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N. 75 RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 17 giugno 2006. |
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Ricorso per questione di legittimita' costituzionale depositato in
cancelleria il 17 giugno 2006 (della Regione Abruzzo)
(GU n. 32 del 9-8-2006) |
Ricorso della Regione Abruzzo, in persona del presidente della
giunta regionale pro tempore on.le Ottaviano Del Turco, rappresentata
e difesa ai sensi della legge regionale n. 9 del 2000 e della
deliberazione autorizzativa della Giunta regionale d'Abruzzo n. 587
del 29 maggio 2006, congiuntamente e disgiuntamente dagli avvocati
Sandro Pasquali e Stefania Valeri dell'Avvocatura regionale,
elettivamente domiciliata in Roma presso e nello studio dell'avv.
Fabio Francesco Franco, via Giovanni Pierluigi da Palestrina, n. 19,
come da procura speciale apposta a margine;
Contro il Presidente del Consiglio dei ministri pro tempore per
la dichiarazione di illegittimita' costituzionale
previa sospensione del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152,
«Norme in materia ambientale», pubblicato nella Gazzetta Ufficiale
n. 88 del 14 aprile 2006, Suppl. ordinario n. 96/2006, con
riferimento agli articoli:
63 e 64, concernenti le nuove Autorita' di bacino; 101, comma
7, concernente gli scarichi derivanti dalle imprese agricole; 154,
concernente la tariffa del servizio idrico integrato; l55,
concernente la tariffa del servizio fognatura e depurazione; 181,
commi da 7 a 11, concernente il c.d. recupero dei rifiuti; 183, comma
1, concernente la definizione dei rifiuti; 186, concernente le terre
e rocce da scavo; 189, comma 3, concernente gli obblighi di
comunicazione relativi a certe categorie di rifiuti; 214, commi 3 e
5, concernenti le procedure semplificate per i rifiuti, per
violazione degli artt. 76, 117, 118 Cost., del principio di leale
collaborazione, del principio di ragionevolezza, nonche' dei principi
e delle norme del diritto comunitario.
F a t t o
Il decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, «Norme in materia
ambientale», costituisce attuazione della delega legislativa
contenuta nella legge 15 dicembre 2004, n. 308, pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale n. 302 del 27 dicembre 2004 - Supplemento
ordinario n. 187, che autorizzava il Governo ad emanare entro 18 mesi
- quindi entro 7 luglio 2006 - uno o piu' decreti «di riordino,
coordinamento e integrazione delle disposizioni legislative nei
seguenti settori e materie, anche mediante la redazione di testi
unici».
L'art. 1, comma 4, della legge di delega prevede che i decreti
legislativi debbano essere adottati «sentito il parere della
Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28
agosto 1997, n. 281».
Richiama il comma 8 dello stesso articolo il «rispetto dei
principi e delle norme comunitarie e delle competenze per materia
delle amministrazioni statali, nonche' delle attribuzioni delle
regioni e degli enti locali come definite ai sensi dell'articolo 117
della Costituzione, della legge 15 marzo 1997, n. 59, e del decreto
legislativo 31 marzo 1998, n. 112, e fatte salve le norme statutarie
e le relative norme di attuazione delle regioni a statuto speciale e
delle province autonome di Trento e di Bolzano, e del principio di
sussidiarieta».
Lo schema di decreto e' stato approvato, a seguito dei pareri
delle Commissioni parlamentari, nella seduta del Consiglio dei
ministri del 18 novembre 2005. E' stato trasmesso alle regioni con
nota della Presidenza del Consiglio dei ministri in data 29 novembre
2005, cui ha fatto seguito una nota del successivo 7 dicembre che
avvertiva che gli allegati tecnici, «a causa della loro
voluminosita», venivano resi disponibili soltanto in rete (ed anche
cio' su personale richiesta al Ministro da parte del Presidente della
Conferenza dei Presidenti delle regioni).
Il parere sul decreto legislativo e' stato iscritto nell'ordine
del giorno della seduta della Conferenza unificata del 15 dicembre
2005. Il Presidente della Conferenza delle regioni ne chiedeva la
sospensione, in ragione dell'estrema complessita' della materia e
dell'esiguita' del tempo concesso per l'esame.
Nella seduta della Conferenza unificata del 15 dicembre 2005 il
rinvio del punto all'ordine del giorno e' oggetto di nuova richiesta.
Nella seduta della Conferenza unificata del 15 dicembre 2005 il
rinvio del punto all'ordine del giorno e' oggetto di nuova richiesta.
Nella seduta del 15 dicembre 2005 per divergenza delle posizioni
il parere non pote' essere espresso. Ciononostante il Consiglio dei
ministri, il 19 gennaio 2006 (n. 40), approvava «in via definitiva»
il testo del decreto legislativo.
Nella Conferenza unificata del 26 gennaio 2006, i Presidenti
delle regioni e delle province autonome, dell'ANO, dell'UPI e
dell'UNCEM esprimevano parere negativo sullo schema di decreto.
Il 15 marzo 2006 il Presidente della Repubblica chiedeva al
Governo alcuni chiarimenti nel merito e in relazione al procedimento
di formazione del decreto legislativo. Il decreto legislativo e'
stato ulteriormente riapprovato con alcune modifiche dal Consiglio
dei ministri il 29 marzo 2006. E' stato dunque approvato in un testo
formalmente (sia pure parzialmente) diverso da quello sottoposto
all'esame delle Commissioni parlamentari e della Conferenza
unificata. Esso e' stato poi emanato il 3 aprile e pubblicato il 14
aprile. Entrera' dunque in vigore il 29 aprile.
La Regione Abruzzo contesta la conformita' a costituzione delle
disposizioni impugnate per ragioni che attengono da un lato al
decreto legislativo nel suo complesso, dall'altro alle singole norme.
Nel suo complesso il decreto appare viziato da gravi difetti di
procedimento, attinenti in particolare alla violazione della
procedura di «leale collaborazione». Il Governo non ha rispettato i
contenuti minimi della garanzia di partecipazione della Conferenza
unificata, rendendo consapevolmente impossibile un informato esame
del nuovo testo normativo. La Conferenza unificata non ha avuto modo
di esprimere formalmente il proprio parere, e sulle posizioni da essa
assunte in merito al decreto legislativo il Governo non ha aperto
alcuna discussione, violando quanto disposto dalla legge di delega e
ribadito dalla Commissione parlamentare. Inoltre - anche formalmente
il procedimento appare gravemente carente, essendo il testo emanato
diverso da quello precedentemente adottato sulla base del parere
della Commissione parlamentare e sottoposto alla conferenza
unificata.
Nel merito, il decreto legislativo n. 152 del 2006 appare in
molte parti eccedere la delega legislativa e porsi in contrasto con
la disciplina comunitaria, con grave ricaduta sulle attribuzioni
costituzionali delle regioni; inoltre e' direttamente lesivo delle
competenze regionali in molte sue disposizioni.
Esso viola, per eccesso di delega, la stessa legge delega
n. 308/2004, stravolge l'assetto delle competenze definite
dall'art. 117 e 118 Cost. e dal decreto legislativo n. 112/1998
consolidate da numerose pronunce della Corte costituzionale.
L'opposizione che le regioni hanno manifestato nei confronti del
decreto e' quindi motivata da ragioni assai gravi, sia in ordine al
rispetto della normativa comunitaria, sia in ordine al mantenimento
degli attuali presidi legislativi, anche regionali, posti a tutela
dell'ambiente. Le disposizioni del decreto producono infatti - ad
avviso delle regioni - il risultato «di indebolire le politiche
ambientali nel nostro Paese e la loro coerenza con le direttive
dell'Unione europea, nonche' quelle di determinare l'abbassamento dei
livelli di tutela dell'ambiente e della salute a danno di tutti i
cittadini senza, peraltro, che a questo possa corrispondere
l'auspicata semplificazione delle procedure e dei processi attuativi
per gli operatori e le imprese». Inoltre le nuove norme determinano
«la totale paralisi dell'azione delle regioni e degli enti locali in
campo ambientale data l'incompatibilita' delle norme regionali
vigenti con quelle dello schema di decreto».
