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N. 74 RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 16 giugno 2006. |
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Ricorso per questione di legittimita' costituzionale depositato in
cancelleria il 16 giugno 2006 (della Regione Liguria)
(GU n. 32 del 9-8-2006) |
Ricorso della Regione Liguria, in persona del Presidente della
giunta regionale pro tempore, autorizzato con deliberazione della
giunta regionale n. 541 del 30 maggio 2006 (doc. 1) rappresentata e
difesa - come da procura a margine del presente atto - dall'avv.
prof. Giandomenico Falcon di Padova e dall'avv. Barbara Baroli
dell'Avvocatura regionale, con domicilio eletto presso lo studio
dell'avv. Luigi Manzi, in Roma, via Confalonieri, n. 5;
Contro il Presidente del Consiglio dei ministri, per la
dichiarazione di illegittimita' costituzionale del decreto
legislativo 3 aprile 2006, n. 152, recante «Norme in materia
ambientale», pubblicato sul Suppl. ord. n. 96 alla Gazzetta Ufficiale
n. 88 del 14 aprile 2006, in relazione ai seguenti articoli:
58, 59; 63; 64; 65; 67; 69; 74; 91, comma 1, lett. d); 96;
113; 114; 116; 117; 121; 124, comma 7; 148, commi 4 e 5; 154; 149,
comma 6, 181, commi da 7 a 11; 183, comma 1; 186; 189, comma 3; 205,
comma 2; 240, comma 1, lett. b), c) e g); 242; 243; 244; 246; 252;
253; 257; per violazione degli artt. 76, 117, 118 della Costituzione
e del principio costituzionale di leale collaborazione, del principio
di ragionevolezza nonche' dei principi e delle norme del diritto
comunitario, nei modi e per i profili di seguito indicati.
F a t t o
Il decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, recante: «norme in
materia ambientale», costituisce attuazione della delega legislativa
contenuta nella legge 15 dicembre 2004, n. 308, pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale n. 302 del 27 dicembre 2004 - Supplemento
ordinario n. 187. Questa autorizzava il Governo ad emanare entro 18
mesi - quindi entro l'11 luglio 2006 - uno o piu' decreti «di
riordino, coordinamento e integrazione delle disposizioni legislative
nei seguenti settori e materie, anche mediante la redazione di testi
unici».
A norma dell'art. 1, comma 4 della legge, i decreti legislativi
avrebbero dovuto essere adottati «sentito il parere della Conferenza
unificata di cui all'art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997,
n. 281».
Il comma 8 dello stesso art. richiede ai decreti legislativi il
«rispetto dei principi e delle norme comunitarie e delle competenze
per materia delle amministrazioni statali, nonche' delle attribuzioni
delle regioni e degli enti locali come definite ai sensi dell'art.
117 della Costituzione, della legge 15 marzo 1997, n. 59, e del
decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, ... e del principio di
sussidiarieta».
Lo schema di decreto e' stato approvato nella seduta del
Consiglio dei ministri del 18 novembre 2005. Nel corso della seduta
della Conferenza unificata del 24 novembre 2005, i rappresentanti
delle regioni e degli enti locali chiedevano di essere informati
sullo stato di attuazione della delega legislativa: ed in risposta il
Ministro La Loggia comunicava che, data la lunghezza, la Relazione al
decreto non sarebbe stata illustrata oralmente ma depositata agli
atti, «in modo che possa essere visionata e vi sia tutto il tempo
necessario a fare eventuali osservazioni».
Il testo del decreto legislativo e' stato trasmesso alle regioni
con nota della Presidenza del Consiglio dei ministri in data 29
novembre 2005, cui ha fatto seguito una nota del successivo 7
dicembre che avvertiva che gli allegati tecnici, «a causa della loro
voluminosita», venivano resi disponibili soltanto in rete (ed anche
cio' su personale richiesta al Ministro da parte del Presidente della
Conferenza dei Presidenti delle regioni).
Nonostante la mole del testo e degli allegati, il parere sul
decreto legislativo e' stato iscritto nell'ordine del giorno della
seduta della Conferenza unificata del 15 dicembre 2005: ma gia' in
vista della riunione in sede tecnica del 12 dicembre dello stesso
anno il Presidente della Conferenza delle regioni ne chiedeva la
sospensione, in ragione dell'estrema complessita' della materia e
dell'esiguita' del tempo concesso per l'esame, chiedendo il rinvio
del termine per l'espressione del parere.
Con telegramma del 13 dicembre il Ministro dell'ambiente e della
tutela del territorio comunicava che «il Governo non intende
concedere deroghe al termine fissato dalla legge per l'esame delle
commissioni competenti, considerata la durata dei termini previsti
dalla legge 308 del 2004 e valutato altresi' il periodo di attivita'
residua del Parlamento».
Nella seduta della Conferenza Unificata del 15 dicembre 2005 il
rinvio del punto all'ordine del giorno e' oggetto di un «appello
accorato» del Presidente Errani, a nome della Conferenza dei
Presidenti delle regioni, al quale si associano i rappresentanti
degli altri enti locali: l'appello e' motivato dall'estrema
complessita' della materia, «che non attiene solo alle questioni
ambientali, ma anche alla difesa del suolo, ed altro» e che «tratta
di una serie di politiche fondamentali che incrociano in modo forte,
tutta l'articolazione legislativa delle regioni e le politiche
amministrative degli Enti locali» (punto 25 del verbale 13/05: doc.
3).
Ma il viceministro Nucara e' rigido nel rifiuto della proroga
argomentando, da un lato, che la «tutela dell'ambiente» e' materia di
competenza esclusiva dello Stato, dall'altro che la delega sarebbe
scaduta - come dichiara esplicitamente - il giorno stesso, il 15
dicembre 2005, «desumendo cio' da quanto di sua conoscenza»:
dimostrando, in tal modo, che non solo le regioni e gli enti locali
ma lui stesso non aveva fatto in tempo ad informarsi correttamente
del punto all'ordine del giorno.
Da un lato il viceministro ignora - come gli viene fatto
osservare - quanto la giurisprudenza costituzionale aveva gia'
ampiamente osservato attorno alla natura «trasversale» della materia
e all'intreccio di competenze che su di essa si accentra; dall'altro
ignora i termini stessi della delega, la cui scadenza era fissata nel
giorno 11 luglio 2006, come del resto emergeva della stessa scheda
elaborata dalla Presidenza del Consiglio, come gli faceva notare il
Presidente Errani.
Ma il viceministro ribatte a questo punto che l'urgenza di
adottare definitivamente il decreto non cambia, in ragione delle
elezioni politiche previste per il 9 aprile 2006. Il Ministro La
Loggia, che presiede la riunione, propone di rimandare il punto alla
successiva seduta della Conferenza, prevista per il 20 gennaio 2006;
ma il viceministro si oppone. Il Presidente Errani fa presente che,
sulla base di quanto affermato quel giorno stesso dalla Commissione
parlamentare, senza il parere della Conferenza unificata il
procedimento di emanazione non puo' essere proseguito, ma il
viceministro Nucara ribatte che la Conferenza era stata «sentita», e
che non si trattava di un parere vincolante. Il Ministro La Loggia
conclude «prendendo atto del mancato parere» e annunciando che il
viceministro «fara' le opportune valutazioni e continuera' la
discussione con le regioni e le autonomie locali»: «laddove si
verificasse l'indispensabilita' di questo passaggio, sara' nuovamente
iscritto il punto in argomento all'o.d.g. della prossima Conferenza»
(tutto cio' emerge vividamente dal citato verbale: v. sempre doc. 3).
Nella divergenza delle posizioni, il varere non pote' essere
espresso. Ciononostante il Consiglio dei ministri, il 19 gennaio 2006
(n. 40), approvava «in via definitiva» il testo del decreto
legislativo, dopo che le Commissioni parlamentari avevano espresso il
proprio parere (in data 12 gennaio 2006).
Nella successiva riunione della Conferenza Unificata del 26
gennaio 2006, i presidenti delle regioni e delle province autonome,
dell'ANCI, dell'UPI e dell'UNCEM presentavano un ordine del giorno
recante il parere negativo sullo schema di decreto (doc. 4),
motivandolo sia nel merito che nel metodo, parere del quale il
rappresentante del Governo si limitava a dichiarare di «prendere
atto». Dopo che le Commissioni parlamentari avevano espresso un
secondo parere (in data 31 gennaio 2006), il 10 febbraio il Consiglio
dei ministri riapprovava di nuovo «in via definitiva» il decreto
legislativo (Consiglio dei ministri n. 43): evidentemente senza alcun
riesame di merito alla luce del parere negativo degli enti
territoriali, stante l'asserita (ma inesistente) urgenza.
Il 15 marzo 2006 il Presidente della Repubblica chiedeva al
Governo alcuni chiarimenti nel merito e in relazione al procedimento
di formazione del decreto legislativo, sospendendo l'emanazione del
provvedimento; a seguito di questa richiesta di chiarimenti, il
decreto legislativo e' stato ulteriormente riapprovato con alcune
modifiche dal Consiglio dei ministri il 29 marzo 2006 (anche se non
se ne fa menzione nell'ordine del giorno della seduta n. 51 di quella
data, ne' nel comunicato pubblicato nel sito del Governo a seguito
della riunione). E' stato dunque approvato in un testo formalmente
(sia pure parzialmente) diverso da quello sottoposto all'esame delle
Commissioni parlamentari e della Conferenza Unificata. Esso e' stato
poi emanato il 3 aprile e pubblicato il 14 aprile.
Con il presente ricorso la regione Liguria contesta la
legittimita' costituzionale delle disposizioni impugnate per ragioni
che attengono da un lato al decreto legislativo nel suo complesso,
dall'altro alle singole norme.
Nel suo complesso il decreto appare viziato da gravi difetti di
procedimento, attinenti in particolare alla violazione della
procedura di «leale collaborazione». Come meglio si dira', il Governo
non ha rispettato i contenuti minimi della garanzia di partecipazione
della Conferenza unificata, rendendo consapevolmente impossibile un
informato esame del nuovo testo normativo. La Conferenza unificata
non ha avuto modo di esprimere formalmente il proprio parere, e sulle
posizioni da essa assunte in merito al decreto legislativo il Governo
non ha aperto alcuna discussione, violando quanto disposto dalla
legge di delega e ribadito dalla Commissione parlamentare.
Inoltre - benche' questo profilo non incida direttamente nelle
attribuzioni regionali non puo' essere sottaciuto - anche formalmente
il procedimento appare gravemente carente, essendo il testo emanato
diverso da quello precedentemente adottato sulla base del parere
della Commissione parlamentare.
Nel merito, il decreto legislativo n. 152 del 2006 appare in
molte parti eccedere la delega legislativa e porsi in contrasto con
la disciplina comunitaria, con grave ricaduta sulle attribuzioni
costituzionali delle regioni; inoltre e' direttamente lesivo delle
competenze regionali in molte sue disposizioni.
Come e' stato osservato nell'ordine del giorno presentato dalle
regioni in sede di Conferenza unificata, il decreto «contrasta con
diverse direttive comunitarie, viola, per eccesso di delega, la
stessa legge delega n. 308/2004, stravolge l'assetto delle competenze
definite dall'art. 117 e 118 della Costituzione e dal decreto
legislativo n. 112/1998 consolidate da numerose pronunce della Corte
costituzionale» (v. sempre doc. 4).
L'opposizione che le regioni hanno manifestato nei confronti del
decreto e' quindi motivata da ragioni assai gravi, sia in ordine al
rispetto della normativa comunitaria, sia in ordine al mantenimento
degli attuali presidi legislativi, anche regionali, posti a tutela
dell'ambiente. Le disposizioni del decreto producono infatti - ad
avviso delle regioni - il risultato «di indebolire le politiche
ambientali nel nostro Paese e la loro coerenza con le direttive
dell'Unione europea, nonche' quelle di determinare l'abbassamento dei
livelli di tutela dell'ambiente e della salute a danno di tutti i
cittadini senza, peraltro, che a questo possa corrispondere
l'auspicata semplificazione delle procedure e dei processi attuativi
per gli operatori e le imprese». Inoltre le nuove norme determinano
«la totale paralisi dell'azione delle regioni e degli enti locali in
campo ambientale data l'incompatibilita' delle norme regionali
vigenti con quelle dello schema di decreto».
Per fare un esempio degli effetti del decreto, si puo' rilevare
che l'art. 63 sopprime «a far data dal 30 aprile 2006» le Autorita'
di bacino istituite dalla legge n. 183/1989, trasferendone le
funzioni alle istituende Autorita' di bacino distrettuale, senza
precisare quale sia il regime transitorio, rinviato ad un atto
amministrativo del Governo che ha un solo giorno per essere emanato,
come poi si dira'. Come si vede, la frettolosita' di preparazione del
testo normativo e la volonta' di ottenerne comunque l'immediata
entrata in vigore comportano conseguenze paradossali in ordine alla
possibilita' di dare, in sole 24 ore, un'attuazione ragionevole e
congrua al decreto in presenza della notevolissima complessita' dei
temi trattati.
In altri casi - in particolare in materia di rifiuti - il
decreto legislativo introduce una disciplina innovativa che ha
l'effetto immediato di smantellare l'attuale normativa ambientale,
rendendo meno rigorosa la normativa vigente e favorendo comportamenti
che attualmente, anche per precisa richiesta delle norme comunitarie,
costituirebbero un illecito amministrativo o penale.
D i r i t t o
1) Illegittimita' degli artt. 58 e 59.
L'art. 58 definisce le competenze del Ministero dell'ambiente in
materia di difesa del suolo. Il comma 3 stabilisce che, «ai fini di
cui al comma 2, il Ministero dell'ambiente e della tutela del
territorio svolge le seguenti funzioni: a) programmazione,
finanziamento e controllo degli interventi in materia di difesa del
suolo».
La lett. a) accentra in capo al Ministero dell'ambiente funzioni
che erano attribuite alle regioni o alle autorita' di bacino o che,
comunque, erano svolte con la partecipazione regionale. In
particolare, la lett. a) viene ad escludere l'operativita' degli
schemi revisionali e programmatici, che finora erano stati lo
strumento, a partecipazione regionale, di finanziamento della difesa
del suolo e delle autorita' di bacino. Si puo' anche ricordare che
l'art. 86, comma 3, d.lgs. n. 112/1998 prevedeva l'intesa con la
Conferenza Stato-regioni per la programmazione dei finanziamenti
statali in materia di difesa del suolo.
Inoltre, l'art. 88, comma 1, d.lgs. n. 112/1998 dichiara compiti
di rilievo nazionale la programmazione ed il finanziamento degli
interventi di difesa del suolo, ma il comma 2 richiede il parere
della Conferenza unificata. Ancora, l'art. 89, comma 1, lett. h)
conferisce in via esclusiva alle regioni e agli enti locali la
programmazione e pianificazione degli interventi di difesa della
costa e degli abitati costieri. Infine, l'art. 89, comma 5,
stabilisce che «per le opere di rilevante importanza e suscettibili
di interessare il territorio di piu' regioni, lo Stato e le regioni
interessate stipulano accordi di programma con i quali sono definite
le appropriate modalita', anche organizzative, di gestione».
