Ricorso n. 72 del 22 ottobre 2008 (Regione Liguria)
RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 22 ottobre 2008 , n. 72
Ricorso per questione di legittimita' costituzionale depositato in cancelleria il 22 ottobre 2008 (della Regione Liguria)
(GU n. 50 del 3-12-2008)
Ricorso della Regione Liguria, in persona del Presidente della Giunta regionale pro tempore, autorizzato con deliberazione della giunta regionale 14 ottobre 2008, n. 1272 (doc. 1), rappresentata e difesa, come da procura speciale n. rep. 14131 del 15 ottobre 2008, rogata dal dott. Margherita Poli, notaio in Genova (doc. 2), dall'avv. prof. Giandomenico Falcon di Padova e dall'avv. Luigi Manzi di Roma, con domicilio eletto in Roma presso lo studio dell'avv. Luigi Manzi, in via Confalonieri n. 5; Contro il Presidente del Consiglio dei ministri per la dichiarazione di illegittimita' costituzionale degli articoli: 11, commi 1, 3, 4, 5, 8, 9, 11 e 12; 13, commi 1 e 2; 23, comma 2; 23-bis, commi 2, 3, 4, 7 e 10; 26, comma 1; 76, comma 6-bis; 81, commi 29, 30, 32, 33, 34, 35, 36 e 38, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitivita', la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 195 del 21 agosto 2008; per violazione dell'art. 3, dell'art. 117, terzo, quarto e sesto comma, dell'art. 118, primo e secondo comma, dell'art. 119, primo comma, e dell'art. 136 della Costituzione, del principio di leale collaborazione e del principio di certezza del diritto, nei modi e per i profili di seguito illustrati. F a t t o Con il d.l. 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, sono state dettate Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitivita', la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria. All'interno del Titolo II, Sviluppo economico, semplificazione e competitivita', e' collocato il Capo IV, Casa e infrastrutture, che contiene alcune disposizioni in materia di edilizia residenziale pubblica. L'art. 11, Piano casa, prevede un piano nazionale di edilizia abitativa e regola dettagliatamente gli interventi attraverso cui si articola e le procedure attuative, istituendo un apposito Fondo nello stato di previsione del Ministero delle infrastrutture ed una gestione centralizzata degli interventi. L'art. 13, poi, Misure per valorizzare il patrimonio residenziale pubblico, che intervenendo nella gestione del patrimonio immobiliare dell'edilizia residenziale pubblica prevede che il Ministro delle infrastrutture ed il Ministro per i rapporti con le Regioni promuovono in sede di Conferenza unificata la conclusione di accordi con regioni ed enti locali aventi ad oggetto la semplificazione delle procedure di alienazione degli immobili degli Iacp (comma 1), accordi che devono tener conto dei criteri indicati nel comma 2. Il Capo VI, Liberalizzazioni e deregolazione, contiene una disposizione (l'art. 23) che reca Modifiche alla disciplina del contratto di apprendistato e, in particolare, al comma 2, inserisce il comma 5-ter nell'art. 49 d.lgs. n. 276/2003, in base al quale, in caso di formazione esclusivamente aziendale, «i profili formativi dell'apprendistato professionalizzante sono rimessi integralmente ai contratti collettivi di lavoro stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale. ovvero agli enti bilaterali», che «definiscono la nozione di formazione aziendale e determinano, per ciascun profilo formativo, la durata e le modalita' di erogazione della formazione, le modalita' di riconoscimento della qualifica professionale ai fini contrattuali e la registrazione nel libretto formativo». Ancora, il capo VI contiene l'art. 23-bis, Servizi pubblici locali di rilevanza economica, che disciplina organicamente il settore dei servizi pubblici locali di rilevanza economica e pone limiti ai soggetti titolari della gestione di servizi pubblici locali non affidati mediante le procedure competitive, anche tramite la previsione di regolamenti di delegificazione. Il Capo VII, Semplificazioni, contiene l'art. 26, Taglia-enti, che al comma 1 sopprime gli enti pubblici non economici con una dotazione organica inferiore alle 50 unita', esclusi gli enti indicati nella medesima disposizione. All'interno del Titolo III, Stabilizzazione della finanza pubblica, il Capo II e' dedicato al Contenimento della spesa per il pubblico impiego e l'art. 76 alle Spese di personale per gli enti locali e delle camere di commercio. Il comma 6-bis di tale disposizione riduce dell'importo di 30 milioni di euro per ciascuno degli anni 2009, 2010 e 2011 i trasferimenti erariali a favore delle comunita' montane, con riferimento prioritario alle comunita' che si trovano ad una altitudine media inferiore a settecentocinquanta metri sopra il livello del mare. Infine, il Titolo IV, Perequazione tributaria, contiene nel Capo I, Misure fiscali, l'art. 81, Settori petrolifero e del gas, che ai commi da 29 a 38-bis istituisce un Fondo speciale destinato al soddisfacimento prioritario delle esigenze di natura alimentare, energetica e sanitaria dei cittadini meno abbienti e, in particolare, a finanziare la «social card», disciplinata dai commi 32-37. Tutte tali norme risultano lesive delle competenze costituzionali della Regione Liguria per le seguenti ragioni di D i r i t t o 1) Illegittimita' costituzionale dell'art. 11 per violazione dell'art. 117, terzo comma dell'art. 118, primo comma, dell'art. 119 della Costituzione e del principio di leale collaborazione. L'art. 11, d.l. n. 112/2008, prevede che, «al fine di garantire su tutto il territorio nazionale i livelli minimi essenziali di fabbisogno abitativo per il pieno sviluppo della persona umana, e' approvato con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, previa delibera del Comitato interministeriale per la programmazione economica (CIPE) e d'intesa con la Conferenza unificata..., su proposta del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, un piano nazionale di edilizia abitativa» (comma 1). Il piano «e' rivolto all'incremento del patrimonio immobiliare ad uso abitativo attraverso l'offerta di abitazioni di edilizia residenziale, da realizzare nel rispetto dei criteri di efficienza energetica e di riduzione delle emissioni inquinanti, con il coinvolgimento di capitali pubblici e privati, destinate prioritariamente a prima casa» per determinate categorie di soggetti svantaggiati, indicati nel comma 2. In base al comma 3, «il piano nazionale di edilizia abitativa ha ad oggetto la costruzione di nuove abitazioni e la realizzazione di misure di recupero del patrimonio abitativo esistente ed e' articolato, sulla base di criteri oggettivi che tengano conto dell'effettivo bisogno abitativo presente nelle diverse realta' territoriali», attraverso gli interventi di seguito indicati, che comprendono la costituzione di fondi immobiliari (lettera a), «l'incremento del patrimonio abitativo di edilizia con le risorse anche derivanti dalla alienazione di alloggi di edilizia pubblica in favore degli occupanti muniti di titolo legittimo» (lettera b), la «promozione da parte di privati di interventi anche ai sensi della parte II, titolo III, capo III, del codice dei contratti pubblici« (lettera c); il capo III in questione riguarda il promotore finanziario, la societa' di progettazione e la disciplina della locazione finanziaria per i lavori pubblici), le «agevolazioni, anche amministrative, in favore di cooperative edilizie costituite tra i soggetti destinatari degli interventi», la «realizzazione di programmi integrati di promozione di edilizia residenziale anche sociale» (lettera e). Il comma 4 prevede che «il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti promuove la stipulazione di appositi accordi di programma, approvati con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, previa delibera del CIPE, d'intesa con la Conferenza unificata,. al fine di concentrare gli interventi sulla effettiva richiesta abitativa nei singoli contesti, rapportati alla dimensione fisica e demografica del territorio di riferimento, attraverso la realizzazione di programmi integrati di promozione di edilizia residenziale e di riqualificazione urbana«. Sempre il comma 4 specifica che decorsi novanta giorni senza che sia stata raggiunta la predetta intesa, «gli accordi di programma possono essere comunque approvati». Il comma 5 dispone che 5 «gli interventi di cui al comma 4 sono attuati anche attraverso le disposizioni di cui alla parte II, titolo III, capo III, del citato codice» dei contratti pubblici... mediante: a) il trasferimento di diritti edificatori in favore dei promotori degli interventi di incremento del patrimonio abitativo; b) incrementi premiali di diritti edificatori finalizzati alla dotazione di servizi, spazi pubblici e miglioramento della qualita' urbana...; c) provvedimenti mirati alla riduzione del prelievo fiscale di pertinenza comunale o degli oneri di costruzione; d) la costituzione di fondi immobiliari di cui al comma 3, lettera a), con la possibilita' di prevedere altresi' il conferimento al fondo dei canoni di locazione, al netto delle spese di gestione degli immobili; e) la cessione, in tutto o in parte, dei diritti edificatori come corrispettivo per la realizzazione anche di unita' abitative di proprieta' pubblica da destinare alla locazione a canone agevolato, ovvero da destinare alla alienazione in favore delle categorie sociali svantaggiate di cui al comma 2». Dal comma 8 