Le norme oggetto del presente ricorso hanno, un'efficacia
immediata: talvolta prevista con un termine preciso dallo stesso
decreto, ma comunque in ogni caso ravvicinata.
Cosi', per esempio, l'art. 63 sopprime «a far data dal 30 aprile
2006» le Autorita' di bacino istituite dalla legge n. 183/1989,
trasferendone le funzioni alle istituende Autorita' di bacino
distrettuale, senza precisare quale sia il regime transitorio,
rinviato ad un atto amministrativo del Governo che ha un solo giorno
per essere emanato!
In altri casi - in particolare in materia di rifiuti - il decreto
legislativo introduce una disciplina innovativa che ha l'effetto
immediato di smantellare l'attuale normativa ambientale, rendendo
meno rigorosa la normativa vigente e favorendo comportamenti che
attualmente, anche per precisa richiesta delle norme comunitarie,
costituirebbero un illecito amministrativo o penale.
E' contro queste disposizioni che muove l'impugnazione proposta
nel presente ricorso, rivolta, come detto, avverso le norme che hanno
una decorrenza immediata e rischiano di provocare danni gravi e
irreparabili all'interesse pubblico alla tutela dell'ambiente,
all'ordinamento giuridico nazionale e regionale nonche' ai diritti
dei cittadini alla salute e alla salubrita' dell'ambiente: per queste
ragioni la regione ricorrente avanza anche istanza di sospensione
dell'esecuzione delle disposizioni stesse, in applicazione
dell'art. 35 della legge n. 87/1953, come modificato dall'art. 9,
comma 4, della legge n. 131/2003.
D i r i t t o
A) Illegittimita' costituzionale degli artt. 63, comma 3, e 64,
relativi all'Autorita' di bacino, per violazione degli art. 117,
comma terzo, 118 e 76 della Costituzione.
1) Illegittimita' costituzionale dell'accorpamento delle funzioni
in macrodistretti e della sostituzione delle Autorita' di bacino con
le nuove Autorita' di distretto.
L'art. 63, comma 3, dispone: «Le autorita' di bacino previste
dalla legge 18 maggio 1989, n. 183, sono soppresse a far data dal 30
aprile 2006 e le relative funzioni sono esercitate dalle Autorita' di
Bacino Distrettuale di cui alla parte terza del presente decreto». Il
riferimento generico alla «terza parte» (alla quale in realta' la
disposizione appartiene) e' in effetti curioso, dato che le autorita'
distrettuali sono istituite dal comma 1 dello stesso articolo, in
corrispondenza degli otto distretti idrografici individuati nel
successivo art. 64.
Tale norma riaccorpa in otto distretti i numerosi bacini che la
legge n. 183/1989 istituiva, suddividendoli in bacini nazionali,
interregionali e regionali. Tra gli otto distretti figurano il
Distretto della Sardegna, quello della Sicilia, ed il Distretto
idrografico pilota del Serchio, di ridottissime dimensioni.
L'intero territorio nazionale e' dunque suddiviso grossolanamente
nei rimanenti cinque distretti, vagamente corrispondenti a delle
macro-regioni.
Questa suddivisione e' decisa «dall'alto» senza alcuna
partecipazione alla decisione da parte delle regioni. Gli organi dei
nuovi distretti sono individuati dall'art. 63, comma 2, nella
Conferenza istituzionale permanente, nel Segretario generale, nella
Segreteria tecnico-operativa e nella Conferenza operativa di servizi.
La stessa disposizione rinvia la definizione dei criteri e delle
modalita' per l'attribuzione o il trasferimento del personale e delle
risorse patrimoniali e finanziarie ad un decreto del Presidente del
Consiglio dei ministri, da emanarsi su proposta del Ministro
dell'ambiente e della tutela del territorio di concerto con il
Ministro dell'economia e delle finanze e con il Ministro per la
funzione pubblica, «sentita la Conferenza Permanente Stato regioni»,
entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto.
Ancora, lo stesso d.P.C.m. «disciplina il trasferimento di funzioni e
regolamenta il periodo transitorio».
Le disposizioni impugnate appaiono da un lato gravemente lesive
delle attribuzioni regionali, dall'altro - e proprio percio' - lesive
dell'oggetto e dei principi e criteri direttivi della delega. Sotto
il primo profilo va osservato che la Sezione in cui trovano
collocazione le disposizioni impugnate evoca con chiarezza sin dal
titolo - «Norme in materia di difesa del suolo e lotta alla
desertificazione» - che la disciplina contenuta insiste sulla materia
«governo del territorio», che l'art. 117, comma terzo, Cost., assegna
alla competenza concorrente.
Come codesta ecc.ma Corte ha ripetutamente affermato che nelle
materie concorrenti lo Stato puo' intervenire esclusivamente con
norme legislative di principio, e non puo' riservare a se' e alle
proprie strutture decentrate funzioni amministrative che non siano
giustificate dalla «chiamata in sussidiarieta»; e che, anche qualora
l'attrazione al centro di funzioni «unitarie» possa essere
giustificato in nome del principio di sussidiarieta' o qualora il
particolare intreccio di competenze (coinvolgente anche competenze
esclusive dello Stato, ex art. 117, comma secondo, Cost.) consentisse
allo Stato di esercitare determinate funzioni amministrative
incidenti in materie di competenza regionale, tuttavia cio' non puo'
avvenire che nel rispetto del principio di leale collaborazione,
inteso in senso «forte» (e quindi attraverso procedure di
codecisione, non semplicemente «sentendo» la Conferenza
Stato-regioni), e del principio di proporzionalita'.
Commisurate a tali parametri, le norme che sopprimono le
Autorita' di bacino e istituiscono le nuove Autorita' distrettuali si
rivelano affette da illegittimita' costituzionale sotto diversi
profili.
In primo luogo, l'unificazione sotto un'unica autorita' di bacini
che non hanno in realta' alcuna correlazione realizza un
accentramento privo di qualunque giustificazione ed espropria le
regioni delle proprie naturali competenze, in violazione sia della
competenza legislativa di cui all'art. 117 Cost. che del principio di
sussidiarieta'. In secondo luogo, i distretti stessi sono configurati
come enti amministrativi sovraregionali, distorcendo completamente la
fisionomia delle Autorita' di bacino, cosi' come impostate dalla
legge n. l83/1989. Queste infatti erano modellate con riferimento a
dimensioni idrogeografiche «naturali», che ne giustificavano la
competenza pianificatoria e decisionale, mentre la Autorita'
distrettuali istituite dalle disposizioni impugnate rappresentano
delle semplici articolazioni burocratico amministrative, che
costituiscono in realta' una sorta di amministrazione decentrata
dello Stato in cui la centralizzazione amministrativa e' appena
temperata da elementi di partecipazione minoritaria delle regioni.
Si consideri che, ai sensi della legge n. 183/1989, le regioni
erano (sono) contitolari del governo dei bacini nazionali
(configurati come organismi a partecipazione mista Stato-regioni) e
titolari esclusive delle funzioni relative ai bacini regionali e
interregionali. Oggi, all'opposto, rappresentanti delle regioni sono
presenti in netta minoranza nel fondamentale organo decisionale, la
Conferenza istituzionale permanente (che nomina anche il Segretario
generale), nonche' nella Conferenza operativa, le cui competenze sono
peraltro piuttosto oscure.
