, che presiede la riunione, propone di rimandare il punto alla
successiva seduta della Conferenza, prevista per il 20 gennaio 2006;
ma il Viceministro si oppone. Il Presidente Errani fa presente che,
sulla base di quanto affermato quel giorno stesso dalla Commissione
parlamentare, senza il parere della Conferenza unificata il
procedimento di emanazione non puo' essere proseguito, ma il
Viceministro Nucara ribatte che la Conferenza era stata «sentita» e
che non si trattava di un parere vincolante. Il Ministro La Loggia
conclude «prendendo atto del mancato parere» e annunciando che il
Viceministro «fara' le opportune valutazioni e continuera' la
discussione con le Regioni e le Autonomie locali»: «laddove si
verificasse l'indispensabilita' di questo passaggio, sara' nuovamente
iscritto il punto in argomento all'o.d.g. della prossima Conferenza»
(tutto cio' emerge vividamente dal citato verbale: v. sempre doc. 3).
Nella divergenza delle posizioni, il parere non pote' essere
espresso. Ciononostante il Consiglio dei ministri, il 19 gennaio 2006
(n. 40), approvava «in via definitiva» il testo del decreto
legislativo, dopo che le Commissioni parlamentari avevano espresso il
proprio parere (in data 12 gennaio 2006).
Nella successiva riunione della Conferenza unificata del 26
gennaio 2006, i Presidenti delle regioni e delle province autonome,
dell'ANCI, dell'UPI e dell'UNCEM presentavano un ordine del giorno
recante il parere negativo sullo schema di decreto (doc. 4),
motivandolo sia nel merito che nel metodo, parere del quale il
rappresentante del Governo si limitava a dichiarare di «prendere
atto». Dopo che le Commissioni parlamentari avevano espresso un
secondo parere (in data 31 gennaio 2006), il 10 febbraio il Consiglio
dei ministri riapprovava di nuovo «in via definitiva» il decreto
legislativo (Consiglio dei ministri n. 43): evidentemente senza alcun
riesame di merito alla luce del parere negativo degli enti
territoriali, stante l'asserita (ma inesistente) urgenza.
Il 15 marzo 2006 il Presidente della Repubblica chiedeva al
Governo alcuni chiarimenti nel merito e in relazione al procedimento
di formazione del decreto legislativo, sospendendo l'emanazione del
provvedimento; a seguito di questa richiesta di chiarimenti, il
decreto legislativo e' stato ulteriormente riapprovato con alcune
modifiche dal Consiglio dei ministri il 29 marzo 2006 (anche se non
se ne fa menzione nell'ordine del giorno della seduta n. 51 di quella
data, ne' nel comunicato pubblicato nel sito del Governo a seguito
della riunione). E' stato dunque approvato in un testo formalmente
(sia pure parzialmente) diverso da quello sottoposto all'esame delle
Commissioni parlamentari e della Conferenza unificata. Esso e' stato
poi emanato il 3 aprile e pubblicato il 14 aprile.
Con il presente ricorso la Regione Umbria contesta la
legittimita' costituzionale delle disposizioni impugnate per ragioni
che attengono da un lato al decreto legislativo nel suo complesso,
dall'altro alle singole norme.
Nel suo complesso il decreto appare viziato da gravi difetti di
procedimento, attinenti in particolare alla violazione della
procedura di «leale collaborazione». Come meglio si dira', il Governo
non ha rispettato i contenuti minimi della garanzia di partecipazione
della Conferenza unificata, rendendo consapevolmente impossibile un
informato esame del nuovo testo normativo. La Conferenza unificata
non ha avuto modo di esprimere formalmente il proprio parere, e sulle
posizioni da essa assunte in merito al decreto legislativo il Governo
non ha aperto alcuna discussione, violando quanto disposto dalla
legge di delega e ribadito dalla Commissione parlamentare.
Inoltre - benche' questo profilo non incida direttamente nelle
attribuzioni regionali non puo' essere sottaciuto - anche formalmente
il procedimento appare gravemente carente, essendo il testo emanato
diverso da quello precedentemente adottato sulla base del parere
della Commissione parlamentare.
Nel merito, il decreto legislativo n. 152 del 2006 appare in
molte parti eccedere la delega legislativa e porsi in contrasto con
la disciplina comunitaria, con grave ricaduta sulle attribuzioni
costituzionali delle Regioni; inoltre e' direttamente lesivo delle
competenze regionali in molte sue disposizioni.
Come e' stato osservato nell'ordine del giorno presentato dalle
regioni in sede di Conferenza unificata, il decreto «contrasta con
diverse direttive comunitarie, viola, per eccesso di delega, la
stessa legge delega n. 308/2004, stravolge l'assetto delle competenze
definite dall'art. 117 e 118 Cost. e dal decreto legislativo
n. 112/1998 consolidate da numerose pronunce della Corte
costituzionale» (v. sempre doc. 4).
L'opposizione che le regioni hanno manifestato nei confronti del
decreto e' quindi motivata da ragioni assai gravi, sia in ordine al
rispetto della normativa comunitaria, sia in ordine al mantenimento
degli attuali presidi legislativi, anche regionali, posti a tutela
dell'ambiente. Le disposizioni del decreto producono infatti - ad
avviso delle regioni - il risultato «di indebolire le politiche
ambientali nel nostro Paese e la loro coerenza con le direttive
dell'Unione europea, nonche' quelle di determinare l'abbassamento dei
livelli di tutela dell'ambiente e della salute a danno di tutti i
cittadini senza, peraltro, che a questo possa corrispondere
l'auspicata semplificazione delle procedure e dei processi attuativi
per gli operatori e le imprese.». Inoltre le nuove norme determinano
«la totale paralisi dell'azione delle regioni e degli enti locali in
campo ambientale data l'incompatibilita' delle norme regionali
vigenti con quelle dello schema di decreto.».
Per fare un esempio degli effetti del decreto, si puo' rilevare
che l'art. 63 sopprime «a far data dal 30 aprile 2006» le Autorita'
di bacino istituite dalla legge n. 183/1989, trasferendone le
funzioni alle istituende Autorita' di bacino distrettuale, senza
precisare quale sia il regime transitorio, rinviato ad un atto
amministrativo del Governo che ha un solo giorno per essere emanato,
come poi si dira'. Come si vede, la frettolosita' di preparazione del
testo normativo e la volonta' di ottenerne comunque l'immediata
entrata in vigore comportano conseguenze paradossali in ordine alla
possibilita' di dare, in sole 24 ore, un'attuazione ragionevole e
congrua al decreto in presenza della notevolissima complessita' dei
temi trattati.
In altri casi - in particolare in materia di rifiuti - il decreto
legislativo introduce una disciplina innovativa che ha l'effetto
immediato di smantellare l'attuale normativa ambientale, rendendo
meno rigorosa la normativa vigente e favorendo comportamenti che
attualmente, anche per precisa richiesta delle norme comunitarie,
costituirebbero un illecito amministrativo o penale.
D i r i t t o
1) Illegittimita' degli articoli 25, comma 1 e 35, comma 1.
L'art. 25, comma 1, lett. a) riserva al Ministro dell'ambiente e
della tutela del territorio la competenza alla VIA «per i progetti di
opere ed interventi sottoposti ad autorizzazione statale e per quelli
aventi impatto ambientale interregionale o internazionale precisando
tale disposizione, l'art. 35 dispone che compete al Ministro
dell'ambiente e della tutela del territorio ... la valutazione di
impatto ambientale dei progetti di opere ed interventi rientranti
nelle categorie di cui all'art. 23 nei casi in cui si tratti: a) di
opere o interventi sottoposti ad autorizzazione alla costruzione o
all'esercizio da parte di organi dello Stato; b) di opere o
interventi localizzati sul territorio di piu' regioni o che comunque
possono avere impatti rilevanti su piu' regioni».
Corrispondentemente, l'art. 42, relativo ai Progetti sottoposti a VIA
in sede regionale o provinciale, afferma che «sono sottoposti a
valutazione di impatto ambientale in sede regionale o provinciale i
progetti di opere ed interventi rientranti nelle categorie di cui
all'art. 23, salvo si tratti di opere o interventi sottoposti ad
autorizzazione statale o aventi impatto ambientale interregionale o
internazionale ai sensi dell'art. 35».
Risulta dunque evidente che il nuovo decreto legislativo assegna
alla competenza statale non solo la VIA per le opere e gli interventi
soggetti ad autorizzazione statale, ma anche quella relativa ad opere
ed interventi che abbiano semplicemente un rilievo per piu' di una
regione.
La ricorrente regione ritiene che, alla stregua del riparto di
competenze di cui al Titolo V della parte seconda della Costituzione
dopo la riforma del 2001, la competenza per le opere e gli interventi
non soggetti ad autorizzazione statale non possa che spettare alle
regioni, anche se si tratti di opere che interessano piu' regioni o
che comunque recano un impatto su piu' territori regionali.
Infatti, se e' vero che anche il decreto legislativo n. 112 del
1998 - sempre comunque nel precedente quadro costituzionale - aveva
mantenuto allo Stato la competenza alla VIA per «le opere e gli
impianti il cui impatto ambientale investe piu' regioni» (art. 71,
comma 1, lett. a), e' anche vero che il comma 2 precisava che con
atto di indirizzo e coordinamento sarebbero state «individuate le
specifiche categorie di opere, interventi e attivita' attualmente
sottoposti a valutazione statale di impatto ambientale da trasferire
alla competenza delle regioni», a condizione (come stabiliva il comma
3) «della vigenza della legge regionale della VIA».
Ed in realta' gia' il precedente atto di indirizzo e
coordinamento di cui al d.P.R. 12 aprile 1996 (Atto di indirizzo e
coordinamento per l'attuazione dall'art. 40, comma 1, della legge
n. 146/1994, concernente disposizioni in materia di valutazione di
impatto ambientale) all'art. 11 (Procedure per i progetti con impatto
ambientale interregionale) prevedeva che le regioni assicurassero la
definizione delle modalita' di partecipazione alla procedura di
valutazione d'impatto ambientale delle regioni confinanti nel caso di
progetti che possono avere impatti rilevanti anche sul loro
territorio ovvero di progetti localizzati sul territorio di piu'
regioni» evidentemente presupponendo la perdurante competenza
regionale in relazione all'impatto ambientale dell'opera o
dell'intervento.
Riprova se ne ha nella legislazione regionale che e' seguita ed
ha continuato a seguire: in pratica tutte le normative regionali
sulla VIA contengono disposizioni che garantiscono il coordinamento
delle regioni direttamente interessate nel caso di impatti ambientali
interregionali sia nella forma di informazione e consultazione sia
nella forma di codecisione tramite una intesa tra le regioni
interessate.
Ora, nel nuovo quadro costituzionale successivo al 2001 lo stesso
principio di sussidiarieta' di cui all'art. 118, primo comma, impone
di non spostare la competenza al livello statale se non nei casi in
cui il carattere infrazionabile ed intrinsecamente unitario
dell'interesse lo imponga; e l'art. 117, ottavo comma, prevedendo che
«la legge regionale ratifica le intese della regione con altre
regioni per il migliore esercizio delle proprie funzioni, anche con
individuazione di organi comuni» conferma che il carattere
semplicemente interregionale delle funzioni e degli interessi puo'
giustificare speciali soluzioni organizzative, ma non puo' di per se'
consentire l'acquisizione della competenza al livello statale.
Il diretto fondamento in Costituzione della rivendicazione
regionale rende superfluo ricordare che, in ogni modo, il rispetto
del principio di sussidiarieta' era specificamente previsto dalla
legge delega n. 308/2004 (art. 8, comma 1).
Si noti che la competenza regionale in materia di VIA non e' una
graziosa concessione del legislatore statale, ma una precisa
conseguenza sia della competenza regionale in relazione alle opere e
interventi di cui si tratta, sia della competenza regionale nelle
materie connesse all'ambiente o addirittura parti di esso, quale la
tutela della salute ed il governo del territorio, sia della stessa
competenza in materia ambientale, in quanto la competenza esclusiva
statale si riferisce, come chiarito dalla giurisprudenza di codesta
ecc.ma Corte costituzionale (a partire dalla sent. n. 407/2002), alla
fissazione degli standard minimi di tutela.
2) Illegittimita' dell'art. 42, comma 3.
L'art. 42 disciplina i Progetti sottoposti a VIA in sede
regionale o provinciale. Il comma 3 prevede che «qualora
dall'istruttoria esperita in sede regionale o provinciale emerga che
l'opera o intervento progettato puo' avere impatti rilevanti anche
sul territorio di altre regioni o province autonome o di altri Stati
membri dell'Unione europea, l'autorita' competente con proprio
provvedimento motivato si dichiara incompetente e rimette gli atti
alla Commissione tecnico-consultiva di cui all'art. 6 per il loro
eventuale utilizzo nel procedimento riaperto in sede statale.».
Tale norma lede le competenze costituzionali della regione per le
ragioni esposte nel motivo n. 1, in quanto prevede lo spostamento in
sede statale di VIA che spettano alla competenza regionale.