L'art. 58, comma 3, lett. a), in relazione alla programmazione ed
al finanziamento degli interventi di difesa del suolo, comprime la
posizione delle regioni, violando in questo modo l'art. 76 della
Costituzione, sia per il carattere innovativo delle norme sia perche'
si peggiora la posizione regionale (v. art. 1, comma 1 e comma 8,
legge n. 308/2004, che richiede specificamente il rispetto delle
attribuzioni conferite alle regioni dal d.lgs. n. 112/1998). La
regione e' legittimata a far valere vizi di costituzionalita' di
leggi che, in materie regionali, implicano una menomazione della
posizione regionale (v., ad es., le sentt. n. 503/2000, 206/2001,
110/2001, 303/2003 - in relazione al d.lgs. n. 198/2002, 280/2004).
Poiche' tale lesione si produce proprio attraverso la violazione del
76 della Costituzione, l'illegittimita' denunciata si traduce in
lesione di competenza regionale, che le regioni sono legittimate a
denunciare.
Peraltro, la lett. a) viola anche direttamente, in relazione alla
programmazione ed al finanziamento, l'art. 118 della Costituzione ed
il principio di leale collaborazione, perche' accentra allo Stato
funzioni amministrative in materie regionali senza alcun
coinvolgimento delle regioni, violando cosi' i principi fissati da
codesta Corte a partire dalla sent. n. 303/2003.
In relazione alla funzione di controllo, poi, la lett. a) oltre
ad essere illegittima per tutte le ragioni appena indicate, lo e'
anche perche' accentra una funzione allo Stato in mancanza di
esigenze di esercizio unitario, dato che il controllo sugli
interventi di difesa del suolo puo' essere adeguatamente svolta a
livello locale (anzi, il controllo su un intervento viene svolto in
modo senz'altro piu' adeguato a livello locale e da parte dell'ente
che conosce meglio le particolarita' del territorio).
L'art. 58, comma 3, lett. b) attribuisce al Ministero
dell'ambiente la «previsione, prevenzione e difesa del suolo da
frane, alluvioni e altri fenomeni di dissesto idrogeologico, nel
medio e nel lungo termine al fine di garantire condizioni ambientali
permanenti ed omogenee, ferme restando le competenze del Dipartimento
della protezione civile in merito agli interventi di somma urgenza».
Anche questa norma viola l'art. 118, primo comma, della
Costituzione, ed il principio di leale collaborazione in quanto
accentra allo Stato una funzione amministrativa in assenza di
esigenze di esercizio unitario e, comunque, senza prevedere l'intesa
della regione interessata. La lett. b) innova nell'ordinamento,
alterando il riparto di funzioni previsto in relazione al rischio
idrogeologico (v. l'art. 108, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 112/1998 e
la direttiva del Presidente del Consiglio 27 febbraio 2004,
modificata dalla direttiva 25 febbraio 2005) e peggiorando la
posizione regionale. Dunque, la lett. b) viola l'art. 76 della
Costituzione e la sfera di competenza regionale in materia di difesa
del suolo, per le ragioni esposte in relazione alla lett. a). La
competenza regionale nella materia de qua e' pacifica e discende
dalla competenza in materia di governo del territorio, di protezione
civile e dal modo in cui la giurisprudenza costituzionale intende
l'art. 117, secondo comma, lett. s).
L'art. 59 disciplina le Competenze della conferenza
Stato-regioni.
Secondo tale disposizione, la Conferenza formula «pareri,
proposte ed osservazioni, anche ai fini dell'esercizio delle funzioni
di indirizzo e coordinamento di cui all'art. 57, in ordine alle
attivita' ed alle finalita' di cui alla presente sezione, ed ogni
qualvolta ne e' richiesta dal Ministro dell'ambiente e della tutela
del territorio».
Le successive lettere da a) ad e) dettagliano tale funzione
generale in relazione a singoli ambiti, senza mutare la qualita' del
ruolo cosi' individuato. E' di tutta evidenza che nell'intero art. la
parola intesa, che dovrebbe identificare il centro delle funzioni
della Conferenza, non figura neppure una volta. Al contrario, essa
appare formulare «proposte» (lett. a e b), «osservazioni» (lett. c),
sui piani di bacino, ai fini della loro conformita' ad indirizzi e i
criteri che non hanno condiviso!), esprimere «pareri» (lett. d) e
lett. e).
E' chiaro che la Conferenza, ben al contrario che essere
valorizzata, subisce un netto depotenziamento delle proprie funzioni,
e viene persino caratterizzata in termini generali come un organismo
meramente consultivo.
Risulta paradossale, e costituzionalmente illegittimo, che dopo
la riforma del Titolo V operata nel 2001 il legislatore statale
pretenda di ridurre la Conferenza Stato-regioni ad un mero ruolo
consultivo. Tra l'altro, questa riduzione viola in modo palese la
lettera e lo spirito della legge di delega, che, accanto ad altri
criteri di garanzia per le regioni gia' ricordati, tra l'altro poneva
il vincolo della valorizzazione del ruolo e delle competenze degli
organismi a composizione mista statale e regionale (lettera c) del
comma 9 dell'art. 1 della legge delega n. 308 del 2004).
2) Illegittimita' degli artt. 63 e 64.
A) Illegittimita' costituzionale dell'accorpamento delle funzioni
in macrodistretti e della sostituzione delle Autorita' di bacino con
le nuove Autorita' di distretto.
L'art. 63, comma 3, dispone: «Le autorita' di bacino previste
dalla legge 18 maggio 1989, n. 183, sono soppresse a far data dal 30
aprile 2006 e le relative funzioni sono esercitate dalle Autorita' di
Bacino Distrettuale di cui alla parte terza del presente decreto». Il
riferimento generico alla «(terza parte» (alla quale in realta' la
disposizione appartiene) e' in effetti curioso, dato che le autorita'
distrettuali sono istituite dal comma 1 dello stesso articolo, in
corrispondenza degli otto distretti idrografici individuati nel
successivo art. 64.
Tale norma riaccorpa in otto distretti i numerosi bacini che la
legge n. 183/1989 istituiva, suddividendoli in bacini nazionali,
interregionali e regionali. Tra gli otto distretti figurano il
distretto della Sardegna, quello della Sicilia, ed il distretto
idrografico pilota del Serchio, di ridottissime dimensioni.
L'intero territorio nazionale e' dunque suddiviso grossolanamente
nei rimanenti cinque distretti, vagamente corrispondenti a delle
macro-regioni. Questa suddivisione e' decisa «dall'alto» senza alcuna
partecipazione alla decisione da parte delle regioni. La suddivisione
e' artificiale e priva di senso: ad es., la divisione dell'Italia
appenninica in tre fasce (nord, centro e sud) imporra' addirittura di
valutare congiuntamente problematiche inerenti a versanti diversi
(tirrenico e adriatico).
Gli organi dei nuovi distretti sono individuati dall'art. 63,
comma 2, nella Conferenza istituzionale permanente, nel segretario
generale, nella segreteria tecnico-operativa e nella Conferenza
operativa di servizi. La stessa disposizione rinvia la definizione
dei criteri e delle modalita' per l'attribuzione o il trasferimento
del personale e delle risorse patrimoniali e finanziarie ad un
decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, da emanarsi su
proposta del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio di
concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze e con il
Ministro per la funzione pubblica «sentita la Conferenza Permanente
Stato - regioni», entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore
del decreto. Ancora, lo stesso d.P.C.m. «disciplina il trasferimento
di funzioni e regolamenta il periodo transitorio».
Le disposizioni impugnate appaiono da un lato gravemente lesive
delle attribuzioni regionali, dall'altro - e proprio percio' - lesive
dell'oggetto e dei principi e criteri direttivi della delega.
Sotto il primo profilo va osservato che la sezione in cui trovano
collocazione le disposizioni impugnate evoca con chiarezza sin dal
titolo - «Norme in materia di difesa del suolo e lotta alla
desertificazione» che la disciplina contenuta insiste sulla materia
«governo del territorio», che l'art. 117, terzo comma, della
Costituzione, assegna alla competenza concorrente.
Come codesta ecc.ma Corte ha ripetutamente affermato, nelle
materie concorrenti lo Stato puo' intervenire esclusivamente con
norme legislative di principio, e non puo' riservare a se' e alle
proprie strutture decentrate funzioni amministrative che non siano
giustificate dalla «chiamata in sussidiarieta»; e che, anche qualora
l'attrazione al centro di funzioni «unitarie» possa essere
giustificato in nome del principio di sussidiarieta' o qualora il
particolare intreccio di competenze (coinvolgente anche competenze
esclusive dello Stato, ex art. 117, secondo comma, della
Costituzione) consentisse allo Stato di esercitare determinate
funzioni amministrative incidenti in materie di competenza regionale,
tuttavia cio' non puo' avvenire che nel rispetto del principio di
leale collaborazione, inteso in senso «forte» (e quindi attraverso
procedure di codecisione, non semplicemente «sentendo» la Conferenza
Stato-regioni), e del principio di proporzionalita'.
Commisurate a tali parametri, le norme che sopprimono le
Autorita' di bacino e istituiscono le nuove Autorita' distrettuali si
rivelano affette da illegittimita' costituzionale sotto diversi
profili.
In primo luogo, l'unificazione sotto un'unica autorita' di bacini
che non hanno in realta' alcuna correlazione realizza un
accentramento privo di qualunque giustificazione ed espropria le
regioni delle proprie naturali competenze, in violazione sia della
competenza legislativa di cui all'art. 117 della Costituzione che del
principio di sussidiarieta'.
In secondo luogo, i distretti stessi sono configurati come enti
amministrativi sovraregionali, distorcendo completamente la
fisionomia delle Autorita' di bacino, cosi' come impostate dalla
legge 183/1989. Queste infatti erano modellate con riferimento a
dimensioni idrogeografiche «naturali», che ne giustificavano la
competenza pianificatoria e decisionale, mentre la Autorita'
distrettuali istituite dalle disposizioni impugnate rappresentano
delle semplici articolazioni burocratico-amministrative, che
costituiscono in realta' una sorta di amministrazione decentrata
dello Stato in cui la centralizzazione amministrativa e' appena
temperata da elementi di partecipazione minoritaria delle regioni.
Si consideri che, ai sensi della legge n. 183/1989, le regioni
erano contitolari del governo dei bacini nazionali (configurati come
organismi a partecipazione mista Stato-regioni) e titolari esclusive
delle funzioni relative ai bacini regionali e interregionali. Oggi,
all'opposto, rappresentanti delle regioni sono presenti in netta
minoranza nel fondamentale organo decisionale, la Conferenza
istituzionale permanente (che nomina anche il Segretario generale),
nonche' nella Conferenza operativa, le cui competenze sono peraltro
piuttosto oscure.
La regola secondo la quale si decide a maggioranza, espressamente
enunciata al comma 4, data la composizione sperequata dell'organo (in
cui il numero dei rappresentanti dello Stato e' sempre sette, mentre
quello dei rappresentanti delle regioni dipende da quante regioni
sono concretamente coinvolte, ma queste non sono mai pari a sette),
appare espropriare le regioni da qualsiasi garanzia giuridica delle
loro prerogative.
Infine, se pure fosse giustificata secondo il principio di
sussidiarieta' la suddivisione del territorio in distretti privi di
corrispondenza con precisi bacini fluviali interconnessi, le regioni
non sono state chiamate ad esercitare alcun ruolo nella
determinazione dell'ambito dei distretti. Va considerato che, sotto
questo profilo, il decreto legislativo non contiene norme generali ed
astratte, ma opera come legge provvedimento, in materia di competenza
regionale. Secondo la stessa giurisprudenza di codesta Corte,
l'assunzione in legge di decisioni concrete non puo' privare delle
garanzie previste dalla Costituzione: il che vale ugualmente, ed a
maggiore ragione, per le competenze delle regioni, alle quali viene
cosi' sottratta ogni possibilita' di codecisione.
B) Specifica illegittimita' del potere normativo attribuito al
decreto del Presidente del Consiglio dall'art. 63, commi 2 e 3.
Si deve poi specificamente evidenziare che, come detto, che al
d.P.C.m. e' attribuita anche una funzione regolamentare (v. art. 63,
commi 2 e 3).
Innanzitutto, si tratta di un'attribuzione connessa
all'accorpamento dei distretti, illegittima per le stesse ragioni
sopra esposte.
Se essa potesse essere giustificata in nome del principio di
sussidiarieta', il corrispondente potere andrebbe comunque esercitato
d'intesa con la Conferenza Stato-regioni, la quale non puo'
semplicemente essere «sentita».
C) Specifica illegittimita' della soppressione delle Autorita' di
bacino a partire dal 30 aprile, in relazione all'impossibilita' di
dettare entro tale termine la disciplina transitoria.
Inoltre, tale potere normativo risulta dover essere esercitato
... in un solo giorno: non prima del 29 aprile 2006, perche' la norma
autorizzativa del decreto legislativo non sarebbe ancora in vigore,
ma neppure dopo il 30 aprile, perche' le norme transitorie
interverrebbero ... ad Autorita' di bacino gia' venute meno ai sensi
del comma 3. Dietro tale assurdita', tuttavia, si cela la ben piu'
sostanziale illegittimita' della norma che prevede la soppressione
delle Autorita' di bacino a partire dal 30 aprile, prima che possano
essere definite le fasi di transizione, se pure il nuovo sistema
fosse legittimo.
La soppressione delle Autorita' di bacino decorre dallo stesso 30
aprile, per cui e' evidente che l'emanazione di una normativa
transitoria diviene pressoche' impossibile, dato che l'emanazione del
d.P.C.m. e' soggetta ad una procedura complessa, descritta dall'art.
63, comma 2, nel corso della quale deve essere sentita la Conferenza
Permanente Stato-regioni.
A prescindere dalla gia' lamentata insufficienza di una forma
cosi' tenue di «cooperazione», vi e' il rischio, ma si dovrebbe dire
la certezza - che la soppressione immediata delle Autorita' di
bacino, in assenza di una regolazione transitoria - apra un periodo
di incertezza sulle competenze ad emanare gli atti e a svolgere le
funzioni di gestione, vigilanza e controllo che le Autorita' svolgono
da tempo a tutela degli interessi pubblici fondamentali che hanno in
cura.
D) Illegittimita' costituzionale degli artt. 63 e 64 sotto il
profilo della violazione della legge di delega.
Va altresi' evidenziata l'eccesso di delega in relazione sia
all'oggetto di essa che ai principi e criteri direttivi fissati dalla
legge di delega.
Infatti, quanto all'oggetto, va sottolineato che la dizione
«riordino, coordinamento e integrazione delle disposizioni
legislative ..., anche mediante la redazione di testi unici» (art. 1,
comma 1, legge n. 308/2004) fa riferimento alle classifiche funzioni
di coordinamento normativo, preordinate ad una mera razionalizzazione
della legislazione vigente. Come codesta ecc.ma Corte ha
sistematicamente ripetuto (cfr. da ultimo le sent. 303/2005, 66/2005,
280/2004), «la revisione e il riordino, ove comportino l'introduzione
di norme aventi contenuto innovativo rispetto alla disciplina
previgente, necessitano della indicazione di principi e di criteri
direttivi idonei a circoscrivere le diverse scelte discrezionali
dell'esecutivo, mentre tale specifica indicazione puo' anche mancare
allorche' le nuove disposizioni abbiano carattere di sostanziale
conferma delle precedenti» (sent. 66/2005, che cita il precedente
della sent. 354/1998). Nel presente caso l'oggetto della delega
prevede solo il «riordino», neppure la «revisione», per cui la
massima espressa dalla giurisprudenza costituzionale va applicata con
ancora maggiore rigore.