La regola secondo la quale si decide a maggioranza, espressamente
enunciata al comma 4, data la composizione sperequata dell'organo (in
cui il numero dei rappresentanti dello Stato e' sempre sette, mentre
quello dei rappresentanti delle regioni dipende da quante regioni
sono concretamente coinvolte, ma queste non sono mai pari a sette),
appare espropriare le regioni da qualsiasi garanzia giuridica delle
loro prerogative.
Infine, se pure fosse giustificata secondo il principio di
sussidiarieta' la (suddivisione del territorio in distretti privi di
corrispondenza con precisi bacini fluviali interconnessi, le regioni
non sono state chiamate ad esercitare alcun ruolo nella
determinazione dell'ambito dei distretti. Va considerato che, sotto
questo profilo, il decreto legislativo non contiene norme generali ed
astratte, ma opera come legge provvedimento, in materia di competenza
regionale. Secondo la stessa giurisprudenza di codesta Corte,
l'assunzione in legge di decisioni concrete non puo' privare delle
garanzie previste dalla Costituzione: il che vale ugualmente, ed a
maggiore ragione, per le competenze delle regioni, alle quali viene
cosi' sottratta ogni possibilita' di codecisione.
2) Specifica illegittimita' del potere normativo attribuito al
decreto del Presidente del Consiglio dall'art. 63, commi 2 e 3.
Si deve poi specificamente evidenziare che, come detto, che al
d.P.C.m. e' attribuita anche una funzione regolamentare (v. art. 63,
commi 2 e 3).
Innanzitutto, si tratta di un'attribuzione connessa
all'accorpamento dei distretti, illegittima per le stesse ragioni
sopra esposte.
Se essa potesse essere giustificata in nome del principio di
sussidiarieta', il corrispondente potere andrebbe comunque esercitato
d'intesa con la Conferenza Stato-regioni, la quale non puo'
semplicemente essere «sentita».
3) Specifica illegittimita' della soppressione delle Autorita' di
bacino a partire dal 30 aprile, in relazione all'impossibilita' di
dettare entro tale termine la disciplina transitoria.
Inoltre, tale potere normativo risulta dover essere esercitato
... in un solo giorno: non prima del 29 aprile 2006, perche' la norma
autorizzativa del decreto legislativo non sarebbe ancora in vigore,
ma neppure dopo il 30 aprile, perche' le norme transitorie
interverrebbero ... ad Autorita' di bacino gia' venute meno ai sensi
del comma 3. Dietro tale assurdita', tuttavia, si cela la ben piu'
sostanziale illegittimita' della norma che prevede la soppressione
delle Autorita' di bacino a partire dal 30 aprile, prima che possano
essere definite le fasi di transizione, se pure il nuovo sistema
fosse legittimo. Da qui il pericolo di un irreparabile pregiudizio
all'interesse pubblico, ed il rischio di un pregiudizio grave ed
irreparabile per i diritti dei cittadini, che induce la Regione
Abruzzo a chiedere la sospensione della esecuzione della norma: la
soppressione delle Autorita' di bacino decorre dallo stesso 30
aprile, per cui e' evidente che l'emanazione di una normativa
transitoria diviene pressoche' impossibile, dato che l'emanazione del
d.P.C.m. e' soggetta ad una procedura complessa, descritta
dall'art. 63, comma 2, nel corso della quale deve essere sentita la
Conferenza Permanente Stato-regioni.
A prescindere dalla gia' lamentata insufficienza di una forma
cosi' tenue di «cooperazione», vi e' il rischio - ma si dovrebbe dire
la certezza - che la soppressione immediata delle Autorita' di
bacino, in assenza di una regolazione transitoria - apra un periodo
di incertezza sulle competenze ad emanare gli atti e a svolgere le
funzioni di gestione, vigilanza e controllo che le Autorita' svolgono
da tempo a tutela degli interessi pubblici fondamentali che hanno in
cura.
Attualmente le Autorita' di bacino regionali operano in base a
diverse leggi della Regione Abruzzo: ll.rr. nn. 81 del 1998 e 43 del
2001. Esse verrebbero abrogate a decorrere dal termine del 30 aprile,
paralizzando le attivita' delle Autorita' di bacino. Proprio per
evitare che insorgano situazioni di paralisi amministrativa a di
grave rottura dell'ordinamento costituzionale, che si rifletterebbero
immediatamente sull'esercizio delle funzioni attribuite alla regione
e sulla tutela degli interessi urbanistici, ambientali e di governo
del territorio che la regione ha in cura, si chiede a codesta ecc.ma
Corte di intervenire in fase cautelare ordinando la sospensione
dell'esecuzione di queste disposizioni, in attesa del definitivo
giudizio sulla loro illegittimita' costituzionale, che la ricorrente
regione confida di avere illustrato.
4) Illegittimita' costituzionale degli articoli 63 e 64 sotto il
profilo della violazione della legge di delega.
Va altresi' evidenziata l'eccesso di delega in relazione sia
all'oggetto di essa che ai principi e criteri direttivi fissati dalla
legge di delega.
Infatti, quanto all'oggetto, va sottolineato che la dizione
«riordino, coordinamento e integrazione delle disposizioni
legislative..., anche mediante la redazione di testi unici» (art. 1,
comma 1, legge n. 308/2004), fa riferimento alle classifiche funzioni
di coordinamento normativo, preordinate ad una mera razionalizzazione
della legislazione vigente. Come codesta ecc.ma Corte ha
sistematicamente ripetuto (cfr. da ultimo le sent. nn. 303/2005,
66/2005, 280/2004), «la revisione e il riordino, ove comportino
l'introduzione di norme aventi contenuto innovativo rispetto alla
disciplina previgente, necessitano della indicazione di principi e di
criteri direttivi idonei a circoscrivere le diverse scelte
discrezionali dell'esecutivo, mentre tale specifica indicazione puo'
anche mancare allorche' le nuove disposizioni abbiano carattere di
sostanziale conferma delle precedenti» (sent. n. 66/2005, che cita il
precedente della sent. n. 354/1998). Nel presente caso l'oggetto
della delega prevede solo il «riordino», neppure la «revisione» cui
la massima espressa dalla giurisprudenza costituzionale va applicata
con ancora maggiore rigore.
Accanto a cio', nel definire i contorni del potere legislativo
delegato, la legge n. 308 (art. 1, comma 8) indica innanzi ad ogni
altro criterio «il rispetto... delle competenze per materia delle
amministrazioni statali, nonche' delle attribuzioni delle regioni e
degli enti locali, come definite ai sensi dell'articolo 117 della
Costituzione, della legge 15 marzo 1997, n. 59, e del decreto
legislativo 31 marzo 1998, n. 112»: e' percio' evidente che il
legislatore delegato era tenuto a non modificare il quadro delle
attribuzioni regionali - quadro che invece, come si e' visto, risulta
gravemente compromesso dalle scelte compiute dalle disposizioni
censurate.
D'altro canto, nessuno dei «principi e criteri direttivi» poi
elencati all'art. 1, comma 8, autorizza un'innovione legislativa e
amministrativa come quella apportata dalla sovversione del sistema
delle Autorita' di bacino. Tra i principi e criteri direttivi piu'
specifici dettati dal comma 9 si trova invece questa indicazione: «e)
rimuovere i problemi di carattere organizzativo, procedurale e
finanziario che ostacolino il conseguimento della piena operativita'
degli organi amministrativi e tecnici preposti alla tutela e al
risanamento del suolo e del sottosuolo, superando la sovrapposizione
tra i diversi piani settoriali di rilievo ambientale e coordinandoli
con i piani urbanistici; valorizzare il ruolo e le competenze svolti
dagli organismi a composizione mista statale e regionale; adeguare la
disciplina sostanziale e procedurale dell'attivita' di
pianificazione, programmazione e attuazione di interventi di
risanamento idrogeologico del territorio e della messa in sicurezza
delle situazioni a rischio; prevedere meccanismi premiali a favore
dei proprietari delle zone agricole e dei boschi che investono per
prevenire fenomeni di dissesto idrogeologico, nel rispetto delle
linee direttrici del piano di bacino; adeguare la disciplina
sostanziale e procedurale della normativa e delle iniziative
finalizzate a combattere la desertificazione, anche mediante
l'individuazione di programmi utili a garantire maggiore
disponibilita' della risorsa idrica e il riuso della stessa;
semplificare il procedimento di adozione e approvazione degli
strumenti di pianificazione con la garanzia della partecipazione di
tutti i soggetti istituzionali coinvolti e la certezza dei tempi di
conclusione dell'iter procedimentale».