3) Illegittimita' dell'art. 55, comma 2.
L'art. 55, comma 2, stabilisce che «l'attivita' conoscitiva di
cui al presente articolo e' svolta, sulla base delle deliberazioni di
cui all'art. 57, comma 1, secondo criteri, metodi e standard di
raccolta, elaborazione e consultazione, nonche' modalita' di
coordinamento e di collaborazione tra i soggetti pubblici comunque
operanti nel settore, che garantiscano la possibilita' di omogenea
elaborazione ed analisi e la costituzione e gestione, ad opera del
Servizio geologico d'Italia - Dipartimento difesa del suolo
dell'Agenzia per la protezione dell'ambiente e per i servizi tecnici
(APAT) di cui all'art. 38 del decreto legislativo 30 luglio 1999,
n. 300 di un unico sistema informativo, cui vanno raccordati i
sistemi informativi regionali e quelli delle province autonome».
La regione contesta l'accentramento in un soggetto statale
(APAT), senza coinvolgimento delle regioni, delle scelte di
costituzione e gestione di un unico sistema informativo; inoltre, si
contesta l'obbligo del raccordo dei sistemi informativi regionali,
nella misura in cui questo raccordo non sia bilaterale. Sotto
entrambi i profili, l'art. 55, comma 2, dunque, viola il principio di
leale collaborazione.
4) Illegittimita' dell'art. 58, comma 3, lettere a) e b).
L'art. 58 definisce le competenze del Ministero dell'ambiente in
materia di difesa del suolo. Il comma 3 stabilisce che, «ai fini di
cui al comma 2, il Ministero dell'ambiente e della tutela del
territorio svolge le seguenti funzioni: a) programmazione,
finanziamento e controllo degli interventi in materia di difesa del
suolo».
La lett. a) accentra in capo al Ministero dell'ambiente funzioni
che erano attribuite alle regioni o alle autorita' di bacino o che,
comunque, erano svolte con la partecipazione regionale. In
particolare, la lett. a) viene ad escludere l'operativita' degli
schemi revisionali e programmatici, che finora erano stati lo
strumento, a partecipazione regionale, di finanziamento della difesa
del suolo e delle autorita' di bacino. Si puo' anche ricordare che
l'art. 86, comma 3, d.lgs. n. 112/1998 prevedeva l'intesa con la
Conferenza Stato-regioni per la programmazione dei finanziamenti
statali in materia di difesa del suolo.
Inoltre, l'art. 88, comma 1, d.lgs. n. 112/1998 dichiara compiti
di rilievo nazionale la programmazione ed il finanziamento degli
interventi di difesa del suolo, ma il comma 2 richiede il parere
della Conferenza unificata. Ancora, l'art. 89, comma 1, lett. h)
conferisce in via esclusiva alle regioni e agli enti locali la
programmazione e pianificazione degli interventi di difesa della
costa e degli abitati costieri. Infine, l'art. 89, comma 5,
stabilisce che «per le opere di rilevante importanza e suscettibili
di interessare il territorio di piu' regioni, lo Stato e le Regioni
interessate stipulano accordi di programma con i quali sono definite
le appropriate modalita', anche organizzative, di gestione».
L'art. 58, comma 3, lett. a), in relazione alla programmazione ed
al finanziamento degli interventi di difesa del suolo, comprime la
posizione delle regioni, violando in questo modo l'art. 76 Cost., sia
per il carattere innovativo delle norme sia perche' si peggiora la
posizione regionale (v. art. 1, comma 1 e comma 8, legge n. 308/2004,
che richiede specificamente il rispetto delle attribuzioni conferite
alle regioni dal d.lgs. n. 112/1998). La regione e' legittimata a far
valere vizi di costituzionalita' di leggi che, in materie regionali,
implicano una menomazione della posizione regionale (v., ad es., le
sentt. n. 503/2000, 206/2001, 110/2001, 303/2003 - in relazione al
d.lgs. n. 198/2002, 280/2004). Poiche' tale lesione si produce
proprio attraverso la violazione dell'76 Cost., l'illegittimita'
denunciata si traduce in lesione di competenza regionale, che le
regioni sono legittimate a denunciare.
Peraltro, la lett. a) viola anche direttamente, in relazione alla
programmazione ed al finanziamento, l'art. 118 Cost. ed il principio
di leale collaborazione, perche' accentra allo Stato funzioni
amministrative in materie regionali senza alcun coinvolgimento delle
regioni, violando cosi' i principi fissati da codesta Corte a partire
dalla sent. n. 303/2003.
In relazione alla funzione di controllo, poi, la lett. a), oltre
ad essere illegittima per tutte le ragioni appena indicate, lo e'
anche perche' accentra una funzione allo Stato in mancanza di
esigenze di esercizio unitario, dato che il controllo sugli
interventi di difesa del suolo puo' essere adeguatamente svolta a
livello locale (anzi, il controllo su un intervento viene svolto in
modo senz'altro piu' adeguato a livello locale e da parte dell'ente
che conosce meglio le particolarita' del territorio).
L'art. 58, comma 3. lett. b) attribuisce al Ministero
dell'ambiente la «previsione, prevenzione e difesa del suolo da
frane, alluvioni e altri fenomeni di dissesto idrogeologico, nel
medio e nel lungo termine al fine di garantire condizioni ambientali
permanenti ed omogenee, ferme restando le competenze del Dipartimento
della protezione civile in merito agli interventi di somma urgenza».
Anche questa norma viola l'art. 118, comma 1, Cost., ed il
principio di leale collaborazione in quanto accentra allo Stato una
funzione amministrativa in assenza di esigenze di esercizio unitario
e, comunque, senza prevedere l'intesa della regione interessata. La
lett. b) innova nell'ordinamento, alterando il riparto di funzioni
previsto in relazione al rischio idrogeologico (v. l'art. 108, comma
1, lett. a), d.lgs. n. 112/1998 e la direttiva del Presidente del
Consiglio 27 febbraio 2004, modificata dalla direttiva 25 febbraio
2005) e peggiorando la posizione regionale. Dunque, la lett. b) viola
l'art. 76 Cost. e la sfera di competenza regionale in materia di
difesa del suolo, per le ragioni esposte in relazione alla lett. a).
La competenza regionale nella materia de qua e' pacifica e discende
dalla competenza in materia di governo del territorio, di protezione
civile e dal modo in cui la giurisprudenza costituzionale intende
l'art. 117, secondo comma, lettera s).
5) Illegittimita' dell'art. 63, commi 3 e 4, e dell'art. 64.
A) Illegittimita' costituzionale dell'accorpamento delle funzioni
in macrodistretti e della sostituzione delle Autorita' di bacino con
le nuove Autorita' di distretto.
L'art. 63, comma 3, dispone: «Le autorita' di bacino previste
dalla legge 18 maggio 1989, n. 183, sono soppresse a far data dal 30
aprile 2006 e le relative funzioni sono esercitate dalle Autorita' di
Bacino distrettuale di cui alla parte terza del presente decreto». Il
riferimento generico alla «terza parte» (alla quale in realta' la
disposizione appartiene) e' in effetti curioso, dato che le autorita'
distrettuali sono istituite dal comma 1 dello stesso articolo, in
corrispondenza degli otto distretti idrografici individuati nel
successivo art. 64.
Tale norma riaccorpa in otto distretti i numerosi bacini che la
legge n. 183/1989 istituiva, suddividendoli in bacini nazionali,
interregionali e regionali. Tra gli otto distretti figurano il
distretto della Sardegna, quello della Sicilia, ed il Distretto
idrografico pilota del Serchio, di ridottissime dimensioni.
L'intero territorio nazionale e' dunque suddiviso grossolanamente
nei rimanenti cinque distretti, vagamente corrispondenti a delle
macro-regioni. Questa suddivisione e' decisa «dall'alto» senza alcuna
partecipazione alla decisione da parte delle regioni.
Gli organi dei nuovi distretti sono individuati dall'art. 63,
comma 2, nella Conferenza istituzionale permanente, nel Segretario
generale, nella Segreteria tecnico-operativa e nella Conferenza
operativa di servizi. La stessa disposizione rinvia la definizione
dei criteri e delle modalita' per l'attribuzione o il trasferimento
del personale e delle risorse patrimoniali e finanziarie ad un
decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, da emanarsi su
proposta del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio di
concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze e con il
Ministro per la funzione pubblica «sentita la Conferenza permanente
Stato-regioni», entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore
del decreto. Ancora, lo stesso d.P.C.M. «disciplina il trasferimento
di funzioni e regolamenta il periodo transitorio».
Le disposizioni impugnate appaiono da un lato gravemente lesive
delle attribuzioni regionali, dall'altro - e proprio percio' - lesive
dell'oggetto e dei principi e criteri direttivi della delega.
Sotto il primo profilo va osservato che la Sezione in cui trovano
collocazione le disposizioni impugnate evoca con chiarezza sin dal
titolo - (Norme in materia di difesa del suolo e lotta alla
desertificazione» - che la disciplina contenuta insiste sulla materia
«governo del territorio» che l'art. 117, comma terzo, Cost., assegna
alla competenza concorrente.
Come codesta ecc.ma Corte ha ripetutamente affermato, nelle
materie concorrenti lo Stato puo' intervenire esclusivamente con
norme legislative di principio, e non puo' riservare a se' e alle
proprie strutture decentrate funzioni amministrative che non siano
giustificate dalla «chiamata in sussidiarieta» e che, anche qualora
l'attrazione al centro di funzioni «unitarie» possa essere
giustificato in nome del principio di sussidiarieta' o qualora il
particolare intreccio di competenze (coinvolgente anche competenze
esclusive dello Stato, ex art. 117, comma 2 Cost.) consentisse allo
Stato di esercitare determinate funzioni amministrative incidenti in
materie di competenza regionale, tuttavia cio' non puo' avvenire che
nel rispetto del principio di leale collaborazione, inteso in senso
«forte» (e quindi attraverso procedure di codecisione, non
semplicemente «sentendo» la Conferenza Stato-Regioni), e del
principio di proporzionalita'.
Commisurate a tali parametri, le norme che sopprimono le
Autorita' di bacino e istituiscono le nuove Autorita' distrettuali si
rivelano affette da illegittimita' costituzionale sotto diversi
profili.
In primo luogo, l'unificazione sotto un'unica autorita' di bacini
che non hanno in realta' alcuna correlazione realizza un
accentramento privo di qualunque giustificazione ed espropria le
regioni delle proprie naturali competenze, in violazione sia della
competenza legislativa di cui all'art. 117 Cost. che del principio di
sussidiarieta'.
In secondo luogo, i distretti stessi sono configurati come enti
amministrativi sovraregionali, distorcendo completamente la
fisionomia delle Autorita' di bacino, cosi' come impostate dalla
legge n. 183/1989. Queste infatti erano modellate con riferimento a
dimensioni idrogeografiche «naturali», che ne giustificavano la
competenza pianificatoria e decisionale, mentre la Autorita'
distrettuali istituite dalle disposizioni impugnate rappresentano
delle semplici articolazioni burocratico-amministrative, che
costituiscono in realta' una sorta di amministrazione decentrata
dello Stato in cui la centralizzazione amministrativa e' appena
temperata da elementi di partecipazione minoritaria delle regioni.
Si consideri che, ai sensi della legge n. 183/1989, le regioni
erano contitolari del governo dei bacini nazionali (configurati come
organismi a partecipazione mista Stato-regioni) e titolari esclusive
delle funzioni relative ai bacini regionali e interregionali. Oggi,
all'opposto, rappresentanti delle regioni sono presenti in netta
minoranza nel fondamentale organo decisionale, la Conferenza
istituzionale permanente (che nomina anche il Segretario generale),
nonche' nella Conferenza operativa, le cui competenze sono peraltro
piuttosto oscure.
La regola secondo la quale si decide a maggioranza, espressamente
enunciata al comma 4, data la composizione sperequata dell'organo (in
cui il numero dei rappresentanti dello Stato e' sempre sette, mentre
quello dei rappresentanti delle regioni dipende da quante regioni
sono concretamente coinvolte, ma queste non sono mai pari a sette),
appare espropriare le regioni da qualsiasi garanzia giuridica delle
loro prerogative.
Infine, se pure fosse giustificata secondo il principio di
sussidiarieta' la suddivisione del territorio in distretti privi di
corrispondenza con precisi bacini fluviali interconnessi, le regioni
non sono state chiamate ad esercitare alcun ruolo nella
determinazione dell'ambito dei distretti. Va considerato che, sotto
questo profilo, il decreto legislativo non contiene norme generali ed
astratte, ma opera come legge provvedimento, in materia di competenza
regionale. Secondo la stessa giurisprudenza di codesta Corte,
l'assunzione in legge di decisioni concrete non puo' privare delle
garanzie previste dalla Costituzione: il che vale ugualmente, ed a
maggiore ragione, per le competenze delle regioni, alle quali viene
cosi' sottratta ogni possibilita' di codecisione.