risulta che, «in sede di attuazione dei programmi di cui al comma 4, sono appositamente disciplinati le modalita' e i termini per la verifica periodica delle fasi di realizzazione del piano, in base al cronoprogramma approvato e alle esigenze finanziarie, potendosi conseguentemente disporre, in caso di scostamenti, la diversa allocazione delle risorse finanziarie pubbliche verso modalita' di attuazione piu' efficienti». Inoltre, si aggiunge che le abitazioni realizzate o alienate nell'ambito delle procedure di cui al presente articolo possono essere oggetto di successiva alienazione decorsi dieci anni dall'acquisto originario. Il comma 9 precisa che «l'attuazione del piano nazionale puo' essere realizzata, in alternativa alle previsioni di cui al comma 4, con le modalita' approvative di cui alla parte II, titolo III, capo IV, del citato codice» dei contratti pubblici, concernente i lavori relativi a infrastrutture strategiche e a insediamenti produttivi. Il comma 11 dispone che, «per la migliore realizzazione dei programmi, i comuni e le province possono associarsi» ai sensi del d.1gs. n. 267/2000; che «i programmi integrati di cui al comma 4 sono dichiarati di interesse strategico nazionale» e che «alla loro attuazione si provvede con l'applicazione» dell'art. 81, d.P.R. n. 616/1977. Infine, il comma 12 stabilisce che «per l'attuazione degli interventi previsti dal presente articolo e' istituito un Fondo nello stato di previsione del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, nel quale confluiscono le risorse finanziarie di cui all'art. 1, comma 1154, legge n. 296/2006, nonche' di cui agli articoli 21, 21-bis, ad eccezione di quelle gia' iscritte nei bilanci degli enti destinatari e impegnate, e 41 del decreto-legge n. 159/2007, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 222/2007». Il comma 12 aggiunge che «gli eventuali provvedimenti adottati in attuazione delle disposizioni legislative citate al primo periodo del presente comma, incompatibili con il presente articolo, restano privi di effetti». La disciplina sopra riportata risulta a volte imprecisa o oscura, In particolare, non e' precisato quali sono i soggetti che concludono gli «accordi di programma» di cui al comma 4. Inoltre, non e' agevole comprendere in che modo si configuri un'attivita' regolativa «in sede di attuazione dei programmi» (comma 8), ne' in che modo all'attuazione dei programmi di cui al comma 4 si provveda con l'applicazione dell'art. 81, d.P.R. n. 616/1977, che contiene norme di diversa natura, alcune delle quali abrogate. Nel complesso, pero', e' chiaro che l'art. 11, d.l. n. 112/2008 regola dettagliatamente gli interventi attraverso cui si articola il Piano casa e le procedure attuative, istituendo un apposito Fondo presso il Ministero delle infrastrutture ed una gestione centralizzata degli interventi. La potesta' legislativa regionale in materia di edilizia residenziale pubblica e' stata riconosciuta sin dagli anni '70 (v. ad es., la sent. n. 140/1976 di codesta Corte), anche se e' con il d.P.R. n. 616/1977 che e' stato attuato un rilevante trasferimento alle regioni delle competenze in materia di edilizia residenziale pubblica (v. gli artt. 87, 88, 93 e 94). In particolare, l'art. 93 di tale decreto trasferisce alle regioni le funzioni concernenti «la programmazione regionale, la localizzazione, le attivita' di costruzione e la gestione di interventi di edilizia residenziale e abitativa pubblica, di edilizia convenzionata, di edilizia agevolata, di edilizia sociale nonche' le funzioni connesse alle relative procedure di finanziamento». A seguito del d.P.R. n. 616/1977, codesta Corte ha specificato, a proposito dell'edilizia residenziale pubblica, che «si verte in una materia attribuita in via generale alla competenza legislativa regionale» (sentenza n. 217 del 1988). Sempre con riferimento al quadro costituzionale anteriore alla riforma del Titolo V, la Corte ha statuito (sentenza n. 727 del 1988) che «al di fuori della formulazione dei "criteri generali" da osservare nelle assegnazioni, e' attribuita alle regioni la piu' ampia potesta' legislativa nella materia, e quindi la disciplina attinente alle assegnazioni e alle successive vicende dei relativi rapporti» (fra le quali, la trasformazione della locazione in proprieta': cio' rileva per l'art. 13, impugnato nel punto 2). La competenza legislativa regionale in materia di edilizia residenziale pubblica era pertanto «riconducibile all'art. 117, primo comma, Cost.» e gli Istituti autonomi delle case popolari dovevano essere «considerati come enti regionali» (sentenza n. 1115 del 1988). Gli artt. 59 ss. del d.lgs. n. 112/1998 hanno confermato l'ampiezza delle competenze regionali in materia di edilizia residenziale pubblica. L'art. 60 conferisce alle regioni, «in particolare», la «determinazione delle linee d'intervento e degli obiettivi nel settore», la programmazione delle risorse finanziarie destinate al settore», la «gestione» e l'«attuazione degli interventi», nonche' la «definizione delle modalita' di incentivazione», la «determinazione delle tipologie di intervento anche attraverso programmi integrati, di recupero urbano e di riqualificazione urbana», la «fissazione dei criteri per l'assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale destinati all'assistenza abitativa», nonche' la «determinazione dei relativi canoni». La riforma del Titolo V ha introdotto due importanti elementi di novita': la «creazione» di una potesta' legislativa regionale piena e l'attribuzione allo Stato della competenza esclusiva di cui all'art. 117, secondo comma, lettera. m). A seguito di cio', la Corte - come noto - ha puntualizzato in questo modo l'attuale assetto delle competenze in materia di edilizia residenziale pubblica: «la materia dell'edilizia residenziale pubblica si estende su tre livelli normativi», il primo dei quali «riguarda la determinazione dell'offerta minima di alloggi destinati a soddisfare le esigenze dei ceti meno abbienti» («in tale determinazione - che, qualora esercitata, rientra nella competenza esclusiva dello Stato ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera m), cost. - si inserisce la fissazione di principi che valgano a garantire l'uniformita' dei criteri di assegnazione su tutto il territorio nazionale»); il secondo livello normativo «riguarda la programmazione degli insediamenti di edilizia residenziale pubblica, che ricade nella materia "governo del territorio", ai sensi del terzo comma dell'art. 117 Cost.»; il terzo livello normativo, «rientrante nel quarto comma dell'art. 117 Cost., riguarda la gestione del patrimonio immobiliare di edilizia residenziale pubblica di proprieta' degli Istituti autonomi per le case popolari o degli altri enti che a questi sono stati sostituiti ad opera della legislazione regionale» (cosi' la sent. 94/2007). Se ora si valutano le norme impugnate dell'art. 11 alla luce del riparto di competenze appena illustrato, emerge, ad avviso della ricorrente Regione, che esse esorbitano dai limiti della competenza statale in materia edilizia residenziale pubblica. Innanzi tutto, e' da precisare che non risulta pertinente il riferimento, contenuto al comma 1, ai «livelli minimi essenziali di fabbisogno abitativo»: l'art. 11 non determina «l'offerta minima di alloggi destinati a soddisfare le esigenze dei ceti meno abbienti» (per usare le espressioni della sent. n. 94/2007), non individua alcun «livello» di prestazione sociale, ma prevede solo un Piano per «incrementare» (comma 2) il patrimonio immobiliare ad uso abitativo. Fra l'altro, la destinazione degli immobili a prima casa per categorie svantaggiate e' «prioritaria» (comma 2) ma non esclusiva. Dunque, l'ambito principale di riferimento dell'art. 11 e' la programmazione degli interventi di edilizia residenziale pubblica, che ricade - come visto - nella competenza concorrente. Il riferimento ai «livelli minimi essenziali», lungi dal dare fondamento costituzionale all'art. 11, concorre ad inficiarlo perche' rivela l'intento del legislatore di «attrarre» la disciplina verso le materie di competenza esclusiva statale. Il comma 2 non e' oggetto di impugnazione in quanto fissa i criteri generali per individuare i beneficiari degli interventi e, quindi, rientra nel «primo livello normativo» di cui alla sent. n. 94/2007. I commi 3, 4, 5, 8 e 9 risultano lesivi perche' non si limitano a fissare obiettivi ed indirizzi per la programmazione regionale di edilizia residenziale pubblica o ad attribuire al Piano nazionale questo scopo (in questi limiti, esso avrebbe potuto essere giustificato ex art. 118, primo comma, Cost.) ma dettano una disciplina completa e dettagliata della tipologia di interventi (commi 3 e 5) e delle procedure di attuazione e verifica del piano (commi 4, 8 e 9), che sembrano svolgersi attraverso un «doppio livello» (accordi di programma e programmi integrati di promozione di edilizia residenziale). Si tenga presente che fin dall'art. 60, comma 1, lettera d) d.lgs. n. 112/1998 spetta alle regioni, come accennato, la «determinazione delle tipologie di intervento anche attraverso programmi integrati, di recupero urbano e di riqualificazione urbana». La disciplina dell'art. 11 pare destinata ad essere integrata da quanto sara' stabilito in sede di accordi di programma (ed «in sede di attuazione dei programmi», secondo l'oscura formula del comma 8) e