Accanto a cio', nel definire i contorni del potere legislativo
delegato, la legge n. 308 (art. 1, comma 8) indica innanzi ad ogni
altro criterio «il rispetto..., delle competenze per materia delle
amministrazioni statali, nonche' delle attribuzioni delle regioni e
degli enti locali, come definite ai sensi dell'art. 117 della
Costituzione, della legge 15 marzo 1997, n. 59, e del decreto
legislativo 31 marzo 1998, n. 112»: e' percio' evidente che il
legislatore delegato era tenuto a non modificare il quadro delle
attribuzioni regionali - quadro che invece, come si e' visto, risulta
gravemente compromesso dalle scelte compiute dalle disposizioni
censurate.
D'altro canto, nessuno dei «principi e criteri direttivi» poi
elencati dall'art. 1, comma 8, autorizza un'innovazione legislativa e
amministrativa come quella apportata dalla sovversione del sistema
delle Autorita' di bacino. Tra i principi e criteri direttivi pii
specifici dettati dal comma 9 si trova invece questa indicazione:
c)rimuovere i problemi di carattere organizzativo,
procedurale e finanziario che ostacolino il conseguimento della piena
operativita' degli organi amministrativi e tecnici preposti alla
tutela e al risanamento del suolo e del sottosuolo, superando la
sovrapposizione tra i diversi piani settoriali di rilievo ambientale
e coordinandoli con i piani urbanistici; valorizzare il ruolo e le
competenze svolti dagli organismi a composizione mista statale e
regionale; adeguare la disciplina sostanziale e procedurale
dell'attivita' di pianificazione, programmazione e attuazione di
interventi di risanamento idrogeologico del territorio e della messa
in sicurezza delle situazioni a rischio; prevedere meccanismi
premiali a favore dei proprietari delle zone agricole e dei boschi
che investono per prevenire fenomeni di dissesto idrogeologico, nel
rispetto delle linee direttrici del piano di bacino; adeguare la
disciplina sostanziale e procedurale della normativa e delle
iniziative finalizzate a combattere la desertificazione, anche
mediante l'individuazione di programmi utili a garantire maggiore
disponibilita' della risorsa idrica e il riuso della stessa,
semplificare il procedimento di adozione e approvazione degli
strumenti di pianificazione con la garanzia della partecipazione di
tutti i soggetti istituzionali coinvolti e la certezza dei tempi di
conclusione dell'iter procedimentale».
Come si vede, la legge di delega presuppone piuttosto il
mantenimento ed il miglioramento della funzionalita' degli organismi
esistenti, fondati sull'unita' dei bacini idrografici, senza
prevederne o consentirne affatto la soppressione e la sostituzione
con un sistema radicalmente diverso, ispirato a principi divergenti,
che avrebbero dovuto in ogni caso essere enunciati.
La legge di delega, dunque, non consente una legislazione
delegata che sovverte l'ordinamento amministrativo introdotto dalla
legge n. 189/1989 e lo sostituisce con un sistema centralistico di
gestione delle politiche di tutela idrogeologica del territorio, per
lo piu' causando un periodo di grave incertezza nella fase
transitoria e esautorando le regioni, sostituendo il sistema della
Autorita' di bacino con una «zonizzazione» del territorio nazionale
dominata da un sistema di gestione affidato ad un complesso di organi
collegiali inediti e sperequanti.
Si consideri che la violazione della legge di delega si
identifica in questo caso con la lesione delle prerogative regionali,
e che il motivo e' dunque perfettamente ammissibile.
3) Illegittimita' degli artt. 65, 67, 69, 116 e 117.
L'art. 65 prevede e disciplina il piano di bacino distrettuale.
L'art. 67 prevede e disciplina i piani stralcio per la tutela del
rischio idrogeologico e le misure di prevenzione per le aree a
rischio. L'art. 116 prevede e disciplina i programmi di misure, che a
loro volta integrano i piani di tutela di cui all'art. 121. L'art.
117 prevede e disciplina i piani di gestione, che rappresentano una
«sottoarticolazione interna del Piano di bacino distrettuale».
I diversi piani di tutela risultano cosi' intrecciati e
parzialmente sovrapposti, in violazione della lett. g) del comma 8
dell'art. 1 della legge n. 308 del 2004, che enuncia quale criterio
direttivo quello di prevedere misure che assicurino la tempestivita'
e l'efficacia dei piani e dei programmi di tutela ambientale.
Inoltre, risulta cosi' non rispettata la lettera c) del comma 9
dell'art. 1 della stessa legge, che pone il criterio del superamento
della sovrapposizione tra i diversi piani settoriali di rilievo
ambientale.
Quanto ai piano di gestione dei bacini idrografici va infine
lamentata, in relazione all'art. 116, l'incompleta attuazione
dell'art. 14 della direttiva 2000/60/CE del 23 ottobre 2000,
concernente l'obbligatoria fase di informazione e consultazione
pubblica. L'art. 116, infatti, si limita a richiamare le procedure di
cui all'art. 66, ed a disporre, in termini del tutto generici, che le
Autorita' di bacino debbano «garantire la partecipazione di tutti i
soggetti istituzionali competenti nello specifico settore»: mentre la
direttiva doveva essere attuata mediante la previsione normativa
delle specifiche regole volte ad assicurare che per ciascun distretto
idrografico «siano pubblicati e resi disponibili per eventuali
osservazioni del pubblico, inclusi gli utenti» (non solo dunque per i
soggetti istituzionali competeneti) i documenti previsti dallo stesso
art. 14 della direttiva (calendario e programma di lavoro per la
presentazione del piano, valutazione globale provvisoria dei problemi
di gestione delle acque importanti, copie del progetto del piano di
gestione del bacino idrografico, con tutte le ulteriori
specificazioni previste dalla direttiva). Risulta cosi' violato il
principio di delega relativo alla piena attuazione delle direttive
comunitarie.
Le disposizioni impugnate sono dunque illegittime per violazione
dell'art. 76 della Costituzione e della normativa comunitaria.
4) Illegittimita' dell'art. 74.
La sezione Il della parte III riguarda la Tutela delle acque
dall'inquinamento. L'art. 74 reca le Definizioni rilevanti nella
materia.
Il comma 1, lett. ff), definisce «scarico» «qualsiasi immissione
di acque reflue in acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in
rete fognaria, indipendentemente dalla loro natura inquinante, anche
sottoposte a preventivo trattamento di depurazione». In questo modo,
viene modificato il concetto di scarico quale risultante dall'art. 2,
comma 1, lett. bb), d.lgs. n. 152/1999, perche' l'immissione non deve
piu' essere «diretta tramite condotta». Tale innovazione incide sul
concetto-cardine dell'intera disciplina, sulla base del quale si
erano formate una copiosa dottrina e una ormai consolidata
giurisprudenza, che avevano risolto il difficile problema della
distinzione delle acque di scarico dai rifiuti, al fine di definire
l'appropriato trattamento dei rifiuti liquidi. Infatti, il d.lgs.
n. 22/1997 esclude dal proprio ambito di applicazione le acque di
scarico (v. l'art. 8) ed il criterio per distinguere i rifiuti dalle
acque di scarico era dato proprio dall'art. 2, comma 1, lett. bb)
d.lgs. n. 152/1999. Il riferimento, contenuto in questa disposizione,
all'«immissione diretta tramite condotta» implicava una «conduzione»,
una convogliabilita' del refluo, sia tramite canalizzazioni
strutturali sia tramite canalizzazioni di fatto. La nozione di
scarico introdotta dal d.lgs. n. 152/1999 costituiva il parametro di
riferimento per stabilire l'ambito di operativita' delle normative in
tema di tutela delle acque e dei rifiuti, nel senso che i rifiuti
allo stato liquido, costituiti da acque reflue di cui il detentore si
disfi senza versamento diretto nei corpi ricettori, avviandole cioe'
allo smaltimento, trattamento o depurazione a mezzo di trasporto
comunque non canalizzato, rientravano nella disciplina dei rifiuti ed
il loro smaltimento era disciplinato dal d.lgs. n. 22/1997.
L'art. 74, comma 1, lett. ff), dunque, rimette in discussione il
difficile rapporto tra normativa sulle acque e normativa sui rifiuti,
limitando in sostanza l'applicazione di questa e riducendo i
controlli sui casi di introduzione di sostanze nei corpi ricettori in
assenza di condotta.
Tale innovazione, oltre ad essere irragionevole (con violazione
dell'art. 3 della Costituzione), contrasta con la legge delega, sia
per il fatto stesso di essere un'innovazione (il Governo aveva meri
compiti di «riordino, coordinamento e integrazione delle disposizioni
legislative nei seguenti settori e materie» sia perche' diminuisce la
tutela dell'ambiente e della salute (mentre l'art. 1, comma8, lett a)
pone come principio direttivo la garanzia della salvaguardia, della
tutela e del miglioramento della qualita' dell'ambiente, della
protezione della salute umana»; v. anche le lett. b) e f).
La regione e' legittimata a far valere vizi di costituzionalita'
di leggi che, in materie regionali, implicano una menomazione della
posizione regionale (v., ad es., le sentt. n. 503/2000, 206/2001,
110/2001, 303/2003 in relazione al d.lgs. n. 198/2002, 280/2004).
Questa e' menomata sotto tre diversi aspetti. In primo luogo, e' il
territorio stesso della regione che viene danneggiato dal fatto che i
rifiuti liquidi sono sottratti alla normativa sui rifiuti e
assimilati agli scarichi idrici, con conseguente lesione della
posizione regionale di rappresentante generale degli interessi della
popolazione stanziata su quel territorio (art. 5 della Costituzione:
v. sentt. n. 51/1991 e n. 276/1991). In secondo luogo, l'attivita'
legislativa ed amministrativa che la regione svolge nella materia in
questione (di pacifica competenza regionale: v., gia' prima del 2001,
l'art. 101 d.P.R. n. 616/1977, l'art. 81, d.lgs. n. 112/1998 e l'art.
1, comma 3, d.lgs. n. 152/1999) risente dell'illegittimita' delle
norme statali di base, perche' quell'attivita' e' costretta a
svolgersi in un quadro illegittimo, con conseguente rischio di
illegittimita' derivata: di qui l'evidente pregiudizio per le
competenze regionali, sotto il profilo della stabilita' degli atti
regionali e della certezza del diritto. Infine, la diminuita tutela
dell'ambiente aggrava i compiti che la regione e gli enti locali
devono svolgere per far fronte ai possibili danni: dunque, la palese
violazione dell'art. 76 (e dell'art. 3) si traduce in lesione
dell'autonomia amministrativa e finanziaria della regione e degli
enti locali (e la giurisprudenza costituzionale ha ormai chiarito che
esiste un collegamento fra la finanza locale e la finanza regionale,
per cui le regioni possono agire anche a tutela della prima: v. le
sentt. n. 417/2005 e n. 533/2002).
La norma impugnata, dunque, da un lato viola norme costituzionali
e, dall'altro, lede (sotto piu' profili) le prerogative
costituzionali della poiche' tale lesione si produce proprio
attraverso la violazione degli artt. 3 e 76, l'illegittimita'
denunciata si traduce in lesione di competenza regionale, che le
regioni sono legittimate a far valere (come risulta dalla
giurisprudenza costituzionale sopra citata).
L'art. 74, comma 1, lett. h), introduce nelle definizioni di
acque reflue industriali il criterio «qualitativo» in sostituzione di
quello della «provenienza» [v. art. 2, comma 1, lett. h) d.lgs.
n. 152/1999]. Cio' costituisce un oggettivo passo indietro nella
tutela delle acque dall'inquinamento e determinera' grosse
complicazioni applicative. Inoltre, la nuova norma non rispecchia
neppure la definizione prevista dall'art. 2 della direttiva
91/271/CEE sul trattamento delle acque reflue urbane. L'art. 74,
comma 1, lett. h), dunque viola l'art. 117, primo comma, della
Costituzione, il principio di ragionevolezza e, per le stesse ragioni
esposte in relazione all'art. 74, comma 1, lett. ff), l'art. 76 della
Costituzione. Attraverso tali violazioni, la norma lede le
prerogative regionali, per le ragioni esposte in relazione all'art.
74, comma 1, lett. ff).
L'art. 74, comma 1, lett. n) innova la definizione di agglomerato
di cui all'art. 2, comma 1, lett. m) d.lgs. n. 152/1999, facendo
riferimento alle attivita' produttive (invece che alle attivita'
economiche) e all'imprecisato concetto di «fognatura dinamica». Anche
tale norme risulta di difficile applicazione, con conseguente
pregiudizio per la tutela dell'ambiente, e inoltre e' in contrasto
con la definizione di agglomerato stabilita dall'art. 2 della
direttiva 91/271/CEE. Essa, dunque, viola (per le ragioni viste nel
punto precedente) gli artt. 3, 76, e 117, primo comma, della
Costituzione, arrecando lesione alle prerogative regionali in materia
di competenza regionale.
L'art. 74, comma 1, lett. oo) e comma 2, lett. qq) forniscono due
definizioni di «valore limite di emissione»; la seconda e' conforme a
quella fornita dall'art. 2, n. 40, direttiva 2000/60, mentre la lett.
oo) aggiunge, irragionevolmente, una seconda e diversa definizione,
che determina incertezza del diritto e difficolta' interpretative ed
applicative: tale norma, dunque, risulta in contrasto con gli artt.
117, primo comma, 3 e, in quanto la difficolta' applicativa si puo'
tradurre in una diminuita tutela dell'ambiente, con la legge di
delega e con l'art. 76 della Costituzione [v. quanto esposto sulla
lett. ff). Tali violazioni pregiudicano la tutela del territorio
regionale e l'efficienza dell'azione regionale di tutela ambientale,
per cui, per le ragioni sopra viste, si traducono in lesione della
competenza regionale.
L'at. 74, comma 2, lett. ee) definisce «sostanze pericolose» le
«sostanze o gruppi di sostanze tossiche, persistenti e
bio-accumulabili e altre sostanze o gruppi di sostanze che danno
adito a preoccupazioni analoghe». Come e' evidente, la norma da' una
definizione di sostanze pericolose cosi' generica da risultare
fuorviante e di nessuna utilita' sotto il profilo applicativo. E'
vero che tale definizione corrisponde a quella di cui all'art. 2,
n. 29, della direttiva 2000/60 CE, ma compito del legislatore
nazionale e' appunto quello di integrare le norme delle direttive e
renderle applicabili. Cio' non e' avvenuto per il concetto di
«sostanze pericolose», e le difficolta' applicative su questo
importante punto pregiudicano, come e' facilmente intuibile, la
migliore tutela dell'ambiente; ne' tale pregiudizio e' interamente
superabile in virtu' degli elenchi di sostanze nocive che, a vari
fini, sono previsti da singoli atti normativi statali perche' la
tutela dell'ambiente necessita di una precisa definizione generale,
al fine, ad esempio, di far fronte alle nuove sostanze pericolose.
Anche in questo caso, dunque, sono violati l'art. 3 e, in virtu'
della diminuita tutela dell'ambiente, l'art. 76 della Costituzione,
con pregiudizio sull'attivita' regionale in materia [v., sia per la
violazione della delega sia per la legittimazione regionale, quanto
esposto in relazione alla lett. ff)].