B) Specifica illegittimita' del potere normativo attribuito al
decreto del Presidente del Consiglio dall'art. 63, commi 2 e 3.
Si deve poi specificamente evidenziare che, come detto, che al
d.P.C.m. e' attribuita anche una funzione regolamentare (v. art. 63,
commi 2 e 3).
Innanzitutto, si tratta di un'attribuzione connessa
all'accorpamento dei distretti, illegittima per le stesse ragioni
sopra esposte.
Se essa potesse essere giustificata in nome del principio di
sussidiarieta', il corrispondente potere andrebbe comunque esercitato
d'intesa con la Conferenza Stato-regioni, la quale non puo'
semplicemente essere «sentita»
C) Specifica illegittimita' della soppressione delle Autorita' di
bacino a partire dal 30 aprile, in relazione all'impossibilita' di
dettare entro tale termine la disciplina transitoria.
Inoltre, tale potere normativo risulta dover essere esercitato
... in un solo giorno: non prima del 29 aprile 2006, perche' la norma
autorizzativa del decreto legislativo non sarebbe ancora in vigore,
ma neppure dopo il 30 aprile, perche' le norme transitorie
interverrebbero ... ad Autorita' di bacino gia' venute meno ai sensi
del comma 3. Dietro tale assurdita', tuttavia, si cela la ben piu'
sostanziale illegittimita' della norma che prevede la soppressione
delle Autorita' di bacino a partire dal 30 aprile, prima che possano
essere definite le fasi di transizione, se pure il nuovo sistema
fosse legittimo. La soppressione delle Autorita' di bacino decorre
dallo stesso 30 aprile, per cui e' evidente che l'emanazione di una
normativa transitoria diviene pressoche' impossibile, dato che
l'emanazione del d.P.C.m. e' soggetta ad una procedura complessa,
descritta dall'art. 63, comma 2, nel corso della quale deve essere
sentita la Conferenza permanente Stato-regioni.
A prescindere dalla gia' lamentata insufficienza di una forma
cosi' tenue di «cooperazione», vi e' il rischio - ma si dovrebbe dire
la certezza - che la soppressione immediata delle Autorita' di
bacino, in assenza di una regolazione transitoria - apra un periodo
di incertezza sulle competenze ad emanare gli atti e a svolgere le
funzioni di gestione, vigilanza e controllo che le Autorita' svolgono
da tempo a tutela degli interessi pubblici fondamentali che hanno in
cura.
D) Illegittimita' costituzionale degli articoli 63 e 64 sotto il
profilo della violazione della legge di delega.
Va altresi' evidenziata l'eccesso di delega in relazione sia
all'oggetto di essa che ai principi e criteri direttivi fissati dalla
legge di delega.
Infatti, quanto all'oggetto, va sottolineato che la dizione
«riordino, coordinamento e integrazione delle disposizioni
legislative..., anche mediante la redazione di testi unici» (art. 1,
comma 1, legge n. 308/2004), fa riferimento alle classifiche funzioni
di coordinamento normativo, preordinate ad una mera razionalizzazione
della legislazione vigente. Come codesta ecc.ma Corte ha
sistematicamente ripetuto (cfr. da ultimo le sentenza nn. 303/2005,
66/2005, 280/2004), «la revisione e il riordino, ove comportino
l'introduzione di norme aventi contenuto innovativo rispetto alla
disciplina previgente, necessitano della indicazione di principi e di
criteri direttivi idonei a circoscrivere le diverse scelte
discrezionali dell'esecutivo, mentre tale specifica indicazione puo'
anche mancare allorche' le nuove disposizioni abbiano carattere di
sostanziale conferma delle precedenti» (sent. n. 66/2005, che cita il
precedente della sent. 354/1998). Nel presente caso l'oggetto della
delega prevede solo il «riordino» neppure la «revisione» per cui la
massima espressa dalla giurisprudenza costituzionale va applicata con
ancora maggiore rigore.
Accanto a cio', nel definire i contorni del potere legislativo
delegato, la legge 308 (art. 1, comma 8) indica innanzi ad ogni altro
criterio «il rispetto... delle competenze per materia delle
amministrazioni statali, nonche' delle attribuzioni delle regioni e
degli enti locali, come definite ai sensi dell'articolo 117 della
Costituzione, della legge 15 marzo 1997, n. 59, e del decreto
legislativo 31 marzo 1998, n. 112»: e' percio' evidente che il
legislatore delegato era tenuto a non modificare il quadro delle
attribuzioni regionali - quadro che invece, come si e' visto, risulta
gravemente compromesso dalle scelte compiute dalle disposizioni
censurate.
D'altro canto, nessuno dei «principi e criteri direttivi» poi
elencati dall'art. 1, comma 8, autorizza un'innovazione legislativa e
amministrativa come quella apportata dalla sovversione del sistema
delle Autorita' di bacino. Tra i principi e criteri direttivi piu'
specifici dettati dal comma 9 si trova invece questa indicazione:
«c) rimuovere i problemi di carattere organizzativo,
procedurale e finanziario che ostacolino il conseguimento della piena
operativita' degli organi amministrativi e tecnici preposti alla
tutela e al risanamento del suolo e del sottosuolo, superando la
sovrapposizione tra i diversi piani settoriali di rilievo ambientale
e coordinandoli con i piani urbanistici; valorizzare il ruolo e le
competenze svolti dagli organismi a composizione mista statale e
regionale; adeguare la disciplina sostanziale e procedurale
dell'attivita' di pianificazione, programmazione e attuazione di
interventi di risanamento idrogeologico del territorio e della messa
in sicurezza delle situazioni a rischio; prevedere meccanismi
premiali a favore dei proprietari delle zone agricole e dei boschi
che investono per prevenire fenomeni di dissesto idrogeologico, nel
rispetto delle linee direttrici del piano di bacino; adeguare la
disciplina sostanziale e procedurale della normativa e delle
iniziative finalizzate a combattere la desertificazione, anche
mediante l'individuazione di programmi utili a garantire maggiore
disponibilita' della risorsa idrica e il riuso della stessa;
semplificare il procedimento di adozione e approvazione degli
strumenti di pianificazione con la garanzia della partecipazione di
tutti i soggetti istituzionali coinvolti e la certezza dei tempi di
conclusione dell'iter procedimentale».
Come si vede, la legge di delega presuppone piuttosto il
mantenimento ed il miglioramento della funzionalita' degli organismi
esistenti, fondati sull'unita' dei bacini idrografici, senza
prevederne o consentirne affatto la soppressione e la sostituzione
con un sistema radicalmente diverso, ispirato a principi divergenti,
che avrebbero dovuto in ogni caso essere enunciati.
La legge di delega, dunque, non consente una legislazione
delegata che sovverte l'ordinamento amministrativo introdotto dalla
legge n. 189/1989 e lo sostituisce con un sistema centralistico di
gestione delle politiche di tutela idrogeologica del territorio, per
lo piu' causando un periodo di grave incertezza nella fase
transitoria e esautorando le regioni, sostituendo il sistema della
Autorita' di bacino con una «zonizzazione» del territorio nazionale
dominata da un sistema di gestione affidato ad un complesso di organi
collegiali inediti e sperequanti.
Si consideri che la violazione della legge di delega si
identifica in questo caso con la lesione delle prerogative regionali,
e che il motivo e' dunque perfettamente ammissibile.
6) Illegittimita' dell'art. 65, comma 3, lettera e).
L'art. 65 regola il contenuto del piano di bacino distrettuale.
Il comma 3 stabilisce che «il Piano di bacino, in conformita' agli
indirizzi, ai metodi e ai criteri stabiliti dalla Conferenza
istituzionale permanente di cui all'articolo 63, comma 4,...
contiene.., e) la programmazione e l'utilizzazione delle risorse
idriche, agrarie, forestali ed estrattive».
Dunque, l'art. 65, comma 3, lett. e) espropria le regioni delle
funzioni relative alla programmazione ed utilizzazione delle risorse
idriche, agrarie, forestali ed estrattive; a riprova di cio', si puo'
notare che il d.lgs. n. 152/2006 non menziona il Piano regolatore
generale degli acquedotti (previsto dalla legge n. 129/1963 e la cui
modifica ed aggiornamento sono stati attribuiti alle regioni
dall'art. 90, comma 2, lett. a) d.P.R. n. 616/1977).
La disposizione viola, dunque, l'art. 118, comma 1, in quanto, in
materie di competenza regionale piena o concorrente, assegna un ruolo
preponderante ad un atto al quale le regioni partecipano ormai in
misura assai limitata (si veda quanto esposto in relazione
all'art. 63, comma 4): ne consegue la violazione dell'art. 118 Cost.
e del principio di leale collaborazione.
7) Illegittimita' dell'art. 95, comma 5, prima parte.
L'art. 95 disciplina la pianificazione del bilancio idrico. Il
comma 1 stabilisce che «la tutela quantitativa della risorsa concorre
al raggiungimento degli obiettivi di qualita' attraverso una
pianificazione delle utilizzazioni delle acque volta ad evitare
ripercussioni sulla qualita' delle stesse e a consentire un consumo
idrico sostenibile»; il comma 2 dispone che «nei piani di tutela sono
adottate le misure volte ad assicurare l'equilibrio del bilancio
idrico come definito dalle Autorita' di bacino, nel rispetto delle
priorita' stabilite dalla normativa vigente e tenendo conto dei
fabbisogni, delle disponibilita', del minimo deflusso vitale, della
capacita' di ravvenamento della falda e delle destinazioni d'uso
della risorsa compatibili con le relative caratteristiche qualitative
e quantitative.». Il comma 5, poi, statuisce che, «per le finalita'
di cui ai commi 1 e 2, le Autorita' concedenti effettuano il
censimento di tutte le utilizzazioni in atto nel medesimo corpo
idrico sulla base dei criteri adottati dal Ministro dell'ambiente e
della tutela del territorio con proprio decreto, previa intesa con la
Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le
province autonome di Trento e di Bolzano» e che «le medesime
Autorita' provvedono successivamente, ove necessario, alla revisione
di tale censimento, disponendo prescrizioni o limitazioni temporali o
quantitative, senza che cio' possa dar luogo alla corresponsione di
indennizzi da parte della pubblica amministrazione, fatta salva la
relativa riduzione del canone demaniale di concessione».
La materia della tutela quantitativa della risorsa idrica e della
pianificazione dell'utilizzazione di essa rientra nella competenza
regionale ed e' gia' regolata a livello regionale; lo stesso d.lgs.
n. 152/2006 attribuisce il Piano di tutela delle acque alla
competenza regionale (art. 121, commi 2 e 5).
L'art. 95, comma 5, modifica illegittimamente la disciplina
dettata dall'art. 22, comma 6, d.lgs. n. 152/1999, che gia'
consentiva alle Autorita' concedenti di limitare le utilizzazioni
idriche; la norma ha rappresentato un importante strumento per
preservare la priorita' dell'uso umano potabile rispetto ad altri
usi. La norma impugnata introduce la necessita' di non meglio
precisati «criteri» che devono essere prefissati con decreto
ministeriale. In questo modo, l'applicabilita' della norma resta
bloccata fino all'adozione dei criteri in questione.
Essa lede le competenze regionali (in violazione degli artt. 117,
terzo comma, e 118 Cost.), sia nel caso in cui si ritenga che i
«criteri» siano sostanzialmente un atto di indirizzo e coordinamento
in materia regionale (tali atti non sono piu' ammessi dopo la legge
cost. n. 3/2001: v., oltre alla dottrina prevalente, le sentt.
n. 324/2005 e n. 329/2003 e l'art. 8, comma 6, legge n. 131/2003;
comunque, l'atto di indirizzo e coordinamento dovrebbe essere
adottato con delibera del Consiglio dei ministri), sia nel caso in
cui si ritenga che essi siano un atto sostanzialmente regolamentare:
infatti, non sarebbe certo possibile evitare il nomen di regolamento
per eludere l'applicazione dell'art. 117, Cost.; quando un atto ha
natura sostanzialmente normativa, esso va considerato regolamento e
soggetto alle norme relative (v., per la necessita' di usare criteri
«sostanziali» le sentt. n. 88/2003, n. 186/2003 e n. 12/2004).
Inoltre, poiche' non si comprende l'utilita' dei criteri
ministeriali, l'art. 95, comma 5, prima parte viola la legge di
delega, in particolare l'art. 1, comma 9 (principio di economicita),
e l'art. 1, comma 9, lett. b) (principio di semplificazione e
rispetto degli obiettivi fondamentali della legge n. 6/1994, in
quanto viene compromessa la tutela della priorita' dell'uso umano).
Questa violazione dell'art. 76 Cost. si traduce in lesione delle
competenze regionali, dato che la previsione dei criteri ministeriali
costituisce un vincolo per l'attivita' amministrativa regionale ed
interferisce con l'autonomia normativa della Regione.
8) Illegittimita' dell'art. 96, comma 1.