non emergono spazi per una disciplina regionale di svolgimento dei principi statali. Dunque, i commi 3, 4, 5, 8 e 9 risultano illegittimi perche' non dettano i principi regolatori della programmazione regionale, lasciando spazio a leggi regionali regolatrici dei programmi regionali, ma prevedono una complessa procedura gestita dal centro, esaurendo gli spazi di normazione (salvo quanto saro' stabilito dagli accordi di programma). La giurisprudenza costituzionale ha piu' volte annullato norme legislative statali che non lasciavano un margine di scelta al legislatore regionale in materie concorrenti (v., ad es., la sent. n. 401/2007, punto 16, e la sent. n. 339/2007; d'altro canto, la sent. n. 387/2007 ha giustificato la legge statale impugnata perche' le «norme censurate sono molto ampie e richiedono... un'attivita' normativa di attuazione, precisazione e adattamento alle singole realta' territoriali, di competenza delle regioni»). Si noti che, nei termini sopra esposti, l'art. 11 risulta nettamente differente rispetto alle norme della legge n. 9/2007, fatte salve dalla sent. n. 166/2008. Infatti la legge n. 9/2007 prevede che le Regioni predispongano piani straordinari (art. 3, comma 1), ed il programma nazionale di cui all'art. 4 contiene gli obiettivi e gli indirizzi per la programmazione regionale: dunque, l'art. 4, comma 2, sembra effettivamente una norma di principio in materia di programmazione dell'Erp (v. sent. n. 94/2007) ed il potere statale di predisporre il programma nazionale si puo' giustificare ex art. 118, primo comma, Cost.: non a caso, esso e' stato fatto salvo dalla Corte perche' «non interferisce nella predisposizione dei programmi regionali, ma si limita a fissare le linee generali indispensabili per l'armonizzazione dei programmi su scala nazionale» (cosi' la sent. n. 166/2008). Invece, l'art. 11 ha il contenuto dettagliato sopra illustrato e non prevede affatto programmi regionali. I commi 1 e 4 attribuiscono al Ministero delle infrastrutture, al Presidente del Consiglio ed al CIPE poteri non sonetti da esigenze unitarie, perche' non si traducono nella fissazione delle linee generali della programmazione regionale o in atti che richiedono una visione unitaria ma nell'adozione di criteri (comma 1) e, soprattutto, accordi (comma 4) gia' «calibrati» sulle diverse realta' territoriali (come risulta dal riferimento all'«effettivo bisogno abitativo presente nelle diverse realta' territoriali», all'«effettiva richiesta abitativa nei singoli contesti» e «alla dimensione fisica e demografica del territorio di riferimento»; quanto ai «programmi integrati», v. infra). Per tener conto delle particolari esigenze di determinati territori in termini costituzionalmente legittimi, lo Stato deve attivare «interventi speciali» ex art. 119, quinto comma, non accentrare la regolazione e la gestione di un piano nazionale di edilizia abitativa. Gli accordi di programma di cui al comma 4 sembrano gia' implicare la localizzazione degli insediamenti: il che risulta lesivo delle competenze regionali, considerato che gia' dal 1977 sono trasferite alle regioni «le funzioni amministrative statali concernenti la programmazione regionale, la localizzazione, le attivita' di costruzione e la gestione di interventi di edilizia residenziale e abitativa pubblica, di edilizia convenzionata, di edilizia agevolata, di edilizia sociale nonche' le funzioni connesse alle relative procedure di finanziamento» (art. 93, comma 1, d.P.R. n. 616/1977). Dunque, i commi 1 e 4 dell'art. 11 risultano illegittimi anche per violazione dell'art. 118, primo comma, Cost. in quanto prevedono poteri amministrativi statali senza che sussistano esigenze unitarie idonee a giustificarli. E' inoltre da sottolineare che l'ultimo periodo del comma 4 precisa espressamente che gli accordi di programma possono essere approvati anche senza intesa con la Conferenza unificata; dunque, anche qualora - in denegata ipotesi - i poteri statali fossero considerati legittimi, sarebbe in ogni modo incostituzionale l'ultimo periodo del comma 4 per violazione del principio di leale collaborazione, dato che la forte incidenza degli accordi di programma su una materia di competenza regionale non puo' non richiedere un'intesa (appunto) «forte». Quanto al comma 11, esso dichiara i programmi integrati di cui al comma 4 «di interesse strategico nazionale» e cio' pare sottintendere che anche su di essi puo' esserci un potere codecisorio statale (il comma 4 non precisa da chi sono approvati questi programmi). In questi termini, il comma 11 viola l'art. 118, primo comma, cost. in quanto prevede un potere statale non sorretto da esigenze unitarie e gia' attribuito alle regioni dall'art. 93, d.P.R. n. 616/1977 e dall'art. 60 d.lgs. n. 112/1998 (v. soprattutto la letter d). Infine, il comma 12 istituisce un fondo settoriale presso il Ministero delle infrastrutture, nel quale confluiscono risorse contemplate da altre leggi. Non e' precisato a chi saranno destinate le risorse. Ove dovesse intendersi che di tale fondo dispone direttamente il Ministero vi sarebbe violazione piena delle competenze legislative ed amministrative regionali, con violazione dell'art. 117, commi 3 e 4, dell'art. 118, primo comma, oltre che dell'autonomia finanziaria regionale. Ma se anche si debba intendere - come la regione ritiene - che esse debbano «transitare» attraverso le regioni (dato che l'art. 93, d.P.R. n. 616/1977 attribuisce ad esse le «funzioni connesse alle relative procedure di finanziamento»), comunque, il comma 12 crea presso il Ministero un fondo settoriale a destinazione vincolata in materia di competenza regionale, invece di attribuire le corrispondenti risorse alle regioni (si ricordi che l'art. 60, lettera b), d.lgs. n. 112/1998 attribuisce alle regioni la «programmazione delle risorse finanziarie destinate al settore»). In tal modo, il comma 12 viola in ogni caso l'autonomia finanziaria regionale (art. 119 Cost.), come risulta ormai da consolidata giurisprudenza costituzionale; piu' volte codesta Corte ha colpito fondi istituiti proprio in materie «sociali», precisando che le risorse dovevano essere assegnate alle regioni per generiche finalita' sociali: v., ad es., le sentt. n. 168/2008 e n. 181/2006. 2) Illegittimita' dell'art. 13, commi 1 e 2, per violazione dell'art. 117, quarto comma, dell'art. 119 dell'art. 136 della Costituzione. L'art. 13, d.l. n. 112/2008 dispone al comma l che, «al fine di valorizzare gli immobili residenziali costituenti il patrimonio degli Istituti autonomi per le case popolari, comunque denominati, e di favorire il soddisfacimento dei fabbisogni abitativi, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti ed il Ministro per i rapporti con le regioni promuovono, in sede di Conferenza unificata,... la conclusione di accordi con regioni ed enti locali aventi ad oggetto la semplificazione delle procedure di alienazione degli immobili di proprieta' dei predetti Istituti». Il comma 2 fissa di criteri di cui «si tiene conto» «ai fini della conclusione degli accordi di cui al comma l», nei seguenti termini: «a) determinazione del prezzo di vendita delle unita' immobiliari in proporzione al canone di locazione; b) riconoscimento del diritto di opzione all'acquisto, purche' i soggetti interessati non siano proprietari di un'altra abitazione, in favore dell'assegnatario non moroso nel pagamento del canone di locazione o degli oneri accessori unitamente al proprio coniuge, qualora risulti in regime di comunione dei beni, ovvero, in caso di rinunzia da parte dell'assegnatario, in favore del coniuge in regime di separazione dei beni, o, gradatamente, del convivente more uxorio, purche' la convivenza duri da almeno cinque anni, dei figli conviventi, dei figli non conviventi; c) destinazione dei proventi delle alienazioni alla realizzazione di interventi volti ad alleviare il disagio abitativo». Dunque, l'art. 13, commi 1 e 2, regola - sia dal punto di vista procedurale (attraverso il rinvio agli accordi in sede di Conferenza unificata) sia dal punto di vista sostanziale - la materia dell'alienazione degli immobili degli «Iacp», con il fine di valorizzare il patrimonio immobiliare di questi, di favorire l'acquisto in proprieta' da parte degli assegnatari e di acquisire risorse per realizzare nuovi interventi di edilizia residenziale pubblica. Nel punto 1 si e' gia' illustrata l'ampiezza delle competenze regionali in materia di Erp. E' ora il caso di evidenziare alcune disposizioni che conferiscono alle regioni la competenza proprio in relazione alla vendita degli immobili degli Iacp. Innanzi tutto, l'art. 93, d.P.R. n. 616/1977 trasferisce alle regioni «le funzioni statali relative agli I.A.C.P. fermo restando il potere alle regioni di cui all'art. 13 di stabilire soluzioni organizzative diverse». Di particolare interesse, per la presente controversia, e' l'art. 94 che trasferisce «alle regioni le funzioni amministrative esercitate dall'amministrazione centrale e periferica dei lavori pubblici, in base al regio decreto 28 aprile 1938, n. 1165», e, inoltre, la funzione relativa alla determinazione dei requisiti e dei prezzi massimi delle abitazioni, ai sensi dell'art. 8 del decreto-legge 6 settembre 1965, n. 1022, convertito nella legge 1° novembre 1965, n. 1179». Infatti, il r.d. n. 1165/1938 (ora abrogato proprio dall'art. 24 del d.l. n. 112/2008) concerneva - agli artt. 31, 