5) Illegittimita' dell'art. 91, comma 1, lett. d), e comma 2.
L'art. 91, comma 1, lett. d) dichiara «aree sensibili» «le aree
costiere dell'Adriatico-Nord occidentale dalla foce dell'Adige al
confine meridionale del comune di Pesaro e i corsi d'acqua ad essi
afferenti per un tratto di 10 chilometri dalla linea di costa».
Tale norma contrasta con la direttiva comunitaria 91/271/CE [v.
l'allegato 2, lett. a)], che non prevede il limite dei 10 km. In
relazione a tale violazione, gia' operata dal d.lgs. n. 152/1999
l'art. 18, comma 2, lett. d), e' stata anche avviata una procedura di
infrazione comunitaria (n. 2002/2124), che si e' conclusa con un
provvedimento sanzionatorio. La norma, dunque, viola l'art. 117,
primo comma, della Costituzione e, in quanto sottrae parte dei corsi
d'acqua alla categoria delle «aree sensibili l'art. 1, comma 8, lett.
a), b) e f), legge n. 308/2004. Tali violazioni si traducono in
lesione della posizione della regione, sia per quanto esposto in
relazione all'art. 74, comma 1, lett. ff), sia per la situazione di
incertezza del diritto in cui deve continuare ad operare la regione,
di fronte al contrasto tra legge italiana e direttiva comunitaria.
L'art. 91, comma 2, stabilisce che «il Ministro dell'ambiente e
della tutela del territorio, sentita la Conferenza Stato-regioni, ...
individua con proprio decreto ulteriori aree sensibili identificate
secondo i criteri di cui all'Allegato 6 alla parte terza del presente
decreto». Tale norma viola l'art. 118, primo comma, della
Costituzione perche' non sussistono ragioni di esercizio unitario che
giustifichino la competenza statale. L'applicazione dei criteri
fissati dal decreto puo' e deve avvenire a livello regionale, e cio'
e' confermato dal fatto che l'art. 18, comma 4, d.lgs. n. 152/1999
attribuiva alle regioni, previo parere dell'autorita' di bacino,
l'individuazione di ulteriori aree sensibili. Dunque, con l'art. 91,
comma 2, lo Stato si riappropria di funzioni amministrative gia'
decentrate a livello regionale e si conferma l'impianto centralistico
dell'intero decreto legislativo. Questa «marcia indietro», nel
processo autonomistico implica anche violazione dell'art. 5 della
Costituzione (che impone di «promuovere» le autonomie locali) e
dell'art. 76 della Costituzione, dato che l'art. 1, comma 8, legge
n. 308/2004, come gia' ricordato, richiede il rispetto «delle
attribuzioni delle regioni e degli enti locali, come definite ai
sensi dell'art. 117 della Costituzione della legge 15 marzo 1997,
n. 59 e del decreto lealslativo 31 marzo 1998. n. 112»: pare chiaro
che il Governo doveva rispettare anche le attribuzioni conferite alla
regione dal d.lgs. n. 152/1999, ma, comunque, il potere di
individuazione delle aree sensibili era attribuito alle regioni gia'
dal d.lgs. n. 112/1998, dato che l'art. 80 non lo menzionava fra i
«compiti di rilievo nazionale».
In subordine, qualora si ritengano insussistenti le violazioni
sopra illustrate, l'art. 91, comma 2, dovrebbe comunque essere
dichiarato illegittimo nella parte in cui prevede il parere della
Conferenza invece dell'intesa, necessaria in base ai principi fissati
dalla Corte costituzionale in relazione ai casi «chiamata in
sussidiarieta» contraddice.
6) Illegittimita' dell'art. 96.
Il comma 1 dell'art. 96 riscrive l'art. 7 del T.U. delle
disposizioni sulle acque e impianti elettrici, apportando alcune
modificazioni al testo introdotto dal d.lgs. 152/1999 (art. 23, comma
1), che incidono sul procedimento per il rilascio delle concessioni
di acqua pubblica. Il nuovo testo dispone che le domande relative sia
alle grandi sia alle piccole derivazioni siano trasmesse alle
Autorita' di bacino territorialmente competenti che, entro il termine
rispettivamente di novanta e di quaranta giorni «comunicano il
proprio parere vincolante al competente Ufficio Istruttore in ordine
alla compatibilita' della utilizzazione con le previsioni del Piano
di tutela, ai fini del controllo sull'equilibrio del bilancio idrico
o idrologico, anche in attesa di approvazione del Piano anzidetto».
La norma dispone ancora che «decorsi i predetti termini senza che sia
intervenuta alcuna pronuncia, il Ministro dell'ambiente e della
tutela del territorio nomina un Commissario ad acta che provvede
entro i medesimi termini decorrenti dalla data della nomina».
Si deve sottolineare - oltre alla singolarita' del fatto che sia
l'Autorita' di bacino a dare il parere vincolante sul rispetto del
Piano di tutela approvato dalla regione - il carattere assai
dettagliato della disciplina dettata dallo Stato in materia di
competenza regionale, con violazione delle competenze di cui all'art.
117, commi 3 e 4, della Costituzione, riconosciute anche dall'art.
89, comma 1, lett. i), d.lgs. n. 112/1998.
Inoltre, la previsione che le nuove Autorita' di Bacino, ora
connotate da una composizione a predominanza statale, esprimano sulle
grandi derivazioni il parere in un termine che passa da 40 giorni a
90 giorni e che esso sia vincolante, e che in caso di mancata
espressione del parere non operi piu' il silenzio assenso, ma si
proceda alla nomina di un commissario ad acta che ha altri 90 giorni
per esprimersi, da un lato sottrae alle regioni competenze gia' loro
spettanti, dall'altro comporta una enorme dilatazione dei tempi, in
aperto contrasto quindi con gli obiettivi di semplificazione indicati
dalla legge di delega (art. 1, comma 9, lett. b).
Nonostante la materia della gestione di tali procedimenti sia
gia' stata delegata alle regioni (art. 86, 89 del d.lgs.
n. 112/1998), le competenze regionali sono completamente ignorate
dalla disciplina impugnata, sicche' anche sotto questo profilo essa
appare lesiva della stessa legge di delega che impone al legislatore
delegato il rispetto del riparto di competenze fissato dal decreto
n. 112/1998.
L'art. 96, comma 1, dunque, viola l'art. 117, commi 3 e 4, della
Costituzione, l'art. 118, primo comma, (perche' prevede una funzione
amministrativa statale in violazione del principio di sussidiarieta),
e l'art. 76 della Costituzione, perche' viola la legge di delega
menomando la posizione regionale.
Quanto osservato in relazione al comma 1 vale ugualmente in
relazione agli altri commi dell'art. 96, i quali contengono una
disciplina analitica e dettagliata, quasi si trattasse di riscrivere
il testo unico del 1933 con la logica di allora: si vedano, ad es., i
criteri puntuali di cui al comma 2 ed al comma 9.
Ma, come ha osservato codesta ecc. Corte nella sent. n. 3l/2006,
a proposito della gestione del demanio idrico, «alla luce del nuovo
testo dell'art. 118 della Costituzione, dopo la riforma del Titolo V
della Parte II, l'attribuzione alle regioni ed agli enti locali delle
funzioni amministrative in materia e' sorretta dal principio di
sussidiarieta». Non appare percio' legittimo che lo Stato emani in
materia norme legislative che entrano analiticamente nel dettaglio,
sono autoapplicative sino al punto di svuotare l'ambito di
discrezionalita' della regione, sottopongono l'uso dei poteri
normativi che residuano alla regione a direttive delle quali non si
indicano neppure l'autorita' competente e le modalita' di emanazione
(a tacere dell'obbligo di rispettare nella formazione di esse il
principio di leale cooperazione: cfr. comma 11, che viola il divieto
di atti di indirizzo dopo la legge cost. n. 3/2001 ed il principio di
leale collaborazione).
Inoltre, la disciplina delle derivazioni d'acqua non e'
contemplata nell'oggetto della delega, e l'attenuazione del livello
di protezione ambientale (si veda la sanatoria degli abusi
contemplata dal nuovo art. 17, comma 6, r.d. n. 1775/1933)
contraddice uno dei principi direttivi della delega stessa.
Per queste ragioni, e salvi i piu' specifici rilievi mossi alle
sue singole disposizioni, l'art. 96 risulta dunque illegittimo nella
sua interezza per violazione degli artt. 117, 118 e 76 della
Costituzione.
7) Illegittimita' degli artt. 113 e 114.
Le disposizioni degli artt. 113 e 114 riguardano diverse misure
di tutela delle acque. Esse sono pero' accomunate da una identica
illegittima impostazione dei rapporti tra autonomia legislativa e
amministrativa regionale e «direzione» statale, come di seguito
specificato.
L'art. 113 (Acque meteoriche di dilavamento e acque di prima
pioggia) al comma 1, assegna alle regioni i compiti di «disciplinare»
e di «attuare» a) le forme di controllo degli scarichi di acque
meteoriche di dilavamento provenienti da reti fognarie separate, e b)
i casi in cui puo' essere richiesto che le immissioni delle acque
meteoriche di dilavamento, effettuate tramite altre condotte
separate, siano sottoposte a particolari prescrizioni.
Tuttavia, l'esercizio delle funzioni regionali viene subordinato
al «previo parere del Ministero dell'ambiente della tutela del
territorio». Si realizza cosi' un'inconsueta quanto illegittimita'
sottoposizione della regione, anche nell'esercizio delle sue funzioni
normative, ad ingerenze esercitate dall'autorita' amministrativa
statale: il che e' palesemente contrario all'assetto delle competenze
posto dagli artt. 117 e 118, nonche' agli stessi limiti prescritti
dalla legge di delega. Ne' si puo' salvare la disposizione attraverso
un'interpretazione adeguatrice che riporti il «previo parere» ad una
funzione di ausilio meramente tecnico: se anche non mancano nella
legislazione esempi di funzioni amministrative il cui esercizio da
parte delle regioni e' sottoposto al parere di organismi tecnici, e
cio' a protezione degli specifici interessi che essi hanno in cura,
nel presente caso cio' non e' in alcun modo sostenibile. Il «previo
parere» e' espresso dal Ministero, senza alcuna ulteriore indicazione
soggettiva o oggettiva che possa ridurre l'ingerenza di un organo
caratteristicamente dotato di funzioni politico-amministrative alla
dimensione della mera discrezionalita' tecnica o tecnico-scientifica.
Di qui l'illegittimita' costituzionale di tale vincolo posto dal
comma 1.
L'art. 114 (Dighe) Si occupa nel primo comma, a cui e'
circoscritta la presente impugnazione, esclusivamente della
restituzione delle acque utilizzate per la produzione idroelettrica:
anche in questo caso l'autonomia normativa regionale e' riconosciuta
ma sottoposta al «previo parere» del ministero. Valgono percio' le
stesse censure mosse all'articolo precedente.
8) Illegittimita' dell'art. 121.
L'art. 121 disciplina i piani di tutela delle acque. Il comma 2
dispone che «le Autorita' di bacino, nel contesto delle attivita' di
pianificazione o mediante appositi atti di indirizzo e coordinamento,
sentite le province e le Autorita' d'ambito, definiscono gli
obiettivi su scala di distretto cui devono attenersi i piani di
tutela delle acque, nonche' le priorita' degli interventi». Dispone
inoltre che «le regioni, sentite le province e previa adozione delle
eventuali misure di salvaguardia, adottano il Piano di tutela delle
acquee lo trasmettono al Ministero dell'ambiente e della tutela del
territorio nonche' alle competenti Autorita' di bacino, per le
verifiche di competenza».
In questi termini, il piano adottato dalla regione risulta
sottoposto alla «supervisione» del Ministero, a cui il Piano va
trasmesso per le «per le verifiche di competenza». La norma appare
palesemente lesiva delle prerogative costituzionali delle regioni
come stabilite dagli artt. 117 e 118 della Costituzione.
Inoltre, la previsione eccede i limiti della delega legislativa,
essendo in chiara contraddizione con l'assetto delle funzioni
amministrative che vigeva prima della riforma costituzionale del
Titolo V, e precisamente con l'art. 44 del d.lgs. n. 152/1999, ora
abrogato, dato che il Piano deliberato dalle regioni non soggiaceva
ad alcun controllo ministeriale.
Non appare consentito allo Stato modificare in senso meno
favorevole alle regioni il quadro delle competenze legislative e
amministrative vigente prima della riforma costituzionale, come
codesta ecc. Corte ha avuto gia' modo di affermare esplicitamente in
relazione ai rapporti finanziari (sent. n. 320/2004): e cio' in
particolare modo quando - come nel presente caso e' la stessa legge
di delega che impone di valorizzare, e non restringere, il ruolo
delle regioni.
9) Illegittimita' dell'art. 124, comma 7.
L'art. 124 disciplina i criteri generali per le autorizzazioni
agli scarichi.
Il comma 7 detta una disciplina dettagliata cedevole sulla
procedura di autorizzazione. Le norme statali cedevoli nelle materie
regionali non sono piu' ammesse dopo la legge cost. n. 3/2001, a meno
che siano necessarie per rendere operative funzioni amministrative
«attratte in sussidiarieta» (sent. n. 303/2003) o per attuare
direttive comunitarie. Poiche' la competenza amministrativa e'
attribuita all'autorita' d'ambito o alla provincia, il comma 7 viola
la competenza legislativa regionale.
10) Illegittimita' dell'art. 148, comma 4 e 5, dell'art. 149,
comma 6, e dell'art. 154.
Nell'ambito della Parte Terza del decreto impugnato il
legislatore statale disciplina, alla Sezione Terza, la «Gestione
delle risorse idriche», ivi compreso, al Titolo II, il «Servizio
idrico integrato».
La disciplina di tale servizio, come e' noto e come meglio si
dira', spetta alle regioni, secondo il riparto di competenze di cui
all'art. 117 della Costituzione. Ed infatti, nel tentativo di
individuare il fondamento costituzionale della potesta' legislativa
cosi' esercitata il legislatore statale precisa subito che la propria
disciplina e' limitata ai «profili che concernono la tutela
dell'ambiente e della concorrenza e la determinazione dei livelli
essenziali delle prestazioni del servizio idrico integrato e delle
relative funzioni fondamentali di comuni, province e citta'
metropolitane» (art. 141, comma 1, d.lgs. n. 152/2006).
Sennonche', se dall'astratta enunciazione dell'art. 141 cit. si
passano ad esaminare in concreto le successive disposizioni dettate
dal legislatore statale, ci si avvede immediatamente che esse
travalicano di gran lunga i legittimi ambiti di intervento statale.
Appare infatti del tutto evidente come la normativa statale -
quando non risulta ictu oculi del tutto estranea rispetto agli ambiti
indicate all'art. 141, comma 1 - sia stata comunque emanata senza
tenere nel dovuto conto il riparto costituzionale, come precisato
dalla giurisprudenza di codesta ecc.ma Corte costituzionale: cio'
tanto - in via generale - con riguardo alla ricostruzione delle
«materie» di cui all'art. 117, secondo comma, della Costituzione
(evocate all'art. 141, comma 1, d.lgs. n. 152/2006: ambiente,
concorrenza, livelli essenziali della prestazioni) operata dalla
giurisprudenza costituzionale nel corso di questi ultimi anni, quanto
- a livello particolare - con riferimento specifico all'inquadramento
costituzionale del servizio idrico integrato, del quale la Corte ha
avuto recentemente occasione di occuparsi.