Il comma 1 dell'art. 96 riscrive l'art. 7 del T.U. delle
disposizioni sulle acque e impianti elettrici, apportando alcune
modificazioni al testo introdotto dal d.lgs. n. 152/1999 (art. 23,
comma 1 che incidono sul procedimento per il rilascio delle
concessioni di acqua pubblica. Il nuovo testo dispone che le domande
relative sia alle grandi sia alle piccole derivazioni siano trasmesse
alle Autorita' di bacino territorialmente competenti che, entro il
termine rispettivamente di novanta e di quaranta giorni «comunicano
il proprio parere vincolante al competente Ufficio istruttore in
ordine alla compatibilita' della utilizzazione con le previsioni del
Piano di tutela, ai fini del controllo sull'equilibrio del bilancio
idrico o idrologico, anche in attesa di approvazione del Piano
anzidetto». La norma dispone ancora che, «decorsi i predetti termini
senza che sia intervenuta alcuna pronuncia, il Ministro dell'ambiente
e della tutela del territorio nomina un ad acta che provvede entro i
medesimi termini decorrenti dalla data della nomina».
Si deve osservare (oltre alla singolarita' del fatto che sia
l'Autorita' di bacino a dare il parere vincolante sul rispetto del
Piano di tutela approvato dalla regione) che le competenze della
regione Umbria sono concretamente incise dalla norma contestata:
infatti la regione ha adottato una propria disciplina procedimentale
con la legge n. 5/2006, in attuazione del conferimento di funzioni
operato con il d.lgs. n. 112/1998.
In particolare, la previsione che le nuove Autorita' di Bacino,
ora connotate da una composizione a predominanza statale, esprimano
sulle grandi derivazioni il parere in un termine che passa da
quaranta a novanta giorni e che esso sia vincolante, e che in caso di
mancata espressione del parere non operi piu' il silenzio assenso, ma
si proceda alla nomina di un commissario ad acta che ha altri novanta
giorni per esprimersi, da un lato sottrae alle regioni competenze
gia' loro spettanti, dall'altro comporta una enorme dilatazione dei
tempi, in aperto contrasto quindi con gli obiettivi di
semplificazione indicati dalla legge di delega (art. 1, comma 9,
lett. b).
Nonostante la materia della gestione di tali procedimenti sia
gia' stata delegata alle regioni (art. 86 - 89 del d.lgs.
n. 112/1998), le competenze regionali sono completamente ignorate
dalla disciplina impugnata, sicche' anche sotto questo profilo essa
appare lesiva della stessa legge di delega che impone al legislatore
delegato il rispetto del riparto di competenze fissato dal decreto
n. 112/1998.
L'art. 96, comma 1, dunque, viola l'art. 117, commi 3 e 4, Cost.
(perche' la disciplina statale si sovrappone a quella adottata dalla
regione), l'art. 118, comma 1 (perche' prevede una funzione
amministrativa statale in violazione del principio di sussidiarieta),
e l'art. 76 Cost., perche' viola la legge di delega menomando la
posizione regionale.
9) Illegittimita' dell'art. 101, comma 7.
L'art. 101, comma 7, derogando ad un criterio consolidato da un
trentennio, assimila alle acque reflue domestiche gli scarichi
derivanti dalle imprese agricole includendo in esse anche quelle che
svolgono attivita' di trasformazione o valorizzazione dei prodotti
agricoli, purche' tale attivita', inserita con carattere di
normalita' e complementarieta' funzionale nel ciclo produttivo
aziendale, riguardi materia prima lavorata proveniente in misura
prevalente dall'attivita' di coltivazione dei terreni di cui si abbia
a qualunque titolo la disponibilita'.
Si tratta di attivita' i cui reflui possono avere un
considerevole impatto ambientale: si considerino, ad esempio, le
cantine vinicole o i caseifici che producono su scala industriale.
In precedenza il decreto legislativo n. 152/1999 «Disposizioni
sulla tutela delle acque dall'inquinamento e recepimento della
direttiva 91/271/CEE concernente il trattamento delle acque reflue
urbane e della direttiva 91/676/CEE relativa alla protezione delle
acque dall'inquinamento provocato dai nitrati provenienti da fonti
agricole») fissava all'art. 28, comma 7, lett. c), un criterio certo,
che imponeva un preciso rapporto minimo tra materia prima derivante
dalla propria produzione e materia prima derivante da produzioni
altrui: ora, la disposizione impugnata sostituisce il limite minimo
di 2/3 con il concetto elastico di «misura prevalente». Si tratta di
un criterio discrezionale, che nella pratica corrente favorisce
comportamenti della P.A. che possono determinare disparita' di
trattamento.
In mancanza di criteri certi e verificabili, l'incoerente o non
appropriata classificazione degli scarichi delle imprese agricole che
esercitano anche attivita' di trasformazione dei prodotti agricoli,
di norma caratterizzati da carichi inquinanti elevati, determina
l'applicazione di livelli di trattamento meno rigorosi, in quanto -
ad esempio - i reflui vengano classificati domestici invece che
industriali: con conseguenti effetti negativi sulle caratteristiche
di qualita' delle acque del corpo recettore (ad esempio il corso
d'acqua), il mancato raggiungimento degli obiettivi di qualita'
fissati dalle norme comunitarie e il conseguente danno all'ambiente.
La disposizione impugnata provoca dunque una riduzione del
livello di tutela delle acque e contraddice percio' i principi e
criteri direttivi fissati dalla legge di delega: sia quello di «non
innovativita» (art. 1, comma 1) sia quello del «miglioramento della
qualita' dell'ambiente, della protezione della salute umana,
dell'utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali» (lett.
a) dell'art. 1, comma 8), e inoltre quello del «pianificare,
programmare e attuare interventi diretti a garantire la tutela e il
risanamento dei corpi idrici superficiali e sotterranei, previa
ricognizione degli stessi» (lett. b) del successivo comma 9).
Essa inoltre incide negativamente sulle funzioni attribuite alla
regione gia' dalla legislazione di settore e dal decreto legislativo
n. 112/1998, e cio' ancora una volta si riflette in violazione del
preciso vincolo posto dalla legge di delega (art. 1, comma 8).
Inoltre, la disposizione censurata minaccia di provocare effetti
irreversibili sul controllo dei reflui e sulla qualita' delle acque,
gravemente minacciando gli interessi pubblici ambientali che la
regione ha in carico, sia pure non in via esclusiva, nonche' della
tutela del territorio e della salute umana, che rientrano nelle
competenze concorrenti fissate dall'art. 117, terzo comma, Cost.
10) Illegittimita' degli artt. 148, 149, 153, comma 1, 154, 155,
160, 166, comma 4.
Nell'ambito della Parte Terza del decreto impugnato il
legislatore statale disciplina, alla Sezione Terza, la «Gestione
delle risorse idriche» ivi compreso, al Titolo II, il «Servizio
idrico integrato».
La disciplina di tale servizio, come e' noto e come meglio si
dira', spetta alle secondo il riparto di competenze di cui
all'art. 117 Cost. Ed infatti, nel tentativo di dare individuare il
fondamento costituzionale della potesta' legislativa cosi' esercitata
il legislatore statale precisa subito che la propria disciplina e'
limitata ai «profili che concernono la tutela dell'ambiente e della
concorrenza e la determinazione dei livelli essenziali delle
prestazioni del servizio idrico integrato e delle relative funzioni
fondamentali di comuni, province e citta' metropolitane» (art. 141,
comma 1, d.lgs. n. 152/2006).
Sennonche', se dall'astratta enunciazione dell'art. 141 cit. si
passano ad esaminare in concreto le successive disposizioni dettate
dal legislatore statale, ci si avvede immediatamente che esse
travalicano di gran lunga i legittimi ambiti di intervento statale.
Appare infatti del tutto evidente come la normativa statale -
quando non risulta ictu oculi del tutto estranea rispetto agli ambiti
indicate all'art. 141, comma 1 - sia stata comunque emanata senza
tenere nel dovuto conto il riparto costituzionale, come precisato
dalla giurisprudenza di codesta ecc.ma Corte costituzionale: cio'
tanto - in via generale - con riguardo alla ricostruzione delle
«materie» di cui all'art. 117, secondo comma, Cost. (evocate
all'art. 141, comma 1, d.lgs. n. 152/2006: ambiente, concorrenza,
livelli essenziali della prestazioni) operata dalla giurisprudenza
costituzionale nel corso di questi ultimi anni, quanto - a livello
particolare - con riferimento specifico all'inquadramento
costituzionale del servizio idrico integrato, del quale la Corte ha
avuto recentemente occasione di occuparsi.
Con riferimento al primo dei due profili indicati (la
ricostruzione delle materie), va infatti innanzitutto osservato come
i titoli di competenza invocati dal legislatore statale consistano
non gia' in «normali materie» di cui all'art. 117, secondo comma,
Cost. (le quali legittimerebbero una competenza statale legislativa
esclusiva) ma piuttosto in «materie trasversali» le quali - come ben
noto - se da un lato consentono un intervento statale con riferimento
a qualunque materia, ivi comprese quelle riservate ex art. 117, comma
4, alla competenza esclusiva regionale, dall'altro, proprio per tale
ragione, impongono che l'intervento statale sia limitato
tassativamente alla disciplina di quanto e' strettamente necessario
al conseguimento della finalita' culla clausola trasversale medesima
e' preordinata: pena, in caso contrario, il fin troppo evidente
sostanziale svuotamento di qualunque prerogativa costituzionale delle
regioni.
Tali principi sono gia' stati bene e chiaramente evidenziati da
parte di codesta Corte.
Cosi', innanzitutto, con riferimento alla materia della «tutela
dell'ambiente» (art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.), la Corte
ha chiarito inequivocabilmente come sia da escludere che essa si
configuri come «"materia" in senso tecnico» riconducibile ad una
sfera di competenza statale rigorosamente circoscritta e delimitata,
giacche' al contrario, essa investe e si intreccia inestricabilmente
con altri interessi e competenze. Secondo la Corte, «e' agevole
ricavare una configurazione dell'ambiente come valore
costituzionalmente protetto, che, in quanto tale, delinea una sorta
di materia «trasversale» in ordine alla quale si manifestano
competenze diverse, che ben possono essere regionali, spettando allo
Stato le determinazioni che rispondono ad esigenze meritevoli di
disciplina uniforme sull'intero territorio nazionale» (Corte cost.
407-2002 punto 3.2 in diritto). Tale conclusione, del resto, emerge
anche dai lavori preparatori della legge cost. n. 3/2001, i quali
inducono «a considerare che l'intento del legislatore sia stato
quello di riservare comunque allo Stato il potere di fissare
standards di tutela uniformi sull'intero territorio nazionale, senza
peraltro escludere in questo settore la competenza regionale alla
cura di interessi funzionalmente collegati con quelli propriamente
ambientali di modo che «si puo' quindi ritenere che riguardo alla
protezione dell'ambiente non si sia sostanzialmente inteso eliminare
la preesitente pluralita' di titoli di legittimazione per interventi
regionali diretti a soddisfare contestualmente, nell'ambito delle
proprie competenze, ulteriori esigenze rispetto a quelle di carattere
unitario definite dallo Stato» (ancora Corte cost. n. 407-2002 cit.,
punto 3.2 in diritto).
Considerazioni analoghe valgono anche per quanto riguarda la
«tutela della concorrenza» (art. 117, secondo comma lett. e), Cost.),
la quale e' stata parimenti qualificata da codesta Corte come una
«materia-funzione», caratterizzata da un'estensione non rigorosamente
circoscritta e determinata, ma piuttosto «trasversale» dal momento
che «si intreccia inestricabilmente con una pluralita' di altri
interessi - alcuni dei quali rientranti nella sfera di competenza
concorrente o residuale delle regioni»: dal che consegue la
necessita' «di basarsi sul criterio di proporzionalita-adeguatezza al
fine di valutare, nelle diverse ipotesi, se la tutela della
concorrenza legittimi o meno determinati interventi legislativi dello
Stato» Corte cost. n. 272/2004, punto 3 in diritto).
Quanto alla «determinazione dei livelli essenziali delle
prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere
garantiti su tutto il territorio nazionale» (art. 117, secondo comma,
lett. m) Cost.) essa appare del tutto estranea rispetto all'oggetto
delle disposizioni statali relative al servizio idrico: e del resto
codesta Corte ha gia' pacificamente escluso che essa possa essere
invocata per giustificare una competenza statale in materia di
servizi pubblici locali quale e' appunto il servizio idrico (cfr.
Corte cost. 272-2004). Le motivazioni di tale esclusione si adattano
perfettamente al caso presente: anche la disciplina dei servizi
idrici recata dalle disposizioni qui impugnate infatti - come gia'
quella di cui all'art. 113, comma 7, secondo e terzo periodo, d.lgs.
n. 267/2000 - «riguarda precipuamente servizi di rilevanza economica
e comunque non attiene alla determinazione di livelli essenziali»
(Corte cost. n. 272/2004 punto 3 in diritto).