34 e 35 - proprio la procedura di vendita delle case popolari, attribuendo al Ministro per i lavori pubblici il potere di autorizzare gli Iacp a vendere gli immobili agli inquilini e regolando il relativo prezzo di vendita. Quanto al d.l. n. 1022/1965, l'art. 8, comma 3, di esso stabilisce che «il Ministro dei lavori pubblici stabilira' con proprio decreto, con riferimento alle situazioni locali, il prezzo massimo, per metro quadrato o per metro cubo, degli alloggi da costruire con i benefici del presente decreto, nonche' l'incidenza massima del costo delle aree» (i commi 4 e 5 regolano poi la vendita). Dunque, sin dal 1977 alle regioni sono attribuite le competenze relative all'alienazione degli immobili degli Iacp, sia sotto il profilo procedurale sia sotto quello del prezzo di vendita. E' poi da ricordare che, in base alla sent. n. 94/2007, il terzo livello normativo, «rientrante nel quarto comma dell'art. 117 Cost., riguarda la gestione del patrimonio immobiliare di edilizia residenziale pubblica di proprieta' degli Istituti autonomi per le case popolari o degli altri enti che a questi sono stati sostituiti ad opera della legislazione regionale»; ancora gli Istituti autonomi delle case popolari devono essere «considerati come enti regionali» (sentenza n. 1115 del 1988). La sentenza n. 94 del 2007 e' interessante non solo la precisazione relativa al riparto delle competenze in materia di Erp ma anche perche' ha annullato due disposizioni del tutto simili a quelle qui impugnate. Infatti il comma 597, legge n. 266/2005, cioe' della legge finanziaria per il 2006, prevedeva che, «ai fini della valorizzazione degli immobili costituenti il patrimonio degli Istituti autonomi per le case popolari, comunque denominati», un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri - da emanare previo accordo tra Governo e regioni - semplificasse le norme in materia di alienazione degli immobili di proprieta' degli Istituti medesimi. Dunque, rispetto all'art. 13, comma 1, d.l. n. 112/2008, l'accordo intercorreva solo con le regioni (e non anche con gli enti locali) e veniva recepito in un d.P.C.m. Il comma 598 fissava i principi-guida per l'accordo tra Governo e regioni, praticamente uguali a quelli di cui all'art. 13, comma 2, d.l. n. 112/2008; anzi, quest'ultima disposizione risulta peggiorativa perche' - a proposito della determinazione del prezzo di vendita - non fa riferimento alle «vigenti leggi regionali» (come faceva, invece, l'art. 1, comma 598, legge n. 266/2005). La Corte costituzionale ha annullato il comma 597 perche' « il fine della disposizione in esame non e' quello di dettare una disciplina generale in tema di assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica, di competenza dello Stato,... bensi' quello di regolare le procedure amministrative e organizzative per arrivare ad una piu' rapida e conveniente cessione degli immobili»: «si tratta quindi - continuava la Corte - di un intervento normativo dello Stato nella gestione degli alloggi di proprieta' degli I.A.C.P. (o di altri enti o strutture sostitutivi di questi), che esplicitamente viene motivato dalla legge statale con finalita' di valorizzazione di un patrimonio immobiliare non appartenente allo Stato, ma ad enti strumentali delle regioni». La conclusione della Corte e' che «si profila, pertanto, una ingerenza nel terzo livello di normazione riguardante l'edilizia residenziale pubblica, sicuramente ricompreso nella potesta' legislativa residuale delle regioni, ai sensi del quarto comma dell'art. 117 Cost.». Quanto al comma 598 (corrispondente, come detto, all'art. 13, comma 2), la Corte lo ha dichiarato illegittimo perche' esso «e' una logica conseguenza del comma precedente, giacche' fissa alcuni obiettivi al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri da emanarsi successivamente»; esso non pone «criteri uniformi di assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica in relazione alla soddisfazione del diritto sociale all'abitazione, ma... indirizzi e limiti« in un «ambito materiale riservato esclusivamente alle regioni: non vengono in rilevo, infatti, profili programmatori o progettuali idonei ad avere un qualsiasi impatto con il territorio». La Corte esclude anche che la materia possa essere ricondotta all'«ordinamento civile», «poiche' si tratta di criteri destinati ad incidere sulle procedure amministrative inerenti all'alienazione degli immobili di proprieta' di enti regionali e non gia' a regolare rapporti giuridici di natura privatistica». La sentenza n. 94/2007 conclude ricordando che «la competenza regionale in materia e' stata gia' riconosciuta dalla giurisprudenza di questa Corte (si veda, ad esempio, la sentenza n. 486 del 1995) e non v'e' spazio, pertanto, per una normativa statale che si sostituisca o si sovrapponga a quella delle regioni, tuttora in vigore». L'alienazione degli alloggi deve essere considerata «indissolubilmente connessa con l'assegnazione degli stessi»: dunque, «se la "disciplina organica dell'assegnazione e cessione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica [...] costituisce, in linea di principio, espressione della competenza spettante alla regione in questa materia" (ordinanza n. 104 del 2004), la disciplina delle procedure amministrative tendenti all'alienazione non rientra nell'ordinamento civile, ma deve essere ricondotta al potere di gestione dei propri beni e del proprio patrimonio, appartenente in via esclusiva alle regioni ed ai loro enti strumentali». I passi appena citati possono essere agevolmente addotti al fine di argomentare l'illegittimita' dei commi 1 e 2 dell'art. 13, d.l. n. 112/2008. La somiglianza di tali norme con i commi 597 e 598 e' gia' stata illustrata, ma e' opportuno sottolineare che la presenza nel precedente testo di un regolamento governativo (cosi' la Corte ha qualificato il d.P.C.m. di cui al comma 597) non vale a differenziare il comma 597 dall'art. 13, comma 1: quel regolamento infatti presupponeva necessariamente l'accordo tra Governo e regioni, tanto e' vero che il comma 598 fissava i criteri che dovevano essere rispettati dall'accordo stesso. Dunque, era questo il vero atto regolatore della materia, mentre il d.P.C.m. aveva solo la funzione di recepire il contenuto dell'accordo e di formalizzarlo in un atto normativo tipico. Pertanto, l'unica differenza fra il comma 597 e l'art. 13, comma 1 (a parte il coinvolgimento degli enti locali), sta nel fatto che nel presente giudizio non ha ragione di essere invocato come parametro l'art. 117, sesto comma, Cost., mancando un atto regolamentare statale in materia regionale. Quanto sopra argomentato non potrebbe essere contraddetto dalla circostanza che la disciplina di recepimento dei criteri fissati dall'art. 13, comma, 2, avviene (ai sensi del comma 1) mediante «accordi», da stipulare «in sede di Conferenza unificata», con «regioni ed enti locali». Tali accordi, infatti, si porrebbero poi di necessita' come improprio condizionamento della potesta' legislativa regionale, da parte di un organismo e di un atto non legittimati a produrre tale condizionamento. Si noti che il lesivo condizionamento si verificherebbe persino se si supponesse che gli «accordi» in questione, benche' da stipulare in sede di Conferenza, intercorressero non con la Conferenza ma con la singola Regione: dato che la potesta' legislativa spetta per Costituzione ad un organo diverso da quello che concluderebbe l'accordo e non puo' essere vincolata (come vorrebbe la legge statale) a previ accordi intercorsi tra soggetti privi di tale potesta'. Ancora piu' lesiva sarebbe poi l'ipotesi - anch'essa non impensabile sulla base dell'ambiguo testo dell'art. 13, comma 1 - di un accordo stipulato direttamente tra uno o piu' Ministri e singoli comuni: dai quali risulterebbe direttamente lesa la potesta' legislativa spettante alla regione. In definitiva, l'art. 13, commi 1 e 2, d.l. n. 112/2008, risulta lesivo della competenza legislativa regionale in quanto regola la materia della gestione del patrimonio immobiliare degli Iacp, rientrante nella potesta' regionale piena (art. 117, quarto comma, Cost.). Inoltre, il fatto che lo Stato abbia reiterato - in termini pressoche' identici - una disciplina annullata a distanza di soli tre anni fa si' che le norme impugnate siano illegittime, oltre che per violazione dell'art. 117, quarto comma, anche per violazione dell'art. 136 Cost., cioe' del giudicato costituzionale, in quanto l'art. 13, commi 1 e 2, rida' efficacia a norme gia' dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale. L'art. 13, comma 2, lettera c) prevede la «destinazione dei proventi delle alienazioni alla realizzazione di interventi volti ad alleviare il disagio abitativo». In questo modo, il legislatore statale pone un vincolo di destinazione all'uso delle risorse spettanti agli Iacp, cioe' a enti para-regionali, limitando l'autonomia finanziaria di spesa garantita alle regioni dall'art. 119, primo comma, Cost. Di qui un'ulteriore ragione di illegittimita' dell'art. 13, comma 2, lettera c), che si aggiunge a quelle derivanti dalla violazione degli artt. 117, quarto comma, e 136 Cost. 3) Illegittimita' dell'art. 23, comma 2, per violazione dell'art. 117, quarto comma, Cost. Come sopra esposto l'art. 23, d.l. n. 112/2008, reca Modifiche alla disciplina del contratto di apprendistato. Esso, in particolare, al comma 2, inserisce