Con riferimento al primo dei due profili indicati (la
ricostruzione delle materie), va infatti innanzitutto osservato come
i titoli di competenza invocati dal legislatore statale consistano
non gia' in «normali materie» di cui all'art. 117, secondo comma,
della Costituzione (le quali legittimerebbero una competenza statale
legislativa esclusiva) ma piuttosto in «materie trasversali» le quali
- come ben noto - se da un lato consentono un intervento statale con
riferimento a qualunque materia, ivi comprese quelle riservate ex
art. 117, quarto comma, alla competenza esclusiva regionale,
dall'altro, proprio per tale ragione, impongono che l'intervento
statale sia limitato tassativamente alla disciplina di quanto e'
strettamente necessario al conseguimento della finalita' cui la
clausola trasversale medesima e' preordinata: pena, in caso
contrario, il fin troppo evidente sostanziale svuotamento di
qualunque prerogativa costituzionale delle regioni.
Tali principi sono gia' stati bene e chiaramente evidenziati da
parte di codesta Corte.
Cosi', innanzitutto, con riferimento alla materia della tutela
«dell'ambiente» art. 117, secondo comma, lett. s), della
Costituzione, la Corte ha chiarito inequivocabilmente come sia da
escludere che essa si configuri come «"materia" senso tecnico»,
riconducibile ad una «sfera di competenza statale rigorosamente
circoscritta e delimitata, giacche', al contrario, essa investe e si
intreccia inestricabilmente con altri interessi e competenze».
Secondo la Corte, «e' agevole ricavare una configurazione
dell'ambiente come "valore" costituzionalmente protetto, che, in
quanto tale, delinea una sorta di materia "trasversale", in ordine
alla quale si manifestano competenze diverse, che ben possono essere
regionali, spettando allo Stato le determinazioni che rispondono ad
esigenze meritevoli di disciplina uniforme sull'intero territorio
nazionale» (Corte cost. n. 407-2002, punto 3.2 in diritto). Tale
conclusione, del resto, emerge anche dai lavori preparatori della
legge cost. n. 3/2001, i quali inducono «a considerare che l'intento
del legislatore sia stato quello di riservare comunque allo Stato il
potere di fissare standards di tutela uniformi sull'intero territorio
nazionale, senza peraltro escludere in questo settore la competenza
regionale alla cura di interessi funzionalmente collegati con quelli
propriamente ambientali», di modo che «si puo' quindi ritenere che
riguardo alla protezione dell'ambiente non si sia sostanzialmente
inteso eliminare la preesistente pluralita' di titoli di
legittimazione per interventi regionali diretti a soddisfare
contestualmente, nell'ambito delle proprie competenze, ulteriori
esigenze rispetto a quelle di carattere unitario definite dallo
Stato» (ancora Corte cost. n. 407-2002, cit., punto 3.2 in diritto).
Considerazioni analoghe valgono anche per quanto riguarda la
«tutela della concorrenza» (art. 117, secondo comma, lett. e),
Cost.), la quale e' stata parimenti qualificata da codesta Corte come
una «materia-funzione» caratterizzata da un'estensione non
rigorosamente circoscritta e determinata, ma piuttosto «trasversale»,
dal momento che «si intreccia inestricabilmente con una pluralita' di
altri interessi - alcuni dei quali rientranti nella sfera di
competenza concorrente o residuale delle regioni»: dal che consegue
la necessita' «di basarsi sul criterio di proporzionalita-adeguatezza
al fine di valutare, nelle diverse ipotesi, se la tutela della
concorrenza legittimi o meno determinati interventi legislativi dello
Stato» (Corte cost. n. 272/2004, punto 3 in diritto).
Quanto alla «determinazione dei livelli essenziali delle
prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere
garantiti su tutto il territorio nazionale» (art. 117, secondo comma,
lett. m), Cost.) essa appare del tutto estranea rispetto all'oggetto
delle disposizioni statali relative al servizio idrico: e del resto
codesta Corte ha gia' pacificamente escluso che essa possa essere
invocata per giustificare una competenza statale in materia di
servizi pubblici locali, quale e' appunto il servizio idrico (cfr.
Corte cost. n. 272/2004). Le motivazioni di tale esclusione si
adattano perfettamente al caso presente: anche la disciplina dei
servizi idrici recata dalle disposizioni qui impugnate infatti - come
gia' quella di cui all'art. 113, comma 7, secondo e terzo periodo,
d.lgs. n. 267/2000 - «riguarda precipuamente servizi di rilevanza
economica e comunque non attiene alla determinazione di livelli
essenziali» (Corte cost. n. 272/2004, punto 3 in diritto).
A conclusioni corrispondenti si deve giungere per quanto riguarda
la materia relativa alle «funzioni fondamentali di comuni, province e
citta' metronolitane» di cui all'art. 117, secondo comma, lett. p),
della Costituzione, pure invocata dal decreto legislativo:
considerato che la gestione dei servizi pubblici locali «non puo'
certo considerarsi esplicazione di una funzione propria ed
indefettibile dell'ente locale» (ancora Corte cost. n. 272/2004,
punto 3 in diritto).
Quanto allo specifico profilo relativo all'inquadramento del
servizio idrico, va osservato come - nel corso dello scrutinio di
costituzionalita' di una legge regionale avente ad oggetto proprio il
servizio idrico integrato - la Corte abbia avuto recentissimamente
modo di stabilire in modo assolutamente chiaro come «la materia dei
servizi pubblici locali ... appartiene alla competenza residuale
delle regioni» (Corte cost., n. 29/2006, punto 7 in diritto).
Risulta pertanto inesatta nel decreto legislativo qui impugnato
anche la collocazione della competenza regionale - nei limiti in cui
essa e' riconosciuta - nel solo ambito del «governo del territorio»
(cfr. art. 142, comma 2). Tale disposizione, se pure mostra la
consapevolezza dell'impossibilita' di ricondurre l'intero fenomeno
del servizio idrico integrato alla sola competenza esclusiva statale,
risulta anch'essa - come e' evidente dal confronto con quanto appena
i1lustrato - estremamente riduttiva della competenza regionale.
In tale contesto, risulta dunque ampiamente confermato quanto
sopra indicato: cioe' che e' innegabile la presenza di competenze
legislative regionali costituzionalmente riconosciute in materia di
servizio idrico integrato (per di piu', competenze di tipo esclusivo
di cui all'art. 117, quarto comma, Cost.), con la conseguenza che
l'operativita' delle richiamate «clausole trasversali» (o
«materie-funzione») di cui all'art. 117, secondo comma, Cost., se da
un lato e' ben in grado di fondare una concorrente legittimazione
normativa statale, deve tuttavia tenere necessariamente conto delle
intrecciate competenze regionali, e deve dunque essere esercitata nel
rispetto dei principi di proporzionalita' e adeguatezza, dunque nella
misura strettamente necessaria ad assicurare la finalita' indicate
dalle citate «clausole trasversali».
Ad avviso della ricorrente regione, i limiti dell'intervento
statale sono stati superati in particolare nelle disposizioni di
seguito indicate.
I) Illegittimita' costituzionale dell'art. 148, comma 5 (in
connessione con il comma 4).
L'art. 148, comma 5, prevede la possibilita' che i comuni con
meno di 1.000 abitanti inclusi nel territorio della Comunita' montane
possano - a determinate condizioni - scegliere di non partecipare
alla gestione unica del servizio idrico integrato.
Tale previsione non trova manifestamente alcun fondamento nelle
clausole trasversali pure evocate dal legislatore statale all'art.
141, comma 1, per fondare la competenza legislativa statale, essendo
al contrario a prima vista evidente la sua irriconducibilita' sia
alla materia della tutela dell'ambiente, sia a quella della
concorrenza, sia a quella relativa alla determinazioni dei livelli
essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali,
sia infine a quella relativa alle funzioni fondamentali di comuni,
province e citta' metropolitane.
Ne consegue che essa disposizione finisce per rivelarsi
unicamente un'indebita compressione della potesta' legislativa
regionale in materia di servizi pubblici locali, come definita da
codesta Corte con la citata sentenza n. 29/2006.
Sotto altro profilo, la disposizione in parola e' pure
incostituzionale per eccesso di delega, poiche' introduce in un
decreto delegato di mero «riordino, coordinamento e integrazione»
della materia (cfr. art. 1, comma 1, legge n. 308/2004) una
previsione del tutto nuova, che innova radicalmente rispetto al
sistema della legge Galli (legge n. 36/l994) senza che nel testo
della delega sia possibile rinvenire un reale fondamento a tale
potere.
II) Illegittimita' costituzionale dell'art. 149, comma 6.
L'art. 149, comma 6, prevede un potere di controllo nei confronti
della «Autorita' d'ambito territoriale ottimale» affidato alla
«Autorita' di vigilanza sulle risorse idriche e sui rifiuti»,
organismo i cui componenti, ex art. 159 dello stesso d.lgs.
n. l52/2006 sono largamente espressione statale. Tale potere si
concretizza non solo nella possibilita' di formulare «rilievi» ed
«osservazioni», ma altresi' in quella di dettare specifiche
«prescrizioni» concernenti «il programma degli interventi, con
particolare riferimento all'adeguatezza degli investimenti
programmati in relazione ai livelli minimi di servizio individuati
quali obiettivi della gestione; il piano finanziario, con particolare
riferimento alla capacita' dell'evoluzione tariffaria di garantire
l'equilibrio economico finanziario della gestione, anche in relazione
agli investimenti programmati». Un analogo potere non e' invece
previsto in capo alle regioni.
Anche in questo caso si tratta di ambiti certamente estranei alle
materie di cui all'art. 141, comma 1, d.lgs. n. 52/2006 (oltre che
ovviamente alle altre materie di cui all'art. 117, secondo comma,
della Costituzione: con conseguente violazione dell'art. 117, secondo
e quarto comma.
In secondo luogo, l'attribuzione all'Autorita' di vigilanza di
funzioni di amministrative di controllo e prescrittive in assenza di
reali motivi che ne giustifichino un'attrazione a livello statale
costituisce al contempo violazione dell'art. 118, primo comma, della
Costituzione, oltre a risultare al lesiva delle potesta' di controllo
regionali.
E' al contrario evidente che una realta' quale quella del
servizio idrico integrato si riferisce ad una dimensione che
trascende l'ambito puramente locale, ma e' pienamente compresa in
quello regionale, e non richiede affatto un esercizio unitario di
funzioni amministrative a livello statale. In ogni caso,
un'attrazione di tali potesta' ad opera della Stato potrebbe essere
consentita - ricorrendone i presupposti sostanziali (cosa che non e'
nel presente caso - previo reale coinvolgimento delle regioni
nell'esercizio del potere, in ossequio al principi indicati con la
nota sentenza n. 303/2003 della Corte cost.
In mancanza di cio', e' chiaro che il potere non puo' che essere
legittimamente attribuito alla regione, alla quale dunque deve essere
riconosciuto pure il potere di inviare all'Autorita' d'ambito i
proprio rilievi ed osservazioni.
Anche a non considerare quanto finora osservato, la disposizione
in questione risulta in ogni caso ulteriormente incostituzionale in
quanto emanata in violazione dell'art. 76 della Costituzione per
contrasto con la legge di delega. Cio' non soltanto per il carattere
innovativo della disposizione rispetto alla legge Galli (nei termini
gia' indicati con riferimento all'articolo precedente), ma in questo
caso anche sotto un diverso profilo. L'attribuzione delle funzioni
amministrative all'Autorita' di vigilanza, infatti, risulta anche in
contrasto con i disposti di cui al d.lgs. n. 112/1998, ai quali
invece avrebbe dovuto necessariamente conformarsi giusta quanto
disposto dal comma 8 dell'art. 1 della legge di delega. Dall'esame
dell'art. 88 del d.lgs. n. 112/1998, infatti, non si ricavano
elementi in grado di includere le funzioni affidate all'Autorita' di
vigilanza fra i «compiti di rilievo nazionale», di cui l'articolo si
occupa: di modo che non resta che riconoscere che si tratta di
funzione da esercitare necessariamente a livello regionale.
Anche sotto tale profilo, dunque, la disposizione impugnata si
palesa incostituzionale.
III) Illegittimita' costituzionale dell'art. 154.
L'art. 154 istituisce la «Tariffa per il servizio idrico», quale
«corrispettivo del servizio idrico integrato», e fissa i parametri
con cui essa deve essere determinata, prescrivendo che debba tenersi
conto «della qualita' della risorsa idrica e del servizio fornito,
delle opere e degli adeguamenti necessari, dell'entita' dei costi di
gestione delle opere, dell'adeguatezza della remunerazione del
capitale investito e dei costi di gestione delle aree di salvaguardia
nonche' di una quota parte dei costi di funzionamento dell'Autorita'
d'ambito, in modo che sia assicurata la copertura integrale dei costi
di investimento e di esercizio secondo il principio del recupero dei
costi e secondo il principio «chi inquina paga».
Di seguito la disposizione determina le competenze attuative,
attribuendo: al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio,
su proposta dell'Autorita' di vigilanza sulle risorse idriche e sui
rifiuti, il compito di definire con decreto «le componenti di costo
per la determinazione della tariffa relativa ai servizi idrici per i
vari settori di impiego dell'acqua»; al Ministro dell'economia e
delle finanze, di concerto con il Ministro dell'ambiente e della
tutela del territorio, «al fine di assicurare un'omogenea disciplina
sul territorio nazionale», il compito di stabilire «criteri generali
per la determinazione, da parte delle regioni, dei canoni di
concessione per l'utenza di acqua pubblica, tenendo conto dei costi
ambientali e dei costi della risorsa e prevedendo altresi' riduzioni
del canone nell'ipotesi in cui il concessionario attui un riuso delle
acque reimpiegando le acque risultanti a valle del processo
produttivo o di una parte dello stesso o, ancora, restituisca le
acque di scarico con le medesime caratteristiche qualitative di
quelle prelevate».
Vengono cosi' previsti diversi poteri normativi ministeriali
sovraordinati a quello delle regioni, in violazione della competenza
legislativa propria spettante alle regioni a termini dell'art. 117,
quarto comma, della Costituzione.
Sorprende che il legislatore delegato abbia ignorato i rilievi
della Commissione della Camera, che avvertiva dell'esigenza di non
ignorare il potere normativo regionale.
A conferma della competenza legislativa regionale va qui
richiamata la sentenza di codesta ecc.ma Corte costituzionale n. 335
del 2005, occasionata da un ricorso governativo avverso la legge
della regione Emilia-Romana n. 7/2004. In tale sentenza codesta Corte
- pur affermando che il tributo speciale per il deposito in discarica
dei rifiuti solidi, benche' devoluto alle regioni, ricada nella
legislazione esclusiva in materia di sistema tributario e contabile
dello Stato, in quanto istituito con legge dello Stato - ha pero', in
base alla costante giurisprudenza costituzionale in merito al regime
transitorio dei tributi (in attesa della attuazione dell'art. 119
Cost.) dichiarato inammissibile il ricorso governativo contro l'art.