A conclusioni corrispondenti si deve giungere per quanto riguarda
la materia relativa alle «funzioni fondamentali di comuni, province e
citta' metropolitane» di cui all'art. 117, secondo comma, lett. p),
Cost., pure invocata dal decreto legislativo: considerato che la
gestione dei servizi pubblici locali non puo' certo considerarsi
esplicazione di una funzione propria ed indefettibile dell'ente
locale» (ancora Corte cost. n. 272/2004, punto 3 in diritto).
Quanto allo specifico profilo relativo all'inquadramento del
servizio idrico, va osservato come - nel corso dello scrutinio di
costituzionalita' di una legge regionale avente ad oggetto proprio il
servizio idrico integrato - la Corte abbia avuto recentissimamente
modo di stabilire in modo assolutamente chiaro come «la materia dei
servizi pubblici locali ... appartiene alla competenza residuale
delle regioni» (Corte cost. n. 29/2006, punto 7 in diritto).
Risulta pertanto inesatta nel decreto legislativo qui impugnato
anche la collocazione della competenza regionale - nei limiti in cui
essa e' riconosciuta - nel solo ambito del «governo del territorio»
(cfr. art. 142, comma 2). Tale disposizione, se pure mostra la
consapevolezza dell'impossibilita' di ricondurre l'intero fenomeno
del servizio idrico integrato alla sola competenza esclusiva statale,
risulta anch'essa - come e' evidente dal confronto con quanto appena
illustrato - estremamente riduttiva della competenza regionale.
In tale contesto, risulta dunque ampiamente confermato quanto
sopra indicato: cioe' che e' innegabile la presenza di competenze
legislative regionali costituzionalmente riconosciute in materia di
servizio idrico integrato (per di piu', competenze di tipo esclusivo
di cui all'art. 117, quarto comma Cost.), con la conseguenza che
l'operativita' delle richiamate «clausole trasversali» (o
«materie-funzione») di cui all'art. 117, secondo comma, Cost., se da
un lato e' ben in grado di fondare una concorrente legittimazione
normativa statale, deve tuttavia tenere necessariamente conto delle
intrecciate competenze regionali, e deve dunque essere esercitata nel
rispetto dei principi di proporzionalita' e adeguatezza, dunque nella
misura strettamente necessaria ad assicurare la finalita' indicate
dalle citate «clausole trasversali».
Ad avviso della ricorrente regione, i limiti dell'intervento
statale sono stati superati in particolare nelle disposizioni di
seguito indicate.
I) Illegittimita' costituzionale dell'art. 148, comma 5.
L'art. 148, comma 5, prevede la possibilita' che i comuni con
meno di 1.000 abitanti inclusi nel territorio della comunita' montane
possano - a determinate condizioni - scegliere di non partecipare
alla gestione unica del servizio idrico integrato.
Tale previsione non trova manifestamente alcun fondamento nelle
clausole trasversali pure evocate dal legislatore statale
all'art. 141, primo comma, per fondare la competenza legislativa
statale, essendo al contrario a prima vista evidente la sua
irriconducibilita' sia alla materia della tutela dell'ambiente, sia a
quella della concorrenza, sia a quella relativa alla determinazioni
dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili
e sociali, sia infine a quella relativa alle funzioni fondamentali di
comuni, province e citta' metropolitane.
Ne consegue che essa disposizione finisce per rivelarsi
unicamente un'indebita compressione della potesta' legislativa
regionale in materia di servizi pubblici locali, come definita da
codesta Corte con la citata sentenza 29/2006.
La disposizione dunque compie scelte che sono riservate al
legislatore regionale. Si aggiunga che tali scelte costituiscono
anche violazione del principio di ragionevolezza (ex art. 3 Cost.),
in quanto adottata senza tenere conto dei potenziali effetti negativi
che essa in grado di produrre.
Al riguardo si consideri che nel territorio della Regione Umbria
i comuni potenzialmente interessati da tale previsione sono piu' del
10 del totale dei comuni, per di piu' collocati in zone da cui
partono alcuni dei piu' importanti acquedotti di interesse regionali:
di modo che l'uscita dei comuni in questione comporterebbe
necessariamente una riorganizzazione dell'intero servizio idrico
incredibilmente irrazionale, complessa e difficoltosa, con
conseguenti disservizi per tutti gli utenti e gravi diseconomie di
gestione.
Sia invece consentito osservare come la decisione sugli ambiti
concreti e sulle modalita' gestionali ed organizzative del servizio
costituiscano invece il contenuto specifico della affermata
competenza regionale esclusiva in materia di servizi pubblici locali,
dimostrando ulteriormente - se ve ne fosse bisogno - l'opportunita'
che la regolazione di aspetti ditale genere avvengano ad un livello
di governo in grado di valutare realmente gli effetti dei propri
atti, anziche' venire calati arbitrariamente dall'alto, in assenza di
una precisa consapevolezza del contesto sul quale si viene ad
incidere.
Sotto altro profilo, la disposizione in parola e' pure
incostituzionale per eccesso di delega, poiche' introduce in un
decreto delegato di mero «riordino, coordinamento e integrazione»
della materia (cfr. art. 1, comma 1, n. 308/2004) una previsione del
tutto nuova, che innova radicalmente rispetto al sistema della legge
Galli (legge n. 16/1994) senza che nel testo della delega sia
possibile rinvenire un reale fondamento a tale potere.
II) Illegittimita' costituzionale dell'art. 149, comma 6.
L'art. 149, comma 6, prevede un potere di controllo nei confronti
della «Autorita' d'ambito territoriale ottimale» affidato alla
«Autorita' di vigilanza sulle risorse idriche e sui rifiuti»
organismo i cui componenti, ex art. 159 dello stesso d.lgs.
n. 152/2006, sono largamente espressione statale. Tale potere si
concretizza non solo nella possibilita' di formulare «rilievi» ed
«osservazioni», ma altresi' in quella di dettare specifiche
rescrizioni concernenti il programma degli interventi, con
particolare riferimento all'adeguatezza degli investimenti
programmati in relazione ai livelli minimi di servizio individuati
quali obiettivi della gestione, il piano finanziario, con particolare
riferimento alla capacita' dell'evoluzione tariffaria di garantire
l'equilibrio economico finanziario della gestione, anche in relazione
agli investimenti programmati».
Anche in questo caso si tratta di ambiti certamente estranei alle
materie di cui all'art. 141, comma 1, d.lgs. n. 52/2006 (oltre che
ovviamente alle altre materie di cui all'art. 117, secondo comma
Cost.): con conseguente violazione dell'art. 117, secondo e quarto
comma.
In secondo luogo, l'attribuzione all'Autorita' di vigilanza di
funzioni amministrative di controllo e prescrittive in assenza di
reali motivi che ne giustifichino un'attrazione a livello statale
costituisce al contempo violazione dell'art. 118, primo comma Cost.,
oltre a risultare al lesiva delle potesta' di controllo regionali,
che nel caso della Regione Umbria sono gia' state disciplinate
dall'art. 12 della legge regionale 5 dicembre 1997, n. 43.
E' al contrario evidente che una realta' quale quella del
servizio idrico integrato si riferisce ad una dimensione che
trascende l'ambito puramente locale, ma e' pienamente compresa in
quello regionale, e non richiede affatto un esercizio unitario di
funzioni amministrative a livello statale. In ogni caso,
un'attrazione di tali potesta' ad opera della Stato potrebbe essere
consentita - ricorrendone i presupposti sostanziali (cosa che non e'
nel presente caso - previo reale coinvolgimento delle regioni
nell'esercizio del potere, in ossequio al principi indicati con la
nota sentenza n. 303/2003 della Corte cost.
Anche a non considerare quanto finora osservato, la disposizione
in questione risulta in ogni caso ulteriormente incostituzionale in
quanto emanata in violazione dell'art. 76 Cost. per contrasto con la
legge di delega. Cio' non soltanto per il carattere innovativo della
disposizione rispetto alla legge Galli (nei termini gia' indicati con
riferimento all'articolo precedente), ma in questo caso anche sotto
un diverso profilo. L'attribuzione delle funzioni amministrative
all'Autorita' di vigilanza, infatti, risulta anche in contrasto con i
disposti di cui al d.lgs. n. 112/1998, ai quali invece avrebbe dovuto
necessariamente conformarsi giusta quanto disposto dal comma 8
dell'art. 1 della legge di delega. Dall'esame dell'art. 88 del d.lgs.
n. 112/1998, infatti, non si ricavano elementi in grado di includere
le funzioni affidate all'Autorita' di vigilanza fra i «compiti di
rilievo nazionale» di cui l'articolo si occupa: di modo che non resta
che riconoscere che si tratta di funzione da esercitare
necessariamente a livello regionale.
Anche sotto tale profilo, dunque, la disposizione impugnata si
palesa incostituzionale.
III) Illegittimita' costituzionale dell'art. 153, comma 1.
Tale disposizione stabilisce l'affidamento in concessione
gratuita al gestore del servizio idrico integrato di tutte le
infrastrutture idriche di proprieta' degli enti locali.
Anche con riferimento a tale disposizione non e' dato di
stabilire alcun collegamento con i titoli di competenza invocati dal
legislatore statale all'art. 141, comma 1 del decreto qui impugnato:
dal che deriva il pieno esplicarsi sul punto della competenza
esclusiva residuale delle regioni di cui all'art. 117, quarto comma
con conseguente illegittimita' dell'arbitrario sconfinamento del
legislatore statale.
Anche in questo caso, poi, alla violazione dei principi che
presiedono al riparto costituzionale di cui all'art. 117 Cost. si
accompagnano ulteriori profili di illegittimita'. In primo luogo,
infatti, la previsione in parola si pone in contrasto con il
principio di ragionevolezza nella misura in cui, sancendo
inderogabilmente la gratuita' della concessione delle infrastrutture
idriche di proprieta' degli enti locali determina un fin troppo
evidente danno a carico delle finanze dei medesimi enti locali,
privandoli di un introito certo che solo in misura parziale ed
insufficiente e' compensato dalla assunzione degli oneri connessi da
parte dei gestori. E' poi evidente che - nell'ambiguo silenzio
serbato sul punto dal legislatore delegato - il danno sarebbe ancora
maggiore e piu' evidente laddove si dovesse ritenere che la
disposizione in oggetto abbia effetto anche in relazione agli
affidamenti gia' in essere che prevedono la onerosita' della
concessione.
In secondo luogo, la previsione risulta ancora una volta viziata
da eccesso di delega: sia perche' innovativa rispetto al quadro
normativo che avrebbe dovuto essere meramente «riordinato, coordinato
ed integrato» sia perche' al contrario risulta in patente violazione
della criterio contenuto nel comma 1 della legge di delega (legge
n. 308/2004) ai sensi del quale dovevano essere evitati «nuovi o
maggiori oneri per la finanza pubblica»: cosa che non puo' certo
avvenire se si privano gli enti locali di una fonte d'entrata gia'
ampiamente acquisita.
IV) Illegittimita' costituzionale degli artt. 154 e 155.
L'art. 154 istituisce la «Tariffa per il servizio idrico», quale
«corrispettivo del servizio idrico integrato» e fissa i parametri con
cui essa deve essere determinata, prescrivendo che debba tenersi
conto «della qualita' della risorsa idrica e del servizio fornito,
delle opere e degli adeguamenti necessari, dell'entita' dei costi di
gestione delle opere, dell'adeguatezza della remunerazione del
capitale investito e dei costi di gestione delle aree di
salvaguardia, nonche' di una quota parte dei costi di funzionamento
dell'Autorita' d'ambito, in modo che sia assicurata la copertura
integrale dei costi di investimento e di esercizio secondo il
principio del recupero dei costi e secondo il principio "chi inquina
paga"».
Di seguito la disposizione determina le competenze attuative,
attribuendo: al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio,
su proposta dell'Autorita' di vigilanza sulle risorse idriche e sui
rifiuti, il compito di definire con decreto «le componenti di costo
per la determinazione della tariffa relativa ai servizi idrici per i
vari settori di impiego dell'acqua»; al Ministro dell'economia e
delle finanze, di concerto con il Ministro dell'ambiente e della
tutela del territorio, «al fine di assicurare un omogenea disciplina
sul territorio nazionale il compito di stabilire «i criteri generali
per la determinazione, da parte delle regioni, dei canoni di
concessione per l'utenza di acqua pubblica, tenendo conto dei costi
ambientali e dei costi della risorsa e prevedendo altresi' riduzioni
del canone nell'ipotesi in cui il concessionario attui un riuso delle
acque reimpiegando le acque risultanti a valle del processo
produttivo o di una parte dello stesso o, ancora, restituisca le
acque di scarico con le medesime caratteristiche qualitative di
quelle prelevate».
Vengono cosi' previsti diversi poteri normativi ministeriali
sovraordinati a quello delle regioni, in violazione della competenza
legislativa propria spettante alle regioni a termini dell'art. 117,
quarto comma, della Costituzione.