il comma 5-ter nell'art. 49, d.lgs. n. 276/2003. In base alla nuova disposizione, in caso di formazione esclusivamente aziendale, «non opera quanto previsto dal comma 5»; in questa ipotesi, invece, «i profili formativi dell'apprendistato professionalizzante sono rimessi integralmente ai contratti collettivi di lavoro stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale... ovvero agli enti bilaterali» (cioe', a quegli organismi previsti dai contratti collettivi e composti da esponenti delle associazioni dei datori di lavoro e dei sindacati), che «definiscono la nozione di formazione aziendale e determinano, per ciascun profilo formativo, la durata e le modalita' di erogazione della formazione, le modalita' di riconoscimento della qualifica professionale ai fini contrattuali e la registrazione nel libretto formativo». Il comma 5 dell'art. 49 - chiamato ora a «non operare» - stabilisce che «la regolamentazione dei profili formativi dell'apprendistato professionalizzante e' rimessa alle regioni e alle Province autonome di Trento e Bolzano, d'intesa con le associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente piu' rappresentative sul piano regionale e nel rispetto dei seguenti criteri e principi direttivi», che riguardano sia la formazione interna che quella esterna alla azienda (v. la lettera a) e la lettera c). In questo modo, l'art. 23, comma 2, sottrae una competenza normativa gia' riconosciuta alle regioni e la attribuisce alla fonte contrattuale, destinata a regolare i profili formativi dell'apprendistato professionalizzante in relazione a tutte le imprese e a tutti gli apprendisti: ivi compresi, si noti, quelli non iscritti ad alcun sindacato. A prescindere da valutazioni sull'opportunita' di una disciplina del genere (nei settori dove il ccl e' solo nazionale - come il commercio - i profili formativi saranno rimessi agli enti bilaterali, che si trovano in grossa difficolta' per adempiere il compito affidato dall'art. 23), tale circostanza (cioe', l'efficacia normativa del ccl) determina un problema di compatibilita' con l'art. 39 Cost. che, come noto, ammette l'efficacia generale del ccl solo se il sindacato e' registrato e, quindi, non l'ammette, data l'inattuazione dell'art. 39. Naturalmente, la questione si e' gia' posta (non essendo una novita' che il legislatore rinvil ai ccl per l'integrazione della propria disciplina) e, in passato, la Corte ha sottolineato l'illegittimita' di leggi del genere (v. la sent. n. 106/1962 e la sent. n. 344/1996), e le ha giustificate solo «quando si tratta di materie del rapporto di lavoro che esigono uniformita' di disciplina in funzione di interessi generali connessi al mercato del lavoro, come il lavoro a tempo parziale..., i contratti di solidarieta'..., la definizione di nuove ipotesi di assunzione a termine» (sent. 344/1996). Poiche' i profili formativi dell'apprendistato professionalizzante di certo non rappresentano una materia che esige una disciplina uniforme per gli interessi del mercato del lavoro, la «delega di funzioni paralegislative» (per usare un'espressione della sent. n. 344/1996) ai contratti collettivi - operata dall'art. 23, comma 2 - costituisce una palese violazione dell'art. 39 Cost. e trasforma i contratti stessi (o gli accordi conclusi in sede di ente bilaterale) in una fonte extra-ordinem. Poiche' attraverso questa violazione si produce una menomazione delle competenze regionali (dato che la regione viene privata di una potesta' normativa che prima aveva, anche in relazione alla formazione aziendale, come risulta dall'art. 49, comma 5, d.lgs. n. 276/2003) e poiche' si verte in materia di competenza regionale, esistono tutti gli elementi della lesione di competenza indiretta, nel senso che la violazione dell'art. 117, quarto comma, Cost. si determina attraverso la violazione dell'art. 39 cost. (si tratta di una connessione che codesta ecc.ma Corte ha in molti casi ammesso, ammettendo le relative censure: v., ad es., le sentt. nn. 503/2000, 206/2001, punti 15, 16 e 34, 110/2001, 303/2003, punto 35, 280/2004, 355/1993). Di qui la legittimazione regionale a far valere la violazione dell'art. 39 e, tramite questa, della propria potesta' legislativa in materia di formazione professionale. Del resto, gia' in un'occasione codesta Corte ha mostrato di non escludere a priori il riferimento all'art. 39 Cost. in un ricorso regionale (v. sent. n. 219/1984). Fra l'altro, l'assegnazione alla contrattazione collettiva della funzione di fonte esclusiva, in luogo di quella regionale, viola il principio di certezza del diritto perche' si istituisce una fonte extra-ordinem i cui rapporti con le previgenti leggi regionali non sono chiari; anche tale violazione si riflette in una lesione della competenza regionale dato che incide sull'applicabilita' delle leggi regionali. Inoltre, come noto, la formazione professionale rientra nella competenza regionale piena, come risulta dall'espressa clausola di esclusione di cui all'art. 117, comma 3, Cost. Pur se codesta Corte ha ritenuto che la formazione aziendale non rientri nella competenza regionale ma nel sinallagma contrattuale e, quindi, nelle competenze dello Stato in materia di ordinamento civile (sent. n. 50/2005), tuttavia «le modalita' di riconoscimento della qualifica professionale ai fini contrattuali» e «la registrazione nel libretto formativo» (menzionate nell'ultimo periodo della disposizione impugnata) non attengono propriamente allo svolgimento della formazione aziendale (cioe', alla prestazione spettante al datore di lavoro) ma a profili diversi, rientranti nella competenza regionale in materia di formazione (art. 117, quarto comma 4) e di professioni (art. 117, terzo comma, Cost.). Dunque, in relazione a tali profili, l'eliminazione della competenza regionale risulta lesiva delle prerogative costituzionali della regione. E' dunque illegittima, almeno per questi profili, la sottrazione della materia alla disciplina generale di cui al comma 5 che, fra l'altro, gia' si occupa del «riconoscimento sulla base dei risultati conseguiti all'interno del percorso di formazione, esterna e interna alla impresa, della qualifica professionale ai fini contrattuali». In relazione a tali profili, in ogni modo, se anche non si volesse riconoscere una competenza regionale piena, sembra evidente l'esigenza di un coordinamento con la disciplina generale dell'apprendistato, e dunque la necessita' di un raccordo con le Regioni, che la norma impugnata completamente pretermette. 4) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23-bis, commi 2, 3, 4, 7 e 10. L'art. 23-bis e' dedicato alla disciplina dei Servizi pubblici locali di rilevanza economica. Conviene ricordare che i servizi pubblici, in quanto tali, non ricadono in alcuna potesta' legislativa statale, ma che lo Stato puo' intervenire in essa, come codesta ecc.ma Corte costituzionale ha stabilito con la sentenza n. 272 del 2004 a titolo di tutela della concorrenza, ai sensi dell'art. 117, comma secondo, lettera e) della Costituzione, e che pertanto non sono censurabili tutte quelle norme «che garantiscono, in forme adeguate e proporzionate, la piu' ampia liberta' di concorrenza nell'ambito di rapporti - come quelli relativi al regime delle gare o delle modalita' di gestione e conferimento dei servizi - i quali per la loro diretta incidenza sul mercato appaiono piu' meritevoli di essere preservati da pratiche anticoncorrenziali» (punto 3 in diritto). La presente impugnazione non intende mettere in discussione questo principio. Tuttavia, le impugnate disposizioni dell'art. 23-bis, commi secondo e terzo, riguardano non la tutela della concorrenza, ma piu' precisamente il diritto dell'ente territoriale responsabile di erogare in proprio il servizio pubblico a favore della propria comunita'. Occorre ricordare che tale diritto non solo non e' precluso dalle regole di tutela della concorrenza, ma e' espressamente riconosciuto dalla giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunita' europee, espressa in modo chiaro e lineare nella decisione Stadt Halle (sentenza dell'11 gennaio 2005, in causa C-26/03). Al punto 48 di tale decisione e' chiaramente stabilito che «un'autorita' pubblica, che sia un'amministrazione aggiudicatrice, ha la possibilita' di adempiere ai compiti di interesse pubblico ad essa incombenti mediante propri strumenti, amministrativi, tecnici e di altro tipo, senza essere obbligata a far ricorso ad entita' esterne non appartenenti ai propri servizi», e che «in tal caso, non si puo' parlare di contratto a titolo oneroso concluso con un entita' giuridicamente distinta dall'amministrazione aggiudicatrice» e che dunque «non sussistono dunque i presupposti per applicare le norme comunitarie in materia di appalti pubblici». Ha inoltre precisato, al punto 49, che «in conformita' della giurisprudenza della Corte, non e' escluso che possano esistere altre circostanze nelle quali l'appello alla concorrenza non e' obbligatorio ancorche' la controparte contrattuale sia un'entita' giuridicamente distinta dall'amministrazione aggiudicatrice», e che «cio' si verifica nel caso in cui l'autorita' pubblica, che sia un'amministrazione aggiudicatrice, eserciti sull'entita' distinta in questione un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi e tale entita' realizzi la parte piu' importante della propria attivita' con l'autorita' o le autorita' pubbliche