47 della suddetta legge regionale, che istituiva e disciplinava la
tariffa relativa al servizio integrato ed alla gestione dei rifiuti,
non essendo emersa alcuna base idonea a suffragare la competenza
statale.
Dunque la disposizione impugnata illegittimamente si ingerisce
nella materia dei servizi pubblici locali, riservata alla potesta'
residuale delle regioni (cfr. sentt. n. 272/2004 e n. 29/2006 citt.),
delineando una normativa che per di piu' si profila nel merito non
affatto coerente con l'evoluzione della stessa legislazione statale:
e' incomprensibile, ad esempio, l'omissione tra i criteri di quanto
gia' contenuto nell'art. 13 della legge n. 36/l994, concernente la
necessita' di tener conto «degli obiettivi di miglioramento della
produttivita».
Una tale carenza - rinunciando all'utilizzo di uno degli
strumenti piu' efficaci per favorire il miglioramento dell'efficienza
delle gestioni, ovvero della leva tariffaria - configura una tariffa
priva del controllo sui costi di gestione e puo' implicare il
riconoscimento a pie' di lista dei costi operativi del gestore,
eliminando il miglioramento progressivo in termini di efficienza
previsto dalla normativa precedente.
Tali norme violano il riparto della potesta' legislativa tra
Stato e regioni, fissato dall'art. 117 (e, in particolare, la
competenza residuale ex art. 117, quarto comma, materia di disciplina
dei servizi pubblici locali), e l'autonomia finanziaria e tributaria
delle regioni, garantita dall'art. 1l9, commi 1 e 2, della
Costituzione, in quanto incidono su un'entrata la cui disciplina
ricade nella competenza regionale.
Inoltre, le norme impugnate contrastano anche con gli stessi
criteri della delega legislativa, almeno la' dove essa vincola il
legislatore delegato: a) al rispetto «delle attribuzioni delle
regioni e degli enti locali, come definite ai sensi dell'art. 117
della Costituzione, della legge 15 marzo 1997, n. 59, e del decreto
legislativo 31 marzo 1998, n. 112» (art. 1, comma 8); b) allo
«sviluppo e coordinamento, con l'invarianza del gettito, delle misure
e degli interventi che prevedono incentivi e disincentivi, finanziari
o fiscali, volti a sostenere, ai fini della compatibilita'
ambientale, l'introduzione e l'adozione delle migliori tecnologie
disponibili, come definite dalla direttiva 96/61/CE del 24 settembre
1996 del Consiglio, nonche' il risparmio e l'efficienza energetica, e
a rendere piu' efficienti le azioni di tutela dell'ambiente e di
sostenibilita' dello sviluppo, anche attraverso strumenti economici,
finanziari e fiscali» [art. 1, comma 8, lett. d)]; mentre, per altro
verso, essa non appare neppure rientrare negli oggetti della delega,
non essendo previsto tra essi l'introduzione ex novo dell'imposta in
questione.
11) Illegittimita' dell'art. 181, comma da 7 a 11, dell'art. 183,
comma 1, dell'art. 186 e dell'art. 189, comma 3.
A) L'art. 181, comma settimo, prevede che «soggetti economici»
non meglio identificati (ma potenzialmente comprensivi di chiunque
gestisca attivita' d'impresa) o le associazioni di categoria
rappresentative dei settori interessati, anche con riferimento ad
interi settori economici e produttivi, possano «stipulare con il
Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio ... appositi
accordi di programma ... per definire i metodi di recupero dei
rifiuti destinati all'ottenimento di materie prime secondarie, di
combustibili o di prodotti». Secondo la stessa disposizione tali
accordi «fissano le modalita' e gli adempimenti amministrativi per la
raccolta, per la messa in riserva, per il trasporto dei rifiuti, per
la loro commercializzazione, anche tramite il mercato telematico, con
particolare riferimento a quello del recupero realizzato dalle Camere
di commercio, e per i controlli delle caratteristiche e i relativi
metodi di prova»; gli accordi «fissano altresi' le caratteristiche
delle materie prime secondarie, dei combustibili o dei prodotti
ottenuti, nonche' le modalita' per assicurare in ogni caso la loro
tracciabilita' fino all'ingresso nell'impianto di effettivo impiego».
I commi successivi, dall'8 all'11, disciplinano le modalita'
procedurali per la stipulazione, l'approvazione e la pubblicazione di
tali accordi di programma.
Le parole utilizzate dalla disposizione ora richiamata trovano il
loro significato nelle definizioni dettate dall'art. 183, comma
primo. In particolare, vengono in considerazione le definizioni dei
termini: g «smaltimento»; h «recupero»; m «deposito temporaneo»; n
«sottoprodotto»; q «materia prima secondaria», definita con
riferimento alle caratteristiche stabilite al sensi dell'art. 181»; u
«materia prima secondaria per attivita' siderurgiche e
metallurgiche», al cui proposito la disciplina sara' integrata da un
decreto ministeriale «senza valore regolamentare».
Tali disposizioni, considerate nella loro sostanza, operano una
deregolamentazione «mascherata» del settore, in pieno contrasto con
le normative europee, piu' volte ribadite dalle decisioni della Corte
di giustizia.
In particolare, si introducono definizioni di smaltimento e
recupero non completamente conformi con quanto indicato nella
direttiva 75/442/CEE [art. 1, lett. e) e f)], nonche' definizioni di
sottoprodotto e di materia prima secondaria (MPS) non coerenti con le
indicazioni fornite dalle sentenze della Corte di giustizia europea
(sentenze C-418/97 e C-419/97, «Arco»; C-9/00, «Palin Granit»;
C-114/01, «AvestaPolarit Chrome»; e in particolare C-457/02,
«Niselli»).
Viene infatti riproposto ancora una volta l'«approccio normativo
italiano», consistente nella sottrazione dei sottoprodotti e delle
cosiddette materie prime secondarie alla disciplina dei rifiuti. Tale
«approccio» e' gia' stato oggetto di una prima sentenza di condanna a
seguito di procedura d'infrazione che ha colpito il d.m. 5 febbraio
1998, che invece l'art. 181, comma 6, del decreto legislativo
impugnato mantiene transitoriamente ma illegittimamente in vigore in
attesa di un nuovo decreto ministeriale che fissi le caratteristiche
dei materiali ottenuti come materie secondarie: la sentenza 7 ottobre
2004 (C-103/02) ha espressamente sancito che «la Repubblica Italiana,
non avendo stabilito nel decreto 5 febbraio 1998, sull'individuazione
dei rifiuti non pericolosi sottoposti alle procedure semplificate di
recupero al sensi degli artt. 31 e 33 del decreto legislativo 5
febbraio 1997, n. 22, quantita' massime di rifiuti, per tipo di
rifiuti, che possano essere oggetto di recupero in regime di dispensa
dall'autorizzazione, e' venuta meno agli obblighi che ad essa
incombono in forza degli artt. 10 e 11, n. 1, della direttiva del
Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, relativa ai rifiuti, come
modifica dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CEE».
Ulteriore sentenza negativa e' stata poi pronunciata, in sede di
rinvio pregiudiziale, dalla Corte di giustizia, con particolare
riferimento all'art. 14 della legge n. 178/2002 (C457/02).
La violazione del diritto comunitario e' confermata dal fatto che
i sottoprodotti e le MPS vengono si inclusi nella «definizione» dei
rifiuti, ma in realta' la norma che cosi' li classifica restringe
fortemente l'ambito di applicazione della disciplina (stabilendo che
«non sono soggetti alle disposizioni di cui alla parte quarta del
presente decreto i sottoprodotti di cui l'impresa non si disfi, non
sia obbligata a disfarsi e non abbia deciso di disfarsi ed in
particolare...»), al punto di costituire una vasta area di
sottoprodotti esentati dalla disciplina, pur senza includerli tra i
materiali per i quali valgono specifiche esclusioni dall'applicazione
del decreto, ai sensi del successivo art. 185. E' un evidente
artifizio formale teso ad evitare che appaia evidente il conflitto
con le norme europee.
In realta', attraverso la previsione di appositi decreti
ministeriali e degli accordi di programma di cui all'art. 181,
vengono sottratti al regime dei rifiuti, e alle relative
autorizzazioni, adempimenti e controlli, molte sostanze o materiali
che nella legislazione vigente invece vi sono assoggettati.
Anche la Corte di cassazione, con sentenza n. 47269/2005 e con
ordinanza n. 1414/2006, ha appena ora sancito invece che la nozione
di rifiuto in coerenza con la normativa comunitaria - deve essere
intesa in senso estensivo (e non restrittivo quale e' invece
l'approccio della pregressa normativa italiana, ripreso in modo ancor
piu' evidente dal decreto delegato), riportandola percio' alla
disciplina dei sottoprodotti e materie prime secondarie dettata dalle
disposizioni comunitarie, cosi' come interpretate dalla
giurisprudenza della Corte di giustizia.
Con il pretesto della semplificazione amministrativa non vengono
in realta' limitati gli oneri amministrativi, bensi' ridotta l'area
di applicazione della disciplina dei rifiuti ed eliminati i
controlli, quale risultato vuoi di una ridefinizione delle sostanze
soggette a regolamentazione restrittiva, vuoi di una
«deregolamentazione» della disciplina dei metodi di recupero dei
rifiuti, sostituita da procedure «contrattate».
Il ricorso allo strumento di accordi e contratti di programma
previsti dall'art. 181 eccede i limiti propri dell'istituto, in
quanto si sostituisce una «fonte» contrattata alla disciplina
normativa, alterando la gerarchia delle fonti del diritto.
Sostituendo alla disciplina generale una serie indeterminata di
accordi applicabili soltanto agli aderenti, si ledono i principi di
certezza del diritto, uguaglianza, generalita' e astrattezza delle
norme.
Davvero paradossale e' poi che l'impugnato art. 181, al comma 7,
richiami (rinviando al precedente comma 5) la comunicazione della
Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio e al Comitato delle
regioni, Com (2002) 412, del 17 luglio 2002, quale «modello» cui si
devono ispirare gli accordi di programma previsti: si tratta infatti,
come si legge nella comunicazione, di accordi «in cui le parti
interessate si impegnano ad ottenere una riduzione dei livelli di
inquinamento, come sancito dal diritto ambientale, o obiettivi di
carattere ambientale, di cui all'art. 174 del trattato», quali ad
esempio gli accordi comunitari in materia ambientale con le
associazioni di produttori di automobili europea, giapponese e
coreana sulla riduzione progressiva delle emissioni di CO2 prodotte
dalle autovetture.
Gli accordi previsti dalle disposizioni censurate, diretti a
«deregolamentare» e «privatizzare» la disciplina dei rifiuti, non
corrispondono affatto a quanto ipotizzato ed auspicato) nella
comunicazione della Commissione, ossia alla possibilita' che -
tramite moduli convenzionali e non «imposti» - si raggiungano
obiettivi ambientali ulteriori rispetto a quelli gia' fissati dalle
regole comunitarie.
Il contrasto con le direttive 75/442/CEE e 91/156/CEE si
manifesta anche nel fatto che le norme europee non consentono che le
attivita' di recupero possano essere completamente escluse dal regime
autorizzatorio. Infatti l'art. 11 della direttiva 75/442/CEE prevede
che la dispensa dall'autorizzazione sia possibile solo fissando norme
generali che fissano i tipi e le quantita' di rifiuti (va ricordato
che proprio per tale motivo lo Stato italiano e' incorso in una
procedura di infrazione comunitaria per il citato d.m. 5 febbraio
1998).
Il decreto legislativo impugnato fa al contrario venir meno il
quadro normativo generale richiesto dalle direttive europee,
sostituendolo con una vasta contrattualizzazione della disciplina;
mentre, per altro verso, la normativa europea richiede, per
«escludere» un rifiuto dal campo di applicazione della direttiva
75/442, che (eccezion fatta per gli effluenti gassosi immessi in
atmosfera per cui vale l'esenzione diretta) le esenzioni siano
ammissibili soltanto se disciplinate da specifica norma speciale,
cio' che non avviene con la disciplina generale di esenzione che le
norme impugnate prevedono per MPS e sottoprodotti.
L'art. 186 introduce inoltre una ipotesi generale di esenzione
per le terre e rocce da scavo ed i residui della lavorazione della
pietra destinati all'effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti,
ecc., i quali, secondo la citata disposizione, «non costituiscono
rifiuti e sono, percio', esclusi dall'ambito di applicazione della
parte quarta del presente decreto solo nel caso in cui, anche quando
contaminati, durante il ciclo produttivo, da sostanze inquinanti
derivanti dalle attivita' di escavazione, perforazione e costruzione
siano utilizzati, senza trasformazioni preliminari, secondo le
modalita' previste nel progetto sottoposto a valutazione di impatto
ambientale ovvero, qualora il progetto non sia sottoposto a
valutazione di impatto ambientale, secondo le modalita' previste nel
progetto approvato dall'autorita' amministrativa competente, ove cio'
sia espressamente previsto, previo parere delle Agenzie regionali e
delle province autonome per la protezione dell'ambiente, sempreche'
la composizione media dell'intera massa non presenti una
concentrazione di inquinanti superiore al limiti massimi previsti
dalle norme vigenti e dal decreto di cui al comma 3».
Anche in questo caso il contrasto con la normativa comunitaria e'
evidente, trattandosi di un'esclusione disposta in via generale al di
fuori del quadro normativo europeo. Basta ricordare che una specifica
procedura d'infrazione e' stata avviata contro la Repubblica italiana
a causa di una disposizione analoga contenuta nella legge n. 443/2001
(art. 1, comma 15).
Le norme impugnate non contrastano dunque solo con le richiamate
norme comunitarie, e, per cio' stesso, con l'art. 11 e con l'art.
117, primo comma Cost.; esse contrastano inoltre con la legge di
delega - e quindi indirettamente con l'art. 76 Cost. - che fissa tra
i criteri direttivi (art. 1, comma 8) la «piena e coerente attuazione
delle direttive comunitarie, al fine di garantire elevati livelli di
tutela dell'ambiente e di contribuire in tale modo alla
competitivita' dei sistemi territoriali e delle imprese, evitando
fenomeni di distorsione della concorrenza (lett. e)», e
l'«affermazione dei principi comunitari di prevenzione, di
precauzione, di correzione e riduzione degli inquinamenti e dei danni
ambientali e del "chi inquina paga" (lett. f)». Tali illegittimita'
si ripercuotono, ovviamente, in modo lesivo sulle competenze
costituzionali della regione in materia di tutela dell'ambiente,
tutela della salute e governo del territorio, pregiudicando il
corretto svolgimento delle funzioni regionali in quelle materie, come
si illustra piu' ampiamente nel punto seguente.
B) Illegittimita' costituzionale delle stesse norme per diretta
violazione delle competenze regionali.
Le stesse norme censurate al punto precedente costituiscono
altresi' diretta violazione delle attribuzioni regionali.
La materia «rifiuti» si colloca in una zona in cui si
sovrappongono gli interessi ambientali con quelli di tutela del
territorio, nonche' della tutela igienico-sanitaria e di sicurezza
della popolazione. Ma anche a ritenere che, in applicazione del
«criterio di prevalenza» elaborato dalla giurisprudenza di questa
ecc.ma Corte, debba riconoscersi allo Stato il titolo a legiferare in
base alla competenza riconosciutagli dall'art. 117, secondo comma,
lett. s), cio' non significa che la legge statale possa intervenire
senza precisi limiti.