Sorprende che il legislatore delegato abbia ignorato i rilievi
della Commissione della Camera, che avvertiva dell'esigenza di non
ignorare il potere normativo regionale. A conferma della competenza
legislativa regionale va qui richiamata la sentenza di codesta ecc.ma
Corte costituzionale n. 335 del 2005, occasionata da un ricorso
governativo avverso la legge della Regione Emilia-Romagna n. 7/2004.
In tale sentenza codesta Corte pur affermando che il tributo speciale
per il deposito in discarica dei rifiuti solidi, benche' devoluto
alle regioni ricada nella legislazione esclusiva in materia di
sistema tributario e contabile dello Stato, in quanto istituito con
legge dello Stato - ha pero', in base alla costante giurisprudenza
costituzionale in merito al regime transitorio dei tributi (in attesa
della attuazione dell'art. 119 Cost.) dichiarato inammissibile il
ricorso governativo contro l'art. 47 della suddetta legge regionale,
che istituiva e disciplinava la tariffa relativa al servizio
integrato ed alla gestione dei rifiuti, non essendo emersa alcuna
base idonea a suffragare la competenza statale. Dunque la
disposizione impugnata illegittimamente si ingerisce nella materia
dei servizi pubblici locali, riservata alla potesta' residuale delle,
regioni (cfr. sentt. n. 272/2004 e n. 29/2006 citt.), delineando una
normativa che per di piu' si profila nel merito non affatto coerente
con l'evoluzione della stessa legislazione statale: e'
incomprensibile, ad esempio, l'omissione tra i criteri di quanto gia'
contenuto nell'art. 13 della legge n. 36/1994, concernente la
necessita' di tener conto degli obiettivi di miglioramento della
produttivita».
Una tale carenza - rinunciando all'utilizzo di uno degli
strumenti piu' efficaci per favorire il miglioramento dell'efficienza
delle gestioni, ovvero della leva tariffaria - configura una tariffa
priva del controllo sui costi di gestione e puo' implicare il
riconoscimento a pie' di lista dei costi operativi del gestore,
eliminando il miglioramento progressivo in termini di efficienza
previsto dalla normativa precedente.
Tali norme violano il riparto della potesta' legislativa tra
Stato e regioni, fissato dall'art. 117 (e, in particolare, la
competenza residuale ex art. 117, quarto comma, in materia di
disciplina dei servizi pubblici locali), e l'autonomia finanziaria e
tributaria delle regioni, garantita dall'art. 119, comma primo e
secondo, Cost., in quanto incidono su un'entrata la cui disciplina
ricade nella competenza regionale.
Inoltre, le norme impugnate contrastano anche con gli stessi
criteri della delega legislativa, almeno la' dove essa vincola il
legislatore delegato: a) al rispetto «delle attribuzioni delle
regioni e degli enti locali, come definite ai sensi dell'art. 117
della Costituzione, della legge 15 marzo 1997, n. 59, e del decreto
legislativo 31 marzo 1998, n. 112» (art. 1, comma 8); b) allo
«sviluppo e coordinamento, con l'invarianza del gettito, delle misure
e degli interventi che prevedono incentivi e disincentivi, finanziari
o fiscali, volti a sostenere, ai fini della compatibilita'
ambientale, l'introduzione e l'adozione delle migliori tecnologie
disponibili, come definite dalla direttiva 96/61/CE del 24 settembre
1996 del Consiglio, nonche' il risparmio e l'efficienza energetica, e
a rendere piu' efficienti le azioni di tutela dell'ambiente e di
sostenibilita' dello sviluppo, anche attraverso strumenti economici,
finanziari e fiscali» (art. 1, comma 8, lett. d); mentre, per altro
verso, essa non appare neppure rientrare negli oggetti della delega,
non essendo previsto tra essi l'introduzione ex novo dell'imposta in
questione.
Per le stesse ragioni ora esposte appare illegittimo altresi'
l'art. 155, in relazione alla quota di tariffa riferite ai servizi di
fognatura e di depurazione.
V) Illegittimita' costituzionale dell'art. 154, comma 6.
Il comma 6, dell'art. 154 prevede, nel suo ultimo periodo, la
possibilita' di introdurre maggiorazioni tariffarie a carico di
«aziende artigianali, commerciali e industriali».
Anche in questo caso, oltre a non sussistere un fondamento
legislativo nelle «materie» indicate all'art. 141, comma 1, d.lgs.
n. 152/2006, con conseguente violazione della potesta' legislativa
esclusiva regionale di cui all'art. 117, quarto comma, la
disposizione risulta ulteriormente incostituzionale per violazione
dell'art. 76 Cost. in quanto del tutto innovativa rispetto
all'art. 13, comma 7, della legge Galli (legge n. 436/l994) i cui
contenuti avrebbero invece dovuto essere rispettati del legislatore
delegato ai sensi dei disposti dell'art. 1, legge n. 308/2004.
Ora, e' agevole osservare come il comma 7 dell'art. 13, legge
n. 36/1994 non prevede affatto maggiorazioni della tariffa a carico
delle categorie teste' indicate: di qui l'illegittimita' della
previsione impugnata.
VI) Illegittimita' costituzionale dell'art. 160.
L'art. 160 indica analiticamente i molti e penetranti poteri
attribuiti all'Autorita' di vigilanza sulle risorse idriche,
organismo i cui componenti, ex art. 159 dello stesso d.lgs.
n. 152/2006, sono in massima parte espressione del livello di governo
statale.
Tuttavia, nell'elencare tali poteri, il legislatore delegato
dimentica di tenere in considerazione il ruolo delle regioni, e gli
stessi poteri che esse gia' esercitano.
Al riguardo valgono le considerazioni gia' esposte con
riferimento al precedente punto II) (relativo illegittimita'
costituzionale dell'art. 149, comma 6), per quanto attiene alla
carenza di titolo in grado di fondare validamente la competenza
legislativa statale in una materia che invece la Corte cost. ha gia'
indicato come di sicura competenza esclusiva regionale ex art. 117,
quarto comma, Cost. (sentenza n. 29/2006) nonche' alla illegittimita'
dell'attribuzione di funzioni amministrative a livello statale (con
conseguente violazione dell'art. 118, primo comma Cost.) ed alla
violazione dei criteri che prevedevano la ricognizione e la conferma
dell'assetto di competenze preesistente, con particolare riguardo
all'ampiezza delle attribuzioni riconosciute in capo a regioni ed
enti locali (cfr. art. 1, comma 8, n. l08/2004).
A cio' si aggiunga che la mancata doverosa considerazione del
livello di governo regionale appare nel caso di specie tanto piu'
grave in quanto risulta omettere, tra l'altro, qualunque riferimento
ai poteri di pianificazione regionali che trovano concretizzazione
nel «piano regolatore generale degli acquedotto» gia' previsto
dall'art. 8, comma 4, della legge Galli (n. 36/1994) ed in seguito
disciplinato a livello regionale dall'art. 12, comma 2, della legge
regionale 5 dicembre 1997, n. 43.
Sotto tale profilo, emerge un'ulteriore compressione delle
facolta' regionali ed un'ulteriore violazione dei criteri della legge
di delega.
VII) Illegittimita' costituzionale dell'art. 166, comma 4.
Il comma 4 dell'art. 166 attribuisce al consorzio interessato il
compiuto di determinare il contributo previsto dal precedente comma
3, e cioe' il contributo che deve versare «chiunque, non associato ai
consorzi di bonifica ed irrigazione, utilizza canali consortili o
acque irrigue come recapito di scarichi, anche se depurati e
compatibili con l'uso irriguo, provenienti da insediamenti di
qualsiasi natura».
La disposizione e' formulata in termini generali: tuttavia, essa
viene qui impugnata nell'ipotesi in cui dovesse essere interpretata
come riferentesi anche agli enti locali, e si rivelasse dunque lesiva
della loro autonomia finanziaria (che la regione e' ben abilitata a
far valere secondo la giurisprudenza costituzionale: cfr. sentenze
n. 417/2005 e 533/2002).
Su tali premesse, la regione rileva la incostituzionalita' della
disposizione in quanto pertinente all'ambito di competenza esclusiva
regionale ex art. 117, quarto comma, Cost.
Al riguardo si consideri che la Regione Umbria ha gia'
disciplinato la materia prevedendo l'intesa per la determinazione del
contributo tra Consorzio di bonifica e AATO ex art. 12, l.r.
n. 430/2004. In questo senso le nuove norme determinano anche una
illegittima compressione dell'autonomia negoziale (non importa qui se
privata o pubblicistica) degli enti locali, che si vedono costretti a
subire unilateralmente le decisioni di un soggetto quale il Consorzio
di bonifica, non ad essi sovraordinato.
Sotto altro profilo, la previsione qui impugnata e' altresi'
illegittima per eccesso di delega per le ragioni gia' sopra piu'
volte evidenziate, in quanto innovativa e sprovvista di copertura
nella legge n. 308/2004.
11) Illegittimita' costituzionale degli artt. 181, commi 7-11,
183, comma 1, lett. g), h), m), n), q) e u), 186, 189. comma 3, 214,
commi 3 e 5.
A) L'art. 181, comma settimo, prevede che «soggetti economici»
non meglio identificati (ma potenzialmente comprensivi di chiunque
gestisca attivita' d'impresa) o le associazioni di categoria
rappresentative dei settori interessati, anche con riferimento ad
interi settori economici e produttivi, possano «stipulare con il
Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio... appositi
accordi di programma ... per definire i metodi di recupero dei
rifiuti destinati all'ottenimento di materie prime secondarie, di
combustibili o di prodotti». Secondo la stessa disposizione tali
accordi «fissano le modalita' e gli adempimenti amministrativi per la
raccolta, per la messa in riserva, per il trasporto dei rifiuti, per
la loro commercializzazione, anche tramite il mercato telematico, con
particolare riferimento a quello del recupero realizzato dalle Camere
di commercio, e per i controlli delle caratteristiche e i relativi
metodi di prova» gli accordi «fissano altresi' le caratteristiche
delle materie prime secondarie, dei combustibili o dei prodotti
ottenuti, nonche' le modalita' per assicurare in ogni caso la loro
tracciabilita' fino all'ingresso nell'impianto di effettivo impiego».
I commi successivi, dall'8 all'11, disciplinano le modalita'
procedurali per la stipulazione, l'approvazione e la pubblicazione di
tali accordi di programma.
Le parole utilizzate dalla disposizione ora richiamata trovano il
loro significato nelle definizioni dettate dall'art. 183, comma
primo. In particolare, vengono in considerazione le definizioni dei
termini: g «smaltimento»; h «recupero»; m «deposito temporaneo»; n
«sottoprodotto»; q «materia prima secondaria», definita con
riferimento alle caratteristiche stabilite ai sensi dell'art. 181); u
«materia prima secondaria per attivita' siderurgiche e
metallurgiche», al cui proposito la disciplina sara' integrata da un
decreto ministeriale «senza valore regolamentare»).
Tali disposizioni, considerate nella loro sostanza, operano una
deregolamentazione «mascherata» del settore, in pieno contrasto con
le normative europee, piu' volte ribadite dalle decisioni della Corte
di giustizia.
In particolare, si introducono definizioni di smaltimento e
recupero non completamente conformi con quanto indicato nella
direttiva 75/442/CEE (art. 1, lett. e) e f), nonche' definizioni di
sottoprodotto e di materia prima secondaria (MPS) non coerenti con le
indicazioni fornite dalle sentenze della Corte di giustizia europea
(sentenze C-418/1997 e C-419/1997, «Arco» C-9/00, «Palin Granit»;
C-114/01, «AvestaPolarit Chrome»; e in particolare C-457/02,
«Niselli»).
Viene infatti riproposto ancora una volta l'«approccio normativo
italiano», consistente nella sottrazione dei sottoprodotti e delle
cosiddette materie prime secondarie alla disciplina dei rifiuti. Tale
«approccio» e' gia' stato oggetto di una prima sentenza di condanna a
seguito di procedura d'infrazione che ha colpito il d.m. 5 febbraio
1998, che invece l'art. 181, comma 6, del decreto legislativo
impugnato mantiene transitoriamente ma illegittimamente in vigore in
attesa di un nuovo decreto ministeriale che fissi le caratteristiche
dei materiali ottenuti come materie secondarie: la sentenza 7 ottobre
2004 (C-103/02) ha espressamente sancito che «la Repubblica italiana,
non avendo stabilito nel decreto 5 febbraio 1998, sull'individuazione
dei rifiuti non pericolosi sottoposti alle procedure semplificate di
recupero ai sensi degli articoli 31 e 33 del decreto legislativo 5
febbraio 1997, n. 22, quantita' massime di rifiuti, per tipo di
rifiuti, che possano essere oggetto di recupero in regime di dispensa
dall'autorizzazione, e' venuta meno agli obblighi che ad essa
incombono in forza degli articoli 10 e 11, n. 1, della direttiva del
Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, relativa ai rifiuti, come
modifica dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CEE».