che la controllano». Tale giurisprudenza della Corte di giustizia e' sempre rimasta ferma e costante, dalla Teckal, (18 novembre 1999, in causa C-107/98) alla recente sentenza Associazione Nazionale Autotrasporto Viaggiatori (6 aprile 2006, in causa C-410/04). Ora, questo diritto delle amministrazioni, che non mette in discussione la tutela della concorrenza ed e' pienamente riconosciuto dalla Corte di giustizia, e' invece negato dai commi 2, 3 e 4 dell'art. 23-bis qui impugnato. Il comma 2, infatti, prevede che «il conferimento della gestione dei servizi pubblici locali avviene, in via ordinaria, a favore di imprenditori o di societa' in qualunque forma costituite individuati mediante procedure competitive ad evidenza pubblica», mentre il comma 3 dispone che ogni diverso modo di «affidamento» (ma con cio', presumibilmente, anche ogni diverso modo di gestione) possa essere scelto «in deroga alle modalita' di affidamento ordinario di cui al comma 2, per situazioni che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato», nel rispetto dei principi della disciplina comunitaria. Ed il comma 4 aggiunge che, «nei casi di cui al comma 3, l'ente affidante deve dare adeguata pubblicita' alla scelta, motivandola in base ad un'analisi del mercato e contestualmente trasmettere una relazione contenente gli esiti della predetta verifica all'Autorita' garante della concorrenza e del mercato e alle autorita' di regolazione del settore, ove costituite, per l'espressione di un parere sui profili di competenza da rendere entro sessanta giorni dalla ricezione della predetta relazione». Ad avviso della Regione Liguria, tale limitazione della capacita' delle amministrazioni regionali e locali di gestire in proprio i servizi pubblici risulta costituzionalmente illegittima e lesiva della potesta' legislativa regionale nella materia. In effetti, un problema di tutela della concorrenza puo' iniziare solo dopo che e' stata presa la decisione di gestire il servizio attraverso il mercato, anziche' in proprio. Al contrario, la decisione di mantenere il servizio nell'ambito della propria organizzazione diretta, o della propria organizzazione in house, non restringe e non altera in alcun modo la concorrenza. Nel quadro della gestione in proprio, invece, abbiamo semplicemente lo svolgimento dell'attivita' amministrativa da parte dell'ente responsabile davanti alla propria comunita'. Naturalmente, le regole di concorrenza riprenderanno pienamente il loro vigore ogni volta che l'amministrazione responsabile del servizio si debba rivolgere al mercato per l'acquisto di beni o servizi: ma essa non puo' invece essere costretta ad affidare il servizio in quanto tale ad entita' esterne, con le quali essa non ha un rapporto di pieno controllo ma esclusivamente un vincolo contrattuale. Le disposizioni dei commi 2, 3 e 4 risultano dunque illegittime in quanto, in violazione dell'art. 117, quarto comma, limitano la potesta' legislativa regionale di disciplinare il normale svolgimento del servizio pubblico da parte dell'ente, sottoponendo tale scelta a vincoli sia sostanziali (le «peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato») che procedurali (l'onere di «trasmettere una relazione contenente gli esiti della predetta verifica all'Autorita' garante della concorrenza e del mercato e alle autorita' di regolazione del settore, ove costituite, per l'espressione di un parere sui profili di competenza»). Il comma 7 dell'art. 23-bis dispone che «le regioni e gli enti locali, nell'ambito delle rispettive competenze e d'intesa con la Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, possono definire, nel rispetto delle normative settoriali, i bacini di gara per i diversi servizi, in maniera da consentire lo sfruttamento delle economie di scala e di scopo e favorire una maggiore efficienza ed efficacia nell'espletamento dei servizi, nonche' l'integrazione di servizi a domanda debole nel quadro di servizi piu' redditizi, garantendo il raggiungimento della dimensione minima efficiente a livello di impianto per piu' soggetti gestori e la copertura degli obblighi di servizio universale». Tale disposizione, sotto una apparenza meramente facoltizzante, vincola in realta' le regioni e gli enti locali ad assumere le proprie decisioni relative ai bacini di gara (che diverranno poi bacini di esercizio dei servizi pubblici) «d'intesa con la Conferenza unificata», in violazione dell'art. 117, comma 4, nonche' dell'art. 118, primo e secondo comma della Costituzione. Da una parte, infatti, la disciplina della dimensione di esercizio dei servizi pubblici rientra nella potesta' legislativa della regione, dall'altra il condizionare l'esercizio di tale potesta' e delle scelte amministrative che essa esprime viola sia la potesta' legislativa in se' considerata - a prescindere dal suo carattere concorrente o pieno, sia il principio di sussidiarieta', non potendosi vedere alcuna ragione di centralizzazione di tali scelte. Si noti che la lesione non viene meno per il fatto che si tratti dell'intesa con un organismo espressivo delle autonomie: sia perche' in realta' l'intesa con la Conferenza richiede necessariamente anche l'intesa con lo Stato (parte esso stesso della Conferenza), sia perche' si tratterebbe in ogni caso di un condizionamento delle scelte della regione da parte di altre regioni ed enti locali, che non hanno alcun potere da esercitare in relazione al territorio di una specifica regione. Il comma 10 dell'art. 23-bis dispone che il Governo, su proposta del Ministro per i rapporti con le regioni «sentita la Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, nonche' le competenti Commissioni parlamentari, emana uno o piu' regolamenti, ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400», al fine di disciplinare una pluralita' di oggetti. La previsione di una disciplina regolamentare puo' essere giustificata, secondo l'art. 117, sesto comma, ed i principi enunciati dalla giurisprudenza costituzionale, in quanto essa abbia ad oggetto materie rientranti nella competenza esclusiva dello Stato. Tuttavia, la materia che forma oggetto di tali regolamenti ai sensi del comma 10, nelle diverse lettere da a) ad l), presenta un inestricabile intreccio con le materie oggetto di potesta' concorrente (come il coordinamento della finanza pubblica, fondamento della lettera a) o esclusiva delle regioni (come nel caso della gestione associata dei servizi locali, oggetto della lettera c). In tale situazione, il solo modo di contemperare le competenze rispettive dello Stato e delle regioni consiste nel sottoporre il regolamento all'intesa della Conferenza Stato-regioni o della Conferenza unificata, in luogo del semplice parere previsto dalla disposizione impugnata. Diversamente, non potrebbe evitarsi l'affermazione della illegittimita' costituzionale dell'uso dello strumento regolamentare, in violazione dell'art. 117, comma sesto, per tutti gli oggetti che - come quelli sopra indicati - non rientrano nelle materie di potesta' legislativa esclusiva dello Stato. 5) Illegittimita' costituzionale dell'art. 26, comma 1. L'art. 26 e' intitolato, con linguaggio per vero giornalistico, «Taglia-enti». Esso dispone al comma 1 che «gli enti pubblici non economici con una dotazione organica inferiore alle 50 unita', con esclusione degli ordini professionali e le loro federazioni, delle federazioni sportive e degli enti non inclusi nell'elenco ISTAT pubblicato in attuazione del comma 5 dell'art. 1 della legge 30 dicembre 2004, n. 311, degli enti la cui funzione consiste nella conservazione e nella trasmissione della memoria della Resistenza e delle deportazioni, anche con riferimento alle leggi 20 luglio 2000, n. 211, istitutiva della Giornata della memoria e 30 marzo 2004, n. 92, istitutiva del Giorno del ricordo, nonche' delle Autorita' portuali, degli enti parco e degli enti di ricerca, sono soppressi al novantesimo giorno dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, ad eccezione di quelli confermati con decreto dei Ministri per la pubblica amministrazione e l'innovazione e per la semplificazione normativa, da emanarsi entro il predetto termine». Sempre il comma 1 dispone anche che «sono, altresi', soppressi tutti gli enti pubblici non economici, per i quali, alla scadenza del 31 marzo 2009, non siano stati emanati i regolamenti di riordino ai sensi del comma 634 dell'art. 2 della legge 24 dicembre 2007, n. 244», e che «nei successivi novanta giorni i Ministri vigilanti comunicano ai Ministri per la pubblica amministrazione e l'innovazione e per la semplificazione normativa gli enti che risultano soppressi ai sensi del presente comma». Il comma 2 destina le funzioni esercitate da ciascun ente soppresso «all'amministrazione vigilante ovvero, nel caso di pluralita' di amministrazioni vigilanti, a quella titolare delle maggiori competenze nella materia che ne e' oggetto». La Regione Liguria ritiene che il linguaggio utilizzato dalla nonna, con il riferimento ai «Ministri vigilanti», e la totale assenza di riferimenti alle regioni, o di coinvolgimento delle regioni stesse o della Conferenza nelle determinazioni da assumere, possano costituire elementi interpretativi in grado di condurre alla conclusione che l'art. 26 si applica soltanto agli «enti pubblici nazionali», sui quali lo Stato ha potesta' legislativa esclusiva ai sensi dell'art. 117, comma secondo, lettera g), della Costituzione. Essa dunque impugna tali disposizioni a titolo cautelativo, per l'ipotesi che esse andassero intese nel senso di comportare la soppressione anche degli enti pubblici regionali e locali. In tale caso, infatti, risulterebbe violato l'art. 117, quarto comma, della Costituzione, che implicitamente affida alla potesta' regionale piena l'organizzazione amministrativa della regione e (per quanto non rientri nella loro autonomia) degli enti locali, e la disciplina degli enti pararegionali. Risulterebbe violata altresi' l'autonomia normativa e amministrativa degli enti locali, tutelata dall'art. 117, sesto comma, secondo periodo, della Costituzione. Risulterebbe in ogni caso violato anche il principio di leale collaborazione, dato l'assenza di partecipazione delle Regioni ai procedimenti decisionali. Ne' l'art. 26, comma 1, potrebbe giustificarsi a titolo di coordinamento della finanza pubblica: esso, infatti, non potrebbe considerarsi certo un principio di coordinamento, dato che inciderebbe su una voce specifica della spesa regionale e non lascerebbe alcun margine di scelta alle regioni per raggiungere l'obiettivo di risparmio, ma rappresenterebbe una norma direttamente operativa e puntuale, in contrasto con la consolidata giurisprudenza costituzionale che e' intervenuta sul punto. 