La legislazione vigente - a partire dal c.d. «decreto Ronchi»
(d.lgs. n. 22/1997) e dall'art. 85 del d.lgs. n. 112/1998, che
espressamente lo richiama - ha riconosciuto il ruolo fondamentale
delle regioni nell'attuazione del quadro normativo nazionale,
finalmente riportato ad una disciplina organica e unitaria, in
considerazione della «vocazione» regionale - in base al principio di
sussidiarieta' - sia nella politica di tutela del territorio, sia
nell'applicazione in loco della disciplina generale, organizzando gli
apparati e le procedure amministrative necessarie e «incrociando» la
disciplina di settore con il complesso fascio delle competenze
regionali, spettanti a pieno titolo o quali potesta' concorrenti, che
incidono sull'ambiente (come e' pacifico nella giurisprudenza
costituzionale sin dalla sent. n. 407/2002).
Va da se' che rimane allo Stato il potere legislativo di
disciplinare in via generale la «materia» e i suoi settori, cosi'
come pure di introdurre quegli snellimenti amministrativi che fissino
un nuovo equilibrio tra gli interessi costituzionali di protezione
dell'ambiente, da un lato, e la liberta' d'iniziativa economica
dall'altro (sentt. 116/2006, 331/2003, 307/2003). Tuttavia, se la
riforma legislativa operata dal legislatore statale - incidendo
profondamente nelle funzioni gia' attribuite alla regione e che essa
ha gia' esercitato disciplinandole con legge e con strumenti di
pianificazione generale e particolare (cfr. la l.r. n. 27/1994, e
successive modifiche, nonche' il Piano di Azione ambientale
2004-2006) - risulta viziata sia per violazione della delega (che
vincola il legislatore delegato al rispetto dell'assetto
amministrativo e al riparto di competenze vigente), che per contrasto
con il diritto comunitario, essa deve poter essere contrastata con il
ricorso per illegittimita' costituzionale: infatti, se essa dovesse
essere applicata, ne risulterebbe sconvolto l'attento assetto
normativo e amministrativo disegnato dalla legislazione regionale,
che verrebbe in molte parti abrogata dall'atto legislativo in
questione, creando uno stato di grave precarieta' normativa.
Va infatti sottolineato che la regione, a tenore dell'art. 117,
quinto comma, Cost., ha il compito di dare attuazione diretta alle
norme comunitarie: per principio fondamentale del diritto
comunitario, confortato dalla sent. 170/1984 di codesta Corte, la
supremazia del diritto comunitario va assicurata dai soggetti
dell'applicazione del diritto anche attraverso la «non applicazione»
delle norme legislative interne contrastanti con le norme comunitarie
self executing. La conseguenza di queste premesse e' che la regione
Liguria sara' tenuta - per un preciso obbligo giuridico, dunque, ora
rafforzato dall'art. 117, primo comma, Cost. - a non applicare nel
proprio territorio le norme del decreto impugnato che risultino in
contrasto con le norme «ad effetto diretto» poste dal diritto
comunitario derivato e dalle sentenze della Corte di giustizia che di
esso forniscono l'interpretazione (cfr. sent. 389/1989 di codesta
ecc.ma Corte). Il risultato, quindi, non sara' affatto la
«semplificazione» promessa dalle disposizioni impugnate, ma uno
stato, di gravissima incertezza normativa, non privo di preoccupanti
riflessi sulla repressione penale dei reati ambientali legati alla
disciplina dei rifiuti, con conseguente contenzioso destinato a
coinvolgere nuovamente - come gia' capitato nel «caso Niselli» - sia
la Corte di giustizia che codesta Corte costituzionale.
Tutto cio' avra', ancora una volta, gravissime conseguenze sugli
interessi pubblici alla tutela dell'ambiente, della salute e della
sicurezza pubblica, anche perche', eluse le norme generali in vigore
e aggirate le definizioni e le procedure fissate dalla normativa
comunitaria, diventera' difficile e talvolta impossibile per le
strutture regionali rintracciare le sostanze «derubricate» dalle
disposizioni impugnate. Con l'entrata in vigore del decreto
legislativo si produrra' infatti una derubricazione di talune
categorie di rifiuti, i quali non saranno piu' considerati tali ma
verranno qualificati come sottoprodotti o combustibili o MPS, venendo
in tal modo sottratti al regime vincolistico e garantistico della
normativa sui rifiuti.
C) Illegittimita' costituzionale dell'art. 189, comma 3.
Considerazioni in tutto analoghe a quelle svolte subito sopra ai
punti 1) e 2) valgono per l'art. 189, comma terzo: esso riguarda
l'obbligo di comunicare annualmente alle Camere di commercio le
quantita' e le caratteristiche qualitative dei rifiuti oggetto di
attivita' di raccolta, trasporto, recupero e smaltimento di rifiuti
(c.d. MUD, ossia il «modello unico» introdotto dalla legge 70/1994).
L'ambito di applicazione di tale obbligo viene ora delimitato
restrittivamente, esentandone le imprese e gli enti che producono
rifiuti non pericolosi. Si produrra' di conseguenza una preoccupante
perdita di informazioni per quanto riguarda molteplici categorie di
rifiuti che potranno circolare liberamente, senza consentire alle
strutture chiamate a svolgere i controlli ambientali di conoscere i
dati relativi alla produzione che sono base di conoscenza per seguire
il percorso dei rifiuti.
12) Illegittimita' dell'art. 205, comma 2.
L'art. 205 regola 205 le Misure per incrementare la raccolta
differenziata. Il comma 2 stabilisce che «la frazione organica umida
separata fisicamente dopo la raccolta e finalizzata al recupero
complessivo tra materia ed energia, secondo i criteri
dell'economicita', dell'efficacia, dell'efficienza e della
trasparenza del sistema, contribuisce al raggiungimento degli
obiettivi di cui al comma 1». In questo modo si introduce nel
concetto di raccolta differenziata la frazione organica umida
separata fisicamente dopo la raccolta, con la conseguenza immediata
di stravolgere i sistemi di contabilita' della raccolta differenziata
attualmente in uso e di determinare difficolta' nell'applicazione
della disciplina fiscale. Il comma 2 detta una norma di dettaglio in
materia di competenza regionale, con violazione dell'art. 117, comma
4, Cost.
13) Illegittimita' dell'art. 240, comma 1, lett. b), c) e g).
L'art. 240 rientra nel titolo relativa alla bonifica dei siti
contaminati. Esso detta le definizioni rilevanti nella materia. Il
comma 1, lett. b) definisce «concentrazioni soglia di contaminazione
(CSC)» «i livelli di contaminazione delle matrici ambientali che
costituiscono valori al di sopra dei quali e' necessaria la
caratterizzazione del sito e l'analisi di rischio sito specifica»,
aggiungendo che, «nel caso in cui il sito potenzialmente contaminato
sia ubicato in un'area interessata da fenomeni antropici o naturali
che abbiano determinato il superamento di una o piu' concentrazioni
soglia di contaminazione, queste ultime si assumono pari al valore di
fondo esistente per tutti i parametri superati». Il valore di fondo
consiste nel livello di concentrazione dei parametri presenti
nell'area circostante al sito. La lett. b) introduce un'innovazione
irragionevole, perche', far coincidere la soglia di contaminazione
con il valore di fondo puo' essere comprensibile per eventuali
fenomeni naturali ma non certo per fenomeni antropici, in quanto,
cosi' facendo, si gettano le basi per una deroga generalizzata ai
limiti fissati e si rende piu' difficile la bonifica proprio nelle
aree interessate dalle forme di inquinamento piu' gravi e pervasive.
L'irragionevolezza e' ancora piu' evidente se si pensa che la lett.
b) applica «il beneficio del valore di fondo indifferentemente a
tutti i siti ubicati in aree interessate da fenomeni di inquinamento
di origine umana, senza curarsi di escludere quei siti dove vengono
svolte le medesime attivita' antropiche da cui si genera
l'inquinamento che si propaga per tutta l'area circostante» (cosi' A.
Amoroso, La bonifica dei siti contaminati nel d.lgs. 3 aprile 2006,
n. 152 in materia ambientale, in www.lexambiente.com).
La norma, dunque, viola l'art. 3 e (per il suo carattere
innovativo e per il fatto che diminuisce la tutela dell'ambiente e
della salute umana) l'art. 76 Cost., con conseguente lesione delle
competenze regionali (v., sia sulla violazione della delega sia sulla
legittimazione regionale, quanto esposto in relazione all'art. 74,
comma 1, lett. ff). La competenza regionale in materia di bonifica e'
risalente e pacifica, dato che le regioni hanno potesta' concorrente
in materia di governo del territorio e tutela della salute (art. 117,
comma 3, Cost.) e dato il modo in cui la Corte costituzionale
interpreta l'art. 117, secondo comma, lett. s).
La lett. c) definisce le «concentrazioni soglia di rischio (CSR)»
«i livelli di contaminazione delle matrici ambientali, da determinare
caso per caso con l'applicazione della procedura di analisi di
rischio sito specifica secondo i principi illustrati nell'Allegato 1
alla parte quarta del presente decreto e sulla base dei risultati del
piano di caratterizzazione, il cui superamento richiede la messa in
sicurezza e la bonifica». Tale norma, stabilendo che la
determinazione dei livelli di contaminazione avviene caso per caso,
senza il riferimento a parametri certi, introduce elementi di
incertezza laddove la legislazione previdente prevedeva limiti
tabellari certi e non derogabili. Anche tale norma, dunque,
pregiudica irragionevolmente la tutela dell'ambiente e della salute e
viola gli artt. 3 e 76 Cost., per le medesime ragioni esposte in
relazione alla lett. b), costringendo anche gli enti territoriali a
svolgere la propria funzione di tutela dell'ambiente in quadro di
incertezza normativa.
La lett. g) definisce «sito con attivita' in esercizio» «un sito
nel quale risultano in esercizio attivita' produttive sia industriali
che commerciali nonche' le aree pertinenziali e quelle adibite ad
attivita' accessorie economiche, ivi comprese le attivita' di
mantenimento e tutela del patrimonio ai fini della successiva ripresa
delle attivita».
La norma comprende irragionevolmente fra i siti con attivita' in
esercizio i siti ove non ci sono attivita' in esercizio. Poiche' la
successiva lett. n) definisce la «messa in sicurezza operativa»
«l'insieme degli interventi eseguiti in un sito con attivita' in
esercizio atti a garantire un adeguato livello di sicurezza per le
persone e per l'ambiente, in attesa di ulteriori interventi di messa
in sicurezza permanente o bonifica da realizzarsi alla cessazione
dell'attivita», (e aggiunge che «essi comprendono altresi' gli
interventi di contenimento della contaminazione da mettere in atto in
via transitoria fino all'esecuzione della bonifica o della messa in
sicurezza permanente, al fine di evitare la diffusione della
contaminazione all'interno della stessa matrice o tra matrici
differenti»), appare chiaro che l'arbitraria estensione del concetto
di attivita' in esercizio consente di procrastinare sine die la
bonifica dell'area e incide gravemente sulle esigenze di protezione
ambientale e della salute umana.
Dunque, la lett. g) viola gli artt. 3 e 76 Cost., con conseguente
lesione delle competenze regionali, per le medesime ragioni esposte
in relazione alla lett. b); essa viola anche l'art. 1, comma 9, lett.
a) legge n. 308/2004, che imponeva di «introdurre differenti
previsioni a seconda che le contaminazioni riguardino siti con
attivita' produttive in esercizio ovvero siti dismessi, il che
rappresenta un'ulteriore violazione dell'art. 76 Cost.
14) Illegittimita' degli artt. 242, 243, comma 2, 246, 252, commi
4 e 5, comma 1.
L'art. 242 disciplina le Procedure operative ed amministrative e
si caratterizza per un contenuto assai dettagliato, che non tiene
affatto conto del principio di sussidiarieta'. Il comma 3 prevede
che, qualora si accerti l'avvenuto superamento delle CSC anche per un
solo parametro, il responsabile dell'inquinamento presenta a comune,
provincia e alla regione territorialmente competente il piano di
caratterizzazione, e che «entro i trenta giorni successivi la
regione, convocata la conferenza di servizi, autorizza il piano di
caratterizzazione con eventuali prescrizioni integrative». Il comma 6
dispone che «la regione, sentita la provincia, approva il piano di
monitoraggio entro trenta giorni dal ricevimento dello stesso», e che
«l'anzidetto termine puo' essere sospeso una sola volta, qualora
l'autorita' competente ravvisi la necessita' di richiedere, mediante
atto adeguatamente motivato, integrazioni documentali o
approfondimenti del progetto, assegnando un congruo termine per
l'adempimento». Il comma 7 statuisce che, «qualora gli esiti della
procedura dell'analisi di rischio dimostrino che la concentrazione
dei contaminanti presenti nel sito e' superiore ai valori di
concentrazione soglia di rischio (CSR), il soggetto responsabile
sottopone alla regione, nei successivi sei mesi dall'approvazione del
documento di analisi di rischio, il progetto operativo degli
interventi di bonifica o di messa in sicurezza, operativa o
permanente», e che «la regione, acquisito il parere del comune e
della provincia interessati mediante apposita conferenza di servizi e
sentito il soggetto responsabile, approva il progetto, con eventuali
prescrizioni ed integrazioni entro sessanta giorni dal suo
ricevimento».
L'art. 242 reca una disciplina procedimentale che non puo' essere
ascritta a materie di competenza esclusiva statale, non essendo
definiti standard uniformi di tutela. Tale disciplina e' assai
dettagliata, in quanto sono minuziosamente regolati tutti i singoli
passi e termini del procedimento. L'art. 242, dunque, viola nel suo
complesso l'art. 117, terzo comma. I passi sopra citati violano,
inoltre, l'art. 118, primo comma, Cost. perche' alla regione viene
imposto di svolgere diverse funzioni amministrative che non
richiedono un unitario esercizio regionale ma che potrebbero e
dovrebbero essere svolte a livello locale; si tenga presente che
l'art. 17, comma 4, d.lgs. n. 22/1997 attribuiva la competenza alla
regione solo «se l'intervento di bonifica e di messa in sicurezza
riguarda un'area compresa nel territorio di piu' comuni». Le medesime
norme sopra citate violano anche l'art. 118, secondo comma Cost.,
perche' in materie di competenza regionale spetta alla regione
l'allocazione delle funzioni amministrative.
L'art. 243, comma 1, stabilisce che «le acque di falda emunte
dalle falde sotterranee, nell'ambito degli interventi di bonifica di
un sito, possono essere scaricate, direttamente o dopo essere state
utilizzate in cicli produttivi in esercizio nel sito stesso, nel
rispetto dei limiti di emissione di acque reflue industriali in acque
superficiali di cui al presente decreto». Anche questa norma
diminuisce la tutela dell'ambiente, rispetto alla disciplina
previgente, perche' sancisce che le acque emunte nel corso di una
bonifica possono essere scaricate in acque superficiali nel rispetto
dei valori limite di emissione previsti per i reflui industriali (v.
gia' l'allegato 5 del d.lgs. n. 152/1999) e non nel rispetto dei
parametri maggiormente restrittivi (gia) previsti dall'allegato 1 del
d.m. n. 471/1999. L'art. 243, comma 1, porta ad un peggioramento
della qualita' delle acque di falda, rispetto a quanto previsto dalla
disciplina precedente, con conseguente peggioramento dell'acquifero
nel quale vengono scaricate.