Ulteriore sentenza negativa e' stata poi pronunciata, in sede di
rinvio pregiudiziale, dalla Corte di giustizia, con particolare
riferimento all'art. 14 della legge n. 178/2002 (C457/02).
La violazione del diritto comunitario e' confermata dal fatto che
i sottoprodotti e le MPS vengono si inclusi nella «definizione» dei
rifiuti, ma in realta' la norma che cosi' li classifica restringe
fortemente l'ambito di applicazione della disciplina (stabilendo che
«non sono soggetti alle disposizioni di cui alla parte quarta del
presente decreto i sottoprodotti di cui l'impresa non si disfi, non
sia obbligata a disfarsi e non abbia deciso di disfarsi ed in
particolare...» al punto di costituire una vasta area di
sottoprodotti esentati dalla disciplina, pur senza includerli tra i
materiali per i quali valgono specifiche esclusioni dall'applicazione
del decreto, ai sensi del successivo art. 185. E' un evidente
artifizio formale teso ad evitare che appaia evidente il conflitto
con le norme europee.
In realta', attraverso la previsione di appositi decreti
ministeriali e degli accordi di programma di cui all'art. 181,
vengono sottratti al regime dei rifiuti, e alle relative
autorizzazioni, adempimenti e controlli, molte sostanze o materiali
che nella legislazione vigente invece vi sono assoggettati.
Anche la Corte di cassazione, con sentenza n. 47269/05 e con
ordinanza n. 1414/06, ha appena ora sancito invece che la nozione di
rifiuto - in coerenza con la normativa comunitaria deve essere intesa
in senso estensivo (e non restrittivo quale e' invece l'approccio
della pregressa normativa italiana, ripreso in modo ancor piu'
evidente dal decreto delegato), riportandola percio' alla disciplina
dei sottoprodotti e materie prime secondarie dettata dalle
disposizioni comunitarie, cosi' come interpretate dalla
giurisprudenza della Corte di giustizia.
Con il pretesto della semplificazione amministrativa non vengono
in realta' limitati gli oneri amministrativi, bensi' ridotta l'area
di applicazione della disciplina dei rifiuti ed eliminati i
controlli, quale risultato vuoi di una ridefinizione delle sostanze
soggette a regolamentazione restrittiva, vuoi di una
«deregolamentazione» della disciplina dei metodi di recupero dei
rifiuti, sostituita da procedure «contrattate».
Il ricorso allo strumento di accordi e contratti di programma
previsti dall'art. 181 eccede i limiti propri dell'istituto, in
quanto si sostituisce una «fonte» contrattata alla disciplina
normativa, alterando la gerarchia delle fonti del diritto.
Sostituendo alla disciplina generale una serie indeterminata di
accordi applicabili soltanto agli aderenti, si ledono i principi di
certezza del diritto, uguaglianza, generalita' e astrattezza delle
norme.
Davvero paradossale e' poi che l'impugnato art. 181, al comma 7,
richiami (rinviando al precedente comma 5) la comunicazione della
Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio e al Comitato delle
regioni, Com (2002) 412, del 17 luglio 2002, quale «modello» cui si
devono ispirare gli accordi di programma previsti: si tratta infatti,
come si legge nella comunicazione, di accordi «in cui le parti
interessate si impegnano ad ottenere una riduzione dei livelli di
inquinamento, come sancito dal diritto ambientale, o obiettivi di
carattere ambientale, di cui all'art. 174 del trattato quali ad
esempio gli accordi comunitari in materia ambientale con le
associazioni di produttori di automobili europea, giapponese e
coreana sulla riduzione progressiva delle emissioni di CO2 prodotte
dalle autovetture.
Gli accordi previsti dalle disposizioni censurate, diretti a
«deregolamentare» e «privatizzare» la disciplina dei rifiuti, non
corrispondono affatto a quanto ipotizzato (ed auspicato) nella
comunicazione della Commissione, ossia alla possibilita' che -
tramite moduli convenzionali e non «imposti» - si raggiungano
obiettivi ambientali ulteriori rispetto a quelli gia' fissati dalle
regole comunitarie.
Il contrasto con le direttive 75/442/CEE e 91/156/CEE si
manifesta anche nel fatto che le norme europee non consentono che le
attivita' di recupero possano essere completamente escluse dal regime
autorizzatorio. Infatti l'art. 11 della direttiva 75/442/CEE prevede
che la dispensa dall'autorizzazione sia possibile solo fissando norme
generali che fissano i tipi e le quantita' di rifiuti (va ricordato
che proprio per tale motivo lo Stato italiano e' incorso in una
procedura di infrazione comunitaria per il citato d.m. 5 febbraio
1998).
Il decreto legislativo impugnato fa al contrario venir meno il
quadro normativo generale richiesto dalle direttive europee,
sostituendolo con una vasta contrattualizzazione della disciplina;
mentre, per altro verso, la normativa europea richiede, per
«escludere» un rifiuto dal campo di applicazione della direttiva
n. 75/442, che (eccezion fatta per gli effluenti gassosi immessi in
atmosfera per cui vale l'esenzione diretta) le esenzioni siano
ammissibili soltanto se disciplinate da specifica norma speciale,
cio' che non avviene con la disciplina generale di esenzione che le
norme impugnate prevedono per MPS e sottoprodotti.
Per le stesse ragioni ora illustrate risultano costituzionalmente
illegittimi i commi 3 e 5 dell'art. 214, nella parte in cui ammettono
rispettivamente lo strumento dell'accordo «deregolatorio» per le
procedure semplificate di smaltimento di rifiuti e richiamano il d.m.
5 febbraio 1988 per la fase transitoria, in attesa della fissazione
delle nuove regole.
L'art. 186 introduce inoltre una ipotesi generale di esenzione
per le terre e rocce da scavo ed i residui della lavorazione della
pietra destinati all'effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti,
ecc., i quali, secondo la citata disposizione, «non costituiscono
rifiuti e sono, percio', esclusi dall'ambito di applicazione della
parte quarta del presente decreto solo nel caso in cui, anche quando
contaminati, durante il ciclo produttivo, da sostanze inquinanti
derivanti dalle attivita' di escavazione, perforazione e costruzione
siano utilizzati, senza trasformazioni preliminari, secondo le
modalita' previste nel progetto sottoposto a valutazione di impatto
ambientale ovvero, qualora il progetto non sia sottoposto a
valutazione di impatto ambientale, secondo le modalita' previste nel
progetto approvato dall'autorita' amministrativa competente, ove cio'
sia espressamente previsto, previo parere delle Agenzie regionali e
delle province autonome per la protezione dell'ambiente, sempreche'
la composizione media dell'intera massa non presenti una
concentrazione di inquinanti superiore ai limiti massimi previsti
dalle norme vigenti e dal decreto di cui al comma 3».
Anche in questo caso il contrasto con la normativa comunitaria e'
evidente, trattandosi di un'esclusione disposta in via generale al di
fuori del quadro normativo europeo.
Basta ricordare che una specifica procedura d'infrazione e' stata
avviata contro la Repubblica italiana a causa di una disposizione
analoga contenuta nella legge n. 443/2001 (art. 1, comma 15).
Le norme impugnate non contrastano dunque solo con le richiamate
norme comunitarie, e, per cio' stesso, con l'art. 11 e con
l'art. 117, primo comma Cost.; esse contrastano inoltre con la legge
di delegate quindi indirettamente con l'art. 76 Cost. - che fissa tra
i criteri direttivi (art. 1, comma 8) la «piena e coerente attuazione
delle direttive comunitarie, al fine di garantire elevati livelli di
tutela dell'ambiente e di contribuire in tale modo alla
competitivita' dei sistemi territoriali e delle imprese, evitando
fenomeni di distorsione della concorrenza (lett. e)» e
l'«affermazione dei principi comunitari di prevenzione, di
precauzione, di correzione e riduzione degli inquinamenti e dei danni
ambientali e del «chi inquina paga» (lett. f)». Tali illegittimita'
si ripercuotono, ovviamente, in modo lesivo sulle competenze
costituzionali della Regione in materia di tutela dell'ambiente,
tutela della salute e governo del territorio, pregiudicando il
corretto svolgimento delle funzioni regionali in quelle materie, come
si illustra piu' ampiamente nel punto seguente.
B) Illegittimita' costituzionale delle stesse norme per diretta
violazione delle competenze regionali.
Le stesse norme censurate al punto precedente costituiscono
altresi' diretta violazione delle attribuzioni regionali.
La materia «rifiuti» si colloca in una zona in cui si
sovrappongono gli interessi ambientali con quelli di tutela del
territorio, nonche' della tutela igienico-sanitaria e di sicurezza
della popolazione. Ma anche a ritenere che, in applicazione del
criterio di prevalenza» elaborato dalla giurisprudenza di questa
ecc.ma Corte, debba riconoscersi allo Stato il titolo a legiferare in
base alla competenza riconosciutagli dall'art. 117, secondo comma,
lett. s), cio' non significa che la legge statale possa intervenire
senza precisi limiti.
La legislazione vigente - a partire dal c.d. «decreto Ronchi»
(d.lgs. n. 22/1997) e dall'art. 85 del d.lgs. n. 112/1998, che
espressamente lo richiama ha riconosciuto il ruolo fondamentale delle
regioni nell'attuazione del quadro normativo nazionale, finalmente
riportato ad una disciplina organica e unitaria, in considerazione
della «vocazione» regionale - in base al principio di sussidiarieta'
- sia nella politica di tutela del territorio, sia nell'applicazione
in loco della disciplina generale, organizzando gli apparati e le
procedure amministrative necessarie e «incrociando» la disciplina di
settore con il complesso fascio delle competenze regionali, spettanti
a pieno titolo o quali potesta' concorrenti, che incidono
sull'ambiente (come e' pacifico nella giurisprudenza costituzionale
sin dalla sent. n. 407/2002).
Va da se' che rimane allo Stato il potere legislativo di
disciplinare in via generale la «materia» e i suoi settori, cosi'
come pure di introdurre quegli snellimenti amministrativi che fissino
un nuovo equilibrio tra gli interessi costituzionali di protezione
dell'ambiente, da un lato, e la liberta' d'iniziativa economica
dall'altro (sentt. nn. 116/2006, 331/2003, 307/2003). Tuttavia, se la
riforma legislativa operata dal legislatore statale - incidendo
profondamente nelle funzioni gia' attribuite alla regione e che essa
ha gia' esercitato disciplinandole con legge e con strumenti di
pianificazione generale e particolare (cfr. la l.r. n. 27/1994, e
successive modifiche, nonche' il Piano di Azione ambientale
2004-2006) - risulta viziata sia per violazione della delega (che
vincola il legislatore delegato al rispetto dell'assetto
amministrativo e al riparto di competenze vigente), che per contrasto
con il diritto comunitario, essa deve poter essere contrastata con il
ricorso per illegittimita' costituzionale: infatti, se essa dovesse
essere applicata, ne risulterebbe sconvolto l'attento assetto
normativo e amministrativo disegnato dalla legislazione regionale,
che verrebbe in molte parti abrogata dall'atto legislativo in
questione, creando uno stato di grave precarieta' normativa.
Va infatti sottolineato che la regione, a tenore dell'art. 117,
quinto comma ha il compito di dare attuazione diretta alle norme
comunitarie: per principio fondamentale del diritto comunitario,
confortato dalla sent. n. 170/l984 di codesta Corte, la supremazia
del diritto comunitario va assicurata dai soggetti dell'applicazione
del diritto anche attraverso la non applicazione delle norme
legislative interne contrastanti con le norme comunitarie self
executing. La conseguenza di queste premesse e' che la Regione Umbria
sara' tenuta - per un preciso obbligo giuridico, dunque, ora
rafforzato dall'art. 117, primo comma, Cost. - a non applicare nel
proprio territorio le norme del decreto impugnato che risultino in
contrasto con le norme «ad effetto diretto» poste dal diritto
comunitario derivato e dalle sentenze della Corte di giustizia che di
esso forniscono l'interpretazione (cfr. sent. n. 389/l989 di codesta,
ecc.ma Corte). Il risultato, quindi, non sara' affatto la
«semplificazione» promessa dalle disposizioni impugnate, ma uno stato
di gravissima incertezza normativa, non privo di preoccupanti
riflessi sulla repressione penale dei reati ambientali legati alla
disciplina dei rifiuti, con conseguente contenzioso destinato a
coinvolgere nuovamente - come gia' capitato nel «caso Niselli» - sia
la Corte di giustizia che codesta Corte costituzionale.
Tutto cio' avra', ancora una volta, gravissime conseguenze sugli
interessi pubblici alla tutela dell'ambiente, della salute e della
sicurezza pubblica, anche perche', eluse le norme generali in vigore
e aggirate le definizioni e le procedure fissate dalla normativa
comunitaria, diventera' difficile e talvolta impossibile per le
strutture regionali rintracciare le sostanze «derubricate» dalle
disposizioni impugnate. Con l'entrata in vigore del decreto
legislativo si produrra' infatti una derubricazione di talune
categorie di rifiuti, i quali non saranno piu' considerati tali ma
verranno qualificati come sottoprodotti o combustibili o MPS, venendo
in tal modo sottratti al regime vincolistico e garantistico della
normativa sui rifiuti.