Come si vede, la legge di delega presuppone piuttosto il
mantenimento ed il miglioramento della funzionalita' degli organismi
esistenti, fondati sull'unita' dei bacini idrografici, senza
prevederne o consentirne affatto la soppressione e la sostituzione
con un sistema radicalmente diverso, ispirato a divergenti, che
avrebbero dovuto in ogni caso essere enunciati.
La legge di delega, dunque, non consente una legislazione
delegata che sovverte l'ordinamento amministrativo introdotto dalla
legge n. 183/1989 e lo sostituisce con un sistema centralistico di
gestione delle politiche di tutela idrogeologica del territorio, per
lo piu' causando un periodo di grave incertezza nella fase
transitoria esautorando le regioni, sostituendo il sistema della
Autorita' di bacino con una «zonizzazione» del territorio nazionale
dominata da un sistema di gestione affidato ad un complesso di organi
collegiali inediti e sperequanti.
Si consideri che la violazione della legge di delega si
identifica in questo caso con la lesione delle prerogative regionali,
e che il motivo e' dunque perfettamente ammissibile.
B) Illegittimita' costituzionale degli artt. 181, commi 7 - 11,
183, comma 1, lett. g), h), m), 186, 189, comma 3, per violazione
degli artt. 117, commi primo, terzo e quinto, 118, e 76 Cost.
La Parte quarta del decreto legislativo, che detta «Norme in
materia di gestione dei rifiuti e di bonifica dei siti inquinati»,
reca ad avviso della ricorrente regione numerose deviazioni dagli
obblighi assunti in sede comunitaria, che la regione si riserva di
censurare in un successivo ricorso, la' dove incidano anche sulle
attribuzioni regionali. Nel presente ricorso urgente, l'impugnazione
e' invece circoscritta alle sole disposizioni che producono effetti
immediati pregiudizievoli per le attribuzioni regionali e
costituiscono un pericolo grave e immediato per gli interessi
pubblici che la regione ha in cura.
1) Illegittimita' costituzionale dell'art. 181, commi da 7 a 11,
e dell'art. 183, (comma 1, lett. g) h), m), n), q), ed u).
Illegittimita' costituzionale per le stesse ragioni dell'art. 214,
commi 3 e 5. Illegittimita' costituzionale dell'art. 186.
L'art. 181, comma settimo, prevede che «soggetti economici» non
meglio identificati (ma potenzialmente comprensivi di chiunque
gestisca attivita' d'impresa) o le associazioni di categoria
rappresentative dei settori interessati, anche con riferimento ad
interi settori economici e produttivi, possano «stipulare con il
Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio... appositi
accordi di programma ... per definire i metodi di recupero dei
rifiuti destinati all'ottenimento di materie prime secondarie, di
combustibili o di prodotti». Secondo la stessa disposizione tali
accordi «fissano le modalita' e gli adempimenti amministrativi per la
raccolta, per la messa in riserva, per il trasporto dei rifiuti, per
la loro commercializzazione, anche tramite il mercato telematico, con
particolare riferimento a quello del recupero realizzato dalle Camere
di commercio, e per i controlli delle caratteristiche e i relativi
metodi di prova»; gli accordi «fissano altresi' le caratteristiche
delle materie prime secondarie, dei combustibili o dei prodotti
ottenuti, nonche' le modalita' per assicurare in ogni caso la loro
tracciabilita' fino all'ingresso nell'impianto di effettivo impiego».
I commi successivi, dall'8 all'11, disciplinano le modalita'
procedurali per la stipulazione, l'approvazione e la pubblicazione di
tali accordi di programma. Le parole utilizzate dalla disposizione
ora richiamata trovano il loro significato nelle definizioni dettate
dall'art. 183, comma primo. In particolare, vengono in considerazione
le definizioni dei termini: g («smaltimento»); h («recupero»); m
(«deposito temporaneo»); n («sottoprodotto»); q («materia prima
secondaria»), definita con riferimento alle caratteristiche stabilite
ai sensi dell'articolo 181); u («materia prima secondaria per
attivita' siderurgiche e metallurgiche»), al cui proposito la
disciplina sara' integrata da un decreto ministeriale «senza valore
regolamentare). Tali disposizioni, considerate nella loro sostanza,
operano una deregolamentazione «mascherata» del settore, in pieno
contrasto con le normative europee, piu' volte ribadite dalle
decisioni della Corte di giustizia.
In particolare, si introducono definizioni di smaltimento e
recupero non completamente conformi con quanto indicato nella
direttiva 75/442/CEE (art. 1, lett. e) e f), nonche' definizioni di
sottoprodotto e di materia prima secondaria (MPS) non coerenti con le
indicazioni fornite dalle sentenze della Corte di giustizia europea
(sentenze C-418/97 e C419/97, «Arco»; C-9/00 «Palin Granir»;
C-114/01, «AvestaPolarit Chrome»; e in particolare C-457/02,
«Niselli». Viene infatti riproposto ancora una volta «l'approccio
normativo italiano», consistente nella sottrazione dei sottoprodotti
e delle cosiddette materie prime secondarie alla disciplina dei
rifiuti. Tale «approccio» e gia' stato oggetto di una prima sentenza
di condanna a seguito di procedura d'infrazione che ha colpito il
d.m. 5 febbraio 1998, che invece l'art. 181, comma 6, del decreto
legislativo impugnato mantiene transitoriamente ma illegittimamente
in vigore in attesa di un nuovo decreto ministeriale che fissi le
caratteristiche dei materiali ottenuti come materie secondarie: la
sentenza 7 ottobre 2004 (C- 103/02) ha espressamente sancito che «la
Repubblica italiana, non avendo stabilito nel decreto 5 febbraio
1998, sull'individuazione dei rifiuti non pericolosi sottoposti alle
procedure semplificate di recupero ai sensi degli artt. 31 e 33 del
decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, quantita' massime di
rifiuti, per tipo di rifiuti, che possano essere oggetto di recupero
in regime di dispensa dall'autorizzazione, e' venuta meno agli
obblighi che ad essa incombono in forza degli artt. 10 e 11, n. 1,
della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, relativa ai
rifiuti, come modifica dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991,
91/156/CEE». Ulteriore sentenza negativa e' stata poi pronunciata, in
sede di rinvio pregiudiziale, dalla Corte di giustizia, con
particolare riferimento all'art. 14 della legge n. 178/2002
(C-457/02).
La violazione del diritto comunitario e' confermata dal fatto che
i sottoprodotti e le MPS vengono si' inclusi nella «definizione» dei
rifiuti, ma in realta' la norma che cosi' li classifica restringe
fortemente l'ambito di applicazione della disciplina (stabilendo che
«non sono soggetti alle disposizioni di cui alla parte quarta del
presente decreto i sottoprodotti di cui l'impresa non si disfi, non
sia obbligata a disfarsi e non abbia deciso di disfarsi ed in
particolare...»), al punto di costituire una vasta area di
sottoprodotti esentati dalla disciplina, pur senza includerli tra i
materiali per i quali valgono specifiche esclusioni dall'applicazione
del decreto, ai sensi del successivo art. 185. E' un evidente
artifizio formale teso ad evitare che appaia evidente il conflitto
con le norme europee.