6) Illegittimita' costituzionale dell'art. 76, comma 6-bis. Il comma 6-bis dell'art. 76 dispone che «sono ridotti dell'importo di 30 milioni di euro per ciascuno degli anni 2009, 2010 e 2011 i trasferimenti erariali a favore delle comunita' montane», e che «alla riduzione si procede intervenendo prioritariamente sulle comunita' che si trovano ad una altitudine media inferiore a settecentocinquanta metri sopra il livello del mare». Ancora, esso dispone che «all'attuazione del presente comma si provvede con decreto del Ministro dell'interno, da adottare di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze». La Regione Liguria ritiene che esso sia costituzionalmente illegittimo in tutte le sue tre disposizioni. Quanto alla prima, infatti, essa viola, sia pure indirettamente, l'autonomia finanziaria regionale. Infatti, benche' si tratti di fondi che - allo stato attuale della legislazione (e per vero incongruamente) costituiscono trasferimenti diretti alle singole Comunita' montane (anziche' essere diretti alle regioni, che li utilizzerebbero secondo criteri corrispondenti alle situazioni locali), le Comunita' montane stesse rientrano nella sfera delle competenze legislative regionali («la disciplina delle Comunita' montane, pur in presenza della loro qualificazione come enti locali contenuta nel d.lgs. n. 267 del 2000, rientra ora nella competenza legislativa residuale delle regioni, ai sensi dell'art. 117, quarto comma, della Costituzione»: sent. n. 456/2005) e costituiscono strumenti a disposizione della regione e degli enti locali per la riorganizzazione delle proprie funzioni in termini associativi. La loro finanza, percio', non puo' che essere considerata come una parte della complessiva finanza regionale (come del resto mostra il fatto che il «Fondo Montagna», destinato ai finanziamenti in conto capitale, e' regionalizzato da moltissimi anni). La riduzione di trasferimenti settoriali in termini significativi come quella disposta dal comma 6-bis dell'art. 76 - con il possibile azzeramento del contributo ordinario, e la riduzione anche di quello detto «consolidato» - e' suscettibile di produrre il tracollo economico e la scomparsa di numerose Comunita' montane, pure appena riorganizzate dalle leggi regionali in attuazione dell'art. 2, comma 17, della legge n. 244 del 2007. Si noti che la «drammaticita'» della situazione deriva dal fatto che la riduzione di 30 milioni di euro disposta con la disposizione impugnata va a sommarsi alle riduzioni anche maggiori previste dalla finanziaria 2008, pari a 66, 4 milioni di euro: sicche' il «taglio» totale dei finanziamenti ammonta a quasi 97 milioni di euro, e del contributo ordinario iniziale non resta che 1/10, (taglio totale del 90%). L'art. 119 della Costituzione presuppone un equilibrio tra funzioni ed entrate, ed obbliga lo Stato a dotare le regioni dei mezzi per fare fronte ai propri compiti, sia mediante trasferimenti di tributi erariali, sia mediante entrate proprie. Non si vuole certo negare in assoluto il potere dello Stato di delimitare le proprie spese. Tuttavia, esso non puo' ridurre i propri trasferimenti al sistema regionale in termini tali da compromettere l'esercizio delle loro funzioni (si consideri che si tratta di una riduzione di oltre il 30% del contributo ordinario), senza prevedere strumenti con i quali le regioni possano rimediare alle riduzioni stesse. L'illegittimita' costituzionale qui lamentata consiste appunto in questa drastica riduzione dei finanziamenti, e nella assenza della assegnazione di poteri regionali che consentano di sopperire alle necessita'. In secondo luogo, il comma 6-bis dispone, come detto, che «alla riduzione si procede intervenendo prioritariamente sulle comunita' che si trovano ad una altitudine media inferiore a settecentocinquanta metri sopra il livello del mare». Anche tale disposizione e' ad avviso della ricorrente regione illegittima, incidendo sulle decisioni relative alla politica della montagna, di competenza regionale (si veda anche l'art. 27, d.lgs. n. 267/2000). Oltre che invasiva, l'adozione di un criterio meramente legato al profilo altimetrico risulta irrazionale. Infatti, la stessa conformazione delle zone montane rende impossibile dedurre dalla mera altimetria - ovviamente influenzata dai picchi in profondita' o altitudine - le condizioni di maggiore o minore isolamento, di maggiore o minore difficolta' di comunicazione ed ogni altra condizione che possano suggerire di sostenere determinate comunita' invece di altre. L'irragionevolezza del criterio si riflette in una lesione della competenza regionale, perche' incide sull'esercizio dei poteri spettanti alla regione (ex art. 117, quarto comma, Cost.) in materia di comunita' montane: si pensi alla «disciplina dei piani zonali e dei programmi annuali», ai «criteri di ripartizione tra le Comunita' montane dei finanziamenti regionali e di quelli dell'Unione europea», «ai rapporti con gli altri enti operanti nel territorio», tutti oggetti che la regione deve disciplinare ex art. 27, d.lgs. n. 267/2000 subendo il condizionamento irragionevole della norma statale, che penalizza economicamente le comunita' poste ad un'altitudine rigidamente prefissata. Ulteriormente irragionevole risulta la soglia ora indicata di 750 m.s.l.m. in quanto diversa e lontana da quella dei 500 m.s.l.m. prevista all'art. 2, comma 20 della finanziaria 2008 ed assunta, insieme agli altri criteri ivi stabiliti, a riferimento dalle regioni nella redazione delle loro leggi di riordino. Si introduce cosi' un elemento di contraddizione proprio nella fase di attuazione delle leggi regionali di riordino, richieste ed imposte dalla stessa legge statale. La disposizione viola dunque ad un tempo l'autonomia finanziaria regionale, nel senso sopra indicato, e l'autonomia legislativa. Infine, risulta illegittima anche la terza disposizione, secondo la quale «all'attuazione del presente comma si provvede con decreto del Ministro dell'interno, da adottare di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze». In effetti, qualunque siano le decisioni da assumere in materia di finanziamento della Comunita' montane, e per quanto nelle attuali condizioni di non attuazione dell'art. 119 della Costituzione, sembra evidente che ad esse debbano essere chiamate a partecipare le regioni, titolari della competenza costituzionale nella materia, almeno attraverso lo strumento dell'intesa in Conferenza Stato-regioni o Conferenza unificata. Esiste infatti una connessione indissolubile tra i problemi del finanziamento e i problemi della stessa esistenza ed articolazione delle Comunita' montane (oltre che della complessiva funzionalita' e possibilita' di assumere funzioni), problemi delle quali le regioni sono direttamente responsabili. La politica di finanziamento delle Comunita' montane deve essere dunque necessariamente coordinata con le politiche regionali. Di qui l'illegittimita' costituzionale del mancato coinvolgimento delle regioni nelle decisioni attuative della legge, per violazione dei principi di sussidiarieta' e di leale collaborazione. 