C) Illegittimita' costituzionale dell'art. 189, comma 3.
Considerazioni in tutto analoghe a quelle svolte subito sopra ai
punti 1) e 2) valgono per l'art. 189, comma terzo: esso riguarda
l'obbligo di comunicare annualmente alle Camere di commercio le
quantita' e le caratteristiche qualitative dei rifiuti oggetto di
attivita' di raccolta, trasporto, recupero e smaltimento di rifiuti
(c.d. MUD, ossia il «modello unico» introdotto dalla legge
n. 70/1994). L'ambito di applicazione di tale obbligo viene ora
delimitato restrittivamente, esentandone le imprese e gli enti che
producono rifiuti non pericolosi. Si produrra' di conseguenza una
preoccupante perdita di informazioni per quanto riguarda molteplici
categorie di rifiuti che potranno circolare liberamente, senza
consentire alle strutture chiamate a svolgere i controlli ambientali
di conoscere i dati relativi alla produzione che sono base di
conoscenza per seguire il percorso dei rifiuti.
12) Illegittimita' dell'art. 195, comma 1.
L'art. 195 (Competenze dello stato) riscrive integralmente
l'art. 18 del d.lgs. n. 22/l997 recante la medesima rubrica.
Gia' questo suscita sorpresa, dato che la legge di delega
n. 308/2004 prescrive che i decreti delegati devono essere formulati
«nel rispetto... delle attribuzioni delle regioni e degli enti
locali, come definite ai sensi dell'art. 117 della Costituzione,
della legge 15 marzo 1997, n. 59, e del decreto legislativo 31 marzo
1998, n. 112» e l'art. 85 del d.lgs. n. 112/1998 (contenuto
significativamente nella Sezione intitolata anch'essa «Gestione dei
rifiuti») a sua volta richiama espressamente il d.lgs. n. 22/l997 (e
successiva modifica) per affermare che le competenze che «restano
attribuite allo Stato, in materia di rifiuti», sono «esclusivamente»
le funzioni e i compiti indicati in esso.
In sintesi, l'art. 195 del decreto delegato riscrive proprio la
norma che era tenuto a rispettare per espressa previsione della legge
di delega!
Naturalmente non si muoverebbero obiezioni al nuovo testo se esso
fosse stato formulato allo scopo di adeguare l'elenco dei compiti
trattenuti dallo Stato alla successiva riforma costituzionale del
2001. Ma non e' affatto cosi', come si puo' riscontrare esaminando in
particolare alcune specifiche competenze riservate allo Stato come
individuate dall'elenco contenuto nel primo comma della disposizione
impugnata.
La lettera m) assegna allo Stato «la determinazione di criteri
generali, differenziati per i rifiuti urbani e per i rifiuti
speciali, ai fini della elaborazione dei piani regionali di cui
all'art. 199 con particolare riferimento alla determinazione,
d'intesa con la Conferenza Stato-regioni, delle linee guida per la
individuazione degli Ambiti territoriali ottimali, da costituirsi ai
sensi dell'art. 200, e per il coordinamento dei piani stessi». La
prima parte della norma si rifa all'art. 18, comma 1, lett. i),
d.lgs. n. 22/1997: essa risulta illegittima (per violazione
dell'art. 117 e 118 Cost.) perche' prevede sostanzialmente un atto di
indirizzo e coordinamento in materia regionale, la cui legittimita' -
dopo il 2001 - da ritenersi esclusa, in base all'opinione della
dottrina prevalente, all'art. 8, comma 6, legge n. 131/2003 e alle
sentt. n. 329/2003 e n. 324/2005. Inoltre, tale atto non sarebbe
adottato previa intesa con la Conferenza Stato regioni ma solo previo
parere, con violazione del principio di leale collaborazione che, in
relazione agli atti di indirizzo, richiede appunto il coinvolgimento
«forte» della Conferenza (v. l'art. 8 legge n. 59/1997).
Anche la seconda parte della lett. m) prevede, sostanzialmente,
un atto di indirizzo e, dunque, viola gli artt. 117 e 118 Cost. per
le ragioni appena esposte. Essa, inoltre, risulta innovativa: lo
Stato, addirittura, si riserva il potere di dettare linee guida per
la perimetrazione degli ambiti territoriali ottimali, e tale novita'
- oltre a violare gli artt. 117 e 118 Cost., cioe' la competenza
regionale nella materia della gestione dei rifiuti» - viola
l'art. 76, sia per lo stesso carattere innovativo (art. 1, comma 1,
legge n. 308/2004) sia per l'indebolimento del ruolo delle regioni
(art. 1, comma 8), con conseguente menomazione delle competenze
regionali.
La lettera o) attribuisce allo Stato «la determinazione, d'intesa
con la Conferenza Stato-regioni, delle linee guida inerenti le forme
ed i modi della cooperazione fra gli enti locali, anche con
riferimento alla riscossione della tariffa sui rifiuti urbani
ricadenti nel medesimo ambito territoriale ottimale, secondo criteri
di trasparenza, efficienza, efficacia ed economicita».
Anche questa e' una competenza «aggiunta» all'elenco delle
funzioni attribuite allo Stato dal d.lgs. n. 22/l997 in violazione
quindi dei criteri della delega legislativa. Per di piu' si tratta di
una evidente invasione delle competenze regionali residuali in
materia di tariffazione dei servizi pubblici locali (sent.
n. 272/2004), nonche' anche nella promozione delle forme di
cooperazione tra gli enti locali (sentt. n. 244 e n. 456/2005).
In sintesi, la disposizione impugnata e' illegittima per
violazione dell'art. 117 e dell'art. 76 Cost., con conseguente
compressione delle attribuzioni regionali.
13) Illegittimita' dell'art. 202, comma 6.
L'art. 202 disciplina l'affidamento del servizio di gestione
integrata dei rifiuti urbani. Il comma 6 stabilisce che «il personale
che, alla data del 31 dicembre 2005 o comunque otto mesi prima
dell'affidamento del servizio, appartenga alle amministrazioni
comunali, alle aziende ex municipalizzate o consortili e alle imprese
private, anche cooperative, che operano nel settore dei servizi
comunali per la gestione dei rifiuti sara' soggetto, ferma restando
la risoluzione del rapporto di lavoro, al passaggio diretto ed
immediato al nuovo gestore del servizio integrato dei rifiuti, con la
salvaguardia delle condizioni contrattuali, collettive e individuali,
in atto si aggiunge che, nel caso di passaggio di dipendenti di enti
pubblici e di ex aziende municipalizzate o consortili e di imprese
private, anche cooperative, al gestore del servizio integrato dei
rifiuti urbani, si applica... la disciplina del trasferimento del
ramo di azienda di cui all'art. 2112 del codice civile».
La norma prevede per la prima volta, nel settore dei servizi
pubblici locali, che possano essere trasferiti al gestore i
dipendenti di aziende private operanti nel settore (ad es., i
dipendenti di un'impresa occasionalmente appaltatrice). La norma,
oltre a sollevare seri dubbi di legittimita' in relazione agli
artt. 42 e 43 Cost. e all'autonomia imprenditoriale privata, lede
l'autonomia finanziaria degli enti locali (e, dunque, delle regioni:
v. sentt. n. 533/2002 e 417/2005) in quanto il soggetto gestore
scarichera' inevitabilmente i costi derivanti dal trasferimento
coatto sull'ente locale, o aumentando la tariffa o richiedendo un
intervento finanziario ai soci (fra i quali, spesso, lo stesso ente
locale). Dunque, l'art. 202, comma 6, viola l'art. 119 Cost.
14) Illegittimita' delle norme impugnate per vizi procedurali:
violazione del principio di leale collaborazione e della legge di
delega.
Nel suo complesso il decreto appare viziato da gravi difetti di
procedimento, attinenti in particolare alla violazione della
procedura di «leale collaborazione». Come emerge da quanto esposto in
narrativa, infatti, il Governo non ha rispettato i contenuti minimi
della garanzia di partecipazione della Conferenza unificata. Esso ha
richiesto il parere della Conferenza in termini temporali tali da
renderne impossibile l'espressione, ed ha rifiutato la legittima
richiesta di disporre del tempo necessario allegando ragioni di
urgenza inesistenti - dato che la delega veniva a scadenza oltre sei
mesi piu' tardi - e persino inducendo in errore (non si vuole qui
dire volontariamente) la Conferenza circa gli effettivi termini
temporali della delega.
Si noti che l'ordine del giorno negativo successivamente
approvato dalla Conferenza non puo' essere considerato un equivalente
di un parere effettivamente articolato e reso nel merito a seguito di
un corretto procedimento: ma del resto neppure esso e' stato
effettivamente preso in considerazione.
La Conferenza unificata non ha avuto modo di esprimere
formalmente il proprio parere, e sulle posizioni da essa assunte in
merito al decreto legislativo il Governo non ha aperto alcuna
discussione, violando quanto disposto dalla legge di delega e
ribadito dalla Commissione parlamentare. Come dispone l'art. 2, comma
5 del decreto legislativo n. 281/1997, quando la Conferenza
Stato-regioni e' obbligatoriamente sentita «in ordine agli schemi di
disegni di legge e di decreto legislativo o di regolamento del
Governo nelle materie di competenza delle regioni o delle province
autonome di Trento e di Bolzano» essa «si pronunzia entro venti
giorni». Per l'espressione del parere della Conferenza unificata non
e' indicato un termine preciso, ma certo non si puo' ritenere che per
essa che ha una struttura ancora piu' complessa della «Stato-Regioni»
- possa valere un termine ancora piu' breve.
Se la legge di delega prevede l'obbligo del Governo delegato di
acquisire il parere della Conferenza, la Conferenza deve disporre di
un termine adeguato.
Ma tutto il comportamento tenuto dai rappresentanti del Governo
in questa vicenda - in una vicenda cosi' complessa sotto il profilo
tecnico-normativo e tanto delicata per i molteplici riflessi che il
Codice dell'ambiente» esercita non solo sulle attribuzioni «in
astratto» delle regioni, ma sulla legislazione, a sua volta complessa
e articolata, che esse hanno prodotto - e' improntato ad uno spirito
autoritario e ostruzionistico che e' in palese con i canoni della
leale collaborazione.
Quando si abbia a che fare con competenze necessariamente e
inestricabilmente connesse - ha osservato codesta ecc.ma Corte
costituzionale - il principio di "leale collaborazione" - che proprio
in materia di protezione di beni ambientali e di assetto del
territorio trova un suo campo privilegiato di applicazione - richiede
la messa in opera di procedimenti nei quali tutte le istanze
costituzionalmente rilevanti possano trovare rappresentazione» (sent.
n. 422/2002).
E' vero che tale principio e' «suscettibile di essere organizzato
in modi diversi, per forme e intensita' della pur necessaria
collaborazione» (sent. n. 308/2003), ma e' anche vero che esso non
puo' essere ridotto ad una ritualita' meramente formale: una delle
«sedi piu' qualificate per l'elaborazione di regole destinate ad
integrare il parametro della leale collaborazione e' attualmente il
sistema delle Conferenze Stato-regioni e autonomie locali», al cui
interno «si sviluppa il confronto tra i due grandi sistemi
ordinamentali della Repubblica, in esito al quale si individuano
soluzioni concordate di questioni controverse» (sent. 31/2006). Ma di
«confronto» deve trattarsi, appunto, basato su comportamenti corretti
e «leali» delle parti, non dell'imposizione unilaterale e della
chiusura totale a qualsiasi possibilita' di dialogo.
Tale violazione della legge di delega (e dunque dell'art. 76
Cost.) e del principio di leale collaborazione si traducono
direttamente in lesione delle competenze e prerogative costituzionali
delle regioni, e costituiscono percio' illegittimita' costituzionali
che regioni sono legittimate a fare valere.
P. Q. M.
Chiede voglia codesta ecc.ma Corte costituzionale dichiarare
costituzionalmente illegittimo il decreto legislativo 3 aprile 2006,
n. 152, Norme in materia ambientale, in relazione ai seguenti
articoli:
25, comma 1, 35, comma 1, 42, comma 3, 55, comma 2, 58, comma
3, 63, commi 3 e 4, 64, 65, comma 3, lettera e), 95, comma 5, 96,
comma 1, 101, comma 7; 148, 149, 153, comma 1, 154, 155, 160, 166,
comma 4, 181, commi da 7 a 11, 183, comma 1, 186, 189, comma 3, 195,
comma 1, 202, comma 6, 214, commi 3 e 5, per le parti e sotto i
profili illustrati nel ricorso.
Padova, addi' 12 giugno 2006
Prof. avv. Giandomenico Falcon
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