In realta', attraverso la previsione di appositi decreti
ministeriali e degli accordi di programma di cui all'art. 181,
vengono sottratti al regime dei rifiuti, e alle relative
autorizzazioni, adempimenti e controlli, molte sostanze o materiali
che nella legislazione vigente invece vi sono assoggettati.
Anche la Corte di cassazione, con sentenza n. 47269/05 e con
ordinanza n. 1414/06, ha appena ora sancito invece che la nozione di
rifiuto - in coerenza con la normativa comunitaria - deve essere
intesa in senso estensivo (e non restrittivo quale e' invece
l'approccio della pregressa normativa italiana, ripreso in modo ancor
piu' evidente dal decreto delegato), riportandola percio' alla
disciplina dei sottoprodotti e materie prime secondarie dettata dalle
disposizioni comunitarie, cosi' come interpretate dalla
giurisprudenza della Corte di giustizia.
Con il pretesto della semplificazione amministrativa non vengono
in realta' limitati gli oneri amministrativi, bensi' ridotta l'area
di applicazione della disciplina dei rifiuti ed eliminati i
controlli, quale risultato vuoi di una ridefinizione delle sostanze
soggette a regolamentazione restrittiva, vuoi di una
«deregolamentazione» della disciplina dei metodi di recupero dei
rifiuti, sostituita da procedure «contrattate».
Il ricorso allo strumento di accordi e contratti di programma
previsti dall'art. 181 eccede i limiti propri dell'istituto, in
quanto si sostituisce una «fonte» contrattata alla disciplina
normativa, alterando la gerarchia delle fonti del diritto.
Sostituendo alla disciplina generale una serie indeterminata di
accordi applicabili soltanto agli aderenti, si ledono i principi di
certezza del diritto, uguaglianza, generalita' e astrattezza delle
norme.
Davvero paradossale e' poi che l'impugnato art. 181, al comma 7,
richiami (rinviando al precedente comma 5) la comunicazione della
Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio e al Comitato delle
regioni, Com (2002) 412, del 17 luglio 2002, quale «modello» cui si
devono ispirare gli accordi di programma previsti: si tratta infatti,
come si legge nella comunicazione, di accordi «in cui le parti
interessate si impegnano ad ottenere una riduzione dei livelli di
inquinamento, come sancito dal diritto ambientale, o obiettivi di
carattere ambientale, di cui all'articolo 174 del trattato», quali ad
esempio gli accordi comunitari in materia ambientale con le
associazioni di produttori di automobili europea, giapponese e
coreana sulla riduzione progressiva delle emissioni di C02 prodotte
dalle autovetture.
Gli accordi previsti dalle disposizioni censurate, diretti a
«deregolamentare» e «privatizzare» 1a disciplina dei rifiuti, non
corrispondono affatto a quanto ipotizzato (ed auspicato) nella
comunicazione della Commissione, ossia alla possibilita' che -
tramite moduli convenzionali e non «imposti» - si raggiungano
obiettivi ambientali ulteriori rispetto a quelli gia' fissati dalle
regole comunitarie.
Il contrasto con le direttive 75/442/CEE e 91/156/CEE si
manifesta anche nel fatto che le norme europee non consentono che le
attivita' di recupero possano essere completamente escluse dal regime
autorizzatorio. Infatti l'art. 11 della direttiva 75/442/CEE prevede
che la dispensa dall'autorizzazione sia possibile solo fissando norme
generali che fissano i tipi e le quantita' di rifiuti (va ricordato
che proprio per tale motivo lo Stato italiano e' incorso in una
procedura di infrazione comunitaria per il citato d.m. 5 febbraio
1998).
Il decreto legislativo impugnato fa al contrario venir meno il
quadro normativo generale richiesto dalle direttive europee,
sostituendolo con una vasta contrattualizzazione della disciplina;
mentre, per altro verso, la normativa europea richiede, per
«escludere» un rifiuto dal campo di applicazione della direttiva
75/442, che (eccezion fatta per gli effluenti gassosi immessi in
atmosfera per cui vale l'esenzione diretta) le esenzioni siano
ammissibili soltanto se disciplinate da specifica norma speciale cio'
che non avviene con la disciplina generale di esenzione che le norme
impugnate prevedono per MPS e sottoprodotti.
Per le stesse ragioni ora illustrate risultano costituzionalmente
illegittimi i commi 3 e 5 dell'art. 214, nella parte in cui ammettono
rispettivamente lo strumento dell'accordo, «deregolatorio» per le
procedure semplificate di smaltimento di rifiuti e richiamano il d.m.
5 febbraio 1988 per la fase transitoria, in attesa della fissazione
delle nuove regole.
L'art. 186 introduce inoltre una ipotesi generale di esenzione
per le terre e rocce da scavo ed i residui della lavorazione della
pietra destinati all'effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti,
ecc., i quali, secondo la citata disposizione, «non costituiscono
rifiuti e sono, percio', esclusi dall'ambito di applicazione della
parte quarta del presente decreto solo nel caso in cui, anche quando
contaminati, durante il ciclo produttivo, da sostanze inquinanti
derivanti dalle attivita' di escavazione, perforazione e costruzione
siano utilizzati, senza trasformazioni preliminari, secondo le
modalita' previste nel progetto sottoposto a valutazione di impatto
ambientale ovvero, qualora il progetto non sia sottoposto a
valutazione di impatto ambientale, secondo le modalita' previste nel
progetto approvato dall'autorita' amministrativa competente, ove cio'
sia espressamente previsto, previo parere delle Agenzie regionali e
delle province autonome per la protezione dell'ambiente, sempreche'
la composizione media dell'intera massa non presenti una
concentrazione di inquinanti superiore ai limiti massimi previsti
dalle norme vigenti e dal decreto di cui al comma 3».
Anche in questo caso il contrasto con la normativa comunitaria e'
evidente, trattandosi di un'esclusione disposta in via generale al di
fuori del quadro normativo europeo. Basta ricordare che una specifica
procedura d'infrazione e' stata avviata contro la Repubblica italiana
a causa di una disposizione analoga contenuta nella legge n. 443/2001
(art. l, comma 15).
Le norme impugnate non contrastano dunque solo con le richiamate
norme comunitarie, e, per cio' stesso, con l'art. 11 e con
l'art. 117, comma primo, Cost.; esse contrastano inoltre con la legge
di delega - e quindi indirettamente con l'art. 76 Cost. - che fissa
tra i criteri direttivi (art. 1, comma 8) la «piena e coerente
attuazione delle direttive comunitarie, al fine di garantire elevati
livelli di tutela dell'ambiente e di contribuire in tale modo alla
competitivita' dei sistemi territoriali e delle imprese, evitando
fenomeni di distorsione della concorrenza» (lett. e), e
l'«affermazione dei principi comunitari di prevenzione, di
precauzione, di correzione e riduzione degli inquinamenti e dei danni
ambientali e del principio "chi inquina paga"» (lett. f). Tali
illegittimita' si ripercuotono, ovviamente, in modo lesivo sulle
competenze costituzionali della regione in materia di tutela
dell'ambiente, tutela della salute e governo del territorio,
pregiudicando il corretto svolgimento delle funzioni regionali in
quelle materie, come si illustra piu' ampiamente nel punto seguente.
2) Illegittimita' costituzionale delle stesse norme di cui al
punto 1) per diretta violazione delle competenze regionali.
Le stesse norme censurate al punto precedente costituiscono
altresi' diretta violazione delle attribuzioni regionali.