7) Illegittimita' costituzionale dell'art. 81, commi 29, 30, 32, 33, 34, 35, 36 e 38. Il comma 29 dell'art. 81 (Settori petrolifero e del gas) istituisce un «Fondo speciale destinato al soddisfacimento delle esigenze prioritariamente di natura alimentare e successivamente anche energetiche e sanitarie dei cittadini meno abbienti». Il comma 30 indica le fonti di alimentazione del Fondo, fra le quali «trasferimenti dal bilancio dello Stato» (lettera d). Il comma 32 istituisce la c.d. «social card», stabilendo che, «in considerazione delle straordinarie tensioni cui sono sottoposti i prezzi dei generi alimentari e il costo delle bollette energetiche, nonche' il costo per la fornitura di gas da privati, al fine di soccorrere le fasce deboli di popolazione in stato di particolare bisogno e su domanda di queste, e' concessa ai residenti di cittadinanza italiana che versano in condizione di maggior disagio economico, individuati ai sensi del comma 33, una carta acquisti finalizzata all'acquisto di tali beni e servizi, con onere a carico dello Stato». Il comma 33 dispone che «con decreto interdipartimentale del Ministero dell'economia e delle finanze e del Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali, sono disciplinati,... i criteri e le modalita' di individuazione dei titolari del beneficio di cui al comma 32« (tenendo conto degli elementi di seguito indicati), «l'ammontare del beneficio unitario», «le modalita' e i limiti di utilizzo del Fondo di cui al comma 29 e di fruizione del beneficio di cui al comma 32». Il comma 34 prevede che, «ai fini dell'attuazione dei commi 32 e 33,... il Ministero dell'economia e delle finanze puo' avvalersi di altre amministrazioni, di enti pubblici, di Poste italiane S.p.A., di SOGEI S.p.A. o di CONSIP S.p.A.». Il comma 35 statuisce che Ministero dell'economia e delle finanze, ovvero uno dei soggetti di cui questo si avvale ai sensi del comma 34, individua: a) i titolari del beneficio di cui al comma 32, in conformita' alla disciplina di cui al comma 33; b) il gestore del servizio integrato di gestione delle carte acquisti e dei relativi rapporti amministrativi». Il comma 36 stabilisce che «le pubbliche amministrazioni e gli enti pubblici che detengono informazioni funzionali all'individuazione dei titolari del beneficio di cui al comma 32... forniscono, in conformita' alle leggi che disciplinano i rispettivi ordinamenti, dati, notizie, documenti e ogni ulteriore collaborazione richiesta dal Ministero dell'economia e delle finanze o dalle amministrazioni o enti di cui questo si avvale, secondo gli indirizzi da questo impartiti». Il comma 38 dispone che «agli oneri derivanti dall'attuazione dei commi da 32 a 37 si provvede mediante utilizzo del Fondo di cui al comma 29». Le norme sopra illustrate non possono non stupire per la totale estromissione delle regioni (il cui coinvolgimento in fase di attuazione e' reso del tutto eventuale e, pare, improbabile, non apparendovi esse che uno dei vari soggetti - neppure nominati ma confuse con gli altri enti pubblici! - di cui il Ministero puo' avvalersi ai sensi del comma 34) in una materia di competenza regionale piena. Le norme in questione, infatti, non solo istituiscono un fondo settoriale nella materia delle politiche sociali (il che gia' sarebbe illegittimo, come piu' volte riconosciuto da codesta Corte) ma - invece di ripartire il fondo tra le regioni - prevedono una regolazione ed una gestione del tutto accentrata del fondo (con erogazione diretta ai privati), senza alcun coinvolgimento delle regioni. Il comma 33 prevede un decreto «interdipartimentale» (dunque, neppure adottato da Ministri ma da dirigenti ministeriali) che ha sostanza di regolamento attuativo della legge, essendo volto a definire i criteri e le modalita' di individuazione dei titolari del beneficio, l'ammontare del beneficio unitario e le modalita' e i limiti di utilizzo del Fondo e di fruizione del beneficio. I commi 34 e 35 danno competenza al Ministero dell'economia (che puo' «avvalersi» di altri soggetti pubblici o privati) per la fase di attuazione e per l'individuazione dei titolari del beneficio e del gestore del servizio integrato di gestione delle carte acquisti e dei relativi rapporti amministrativi. Codesta Corte ha piu' volte colpito i finanziamenti (ripartiti tra le regioni) a destinazione vincolata in quanto essi rappresentano «uno strumento indiretto, ma pervasivo, di ingerenza dello Stato nell'esercizio delle funzioni delle regioni e degli enti locali, nonche' di sovrapposizione di politiche e di indirizzi governati centralmente a quelli legittimamente decisi dalle regioni negli ambiti materiali di propria competenza» (cosi' la sent. n. 423/2004, proprio in materia di politiche sociali), ma e' chiaro che ancora piu' gravi e lesive sono norme che non si limitano a condizionare le Regioni ma le estromettono totalmente dalla materia di loro competenza. Ne' a fondamento della competenza statale puo' invocarsi la «concorrenza delle competenze», dato che il fondo riguarda solo la materia delle politiche sociali. Neppure puo' invocarsi la sussidiarieta', dato che non esistono esigenze di gestione unitaria della carta acquisti ne' di definizione unitaria dei criteri e delle modalita' di erogazione. Le norme indicate in epigrafe, dunque (e tranne il comma 36, che sara' esaminato a parte), violano l'autonomia legislativa, regolamentare, amministrativa e finanziaria di cui all'art. 117, commi 4 e 6, all'art. 118, commi 1 e 2, e all'art. 119 Cost., in quanto istituiscono un fondo settoriale nella materia delle politiche sociali e prevedono poteri regolamentari e amministrativi in relazione al medesimo fondo, invece di attribuire le corrispondenti risorse alle Regioni e di lasciare a queste le conseguenti scelte in materia di regolazione degli interventi e di allocazione delle funzioni amministrative. E' da sottolineare che la recente sentenza n. 166/2008 di codesta ecc.ma Corte ha deciso un ricorso su una fattispecie analoga, colpendo un fondo (in quanto incidente «esclusivamente su una materia di competenza legislativa regionale») che finanziava «interventi, di carattere sociale, relativi alla riduzione dei costi delle forniture di energia per usi civili a favore di clienti economicamente disagiati, anziani e disabili» e interveniva, percio', «nella materia, di potesta' legislativa residuale delle regioni, dei "servizi sociali", inerendo ad attivita' riguardanti la "predisposizione ed erogazione di servizi, gratuiti e a pagamento, o di prestazioni economiche destinate a rimuovere e superare le situazioni di bisogno e di difficolta' che la persona umana incontra nel corso della sua vita" (sentenza n. 50 del 2008)». La Corte ha accolto la questione di costituzionalita', «non sussistendo alcun titolo di competenza esclusiva statale che giustifichi il vincolo di destinazione del fondo in tale materia», ed ha annullato la norma che poneva il vincolo di destinazione specifica del fondo per interventi di riduzione dei costi della fornitura energetica per finalita' sociali e disponeva che, con decreto ministeriale, dovevano essere stabiliti le condizioni, le modalita' e i termini per l'utilizzo della dotazione del fondo stesso. La Corte ha anche precisato che «da tale pronuncia di illegittimita' costituzionale consegue che a ciascuna regione dovra' essere assegnata genericamente, per il perseguimento di finalita' sociali, la quota parte del fondo loro spettante, senza il suindicato vincolo di destinazione specifica (sentenze n. 181 del 2006 e n. 423 del 2004)». La Corte ha dichiarato l'illegittimita' di norme che prevedevano fondi settoriali in materia di politiche sociali anche con le sentt. nn.50/2008 e 423/2004. In denegata ipotesi, qualora codesta Corte dovesse ritenere giustificato il potere regolativo statale di cui al comma 33, tale disposizione sarebbe comunque illegittima per violazione del principio di leale collaborazione, nella parte in cui non prevede un'intesa con la Conferenza Stato-regioni, data la stretta inerenza del fondo alla materia delle politiche sociali. Anche in questa ipotesi, pero', resterebbe ferma l'illegittimita' dei commi 34 e 35, non sussistendo ragioni unitarie che giustifichino l'attribuzione al Ministero dei poteri di attuazione degli interventi e di individuazione dei titolari del beneficio e del gestore del servizio integrato di gestione delle carte acquisti e dei relativi rapporti amministrativi. Qualora, sempre in denegata ipotesi, anche questi poteri statali amministrativi fossero ritenuti legittimi, i commi 34 e 35 sarebbero pur sempre illegittimi per violazione del principio di leale collaborazione, nella parte in cui non prevedono un'intesa con la Conferenza Stato-regioni in relazione alla scelta di cui al comma 34 e agli atti di cui al comma 35. Infine, quanto al comma 36, esso risulta illegittimo la' dove prevede che le comunicazioni e collaborazioni richieste dal Ministero dell'economia e delle finanze (o dalle amministrazioni o enti di cui questo si avvale) debbano essere fornite «secondo gli indirizzi da questo impartiti». Se si puo' giustificare un dovere collaborativo e comunicativo fra enti territoriali, in ossequio al principio di leale collaborazione, non si puo' ammettere che il Ministero «impartisca» alle regioni indirizzi che regolano tale attivita' collaborativi. Le limitazioni che lo Stato puo' recare all'attivita' regionale sono solo quelle previste dalla Costituzione e, in materia di competenza regionale, lo Stato non puo' piu' emanare atti di indirizzo (v. le sentt. nn.324/2005 e 329/2003 e l'art. 8, comma 6, 1egge n. 131/2003). Se anche si ritenesse il contrario, la norma impugnata sarebbe illegittima perche' l'atto di indirizzo dovrebbe essere adottato dal Consiglio dei ministri, secondo la normativa e la giurisprudenza pacifiche prima della riforma del Titolo V.
P. Q. M. La Regione Liguria, come sopra rappresentata e difesa, chiede voglia codesta ecc.ma Corte costituzionale accogliere il ricorso, dichiarando l'illegittimita' costituzionale dell'art. 13, commi 1 e 2, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133. Padova, addi' 17 ottobre 2008 Prof. Avv. Giandomenico Falcon - Avv. Luigi Manzi Allegati 1) Deliberazione della Giunta regionale n. 1272 del 14 ottobre 2008. 2) Procura speciale n. rep. 14131 del 15 ottobre 2008, rogata dal dott. Margherita Poli, notaio in Genova.