Il comma 2, poi, stabilisce che, «in deroga a quanto previsto dal
comma 1 dell'art. 104, ai soli fini della bonifica dell'acquifero, e'
ammessa la reimmissione, previo trattamento, delle acque sotterranee
nella stessa unita' geologica da cui le stesse sono state estratte,
indicando la tipologia di trattamento, le caratteristiche
quali-quantitative delle acque reimmesse, le modalita' di
reimmissione e le misure di messa in sicurezza della porzione di
acquifero interessato dal sistema di estrazione/reimmissione», e che
«le acque reimmesse devono essere state sottoposte ad un trattamento
finalizzato alla bonifica dell'acquifero e non devono contenere altre
acque di scarico o altre sostanze pericolose diverse, per qualita' e
quantita', da quelle presenti' nelle acque prelevate».
L'art. 104, comma 1, sancisce il divieto di «scarico diretto
nelle acque sotterranee e nel sottosuolo». L'art. 243, comma 2,
prevede che le acque sotterranee debbano essere trattate prima della
reimmissione ma non fissa parametri precisi da rispettare, ne'
possono valere quelli gia' previsti per le acque sotterranee
nell'allegato 1, tabella 3, del d.m. n. 471/1999, che e' stato
abrogato dal d.lgs. n. 152/2006. Dunque, anche il comma 2 introduce
una novita' normativa nettamente volta a diminuire la protezione
dell'ambiente.
Entrambi i commi violano il principio di ragionevolezza e, per il
loro carattere innovativo e per il fatto che diminuiscono la tutela
dell'ambiente e della salute umana, l'art. 76 Cost., con conseguente
lesione delle competenze regionali (v., sia sulla violazione della
delega sia sulla legittimazione regionale, quanto esposto in
relazione all'art. 74, comma 1, lett. ff).
L'art. 244 stabilisce che «le pubbliche amministrazioni che
nell'esercizio delle proprie funzioni individuano siti nei quali
accertino che i livelli di contaminazione sono superiori ai valori di
concentrazione soglia di contaminazione, ne danno comunicazione alla
regione, alla provincia e al comune competenti» (comma1), e che «la
provincia, ricevuta la comunicazione di cui al comma 1, dopo aver
svolto le opportune indagini volte ad identificare il responsabile
dell'evento di superamento e sentito il comune, diffida con ordinanza
motivata il responsabile della potenziale contaminazione a provvedere
ai sensi del presente titolo» (comma 2).
Quest'ultima disposizione trasferisce alla provincia il compito
di emettere le ordinanze di diffida, con scarsa congruenza rispetto
alla divisione di competenze operata dato che l'ente competente ad
effettuare gli interventi in danno rimane il comune (al quale il
potere di diffida era attribuito dall'art. 8, comma 2, d.m.
n. 471/1999). La norma viola l'art. 118, secondo comma, Cost. in
quanto assegna una funzione amministrativa in materia di competenza
regionale.
L'art. 246 dispone che «i soggetti obbligati agli interventi di
cui al presente titolo ed i soggetti altrimenti interessati hanno
diritto di definire modalita' e tempi di esecuzione degli interventi
mediante appositi accordi di programma stipulati, entro sei mesi
dall'approvazione del documento di analisi di rischio di cui all'art.
242, con le amministrazioni competenti ai sensi delle disposizioni di
cui al presente titolo»; il comma 2 detta una norma analoga per la
«bonifica di una pluralita' di siti che interessano il territorio di
piu' regioni» ed il comma 3 prevede che, «nel caso in cui vi siano
soggetti che intendano o siano tenuti a provvedere alla contestuale
bonifica di una pluralita' di siti dislocati su tutto il territorio
nazionale o vi siano piu' soggetti interessati alla bonifica di un
medesimo sito di interesse nazionale, i tempi e le modalita' di
intervento possono essere definiti con accordo di programma da
stipularsi, entro diciotto mesi dall'approvazione del documento di
analisi di rischio di cui all'art. 242, con il Ministro dell'ambiente
e della tutela del territorio di concerto con i Ministri della salute
e delle attivita' produttive, d'intesa con la Conferenza Stato
regioni».
Tale disposizione viola, innanzi tutto, l'art. 117, terzo comma,
sia perche' detta disciplina dettagliata in materia regionale
(fissando addirittura il termine di stipulazione dell'accordo di
programma) sia perche', riconoscendo il «diritto di definire
modalita' e tempi di esecuzine degli interventi mediante appositi
accordi di programma», lede la podesta' legislativa regionale, nel
cui ambito rientra naturaliter proprio la disciplina di modalita' e
tempi degli interventi di bonifica. L'art. 246, in realta', stravolge
la ratio dell'accordo di programma che, da strumento di
semplificazione dei rapporti fra amministrazini (v. art. 34 d.lgs.
n. 267/2000), diventa strumento con cui il privato puo' interferire
nell'esercizio dell'attivita' normativa.
Quanto al comma 3, esso risulta illegittimo in quanto, per
l'accordo di programma relativo ai siti di interesse nazionale, non
prevede l'intesa con regioni interessate, violando cosi' l'autonomia
amministrativa delle regioni (art. 118, primo comma della
Costituzione) ed il principio di leale collaborazione, secondo quanto
risulta dalla giurisprudenza costituzionale (v., ad es., le sentt.
n. 303/2003 e n. 6/2004).
L'art. 252 disciplina la bonifica dei siti di interesse
nazionale. Al comma 4 si dispone che «la procedura di bonifica di cui
all'art. 242 dei siti di interesse nazionale e' attribuita alla
competenza del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio,
sentito il Ministero delle attivita' produttive», e al comma 5 si
aggiunge che «nel caso in cui il responsabile non provveda o non sia
individuabile oppure non provveda il proprietario del sito
contaminato ne' altro soggetto interessato, gli interventi sono
predisposti dal Ministero dell'ambiente e della tutela territorio,
avvalendosi dell'Agenzia per la protezione dell'ambiente e per i
servizi tecnici (APAT), dell'Istituto superiore di sanita' e
dell'E.N.E.A. nonche' di altri soggetti qualificati pubblici o
privati».
Tali disposizioni sono illegittime nella parte in cui non
provedono l'intesa con la regione interessata (o con le regioni
interessate) per l'adozione dell'atto, per violazione dell'art. 118
della Costituzione e del principio di leale collaborazione, secondo
quanto risulta dalla giurisprudenza costituzionale (v., ad es., le
sentt. n. 303/2003 e n. 6/2004). Inoltre, esse violano la legge
delega (art. 1, comma 1 e comma 8, legge n. 308/2004) e, quindi,
l'art. 76 della Costituzione in quanto innovano la precedente
disciplina e indeboliscono la posizione delle regioni: infatti,
l'art. 17, comma 14, d.lgs. n. 22/1997 richiedeva l'intesa con la
regione competente per l'approvazione dei progetti di interventi di
bonifica di interesse nazionale. Poiche' la lesione delle prerogative
regionali si determina attraverso l'eccesso di delega, anche la
violazione dell'art. 76 della Costituzione puo' essere fatta valere
dalla regione (ferma restando la violazione dell'art. 118 e del
principio di leale collaborazione di cui sopra).
L'art. 257, comma 1, stabilisce che «chiunque cagiona
l'inquinamento del suolo, del sottosuolo, delle acque superficiali o
delle acque sottorranee con il superamento delle concentrazioni
soglia di rischio e' punito con la pena dell'arresto da sei mesi a un
anno o con l'ammenda da duemilaseicento euro a ventiseimila euro, se
non provvede alla bonifica in conformita' al progetto approvato
dall'autorita' competente nell'ambito del procedimento di cui agli
artt. 242 e seguenti».
tale disposizione innova la disciplina previgente (art. 51-bis,
comma 1, d.lgs. n. 22/1997), che prevedeva il cumulo delle pene
dell'arresto e dell'ammenda e non la loro alternativita'. In virtu'
dell'art. 257, comma 1, chi inquina e non bonifica puo' essere punito
solo con l'ammenda di duemilaseicento euro.
La norma, oltre a essere palesemente irragionevole, viola l'art.
76 della Costituzione perche' l'art. 1, comma 8, lett. i), legge
n. 308/2004 prescriveva la «garanzia di una piu' efficace tutela in
materia ambientale anche mediante il coordinamento e l'integrazione
della disciplina del sistema sanzionatorio, amministrativo e penale,
fermi restando i limiti di pena e l'entita' delle sanzioni
amministrative gia' stabiliti dalla legge»: dunque, il Governo poteva
solo integrare e non modificare il sistema sanzionatorio e doveva
tener fermi i limiti di pena (anche quelli minimi). Tale eccesso di
delega si traduce in un grave, potenziale pregiudizio per la tutela
dell'ambiente e della salute, con conseguente lesione del ruolo che
la regione riveste in queste materie. La forte diminuzione della
tutela penale aumenta i rischi di danni all'ambiente e alla salute,
aggravando i compiti che al regione e gli enti locali devono svolgere
per far fronte a tali danni: dunque, la palese violazione dell'art.
76 (e dall'art. 3) si traduce in lesione dell'autonomia
amministrativa e finanziaria dell regione e degli enti locali (e la
giurisprudenza costituzionale ha ormai chiarito che esiste un
collegamento fra la finanza locale e la finanza regionale, per cui le
regioni possono agire anche a tutela della prima: v. le sentt.
n. 417/2005 e n. 533/2002).
Quanto alla legittimazione regionale ad impugnare norme penali,
si veda il precedente rappresentato dalla sent. n. 412/2001.
Nel complesso, sia consentito aggiungere che - come risulta
chiaramente dalle norme di cui sopra le novita' introdotte dal
Governo in materia di bonifica si caratterizzano per un forte
diminuzione della tutela dell'ambiente e per un'eccessiva
«protezione» data a chi inquina. Il bilanciamento fra il valore
dell'ambiente e l'interesse all'attivita' produttiva viene
irragionevolmente squilibrato a vantaggio di quest'ultimo, come
emerge soprattutto nel caso dell'art. 240, comma 1, lett. b) e g),
dell'art. 246 e dell'art. 257.
15) Illegittimita' delle norme impugnate per vizi procedurali:
violazione del principio di leale collaborazione e della legge di
delega.
Nel suo complesso il decreto appare viziato da gravi difetti di
procedimenti, attinenti in particolare alla violazione della
procedura di «leale collaborazione». Come emerge da quanto esposto in
narrativa, infatti, il Governo non ha rispettato i contenuti minimi
della garanzia di partecipazione della Conferenza unificata. Esso ha
richiesto il parere della Conferenza in termini temporali tali da
renderne impossibile l'espressione, ed ha rifiutato la legittima
richiesta di disporre del tempo necessario allegando ragioni di
urgenza inesistenti - dato che la delega veniva a scadenza oltre sei
mesi piu' tardi - e persino inducendo in errore (non si vuole qui
dire volontariamente) la Conferenza circa gli effettivi termini
temporali della delega.
Si noti che l'ordine del giorno negativo successivamente
approvato dalla Conferenza non puo' essere considerato un equivalente
di un parere effettivamente articolato e reso nel merito a seguito di
un corretto procedimento: ma del resto neppure esso e' stato
effettivamente preso in considerazione.
La Conferenza unificata non ha avuto modo di esprimere
formalmente il proprio parere, e sulle posizioni da essa assunte in
merito al decreto legislativo il Governo non ha aperto alcuna
discussione, violando quanto disposto dalla legge di delega e
ribadito dalla Commissione parlamentare. Come dispone l'art. 2, comma
3, del d.lgs. n. 281/1997, quando la Conferenza Stato-regioni e'
obbligatoriamente sentita «in ordine agli schemi di disegni di legge
e di decreto legislativo o di regolamento del Governo nelle materie
di competenza delle regioni e delle province autonome di Trento e di
Bolzano» essa «si pronunzia entro venti giorni». Per l'espressione
del parere della Conferenza unificata non e' indicato un termine
preciso, ma certo non si puo' ritenere che per essa - che ha una
struttura ancora piu' complessa della «Stato-regioni» - possa valere
un termine ancora piu' breve.
Se la legge di delega prevede l'obbligo del Governo delegato di
acquisire il parere della Conferenza, la Conferenza deve disporre di
un termine adeguato.
Ma tutto il comportamento tenuto dai rappresentanti del Governo
in questa vicenda - in una vicenda cosi' complessa sotto il profilo
tecnico-normativo e tanto delicata per i molteplici riflessi che il
«Codice dell'ambiente» esercita non solo sulle attribuzioni «in
astratto» delle regioni, ma sulla legislazione, a sua volta complessa
e articolata, che esse hanno prodotto - e' improntato ad uno spirito
autoritario e ostruzionistico che e' in palese con i canoni della
leale collaborazione.
«Quando si abbia a che fare con competenze necessariamente e
inestricabilmente connesse - ha osservato codesta ecc.ma Corte
costituzionale - il principio di «leale collaborazione» - che proprio
in materia di protezione di beni ambientali e di assetto del
territorio trova un suo campo privilegiato di applicazione - richiede
la messa in opera di procedimenti nei quali tutte le istanze
costituzionalmente rilevanti possano trovare rappresentazione» (sent.
n. 422/2002).
E' vero che tale principio e' «suscettibile di essere organizzato
in modi diversi, per forme e intensita' della pur necessaria
collaborazione» (sent. n. 308/2003), ma e' anche vero che esso non
puo' essere ridotto ad una ritualita' meramente formale: una delle
«sedi piu' qualificate per l'elaborazione di regole destinate ad
integrare il parametro della leale collaborazione e' attualmente il
sistema delle Conferenze Stato-regioni e autonomie locali», al cui
interno «si sviluppa il confronto tra i due grandi sistemi
ordinamentali della Repubblica, in esito al quale si individuano
soluzioni concordate di questini controverse» (sent. n. 31/2006). Ma
di «confronto» deve trattarsi, appunto, basato su comportamenti
corretti e «leali» delle parti, non dell'impostazione unilaterale e
della chiusura totale a qualsiasi possibilita' di dialogo.
Tale violazione della legge di delega (e dunque dell'art. 76
della Costituzione) e del principio di leale collaborazione si
traducono direttamente in lesione delle competenze e prerogative
costituzionali delle regioni, e costituiscono percio' illegittimita'
costituzionali che le regioni sono legittimate a far valere.
P. Q. M.
Chiede voglia codesta ecc.ma Corte costituzionale dichiarare
costituzionalmente illegittimo il decreto legislativo 3 aprile 2006,
n. 152 «Norme in materia ambientale», in relazione agli articoli:
58, 59, 63, 64, 65,67, 69, 116, 117, 121; 74, 91, comma 1,
lettera d), 96, 113, 114, 121, 124, comma 7; 148, comma 4 e 5, 149,
comma 6, 154; 181, commi da 7 a11, 183, comma 1, 186, 189, comma 3,
205, comma 2; 240, comma 1, lett. b), c), g), 242, 243,244, 246, 252,
257, per violazione degli artt. 76, 117, 118 e 119 della
Costituzione, del principio di leale collaborazione, del principio di
ragionevolezza, per le parti e sotto i profili illustrati nel
ricorso.
Padova-Genova, addi' 12 giugno 2006
Prof. avv. Giandomenico Falcon - Avv. Barbara Baroli
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