La materia «rifiuti» si colloca in una zona in cui si
sovrappongono gli interessi ambientali con quelli di tutela del
territorio, nonche' della tutela igienico-sanitaria e di sicurezza
della popolazione. Ma anche a ritenere che, in applicazione del
«criterio di prevalenza» elaborato dalla giurisprudenza di questa
ecc.ma Corte, debba riconoscersi allo Stato il titolo a legiferare in
base alla competenza riconosciutagli dall'art. 117, comma 2, lett.
s), cio' non significa che la legge statale possa intervenire senza
precisi limiti. La legislazione vigente - a partire dal ed. «decreto
Ronchi» (d.lgs. n. 22/1997) e dall'art. 85 del d.lgs. n. 112/1998,
che espressamente lo richiama - ha riconosciuto il ruolo fondamentale
delle regioni nell'attuazione del quadro normativo nazionale,
finalmente riportato ad una disciplina organica e unitaria, in
considerazione della «vocazione» regionale -in base al principio di
sussidiarieta' - sia nella politica di tutela del territorio, sia
nell'applicazione in loco della disciplina generale, organizzando gli
apparati e le procedure amministrative necessarie e «incrociando» la
disciplina di settore con il complesso fascio delle competenze
regionali, spettanti a pieno titolo o quali potesta' concorrenti, che
incidono sull'ambiente (come e' pacifico nella giurisprudenza
costituzionale sin dalla sent. n. 407/2002).
Va da se' che rimane allo Stato il potere legislativo di
disciplinare in via generale la «materia» e i suoi settori, cosi'
come pure di introdurre quegli snellimenti amministrativi che fissino
un nuovo equilibrio tra gli interessi costituzionali di protezione
dell'ambiente, da un lato, e la liberta' d'iniziativa economica
dall'altro (sentt. nn. 116/2006, 331/2003, 307/2003). Tuttavia, se la
riforma legislativa operata dal legislatore statale - incidendo
profondamente nelle funzioni gia' attribuite alla regione e che essa
ha gia' esercitato disciplinandole con legge e con strumenti di
pianificazione generale e particolare (cfr. la l.r. n. 27/1994, e
successive modifiche, nonche' il Piano di azione ambientale
2004-2006) - risulta viziata sia per violazione della delega (che
vincola il legislatore delegato al rispetto dell'assetto
amministrativo e al riparto di competenze vigente), che per contrasto
con il diritto comunitario, essa deve poter essere contrastata con il
ricorso per illegittimita' costituzionale: infatti, se essa dovesse
essere applicata, ne risulterebbe sconvolto l'attento assetto
normativo e amministrativo disegnato dalla legislazione regionale,
che verrebbe in molte parti abrogata dall'atto legislativo in
questione, creando uno stato di grave precarieta' normativa. Va
infatti sottolineato che la regione, a tenore dell'art. 117, comma
quinto, Cost., ha il compito di dare attuazione diretta alle norme
comunitarie: per principio fondamentale del diritto comunitario,
confortato dalla sent. n. 170/1984 di codesta Corte, la supremazia
del diritto comunitario va assicurata dai soggetti dell'applicazione
del diritto anche attraverso la «non applicazione» delle norme
legislative interne contrastanti con le norme comunitarie self
executing. La conseguenza di queste premesse e' che la regione
Abruzzo sara' tenuta - per un preciso obbligo giuridico, dunque, ora
rafforzato dall'art. 117, comma primo, Cost. - a non applicare nel
proprio territorio le norme del decreto impugnato che risultino in
contrasto con le norme «ad effetto diretto» poste dal diritto
comunitario derivato e dalle sentenze della Corte di giustizia che di
esso forniscono l'interpretazione (cfr. sent. n. 389/1989 di codesta
ecc.ma Corte). Il risultato, quindi, non sara' affatto la
«semplificazione» promessa dalle disposizioni impugnate, ma uno stato
di gravissima incertezza normativa, non privo di preoccupanti
riflessi sulla repressione penale dei reati ambientali legati alla
disciplina dei rifiuti, con conseguente contenzioso destinato a
coinvolgere nuovamente - come gia' capitato nel «caso Niselli» - sia
la Corte di giustizia che codesta Corte costituzionale.
Tutto cio' avra', ancora una volta, gravissime conseguenze sugli
interessi pubblici alla tutela dell'ambiente, della salute e della
sicurezza pubblica, anche perche', eluse le norme generali in vigore
e aggirate le definizioni e le procedure fissate dalla normativa
comunitaria, diventera' difficile e talvolta impossibile per le
strutture regionali rintracciare le sostanze derubricate dalle
disposizioni impugnate. Con l'entrata in vigore del decreto
legislativo si produrra' infatti una derubricazione di talune
categorie di rifiuti, i quali non saranno piu' considerati tali ma
verranno qualificati come sottoprodotti o combustibili o MPS, venendo
in tal modo sottratti al regime vincolistico e garantistico della
normativa sui rifiuti. La gravita' e l'irreparabilita' del danno per
gli interessi pubblici e per la salute e la sicurezza dei cittadini
appaiono percio' innegabili.
3) Illegittimita' costituzionale dell'art. 189, comma 3.
Considerazioni in tutto analoghe a quelle svolte subito sopra ai
punti 1) e 2) valgono per l'art. 189, comma terzo: esso riguarda
l'obbligo di comunicare annualmente alle Camere di commercio le
quantita' e le caratteristiche qualitative dei rifiuti oggetto di
attivita' di raccolta, trasporto, recupero e smaltimento di rifiuti
(ed. MUD, ossia il «modello unico», introdotto dalla legge
n. 70/1994). L'ambito di applicazione di tale obbligo viene ora
delimitato restrittivamente, esentandone le imprese e gli enti che
producono rifiuti non pericolosi. Si produrra' di conseguenza una
preoccupante perdita di informazioni per quanto riguarda molteplici
categorie di rifiuti che potranno circolare liberamente, senza
consentire alle strutture chiamate a svolgere i controlli ambientali
di conoscere i dati relativi alla produzione che sono base di
conoscenza per seguire il percorso dei rifiuti. Alla gravita' del
danno si aggiunge la sua imminenza: infatti, entro il 30 aprile - e
quindi il giorno dopo l'entrata in vigore del decreto legislativo - i
produttori di rifiuti non pericolosi devono predisporre il MUD;
l'entrata in vigore della disposizione censurata produrra' quindi
l'immediato effetto di esentare i soggetti precedentemente gravati da
tale obbligo per l'anno 2006.
C) Illegittimita' costituzionale dell'art. 101, comma 7, per
violazione degli artt. 117, comma terzo, e 76 Cost.
L'art. 101, comma 7, derogando ad un criterio consolidato da un
trentennio, assimila alle acque reflue domestiche gli scarichi
derivanti dalle imprese agricole, includendo in esse anche quelle che
svolgono attivita' di trasformazione o valorizzazione dei prodotti
agricoli, purche' tale attivita', inserita con carattere di
normalita' e complementarieta' funzionale nel ciclo produttivo
aziendale, riguardi materia prima lavorata proveniente in misura
prevalente dall'attivita' di coltivazione dei terreni di cui si abbia
a qualunque titolo la disponibilita'.
Si tratta di attivita' i cui reflui possono avere un
considerevole impatto ambientale: si considerino, ad esempio, le
cantine vinicole o i caseifici che producono su scala industriale.
In precedenza il decreto legislativo n. 152/1999 («Disposizioni
sulla tutela delle acque dall'inquinamento e recepimento della
direttiva 91/271/CEE concernente il trattamento delle acque reflue
urbane e della direttiva 91/676/CEE relativa alla protezione delle
acque dall'inquinamento provocato dai nitrati provenienti da fonti
agricole») fissava all'art. 28, comma 7, lett. e), un criterio certo,
che imponeva un preciso rapporto minimo tra materia prima derivante
dalla propria produzione e materia prima derivante da produzioni
altrui: ora, la disposizione impugnata sostituisce il limite minimo
di 2/3 con il concetto elastico di «misura prevalente». Si tratta di
un criterio discrezionale, che nella pratica corrente favorisce
comportamenti della P.A. che possono determinare disparita' di
trattamento.
In mancanza di criteri certi e verificabili, l'incoerente o non
appropriata classificazione degli scarichi delle imprese agricole che
esercitano anche attivita' di trasformazione dei prodotti agricoli,
di norma caratterizzati da carichi inquinanti elevati, determina
l'applicazione di livelli di trattamento meno rigorosi, in quanto -
ad esempio - i reflui vengano classificati domestici invece che
industriali: con conseguenti effetti negativi sulle caratteristiche
di qualita' delle acque del corpo recettore (ad esempio il corso
d'acqua), il mancato raggiungimento degli obiettivi di qualita'
fissati dalle norme comunitarie e il conseguente danno all'ambiente.
La disposizione impugnata provoca dunque una riduzione del
livello di tutela delle acque e contraddice percio' i principi e
criteri direttivi fissati dalla legge di delega: quello del
«miglioramento della qualita' dell'ambiente, della protezione della
salute umana, dell'utilizzazione accorta e razionale delle risorse
naturali» (lett. a), dell'art. 1, comma 8), ma anche quello del
«pianificare, programmare e attuare interventi diretti a garantire la
tutela e il risanamento dei corpi idrici superficiali e sotterranei,
previa ricognizione degli stessi» (lett. b) del successivo comma 9).
Essa inoltre incide negativamente sulle funzioni attribuite alla
regione gia' dalla legislazione di settore e dal decreto legislativo
n. 112/1998, e cio' ancora una volta si riflette in violazione del
preciso vincolo posto dalla legge di delega. Inoltre - e da questa
considerazione trae origine la richiesta di sospenderne l'esecuzione
- la disposizione censurata minaccia di provocare effetti
irreversibili sul controllo dei reflui e sulla qualita' delle acque,
gravemente minacciando gli interessi pubblici ambientali che la
regione ha in carico, sia pure non in via esclusiva, nonche' della
tutela del territorio e della salute umana, che rientrano nelle
competenze concorrenti fissate dall'art. 117, terzo comma, Cost.
D) Illegittimita' costituzionale degli artt. 154 e 155, per
violazione degli artt. 117, comma quarto, 119 e 76 Cost.
L'art. 154 istituisce la «Tariffa per il servizio idrico», quale
«corrispettivo del servizio idrico integrato», e fissa i parametri
con cui essa deve essere determinata, prescrivendo che debba tenersi
conto «della qualita' della risorsa idrica e del servizio fornito,
delle opere e degli adeguamenti necessari, dell'entita' dei costi di
gestione delle opere, dell'adeguatezza della remunerazione del
capitale investito e dei costi di gestione delle aree di
salvaguardia, nonche' di una quota parte dei costi di funzionamento
dell'Autorita' d'ambito, in modo che sia assicurata la copertura
integrale dei costi di investimento e di esercizio secondo il
principio del recupero dei costi e secondo il principio "chi inquina
paga"».
Di seguito la disposizione determina le competenze attuative,
attribuendo: al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio,
su proposta dell'Autorita' di vigilanza sulle risorse idriche e sui
rifiuti, il compito di definire con decreto - «le componenti di costo
per la determinazione della tariffa relativa ai servizi idrici per i
vari settori di impiego dell'acqua»; al Ministro dell'economia e
delle finanze, di concerto con il Ministro dell'ambiente e della
tutela del territorio, «al fine di assicurare un'omogenea disciplina
sul territorio nazionale», il compito di stabilire «i criteri
generali per la determinazione, da parte delle regioni, dei canoni di
concessione per l'utenza di acqua pubblica, tenendo conto dei costi
ambientali e dei costi della risorsa e prevedendo altresi' riduzioni
del canone nell'ipotesi in cui il concessionario attui un riuso delle
acque reimpiegando le acque risultanti a valle del processo
produttivo o di una parte dello stesso o, ancora, restituisca le
acque di scarico con le medesime caratteristiche qualitative di
quelle prelevate».
Vengono cosi' previsti diversi poteri normativi ministeriali
sovraordinati a quello delle regioni, in violazione della competenza
legislativa propria spettante alle regioni a termini dell'art. 117,
quarto comma, della Costituzione.
Sorprende che il legislatore delegato abbia ignorato i rilievi
della Commissione della Camera, che avvertiva dell'esigenza di non
ignorare il potere normativo regionale. A conferma della competenza
legislativa regionale va qui richiamata la sentenza di codesta ecc.ma
Corte n. 335 del 2005, occasionata da un ricorso governativo avverso
la legge della Regione Emilia-Romagna n. 7/2004. In tale sentenza la
Corte - pur avendo affermato che il «tributo speciale per il deposito
in discarica dei rifiuti solidi» benche' devoluto alle regioni,
dovesse ritenersi rientrante nella legislazione esclusiva in materia
di sistema tributario e contabile dello Stato (salvo che la stessa
legge statale non ne rimandi la quantificazione alla regione), in
quanto istituito con legge dello Stato, in base alla costante
giurisprudenza costituzionale in merito al regime transitorio dei
tributi (in attesa della tanto auspicata attuazione dell'art. 119
Cost.) - ha dichiarato invece inammissibile il ricorso governativo
contro l'art. 47 della suddetta legge regionale, che istituiva e
disciplinava la tariffa relativa al servizio integrato ed alla
gestione dei rifiuti, in quanto il ricorrente non aveva ritrovato
basi argomentative sufficienti a suffragare la competenza statale.
La disposizione impugnata, al contrario, si ingerisce in materia
di servizi pubblici locali, riservata alla potesta' residuale delle
regioni (sentt. nn. 272/2004 e 29/2006), delineando una normativa che
per di piu' si profila nel merito non affatto coerente con
l'evoluzione della stessa legislazione statale: e' incomprensibile ad
esempio l'omissione tra i criteri di quanto gia' contenuto
nell'articolo 13 della legge n. 36/1994, concernente la necessita' di
tener conto «degli obiettivi di miglioramento della produttivita».
Una tale carenza - rinunciando all'utilizzo di uno degli strumenti
piu' efficaci per favorire il miglioramento dell'efficienza delle
gestioni, ovvero della leva tariffaria configura una tariffa priva
del controllo sui costi di gestione e puo' implicare il
riconoscimento a pie di lista dei costi operativi del gestore,
eliminando il miglioramento progressivo in termini di efficienza
previsto dalla normativa precedente.
Tali norme violano il riparto della potesta' legislativa tra
Stato e regioni, fissato dall'art. 117 (e, in particolare, la
competenza residuale ex art. 117, quarto comma, in materia di
disciplina dei servizi pubblici locali), e l'autonomia finanziaria e
tributaria delle regioni, garantita dall'art. 119, comma primo e
secondo, Cost., in quanto incidono su un'entrata la cui disciplina
ricade nella competenza regionale.
Inoltre, le norme impugnate contrastano anche con gli stessi
criteri della delega legislativa, almeno la' dove essa vincola il
legislatore delegato: a) al rispetto «delle attribuzioni delle
regioni e degli enti locali, come definite ai sensi dell'articolo 117
della Costituzione, della legge 15 marzo 1997, n. 59, e del decreto
legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (art. 1, comma 8); b) allo
«sviluppo e coordinamento, con l'invarianza del gettito, delle misure
e degli interventi che prevedono incentivi e disincentivi, finanziari
o fiscali, volti a sostenere, ai fini della compatibilita'
ambientale, l'introduzione e l'adozione delle migliori tecnologie
disponibili, come definite dalla direttiva 96/61/CE del 24 settembre
1996 del Consiglio, nonche' il risparmio e l'efficienza energetica, e
a rendere piu' efficienti le azioni di tutela dell'ambiente e di
sostenibilita' dello sviluppo, anche attraverso strumenti economici,
finanziari e fiscali» (art. 1, comma 8, lett. d); mentre, per altro
verso, essa non appare neppure rientrare negli oggetti della delega,
non essendo previsto tra essi l'introduzione ex novo dell'imposta in
questione. A giustificare la richiesta di sospensione dell'esecuzione
della disposizione in questione milita un argomento evidente: la
norma impugnata tenderebbe a sostituirsi alla disciplina regionale
sulla tariffa relativa al servizio integrato ed alla gestione dei
rifiuti, interrompendo la sperimentazione avviata e ingenerando
incertezza rispetto agli oneri tributari da assolvere, con grave
danno per la certezza dei rapporti giuridici e per i bilanci degli
enti coinvolti. Per le stesse ragioni appare illegittimo altresi'
l'art. 155, in relazione alla quota di tariffa riferite ai servizi di
fognatura e di depurazione.
E) Illegittimita' costituzionale delle norme impugnate per vizi
procedurali che inficiano l'intero decreto legislativo. Violazione
della legge di delega e del principio di leale collaborazione.
Nel suo complesso il decreto appare viziato da gravi difetti di
procedimento, attinenti in particolare alla violazione della
procedura di «leale collaborazione». Come emerge da quanto esposto in
narrativa, infatti, il Governo non ha rispettato i contenuti minimi
della garanzia di partecipazione della Conferenza unificata. Esso ha
richiesto il parere della Conferenza in termini temporali tali da
renderne impossibile l'espressione, ed ha rifiutato la legittima
richiesta di disporre del tempo necessario allegando ragioni di
urgenza inesistenti - dato che la delega veniva a scadenza oltre sei
mesi piu' tardi - e persino inducendo in errore (non si vuole qui
dire volontariamente) la Conferenza circa gli effettivi termini
temporali della delega. Si noti che l'ordine del giorno negativo
successivamente approvato dalla Conferenza non puo' essere
considerato un equivalente di un parere effettivamente articolato e
reso nel merito a seguito di un corretto procedimento: ma del resto
neppure esso e' stato effettivamente preso in considerazione.
La Conferenza unificata non ha avuto modo di esprimere
formalmente il proprio parere, e sulle posizioni da essa assunte in
merito al decreto legislativo il Governo non ha aperto alcuna
discussione, violando quanto disposto dalla legge di delega e
ribadito dalla Commissione parlamentare. Come dispone l'art. 2, comma
3, del decreto legislativo n. 281/1997, quando la Conferenza
Stato-regioni e' obbligatoriamente sentita («in ordine agli schemi di
disegni di legge e di decreto legislativo o di regolamento del
Governo nelle materie di competenza delle regioni o delle province
autonome di Trento e di Bolzano») essa «si pronunzia entro venti
giorni». Per l'espressione del parere della Conferenza unificata non
e' indicato un termine preciso, ma certo non si puo' ritenere che per
essa che ha una struttura ancora piu' complessa della «Stato -
regioni» - possa valere un termine ancora piu' breve.
Se la legge di delega prevede l'obbligo del Governo delegato di
acquisire il parere della Conferenza, la Conferenza deve disporre di
un termine adeguato. Ma tutto il comportamento tenuto dai
rappresentanti del Governo in questa vicenda - in una vicenda cosi'
complessa sotto il profilo tecnico-normativo e tanto delicata per i
molteplici riflessi che il «Codice dell'ambiente» esercita non solo
sulle attribuzioni «in astratto» delle regioni, ma sulla
legislazione, a sua volta complessa e articolata, che esse hanno
prodotto - e' improntato ad uno spirito autoritario e ostruzionistico
che e' in palese con i canoni della leale collaborazione.
Quando si abbia a che fare con competenze necessariamente e
inestricabilmente connesse - ha osservato codesta ecc.ma Corte
costituzionale - il principio di «leale collaborazione» - che proprio
in materia di protezione di beni ambientali e di assetto del
territorio trova un suo campo privilegiato di applicazione - richiede
la messa in opera di procedimenti nei quali tutte le istanze
costituzionalmente rilevanti possano trovare rappresentazione (sent.
n. 422/2002). E' vero che tale principio e' «suscettibile di essere
organizzato in modi diversi, per forme e intensita' della pur
necessaria collaborazione» (sent. 308/2003), ma e' anche vero che
esso non puo' essere ridotto ad una ritualita' meramente formale: una
delle «sedi piu' qualificate per l'elaborazione di regole destinate
ad integrare il parametro della leale collaborazione e' attualmente
il sistema delle Conferenze Stato-regioni e autonomie locali», al cui
interno «si sviluppa il confronto tra i due grandi sistemi
ordinamentali della Repubblica, in esito al quale si individuano
soluzioni concordate di questioni controverse» (sent. 31/2006). Ma di
«confronto» deve trattarsi, appunto, basato su comportamenti corretti
e «leali» delle parti, non dell'imposizione unilaterale e della
chiusura totale a qualsiasi possibilita' di dialogo.
Tale violazione della legge di delega (e dunque dell'art. 76
Cost.) e del principio di leale collaborazione si traducono
direttamente in lesione delle competenze e prerogative costituzionali
delle regioni, e costituiscono percio' illegittimita' costituzionali
che le regioni sono legittimate a fare valere.
Sulla richiesta di sospensione delle norme impugnate.
Come esposto in premessa, il presente ricorso e' presentato in
via di urgenza avverso solo alcune delle disposizioni del decreto
legislativo n. 152 del 2006 che la ricorrente regione ritiene
illegittime ed invasive, e con riserva di far valere l'illegittimita'
costituzionale di altre norme dello stesso decreto mediante ulteriore
separato ricorso presentato nei termini di impugnazione, allo scopo
di potere presentare a codesta ecc.ma Corte costituzionale tempestiva
richiesta di sospensione delle norme qui impugnate
Le ragioni per tale richiesta sono state puntualmente esposte
nelle relative argomentazioni in diritto. Qui si puo' solo
sinteticamente aggiungere che tali ragioni consistono - secondo
quanto richiesto dall'art. 9 della legge n. 131 del 2003 - nel
pericolo di un irreparabile pregiudizio all'interesse pubblico, e nel
rischio di un pregiudizio grave ed irreparabile per i diritti dei
cittadini. Tale pericolo e' connesso alla distruzione del patrimonio
di buona amministrazione dovuto al sovrapporsi - a volte senza
neppure un minimo di norme transitorie - dei nuovi illegittimi
istituti a quelli legittimamente da anni messi in atto dalla
ricorrente regione, nel pieno rispetto dei vincoli costituzionali e
legislativi. Cio' sia in riferimento alla soppressione inopinata e
repentina delle Autorita' di bacino, sia in relazione alla gestione
dei rifiuti, sia in relazione al sistema tariffario per il servizio
idrico.
Vi e' dunque il rischio che - se pure le illegittimita' che la
Regione Abruzzo lamenta venissero nel corso del tempo rimosse - il
loro provvisorio vigore produca quel danno irrimediabile cui solo una
tempestiva misura cautelare potrebbe rimediare.
P. Q. M.
Tanto esposto e premesso si chiede voglia codesta ecc.ma Corte
costituzionale dichiarare costituzionalmente illegittime e
previamente sospendere le disposizioni qui impugnate per le
vionazioni costituzionali analiticamente indicate - con riserva di
ulteriore impugnazione - del decreto legislativo 3 aprile 2006,
n. 152, «Norme in materia ambientale» per le ragioni e sotto i
profili esposti nel presente ricorso.
L'Aquila, Roma, addi' 5 giugno 2006
Avv. Sandro Pasquali - Avv. Stefania Valeri
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